Con la Cina vince il giusto, il multipolarismo e il Socialismo

Ho recentemente scritto sulla vittoria della Russia in Ucraina, che ha determinato lo sfaldamento del blocco occidentale, la fine dell’unipolarismo dell’impero nordamericano e la vittoria della filosofia del mondo multipolare.

Ciò a cui stiamo assistendo ora però è un’altra vittoria, e cioè quella della Cina nel campo economico-produttivo e della sua governance globale, ponendo fine alla globalizzazione.

Il crollo dell’Urss, la vincita della globalizzazione capitalista

Abbiamo assistito dopo il collasso dell’Urss a un’imperante distruzione del mondo intero, con guerre e genocidi mai visti prima ad ora, se non ad eccezione delle sole due guerre mondiali. A questo periodo geopolitico unipolare è corrisposto anche un periodo economico che possiamo definire con la parola globalizzazione, basata sul dominio del dollaro.

Quella che veniva venduta come connessione reciproca tra tanti Paesi, popoli e culture, è stata in verità un’esportazione dell’egemonia statunitense in tutto il mondo – sia nell’ambito della cultura che nell’ambito delle relazioni commerciali.
Di primo acchito potremmo dire che a giovarne siano stati gli Stati uniti – d’altronde la globalizzazione “l’hanno fatta loro” e imposta a tutto il mondo – ma a lungo andare la dialettica delle cose sta portando alla fine della globalizzazione e, forse, degli stessi Stati uniti, o per come li abbiamo a lungo conosciuti.

Con il crollo del blocco socialista legato all’Unione sovietica, com’è ovvio che sia, il capitalismo occidentale ha avuto un epocale slancio grazie ai nuovi mercati su cui hanno potuto estendersi, trovando nuovi bacini d’utenza, creando o incontrando nuovi bisogni da soddisfare. Quest’epoca d’oro tuttavia è durata davvero poco, con i primi scricchiolamenti che sono divenuti rilevanti già a partire dai successivi 10 anni. L’apice è stato raggiunto forse con la crisi del 2008, su cui ci sarebbe molto da parlare riguardo la ridistribuzione delle ricchezze che è andata a concentrarsi ulteriormente nelle mani dei soliti pochi (tendenzialmente americani), fino ad arrivare ai nostri giorni.

Ma perché la globalizzazione è fallita? La risposta è piuttosto semplice. Senza più un nemico (tra l’altro socialista e con la spinta propulsiva sui diritti sociali) con cui competere in termini di blocchi contrapposti, è stato necessario abbassare i costi di produzione (manodopera e materie prime) esportando capitale (industria) all’estero, nello specifico nei Paesi sottosviluppati. Così abbiamo visto l’intensificarsi del neocolonialismo nel terzo mondo, e il confermarsi dell’imperialismo monolitico del blocco occidentale a trazione statunitense (che i cinesi chiamano “neo-imperialismo“, Tricontinental “iper-imperialismo“, e Hudson “super-imperialismo“, seppur in piena contrapposizione dalla definizione kautskiana), affinché nessun Paese globalizzato, avendo ora i mezzi materiali per svilupparsi, non finisca per diventare sovrano e distaccato dal meccanismo esclusivista del dollaro.

Pochi Paesi hanno fatto eccezione, ma in particolare uno, ed è bastato per rendere inutile ogni sforzo occidentale nel mantenimento del capitalismo globalizzato, e questo Paese è naturalmente la Cina.

È chiaro che oltre all’immenso merito della dirigenza comunista cinese e la millenaria cultura ed esperienza di questa grandiosa Civiltà, ha giovato anche l’enorme bacino demografico e la geografia naturale. Non possiamo infatti pretendere che qualunque Paese – pur degno che sia – come l’Iraq o la Siria o la Libia, o anche il Venezuela, Cuba, o eventualmente una nostra Italia – possa ricoprire il ruolo rivoluzionario che è spettato alla Cina. Sicuramente l’atomica è un deterrente enorme contro le invasioni e le destabilizzazioni indotte (si veda la Corea del nord, che pur essendo piccola e relativamente povera è riuscita a risparmiarsi un’invasione su stile mediorientale), ma non è abbastanza (si pensi alla volontà anglo-americana di invadere la Russia, su cui ci sarebbe davvero molto da scrivere, o anche all’avvenuta frammentazione dell’Urss, troppo succulenta e strategica da non abbattere correndo il rischio-armageddon).
Uno dei punti di forza della Cina è quindi indiscutibilmente la demografia, in cui già sin dai tempi antichi, per non parlare dei tempi di Mao, il Paese si distingueva. Mao stesso delineò più volte cosa accadrebbe in caso di guerra contro la Cina: nel ’57, in un incontro internazionale con altri Paesi socialisti, affermò, in apparenza col suo tipico cinismo, ma per nulla a torto: «Abbiamo un territorio molto vasto e una popolazione numerosa. Le bombe atomiche non potrebbero ucciderci tutti». «E se uccidessero 300 milioni di noi? Avremmo ancora molti [cittadini]» (di contro, in Italia non sopravviverebbe «nessuno», rispose Mao alla domanda di Togliatti). O nel ’55, dove in un incontro con delegati finlandesi disse con decisione: «Se i guerrafondai devono fare la guerra, allora non devono biasimare noi per aver fatto la rivoluzione o per essere stati coinvolti in “attività sovversive”, come continuano a dire in continuazione. Se rinunciano alla guerra, possono sopravvivere un po’ più a lungo su questa terra. Ma prima faranno la guerra, prima saranno spazzati via dalla faccia della terra. Allora verrebbero istituite delle nazioni unite popolari, forse a Shanghai, forse da qualche parte in europa, o potrebbero essere istituite di nuovo a New York, a patto che i guerrafondai americani siano stati spazzati via».

È inutile dunque credere di far la guerra contro la Cina: citando di nuovo Mao, contro l’immenso Stato-Civiltà orientale «la bomba atomica è una tigre di carta». Tutto l’occidente messo assieme – che già non riesce (per l’ottava volta) a sconfiggere la Russia sui suoi confini (“ucraina” d’altronde vuol dire questo) – non potrebbe nulla contro l’ormai avanzatissima flotta cinese, che ha prodotto per tonnellate circa 230 volte la quantità delle navi americane, e la demografia cinese, che rappresenta da sola poco più di 1/6 dell’umanità intera.
Neanche le atomiche servirebbero a qualcosa. La Russia, anche se vive in una fortezza naturale (come afferma Mackinder) ed ha difese missilistiche all’avanguardia, è sicuro che sopravviverebbe come Civiltà, ma la statualità dipende da una concentrazione sul suo fianco occidentale, in particolare nelle città di Mosca e San Pietroburgo (quasi 6% della popolazione e quasi la totalità dei centri di comando), proprio lì dove l’europa è più armata con i missili puntati; la Cina invece è molto più distribuita, seppur in particolare sulla costa, e separata via mare da tutte le minacce principali.

Gli Usa hanno bene in mente che l’ideale sia proprio una guerra contro Pechino, in quanto i colpi di Stato, in un Paese in forte sviluppo e che riesce a garantire il benessere (davvero invidiabile da tutto il mondo) del proprio popolo, sono praticamente impossibili. La Clinton stessa l’ha detto in modo chiaro e inequivocabile: gli Stati uniti hanno provato a far entrare la Cina nel WTO per farla diventare capitalista (sviluppando una classe borghese interna che avrebbe spinto a ulteriori aperture, fino ad una perestrojka cinese), ma la dirigenza del PCC è riuscita a mantenere le redini e manovrare a piacimento l’economia. L’economia cinese, dice la Clinton, è centralizzata: non si può fare NULLA per farle concorrenza (se non cambiare il sistema stesso degli Usa, ma chiaramente la Clinton, rappresentando la tecnocrazia alto-borghese del Paese, non metterebbe mai in discussione il proprio regime, e preferirebbe far saltare tutto in aria piuttosto che condividere il Paese col proprio popolo), se non «riprendere i mezzi di produzione» che sono in mano alla Cina. (Che novità! Terminologia marxista!). E come credono di «riprenderli»? Questo chiaramente non lo dice, ma non si possono far tornare quelle industrie in Usa: la Cina ha ormai sviluppato il Paese adattandolo alla nuova rivoluzione industriale (come ho ampiamente tracciato in un precedente articolo) usando il trasferimento di tecnologia e la pratica delle join-venture ‒ perché, come esplicitamente affermato da Vance, trasferendo l’industria è inevitabile che si trasferisca anche conoscenza ed esperienza, facilitando sempre almeno in parte il Paese sfruttato con la globalizzazione, e con la Cina ciò è stato inevitabile, mentre con gli altri Paesi del terzo mondo si è riusciti in parte a tenerli in basso nella catena del valore ‒, e questo pone il gigante asiatico anni avanti nel gioco a cui gli Usa non vogliono perdere, evidenziando la supremazia qualitativa del capitale cinese (il cui salto dal quantitativo c’è stato grazie alla saggia dirigenza comunista); inoltre, e questo è l’aspetto più basilare, non puoi costruire tutti questi centri di produzione seguendo semplicemente la volontà, ma occorrono capitali oltre che tempo. Il punto è che quel capitale è così immenso in termini quantitativi che gli Stati uniti ci metteranno più di un secolo a “ricrearlo” (attraverso il lavoro e la manodopera, chiaramente, perché ora di punto in bianco si sono accorti che l’economia reale è l’unica economia… reale), in quanto tutto questo capitale ora in mano cinese è la somma del colonialismo olandese, britannico e imperialismo statunitese; secoli di accumulazione mondiale di capitale concentrati (quasi) tutti in un Paese socialista.

È da dire che non sono lo sviluppo e il benessere in sé ad essere ciò che salva i popoli dai colpi di Stato. Le esperienze storiche hanno dimostrato che molti Paesi in forte sviluppo (perlomeno relativo rispetto i Paesi vicini) sono finiti per subire colpi di Stato o invasioni supportate da parte (minoritaria ma attiva, e questo è ciò che conta) della propria popolazione. Esempi sono la Libia di Gheddafi, l’Iraq di Hussein e la Siria di Assad (perlomeno prima dell’inizio della guerra), ma anche l’Unione sovietica stessa e gran parte del resto del blocco orientale. Tuttavia, l’egemonia americana è riuscita a permeare in tutti questi Paesi, nelle sue varie forme che riesce a prendere: col settarismo di certi estremismi religiosi, e col materialismo ed individualismo occidentale, con cui l’impero è riuscito a spacciarsi per il lato del mondo più sviluppato, grazie all’esportazione massiccia di film ed altri mezzi comunicativi che romantizzavano gli Usa e l’europa occidentale. Questo con la Cina non può funzionare, o perlomeno non più, da ormai una decina d’anni.

La Cina è troppo sviluppata, davvero troppo distante dall’arrettatezza nel benessere e nella tecnica dei Paesi occidentali, per avere una parte di popolazione che fantastica ancora di “scappare” oltreoceano. Ci sono chiaramente state diverse generazioni che sono emigrate, ma quei tempi sono finiti, ed anzi molti stanno tornando in Patria. Oltre a ciò, ha giocato a favore della Cina l’internet, mezzo comunicativo dell’era globalizzata, in quanto è sempre più difficile da parte americana dipingersi come il Paese più sviluppato, democratico e libero, dato che chiunque è ora libero di postare sui social i video della propria città o i fatti personali che dipingono inevitabilente male gli Stati uniti (e l’europa, ovviamente). Col fenomeno TikTok e Red Note poi, c’è stata una svolta enorme anche in questo, con un ulteriore fallimento nel contenimento del firewall cinese e il crollo di castello di carte della propaganda anti-cinese. Tanto da costringere l’amministrazione Trump a correre ai ripari e fermare la messa a bando di TikTok, in quanto stava accelerando l’avvicinamento dei giovani americani verso la Cina. Tutto questo senza muovere un dito da parte cinese. È stato il Tao forse.
Non solo; Xi Jinping ha chiaramente detto che la Cina si aprirà sempre di più agli occhi occidentali, ora che se lo può permettere, sia per render possibile studiare l’esperienza cinese così come fecero i cinesi stessi nel secolo scorso in Urss, e sia per dimostrare al mondo intero lo sviluppo socialista ed equo che c’è stato ed è costantemente in corso in Cina. La sospensione dei visti turistici a pagamento per buona parte dei Paesi occidentali e il processo volto ad eliminarne definitivamente la necessità per i vicini russi non dovrebbe dunque stupire, dopo decenni in cui la Cina è stata particolarmente difficile e restrittiva nell’essere visitata, se non per motivi commerciali o ovviamente diplomatici ed accademici.

Il periodo più difficile della Cina, in cui l’Urss non è riuscita ad adattarsi, è ormai superato. Ora è il periodo più difficile per gli Stati uniti d’America.

La rivincita dell’Urss, la sconfitta della globalizzazione capitalista

Se la globalizzazione è dunque nata spontaneamente per dialettiche interne al capitale, la sua fine è segnata dalla stessa dialettica – stavolta non solo del capitale ma anche del socialismo emergente.

Gli Stati Uniti, grazie allo sviluppo del secolo scorso – rimasto incontrastato soprattutto per via dell’europa ridotta alle macerie per ben due volte dopo le guerre mondiali (e ancora oggi è evidente come l’innata indole all’automutilazione e al suicidio ci contraddistigue) – sono riusciti a confermarsi come mercato principale per le esportazioni. Con 300 milioni di cittadini relativamente benestanti, erano il mercato prediletto per qualunque Paese. Per ovvie ragioni dunque il dollaro regnava indisturbato nei transiti internazionali. E per altrettante ovvie ragioni, soprattutto durante la globalizzazione imperante, gli Stati uniti avevano posto dazi piuttosto bassi nelle importazioni, dato che loro esportavano capitale (investimenti e industrie) ed importavano prodotti finiti a basso costo, che di fatto erano “loro”, prodotti grazie al “loro” capitale (ma con forza-lavoro esterna).

Tutto è cambiato con l’ascesa della Cina. Come si è detto, non si è riusciti a piegarla in questi ultimi decenni. Quando il nemico principale era l’Unione sovietica, forse si sarebbe riusciti a far leva sulle contraddizioni interne del gigante asiatico, ma l’occasione è sfuggita e, nonostante i tentativi di infiltrazione interna, non si è mai investito abbastanza nella destabilizzazione della Cina quando questa era utile in funzione anti-sovietica. Con le vicende di Tiananmen, nel pieno del caos globale, si è provato a far crollare anche il PCC insieme a tutto il resto del blocco sovietico, ma come si sa, anche questo è stato inutile.

La Cina, potenza emergente e col capitale dell’occidente, è risucita a gestire le risorse per sviluppare il Paese e riprendere pienamente le redini del proprio destino. Dopo un lungo secolo di umiliazione e quasi un secolo di silenzio internazionale, ecco che la Cina torna prepotentemente – ma con molta eleganza ed equilibrio confuciano – nella scena mondiale, riprendendosi il posto che ha sempre avuto nel corso degli ultimi cinque millenni.

La demografia cinese, come già sottolineato, è incomparabile a quella americana – pur popolosi che siano gli Stati uniti, tra i Paesi sviluppati d’occidente. Con un bacino di circa 1,5 miliardi di persone, la Cina si conferma come mercato indispensabile per qualunque investimento che vuole fruttare.
Per questo, si creerà (anzi, si sta già creando) una condizione paradossale nella quale gli investimenti da grossa parte del mondo finiranno in Cina. Gli investitori occidentali, pur non avendo mai calpestato il suolo cinese, guadagneranno dall’investimento in Cina, e rimarranno lontani, alienati dalle compagnie in cui hanno investito. Un esempio lampante è già la catena di fast-food e gelateria Mixue, che ha battuto la storica McDonald’s (45.000 sedi, 10 miliardi di capitalizzazione, 90% dei negozi esclusivamente in Cina, riescono a vendere prodotti come gelati e bevande a 80 centesimi). Eppure, chi conosce Mixue? Nonostante non si sia appoggiata sull’egemonia mondiale della Cina (che non c’è) per diffondersi nel globo, le è bastato l’immenso mercato interno per diventare la catena di fast-food più grande al mondo, stracciando McDonald’s, nonostante questa sia onnipresente nei luoghi e nelle menti di gran parte dei cittadini del mondo.
Questa è un’illustrazione della crescente periferizzazione dell’occidente mentre il centro di gravità economico si sposta verso oriente. L’occidente sperimenterà sempre di più la strana sensazione di leggere di aziende e prodotti “leader mondiali” che non hanno mai varcato i loro confini o sono mai entrati nella loro vita quotidiana. Ma la drammaticità di questa distanza tra Cina e occidente è evidente soprattutto nel settore tecnologico, su cui ho scritto un articolo riassuntivo, parlando di tutti i campi in cui la Cina riuscirà a fiondarci nel futuro.

Quindi, dato che la Cina è si sta confermando come mercato principale per tutto il mondo (e coincide con il Paese che esporta di più), è naturale che gli Stati uniti non siano più nelle condizioni di riuscire a reggere il dominio del dollaro. La de-dollarizzazione è ormai un fatto inevitabile, oltre che giusto, e i BRICS stanno portando con i fatti ad un superamento di questo ultimo asse portante su cui si fondava l’impero nordamericano.

«Ci sono decenni in cui non accade nulla e delle settimane in cui accadono decenni», diceva Lenin.
Gli ultimi anni hanno dato indiscutibilmente un’accelerata al processo di multipolarizzazione e de-dollarizzazione; in particolare dall’operazione speciale russa in ucraina. Se la vincita russa ha costretto gli Stati uniti a riconoscere la legittimità e l’esistenza di altre polarità, pensarsi come potenza concorrente (e non al di sopra) delle altre polarità mondiali, dovendosi quindi di conseguenza ridimensionare come impero e dimenticare le ambizioni egemoniche mondiali (chiudendo anche l’era del soft power attraverso film, Usaid e altri mezzi più o meno sovversivi), la vincita cinese ora sta costringendo gli Stati uniti a fare scelte davvero difficili che rischiano di far saltare in aria tutto il sistema economico, disarticolando le filiere di produzione e le catene del valore che si sono andate a solidificare negli ultimi tre decenni. Gli Stati uniti e l’europa devono prepararsi in fretta alla nuova articolazione, mentre Russia, Cina e BRICS in generale sono già preparati. I BRICS d’altronde esistono proprio per questo. Si può vivere senza occidente, ma non si può assolutamente vivere senza il resto del mondo.

Ebbene ieri è stato il “Liberation day“; è così che Trump ha ufficialmente nominato la giornata del 2 aprile.
Ed ha ragione, ma non nel senso in cui sicuramente intendono molti americani. Questa è la liberazione dal dominio del dollaro. La globalizzazione è finita, e gli Stati uniti hanno di fatto ufficialmente annunciato di esser pronti (vedremo se è vero) alla nuova era.
Non conviene più avere dazi bassi, per il semplice motivo che ormai gli Stati uniti non sono più il mercato principale, non riescono ad esportare a sufficienza superando il deficit (e i debiti senza fine che hanno verso Cina e Giappone), hanno tutto il capitale materiale all’estero (Cina in primis), il dollaro sta morendo, e presto dovranno sopportare un’inflazione senza precedenti dovuta a tutta la massa di carta straccia che inevitabilmente tornerà in Patria – anche grazie alle ingegnose manovre cinesi.
Porre dei dazi era inevitabile e sotto certi aspetti giusto, almeno da un punto di vista americano in chiave realista. Per poter sopravvivere alla morte del dollaro, occorre superare questa forma di dominio del dollaro, accettando il fatto che viviamo in un mondo non dominato più dall'”ordine basato sulle regole” imposto dagli Stati uniti, ma… dalla Cina.

Per competere contro la Cina, o perlomeno sopravvivere come polarità rilevante in questa nuova era, occorrerà reindustrializzarsi; ma da dove prendere il capitale? La risposta anche qui è semplice: sicuramente non dalla Cina o dalla Russia, ma dai Paesi più vicini ai mercati statunitensi, e cioè europa, Uk e forse Giappone e Corea (queste ultime due sembra che si stiano avvicinando addirittura alla Cina).

Il “Liberation day” sarà davvero ricordato come (ennesimo) punto di svolta per il mondo intero, e un ulteriore pericolosissimo avvicinamento al fondo del baratro per gli Stati uniti d’America.
Ciò che non è andato in porto col TTIP obamiano (si legga in particolare “La gabbia dei trattati” di Bortolon) creando in tempo un mercato interno occidentale per contrastare l’ascesa cinese, è ora proposto da Trump ma in chiave chiaramente diversa, forse opposta. Non potendo garantirsi la fiducia e il valore delle storiche colonie ‒ sia perché alla lunga è difficile mantenere le spinte centrifughe volte ad avvicinarsi all’oriente in pieno sviluppo, sia perché l’europa ormai oggettivamente non vale NULLA in campo diplomatico, politico ed economico internazionale, e sia perché la sua funzione anti-russa, dato la sconfitta del progetto Nato in ucraina, è ormai superata, rendenedo l’europa un’escrescenza totalmente inutile ‒, gli Stati uniti hanno fatto un semplice ragionamento: siamo entrambi decrepiti e morenti, abbiamo le industrie delocalizzate, fregati dalla nostra stessa globalizzazione; abbiamo perso contro la Russia e il nostro matrimonio finalizzato a distruggerla non serve più a nulla; non rappresentiamo assieme neanche più i reali G7… A che pro continuare con questa farsa? Tanto vale che gli Stati uniti si sgancino per primi scaraventando gli europei nel baratro, cercando di recuperare ciò che si è perso, con i rimasugli industriali dell’europa.
La mossa, come si vede, ha un certo senso ed una certa logica.

Le sanzioni contro la Russia hanno distrutto l’economia e l’industria europea a trazione tedesca, ma hanno anche accelerato la de-dollarizzazione, dato che sanzionare Paesi importanti nello scenario mondiale come la Russia o la Cina non fa altro che screditare la posizione del dollaro, che si amputa da solo fette di mercato non indifferenti. Gli Stati uniti si sono scavati la propria fossa, e gli europei ci si sono fiondati dentro in pieno entusiasmo. Ora gli Stati uniti, a 30 metri sotto suolo, cercano di scavalcare gli europei provando ad arrampicarsi verso la luce.

La follia può esser stata tuttavia l’imposizione di dazi a tutto il mondo, invece della sola europa. Così facendo si è dichiarata la morte definitiva della globalizzazione, la condanna a morte anticipata del dollaro, e l’isolamento ufficializzato degli Stati uniti dal mondo intero.
Ciò porterà chiaramente a inflazione e svalutazione progressiva del dollaro, fino a diventare finalmente carta straccia. Chi di male ferisce (come hanno cercato di fare con Venezuela, Zimbabwe ed altri poveri Paesi), di male, finalmente, perisce.

È troppo tardi? Il tempo lo dirà. Intanto vi sono “voci di corridoio” (però di piani alti, cioè Larry Fink, Blackrock) secondo cui la finanza globale potrebbe adottare sempre di più i bitcoin (e le scorte fatte dai grandi broker negli scorsi mesi e anni poteva essere un segnale) come alternativa al dollaro ‒ tutto questo chiaramente in via transitoria, pur di non pensare di cedere definitivamente lo scettro al vincitore cinese.
Inoltre è chiaro come, nel corso di questo disaccoppiamento Usa-europa, vi sia stata la manifestazione geopolitica della spaccatura in seno all’alta borghesia occidentale, con i grandi di Wall street corsi a rifugiarsi nel vecchio continente, in particolare Londra, per contrastare l’impero nordamericano che ha cambiato rotta focalizzandosi sull’economia reale e produttiva (imparando la lezione di cinesi e russi, BRICS in generale, che resistono a qualunque sanzione occidentale), e quasi liquidando con nonchalance il proprio dominio finanziario.
L’alta borghesia finanziaria in europa, nel frattempo, continua con l’indole bellicosa tipica dei neocon, e punta a tenersi in piedi con bolle finanziarie continue giustificate sempre più da follie emergenziali (covid, green, e ora re-arm). Anche questa bolla tuttavia è destinata a scoppiare (non solo a Wall street, come pare stia succedendo ora, ma anche a Londra e Francoforte), e la grossa domanda è piuttosto se la Germania, con 3.500 miliardi in armi (che spende fregandosene dei vincoli europei; d’altronde chi fa le regole è sempre chi può violarle), nei prossimi anni non abbia di nuovo la voglia di espandersi a discapito di Polonia o Francia o chissà chi altro. Sia mai che anche stavolta Zhirinovskij aveva ragione?

È chiaro però che a rimetterci, per ora, sono stati soprattutto gli europei, il popolo europeo. Disaccoppiati dalla Russia come sempre hanno voluto inglesi e americani, ora gli europei devono fare una scelta: o continuare a puntare sul mercato americano, ma delocalizzando direttamente lì invece di esportare da qui, dato che oltreoceano vi sono dazi non indifferenti e tasse più accettabili; o rimanere in europa ma guardare ad est, verso i mercati russo-asiatici. È per questo che inevitabilmente l’europa si frammenterà – sia come Unione che come comunità di Stati con interessi convergenti (se mai vi sia stata qualche convergenza rilevante fino ad ora, ad eccezione del bellicismo e dell’odio verso il sud europeo e la Russia) –, dato che vi sono profonde spaccature interne ai vertici dell’alta borghesia europea, tra i finanziarizzati (“sinistra”) e i rimasugli degli industriali (tendenzialmente più a destra).

Gli Stati uniti puntano quindi a reindustrializzarsi, pur probabilmente sapendo che non potranno più raggiungere la Cina. Ma, perlomeno, vale la pena provarci e soprattutto adattarsi, prepararsi alla nuova era, che segna la conclusione di questo storico quarto ciclo di accumulazione (come delineato da Arrighi nel suo importante “Il lungo XX secolo“). Questa è la prima volta che un ciclo di accumulazione porta la massa di capitale globale in un Paese socialista, e per questo è inevitabile che l’intero sistema-mondo prenderà nuove forme. Chiaramente ci vorrà tempo, così come ci è voluto tempo per l’affermarsi del Nomos del mare a seguito del secondo e terzo ciclo di accumulazione (olandesi e corona inglese); il progresso della tecnica e le infrastrutture logistiche e commerciali faranno la loro parte (si pensi alla Belt and road), ma sarà anche da vedere come cambierà la struttura politica internazionale e l’organizzazione mondiale del commercio, se riformata profondamente o rifatta da zero, partendo verosimilmente da BRICS e/o SCO, o una fusione tra queste.

Scrivevano Marx ed Engels nell'”Ideologia tedesca” che «La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché a essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale», ma si è notato che ciò è applicabile anche alla dinamica internazionale tra Stati. Un po’ per dirla con La Grassa, la lotta di classe si potrebbe dire superata (o perlomeno, lo è dal punto di vista “marxiano-ortodosso” che si focalizzava sulle micro-dinamiche), avendo ceduto il posto alla dinamica tra Stati dominanti e dominati, tra imperialisti e subalterni. Lo Stato dominante, spesso involontariamente finito (anche impreparato) per diventare egemone per via delle contingenze storiche, plasma per forze di cose il mondo intero con la sua visione, come gli Stati uniti hanno fatto da tutto il secolo scorso.

Questi tempi sono finiti, ed è l’inizio di una nuova era: multipolare ma, inevitabilmente, con forte impronta cinese e socialista. Ciò non vuol dire che “la Cina dominerà il mondo” o “esporterà il socialismo”, ma avendo la grandissima parte dei mezzi di produzione ed essendo lo Stato più fondamentale di tutti e con cui tutti si interfacciano per lo scambio commerciale, i prestiti, gli investimenti, è inevitabile che le regole verranno profondamente cambiate per giovare, semplificare questi processi, finendo per adattare, volontariamente o meno, persino le proprie statualità al modello cinese.

E questo lo si sta già vedendo. Per contrastare la Cina, gli Stati uniti stanno ricorrendo sotto molti aspetti a pratiche anche ottocentesche, pre-liberiste ed anti-neoliberiste, per sviluppare per quel che possono la propria economia industriale, materiale, reale (e non la fuffa dei servizi e della finanza, che presto subirà la più grande botta della storia). Ha perso l’egemonia dell’economia finanziaria, che come “modo di produzione” (anche se difficilmente definibile come tale) si credeva di poter dominare il mondo. Ha vinto di nuovo l’economia produttiva.
Gli Stati dovranno esser sempre più presenti nell’economia per poter competere con l’economia centralizzata e pianificata della Cina. Se il passaggio al socialismo (almeno nel medio termine) non è inevitabile, è comunque inevitabile che chi vorrà sopravvivere dovrà adattarsi con le nuove regole del gioco di questi nuovi tempi.

Ma un cambio di paradigma lo si sta vedendo non solo sul lato economico, ma anche sul lato più identitario, nello Spirito dei popoli, dove si può notare l’enfasi che sempre più le polarità pongono sul concetto di Stato-Civiltà su modello cinese, in contrasto col modello imposto dall’ormai decrepito occidente.

Vince dunque la rinascita delle culture mondiali, della Comunità umana, come dice Xi Jinping, dal futuro condiviso.
Questa è la rivincita dell’Unione sovietica, che ha perso parte della sua statualità ma è continuata a vivere nell’esperienza e nello spirito cinese (ma anche russo).

Il futuro incerto dell’impero decrepito e la questione canadese

Oltre al piano economico, gli Stati uniti chiaramente stanno anche ripensando al piano geopolitico. È quindi ovvio che risolveranno questioni poste (per un secolo e mezzo) momentaneamente da parte, come quella canadese e groenlandese, ambedue in continuità tellurica (sì, anche la Groenlandia pur essendo un’isola) con gli Stati uniti.

Nato formalmente nel 1867 come confederazione di province britanniche, il Canada affonda le sue radici nella spaccatura della società delle colonie dell’allora corona inglese in America. Il Canada è figlio dei cattolici francesi e britannici che, continuando a giurare fedeltà alla corona d’oltreoceano, hanno preferito non unirsi ai fratelli protestanti del sud, che giunsero all’indipendenza violenta ma sostanziale cento anni prima dell’indipendenza pacifica ma formale del Canada stesso.
Col passare degli anni e delle vicende storiche, in particolare con il ridimensionarsi del Regno unito, il Canada ha subito un processo di progressiva integrazione nel sistema americano. Dalle banali federazioni e tornei sportivi condivisi tra i due Paesi, agli scambi culturali, ai meccanismi di scambio commerciale e sviluppo produttivo, Canada e Stati Uniti sono di fatto considerabili una Nazione divisa formalmente in due Stati, uno potente ed indipendente e l’altro, minore ma molto più vasto territorialmente, sotto il Commonwealth britannico.
Ha dunque assolutamente senso una unificazione dei due Paesi – già tentata durante la guerra del 1812, dove l’esercito statunitense fallì nell’invadere il vicino del nord –, se ci limitiamo a considerare la “questione nazionale americana” che i compagni dell’American Communist Party hanno particolarmente a cuore.

Ma non possiamo limitare la nostra analisi alla dimensione nazionale; occorre analizzare le implicazioni dell’annessione del Canada soprattutto ponendola in relazione alla situazione globale. Cui prodest è inutile domandarcelo, dato che a guadagnarci materialmente sarebbero chiaramente gli Usa (ma anche il Canada stesso sotto certi aspetti), che hanno attualmente un bilancio in negativo di 10 miliardi annuali col vicino del nord. Annettendo lo Stato canadese si alleggerirebbe la spesa verso l’esterno, inglobando il secondo Paese più grande del mondo, con le sue ricche risorse, e mettendo i suoi guadagni nelle proprie casse.
Parlando di numeri, con 41 milioni di abitanti (un aumento del 12% per gli Usa), il Canada ha esportato (nel 2023) verso altri Paesi al di fuori degli Usa un valore di 33.3 miliardi di dollari (usd), mentre ne ha importati di 29.6 miliardi. In totale, con gli Usa, vi è uno scambio massiccio che si aggira sui 700 miliardi annui. Gli Usa, in sintesi, allo stato attuale della potenza produttiva ed estrattiva del Canada, aggiungerebbero 4 miliardi di positivo alla propria bilancia (non molto, ma meglio di nulla) oltre a poter tagliare 10 miliardi di negativo col vicino.
Il Canada è inoltre il terzo più grande esportatore di petrolio al mondo; gli Usa, annettendolo, supererebbero l’Arabia saudita e diverrebbero i primi al mondo. Lo stesso si può dire col gas, in cui gli Usa ne diverrebbero i primi o comunque i secondi esportatori al mondo.
Ma non solo; gli Usa si arricchirebbero enormemente di nickel, rame, zinco, piombo, diamanti e diverse terre rare, e diverrebbero anche il primo Paese al mondo per risorse forestali, così come si confermerebbero tra i Paesi con più riserve d’acqua dolce al mondo (e in vista di una progressiva crisi dell’acqua, non è da ignorare questo dato). Col Canada gli Usa competerebbero assai più aggressivamente con la Russia come secondo o terzo più grande esportatore di grano, ma anche di pesci artici. 
Infine, gli Usa potrebbero diventare anche il primo produttore mondiale di oro, superando la Cina (che comunque ha recentemente trovato nuove riserve da record).

Ci sono comunque segnali di resistenza (forse solo a livello retorico e mediatico); il Partito liberale ha chiaramente denunciato il nuovo Cesare newyorkese e si è ribadita la sovranità del Canada, oltre ad aver parlato di blocco delle esportazioni energetiche verso il sud. Non sono mancati discorsi pomposi e strappalacrime dell’uscente Trudeau, che ha ricordato ai «fratelli americani» le varie avventure imperialiste combattute assieme, mano nella mano, sterminando coreani e afghani, comunicando infine che il Canada risponderà simmetricamente con l’implementazione di altrettante tariffe contro gli Stati Uniti. Che tenerezza!

Ma andiamo finalmente ad analizzare lo scenario globale dal punto di vista geopolitico. Con il Canada, gli Usa avranno accesso a 30% dell’Artico, mentre annettendo anche la Groenlandia, si avrà accesso ad un ulteriore 14%, raggiungendo la parità con la Russia, che copre circa il 44% delle acque artiche. Con lo scioglimento dei ghiacciai, come spesso ormai si dice, lo spazio artico sarà nei prossimi anni una rotta commerciale fondamentale, in cui si accorceranno di giorni interi molti viaggi transcontinentali; insomma un guadagno assicurato di miliardi annui per tutti.
E seppure possa sembrare solo un dato statistico di secondaria importanza, nelle dinamiche geopolitiche e nella psiche delle persone di tutto il mondo sarà rilevante il fatto che gli USA, annettendo il Canada, diventeranno il Paese più esteso, con più superficie al mondo per continuità territoriale, battendo di 2,7 milioni di km² (16% in più) la Russia, che detiene il primato da ben 440 anni – un 13.3% delle terre emerse contro il 11.5% russo.
Non solo. L’Artico è importante per il commercio, ma anche per la difesa (o l’offesa). La Russia, con gli americani (già presenti, ma sicuramente ancora più armati in futuro) lungo tutto il nord dell’ampissimo e vasto Paese eurasiatico, sarà costretta a continuare a spendere enormi cifre in difesa (che, è da dire, è per ora assai preparata sullo scenario artico, e molti analisti americani riconoscono l’impreparazione del blocco atlantico) anche dopo la sconfitta degli Stati uniti in Ucraina, o persino nel caso di uno scioglimento dell'”alleanza” atlantica (che è comunque inverosimile nel breve-medio termine, soprattutto con i Paesi dell’est e nord europa). Se infatti la Russia potrà sentirsi al sicuro ad ovest, con i suoi 5.900km di confine con la cosiddetta europa, dovrà ora impegnarsi a difendere una costa da 24.500km, anche se molto meno popolata e sviluppata rispetto alla parte occidentale del proprio Paese.

Chi verrà colpito dall’eventuale annessione del Canada è poi il Regno Unito. Anche se è gradualmente caduto dal proprio piedistallo, da impero dei mari (1588-1890) a co-regnante con il suo erede americano (1890-1915), a collaboratore di questi (1915-1945), fino a diventare un esecutore ed aiutante degli Stati uniti (1945-2025), il Regno unito, con il suo Commonwealth e le sue numerosissime isole che non ha mai voluto lasciare sin dall’epoca coloniale, ha sempre rappresentato la seconda potenza principale all’interno del blocco atlantico, con interessi talassocratici in perfetta sintonia con quelli del gigante americano (Mahan docet). 
Con la morte della regina Elisabetta, molti filo-monarchici, colonie comprese, hanno iniziato a mettere in discussione il senso di tutta la struttura del regno ancora in piedi nel XXI secolo: «Ora che non c’è più [la regina Elisabetta II], c’è molto meno attaccamento sentimentale all’istituzione della monarchia, e ancor meno alla persona di Carlo III», ha scritto ad esempio Brooke Newman, della Virginia Commonwealth University. Sono presto iniziati movimenti indipendentisti e repubblicani nelle Barbados (in verità divenute indipendenti poco prima della morte di Elisabetta), in Antigua e Barbuda, così come anche in Jamaica, che è forse l’isola più importante assieme all’arcipelago delle Malvinas (o Falkland). E chiaramente non mancano i pezzi grossi, come Australia, Nuova Zelanda – da sempre particolarmente attaccata alla propria terra e alla coesistenza con i Maori, seppur con vicende spiacevoli avvenute nello scorso anno –, e lo stesso Canada. Per chi non avesse chiaro in mente quanti Stati pseudo-indipendenti sono controllati dalla corona britannica, basti pensare che sono addirittura 56 i membri del Commonwealth (di cui 15 direttamente controllate dalla corona, 6 con monarchie locali, e 35 repubbliche più o meno subordinate, ad esclusione di grandi o influenti Paesi come India, Pakistan, Sudafrica, Nigeria, Singapore): considerando che gli Stati riconosciuti a livello internazionale e membri dell’Onu sono 193, circa 1/3 di tutti gli Stati hanno ancora legami, chi più chi meno, con il regno inglese, con una bilancia commerciale complessiva in negativo di 16 miliardi di sterline verso la corona. Chiaramente la maggior parte dei territori sotto controllo diretto sono isole, con poche migliaia di abitanti, ma ciò è abbastanza da poter dirigere politicamente l’assemblea generale delle Nazioni unite, e soprattutto coprire buona parte delle rotte marittime, con i vari porti d’attracco.
Con le sue numerosissime isole autonome o formalmente indipendenti, infatti il Regno unito controlla grandissima parte degli oceani, ma anche certi stretti (si pensi a Gibilterra che funge da passaggio tra Mediterraneo e Atlantico, vedendo passare il 20% del commercio marittimo mondiale), monopolizzando le rotte commerciali e costituendo un passivo nei propri bilanci dalle cifre esorbitanti. Che l’impero britannico, seppure estremamente ridimensionato e in subordinazione all’impero statunitense, sia ancora una potenza marittima e commerciale, è dimostrabile anche col semplice fatto che ben il 63% del mercato assicurativo mondiale (con il 46% della quota mondiale registrato nelle Bermuda) è rappresentato dalle storiche compagnie inglesi (tra cui spicca Lloyd’s, che pesa da solo il 28% delle quote mondiali), mentre gli Stati uniti, che hanno una flotta assai più forte, rappresentano solo il 3-4% dello stesso, che viene addirittura superato dal Giappone con un 5% delle entrate e 7% delle registrazioni, dal Messico e il Brasile, che rispettivamente coprono il 7.5% e 9% degli offshore energy premium ‒ cioè premi assicurativi su attività di estrazione e produzione di energie in mare, quindi idrocarburi e rinnovabili ‒, e persino dal Lussemburgo, che funge da sede legale per molte compagnie, aggiudicandosi il 17% delle registrazioni (ma meno del 3% delle entrate). [Tutti i dati riportati sono presi dai report di IUMI]

È quindi comprensibile che, nel pieno della foga espansionistica, certi dirigenti ed influenti statunitensi si siano spinti non solo ad intromettersi nella politica interna britannica, bacchettando questo o quel leader e partito per gli scandali sessuali – il «più grande crimine di massa nella storia del regno unito» – e invitandone le dimissioni, ma persino a parlare di dovere da parte degli Stati Uniti di «liberare» i fratelli (o padri?) inglesi dal «governo tirannico». Non solo, si è arrivati a commentare come nulla fosse, con «good idea», un post in cui si parla di «Unione dei cinque grandi Paesi dell’anglosfera» (o i già Five Eyes), o a proporre di rinominare lo stretto della Manica «canale di George Washington», che sarebbe uno schiaffo storico senza precedenti contro la storia europea.
Le parole di Musk non vanno ignorate; sarà sì «autistico» come ci ha voluto far ricordare il suo «portavoce italiano» Stroppa, ma è pur sempre l’uomo più ricco del mondo, non solo del presente ma di tutta la storia moderna, che è stato capace di plasmare il mondo in molti modi: dal sanguinoso golpe in Bolivia, all’influenza geopolitica che ha la sua rete di satelliti Starlink, che sono stati indispensabili per gli ucraini (oltre che limitarne l’uso lì dove Musk reputava esserci una linea rossa che non voleva oltrepassare). Chissà se riuscirà a costituire anche il suo INGSOC in salsa Musk.

E verso questo stesso percorso, seppur con la volontà di rimanere potenza alla pari e non subordinati agli americani, la corona inglese cerca di trattare, con il re Carlo che ha proposto con una lettera – inviata a Trump tramite Starmer – di far entrare gli Stati uniti come membro associato all’interno del Commowealth, di fatto “condividendosi” il dominio sul Canada piuttosto che darla in pasto esclusivo agli Stati uniti. Trump ha risposto poco dopo che «suona bene!», ma è da vedere come si muoverà il vertice strategico americano nei prossimi mesi.
Invadere o annettere il Canada non sarà facile, non tanto per la (non-)potenza militare del freddo Paese, ma per l’eventuale resistenza dal basso che si prefigurerebbe all’indomani di questa annessione. Si rischia davvero una guerra civile, per le condizioni infime in cui vivono gli statunitensi e canadesi e per le contraddizioni che vi sono anche all’interno dei rispettivi eserciti (in cui ad esempio il suicidio è la prima causa di morte).

Per gli Stati uniti tuttavia è indiscutibile che occorra prendere i territori che reputa parte della propria sfera d’influenza – è indifferente in che modo e sotto quali forme. Ciò è necessario affinché questi Stati, fin’ora con una indipendenza formale concessa come “contentino” dato che “svolgevano i propri compiti”, non finiscano nei giri d’affari cinesi. Tutto il mondo preferisce commerciare con la Cina, perché chiaramente conviene – persino chi confina con gli Stati uniti ed è strettamente “alleato” militarmente con questi lo preferisce.
Ora che la fase dei formalismi “democratici” è finita e inizia la nuova era, gli Stati uniti vogliono formalmente ciò che reputano proprio. Il Canada, da sempre considerato un fratello (o una effettiva parte di sé) tenuto in ostaggio dagli inglesi, è uno di questi. Questa è la formalizzazione della polarità nordamericana, da tempo evidente nelle analisi geopolitiche realiste.

C’è piuttosto da temere per il Messico, Cuba ed il resto delle Antille, il Venezuela ed altri Paesi da sempre nel mirino del suprematismo nordamericano, su cui verosimilmente l’impero punterà a diffondere il caos nei prossimi anni – sempre se gli Stati uniti riusciranno a tenersi in piedi, con tutte le contraddizioni interne che hanno nella propria società, soprattutto nella differenza tra città e campagna, o anche tra “Stati-urbani” e “Stati-rurali” (si pensi all’indipendentismo californiano, polo finanziarizzato e digitalizzato, che si sta facendo rilevante).

È piuttosto ironico come coloro che hanno portato con infiltrazioni e pressioni alla perestrojka sovietica, ora subiscano, stavolta con le proprie mani, una perestrojka in casa. Oltre a ciò, coloro che sanzionavano tutti come dei bulletti dell’asilo, di fatto ora preferiscono isolarsi dal mondo intero, piagnucolando nell’angoletto. Infine, chi voleva disaccoppiare europa-Russia (per ora riuscendoci) e persino Russia-Cina, è finito col disaccoppiarsi da tutti i suoi alleati, a partire dalla storica colonia europea. Chi voleva vincere “fregando” l’economia reale e focalizzandosi sullo strozzinaggio fumoso dell’economia finanziaria dei “Paesi sviluppati”, è stato “fregato” dall’economia reale, produttiva, di Paesi apparentemente “in via di sviluppo”. Welcome back Gorbacev!
Abbiamo davvero un Gorbacev alla Casa bianca, che crede sinceramente di riuscire a riformare il proprio impero, combattendo contro tutto ciò che reputa superfluo, parassitario, corrotto, usando una retorica che rimanda “alle origini pure” del proprio Paese. Ma non sarà abbastanza. Gli Stati uniti si reggono proprio su tutto questo.
Tutto questo è più ridicolo dell’abbattimento del muro di Berlino e le altre nefandezze fatte della tarda Unione sovietica, sperando nelle buone intenzioni degli americani.
Parafrasando a modo nostro il caro Marx, la prima volta è stata una tragedia, la seconda una festa coi botti.

Forse gli Stati uniti riusciranno ad isolarsi dal mondo intero e industrializzarsi, ristrutturando anche la propria statualità, magari anche il proprio sistema politico e, chissà, anche il sistema economico.
Tre cose sono certe: 1) gli Stati uniti conosciuti fino ad ora, cioè quell’impero più sanguinario e genocidario, disgustoso, rozzo e ipocrita della storia, il più temibile col suo arsenale atomico e la supremazia militare indiscussa, sta morendo, e pochi ormai lo temono. L’unica alternativa che ha, dopo gli ultimi crimini che commetterà purtroppo in medioriente e forse America latina, è cambiare drasticamente forma, e sopravvivere senza essere più riconoscibile (o, in alternativa, balcanizzarsi).
2) Con il crollo dell’Urss non è finito il socialismo, ma col crollo degli Usa inizierà la caduta a domino del capitalismo. Il socialismo ha subito una grossa perdita nel secolo scorso, per moltissimi motivi che ora non andremo qui ad elencare; ma rimane inevitabilmente lo stadio storico successivo al capitalismo, per motivi prettamente dialettici e logici. Non c’è nulla che si possa fare per evitarlo, se non far scoppiare il mondo intero. Il comunismo si è dimostrato per l’ennesima volta più efficace nella direzione del mercato e l’allocazione delle risorse, ed è semplice logica (ci sarà un motivo se anche i Paesi capitalisti sviluppati tendono a raggiungere forme di capitalismo di Stato).
3) L’europa è più morta del nordamerica:

Il futuro certo dell’aborto europeo e la questione danese

Tornando sull’Artico e l’aspetto storico e geopolitico, altro chiodo fisso della nuova strategia trumpiana è chiaramente l’annessione della Groenlandia.
Se riguardo al Canada si può dire che vi sia, al netto degli obiettivi geopolitici dialetticamente negativi, una questione nazionale che possa giustificare l’annessione agli Stati Uniti, non si può dire lo stesso della Groenlandia.
Quest’isola da 2.166.086 km², e popolata da sole 56.000 persone circa, ha la densità abitativa più bassa del pianeta, eppure rappresenta un territorio assai strategico per l’accesso all’Artico e all’Atlantico, oltre alla presenza di numerose risorse nel suo sottosuolo. La sua storia è piuttosto particolare, e come si è detto, a differenza del Canada non ha alcun legame storico-culturale con il nordamerica anglofono.
L’isola fu abitata inizialmente dagli inuit (o eschimesi), un popolo di cacciatori e pescatori, che da secoli prima dell’arrivo dei primi europei si insediarono lungo le coste gelate del nord, essendo qui arrivati dalle altre isole e coste frastagliate del freddo nordamerica e, assai prima, dalla Siberia e l’estremo oriente russo. Già attorno all’anno 1000, nel pieno di un periodo caldo, gli scandinavi scoprirono l’isola, insediandosi invece lungo la costa sud-occidentale. Qui restarono per diversi secoli, convertendosi anche al cristianesimo e scoprendo il Vinland, l’odierna Terranova canadese. Verso la metà del 1400 le temperature si abbassarono enormemente per via della piccola glaciazione, e i vari regni norreni, dall’Islanda alla Danimarca alla Norvegia, persero qualunque contatto con i coloni d’oltreoceano. Nel 1721 venne organizzata dal regno di Danimarca-Norvegia una campagna sostenuta dai missionari per garantirsi che i coloni, lasciati a se stessi per quasi tre secoli, fossero rimasti cristiani; ciò che trovarono è che, misteriosamente, non era rimasto nessuno nei villaggi vichinghi, e ancora oggi non vi sono spiegazioni certe – se cercarono di abbandonare l’isola, o se si siano mischiati con i nativi. Fatto sta che i nuovi coloni trovarono solo gli inuit, ora insediati anche nella parte meridionale dell’isola, e procedettero quindi a convertirli al cristianesimo, annettendo ufficialmente la Groenlandia (un tempo terra verde e fertile per i primi esploratori) sotto la corona danese.
Come si vede, si è dunque di fronte a un’isola che ha sì un’identità nativa legata a quella dei popoli del nordamerica pre-colombiano essendo una continuità territoriale del nordamerica, ma che si è nei secoli ben integrata nella statualità danese, anche per via della popolazione così scarsa, in cui è difficile che si sviluppino attriti etnico-culturali. Lo stesso non si può dire per gli inuit del Canada e dell’Alaska statunitense, che sono stati e sono da secoli discriminati con le varie politiche razziali (prima esplicite ed ora implicite) applicate contro le popolazioni native, le “first nations“.

Ma tornando alla questione che ci interessa; se già durante la scorsa amministrazione si tentò (inutilmente) di convincere (per l’ennesima volta) il regno di Danimarca a vendere l’enorme isola artica, stavolta il tycoon vuole fare sul serio, e promette non solo dazi (che in parte ha già messo nell’ambito europeo) sul piccolo Paese scandinavo, ma persino un eventuale intervento militare, nel caso gli abitanti dell’isola “non si possano esprimere a favore” dell’annessione all’impero nordamericano.
La Danimarca, serva di Washington che ha nel corso dei decenni sempre chinato la testa e obbedito agli ordini d’oltreoceano, spedendo contingenti militari in operazioni di sterminio nelle varie missioni imperialistiche in giro per il mondo, ha dal 2022 spedito quasi, se non la totalità delle proprie armi rilevanti al regime di Kiev, che le ha come solito fatte distruggere, annichilire nel giro di poche settimane dallo schieramento in campo delle stesse. Ora, ironia della sorte, si ritrova con lo stesso padrone che pretende di avere in esclusiva (già de facto l’isola è occupata da basi americane) un territorio che ha un legame con la Danimarca da sette secoli (quando ancora neanche esisteva il termine “america”) e che è formalmente danese da prima dell’indipendenza americana, mentre il Paese è rimasto nudo, spoglio, senza più difese.
Non è folle di questi tempi, ma fa abbastanza ridere leggerlo, che in Danimarca si stia già parlando di richiesta di aiuto alla Russia – aiuto che verosimilmente non verrà chiesto per davvero e che, anche fosse, dopo quello che è successo in ucraina è difficile che verrà.
Un debole segnale di forza, limitato alla retorica, al vocione, che finirà molto probabilmente con l’accettare supinamente un referendum tra i 56.000 abitanti, come se questa manciata di cittadini potesse decidere le sorti di un’isola intera da 2 milioni di chilometri quadrati, che è praticamente disabitata per il 99.9% della superficie, ignorando invece l’opinione degli altri 6 milioni di danesi, che dovranno cedere il 98.05% del proprio territorio storico.
Tralasciando questo principio stupido che di “democratico” non ha niente, non è per nulla da ignorare il fatto che con 56.000 persone, per una superpotenza organizzare i brogli è un’ovvietà, di una semplicità senza precedenti.

Che il nuovo Cesare faccia sul serio lo si è visto chiaramente: ha spedito in Groenlandia il proprio figlio e dei rappresentanti vicini alla propria cerchia, ha assoldato cinque senzatetto offrendo un pasto caldo in un ristorante, e si è scattata una foto propagandistica con le bandiere statunitensi già pronte, spacciando il tutto come una prova della volontà dei groenlandesi di entrare a far parte dell’impero nordamericano.
Nel frattempo il governatore dell’isola ha dichiarato di vedere positivamente l’indipendenza dalla corona danese, e la Danimarca di pronta risposta ha innalzato la bandiera del territorio autonomo presso diversi dei suoi edifici pubblici.
Successivamente, gli Usa hanno mandato anche Vance a incontrare i soldati (americani) in Groenlandia – con tanto di Vance, vicepresidente di una superpotenza, che s’è detto stupito che in Groenlandia faccia freddo; un po’ come Trump che non conosceva il Lesothol’AUKUS (di cui fanno parte gli Usa in funzione imperialista in Oceania ed anti-cinese), o alla tabella dei dazi in cui compaiono isole desertiche popolate da pinguini e inutili anche nelle triangolazioni commerciali; viene da dire che l’europa è governata da incompetenti, ma anche in Usa non stanno molto meglio.

Per ora sono segnali di attrito, minacce e retorica, ma il rischio dell’annessione effettiva è alto, e lo scenario plausibile è che gli Stati uniti non incontreranno particolare resistenza.
La Russia non si è espressa sulla questione, affermando semplicemente che tiene sott’occhio lo sviluppo della situazione e che gli interessi americani in Groenlandia sono concreti e storici. E non è da escludere che, dato che la Russia si reputa ormai all’avanguardia nello sviluppo delle infrastrutture e della flotta nel quadrante artico, non abbia timore di un’espansione statunitense a nord, ed anzi l’abbia accordata già “in cambio” della ritirata americana dall’ucraina. È comunque uno scambio piuttosto iniquo, contando che la Russia ha già ceduto, come pare di capire, la Siria ad israele e Turchia, ambedue alleati di Washington in un modo o nell’altro, seppure molto autonomi.
C’è però un Paese che storicamente ha sempre avuto lo spirito d’iniziativa nel cercare di ritagliarsi un ruolo nel panorama europeo, se non quello mondiale, ed è chiaramente la Francia. La Francia di Macron – il nano che spende mensilmente in media 9.000 euro in trucco e ammira quotidianamente con gli occhi luccicanti il busto di Napoleone presso i sontuosi corridoi dell’Eliseo – ha cercato di spingere la Nato persino lì dove gli Usa non si volevano (almeno per il momento) spingere, inviando truppe effettive in Ucraina e aumentando l’escalation nucleare contro la Russia. La stessa Francia di Macron ha parlato più volte di necessità di un esercito europeo, e nonostante abbia perso quasi la totalità delle colonie francesi in Africa (ecco la rabbia dovuta contro la Russia), il ridimensionamento del suo storico vicino dopo il sabotaggio del Nord Stream ha dato comunque la possibilità alla Francia – ricordiamo, potenza nucleare e membro permanente della Commissione di Sicurezza delle Nazioni Unite – di proporsi come voce dell’europa. Probabilmente il ruolo francese è stato piuttosto oscurato dalla Polonia e gli altri falchi dell’est, che hanno rubato i riflettori grazie alla loro utilità in chiave anti-russa (Trimarium, prometeismo, eccetera), ma la Francia, anche per via dell’evidente tendenza degli Usa nel favorire i Paesi dell’est, in piena frustrazione è riuscita, almeno in parte, a ritagliarsi un ruolo globale in seno alla Nato. Allineato più alla precedente amministrazione – mentre polacchi e vicini sono stati abili a leccare a destra e a manca –, Macron, nonostante sia a capo di un governo che si regge con le stampelle e senza il supporto né della popolazione e né del parlamento stesso, sta comunque cercando di allontanare la Francia e i propri alleati dal controllo totale degli Usa, proponendosi come garante alternativo all’interno della stessa “alleanza” atlantica. In questa chiave di lettura ha senso l’ennesima pomposa dichiarazione del presidente Macron, che ha minacciato di intervenire in Groenlandia a difesa della Danimarca e dell'”europa”. Quanto questo sarà possibile è da vedere, ma è indiscutibile che il mondo di oggi, per via dei grandi cambiamenti che stiamo vivendo, è totalmente diverso da quello di pochi anni fa, e gli equilibri interni all’occidente si stanno rapidamente sgretolando, facendo riemergere potenziali conflitti inter-imperialistici, tra Stati uniti rappresentati dall’alta borghesia produttiva che ha preso il potere nel cuole dell’impero, e l’alta borghesia finanziaria che si è rifugiata nelle borse e banche europee.

Oltre all’aspetto geostrategico, la Groenlandia è particolarmente ricca di risorse. È sin dal 2016 che l’impero statunitense cerca di distaccare la Cina da ogni aggancio possibile che possa darle ampiamente accesso alla rotta artica, oltre al bacino di risorse naturali dell’immensa isola (non che alla Cina comunque manchino). Anche se alcune cifre non sono state rese pubbliche, possiamo comunque avere chiaro il quadro della situazione che si è sviluppato negli anni, con le varie offerte cinesi, e la Danimarca che è stata bacchettata ripetutamente dal padrone d’oltreoceano. Vi è ad esempio il progetto Kvanefjeld, che consisteva in una partnership con Cina (Shenghe resources) e Australia (Greenland minerals), con investimenti da 500 milioni di dollari per sviluppare miniere di terre rare e uranio. L’accordo prevedeva la costruzione di infrastrutture come porti e strade per facilitare l’estrazione delle risorse, oltre all’accesso a tecnologie avanzate per la lavorazione delle terre rare e l’eventuale agevolazione per i prestiti che la Cina era disposta a dare alla Danimarca attraverso la sua adesione alla Belt and Road initiative. Il sito di Kvanefjeld ha un forte potenziale, dato che contiene circa 1 milione di tonnellate di ossidi di terre rare (che sono il 10% delle riserve mondiali), così da avere accesso a più risorse per la produzione di veicoli elettrici, turbine eoliche ed altre tecnologie avanzate e rinnovabili. La Cina rappresenta già di per sé circa l’80% delle terre rare del mondo, e con la Groenlandia avrebbe consolidato ulteriormente il suo monopolio raggiungendo il 90% del totale globale, ma ci avrebbe guadagnato soprattutto la Danimarca, che sarebbe entrata nelle catene di approvvigionamento della Cina, oltre ad aver accesso a varie tecnologie utili per il proprio sviluppo interno. Venne inoltre proposta un’altra collaborazione, a nord della Groenlandia, per l’estrazione di ferro e zinco, con investimenti copiosi da 200 a 300 milioni di dollari, anche qui accompagnati da finanziamenti per lo sviluppo delle infrastrutture, seguendo il classico schema “win-win” ormai tipico nell’approccio con cui la Cina dialoga col mondo.

Ma la Danimarca avrà guadagnato qualcosa con le offerte statunitensi? Parlano i numeri. Nel 2020 gli Usa, dopo aver riaperto il consolato a Nuuk (che è stato chiuso nel ’53), hanno forzato la Danimarca ad accettare i 12,1 milioni di dollari in investimenti per “sviluppare il settore minerario groenlandese”, con focus su esplorazione geologica e formazione di personale locale. A ciò si è aggiunto un accordo del 2023 da 3,5 milioni di dollari per progetti scientifici nell’Artico. Nessun investimento in infrastrutture, né assunzione diretta di personale.
In sintesi, la Danimarca, sotto pressione statunitense, ha bloccato i propri accordi da 500+250 milioni di dollari che prevedevano migliaia di assunzioni tra minatori e tecnici, e soprattutto la costruzione di strade e porti, mentre ha accettato due accordi da 12 e 3,5 milioni che prevedono la formazione di personale e “sviluppo del settore minerario”, svendendo così le proprie risorse al padrone americano (che neanche si interessa più di tanto nell’estrarre efficientemente le risorse; l’importante è non farci guadagnare nessun altro).
Per far ciò, gli Usa sono ricorsi a vari metodi: la chiara pressione “diplomatica” che spesso hanno usato con i vari Paesi “alleati” (cioè minacce anche esplicite dirette contro i leader locali, i cui contenuti salteranno fuori forse tra qualche anno o decennio); finanziamenti di ONG e movimenti ambientalisti groenlandesi, che nel 2021 hanno fatto pressione pubblica per rifiutare lo sviluppo dell’estrazione dell’uranio, non dicendo una parola però contro l’estrazione fatta dagli Stati uniti; e implicite minacce militari, facendo leva sulle varie basi americane presenti sull’isola e sul fatto che “con la Cina qui non ci sentiremmo al sicuro” (e dovremmo agire di conseguenza).
Nonostante le minacce di annessione, la Danimarca ha obbedito come un cagnolino, accettando un’offerta irrisoria, quasi per umiliare volutamente il Paese scandinavo.

Insomma, all’europa spetta una brutta sorte, ma d’altronde è ciò che si merita lo schiavo che bacia e lecca le proprie catene. L’Unione europea è visivamente confusa, in una fase isterica e schizofrenica, senza aver chiaro in mente cosa stia succedendo attorno a sé. È verosimile pensare che la classe “dirigente” (è da vedere che cosa stia effettivamente dirigendo) non sia solo moralmente infame e ipocrita, ma anche effettivamente incapace, messa lì dagli americani col fine di trattarli come burattini. L’europa è abbagliata dall’ideologia più contraddittoria e insensata della storia (se la batte col nazismo di stampo hitleriano), molto più di quanto non lo fosse l’Unione sovietica con i suoi dogmi legati al marxismo ortodosso (e paradossalmente revisionista).
Non c’è molto da compatire verso un subcontinente che si atteggiava da sovrano del mondo intero, mentre era dominata dall’impero statunitense – e anzi ne gioiva, in quanto ci rendeva capaci di essere ancora imperialisti, “come lo eravamo un tempo”!

Conclusione

Seppure siamo in conclusione, vorrei comunque lasciare uno spazio alla questione mediorientale. Se da tutto questo è evidente che il mondo – almeno la parte giusta di esso – ne uscirà vincitrice e messa in condizioni migliori, è comunque da ammettere che i palestinesi sembra siano ancora lontani dalla luce in fondo al tunnel, così come anche i siriani. Il genocidio non si ferma, e le grandi potenze del mondo, in questa delicata struttura internazionale, sono ancora impotenti davanti allo sterminio sistematico dei palestinesi e delle minoranze siriane. Col veto degli Stati uniti, dei francesi ed inglesi non si può intervenire congiuntamente, e se lo si facesse in maniera unilaterale si rischierebbe un’escalation mondiale, mentre in Siria giocano attori più contorti come lo stesso israele assieme a Turchia e Stati uniti, con la Russia e l’Iran concentrati rispettivamente su ucraina e Palestina/Libano/Yemen. Sembra non esservi dunque via d’uscita da questo “gioco a somma zero”, e spetta unicamente ai coraggiosi palestinesi e i loro fratelli yemeniti, iraniani e libanesi a lottare per l’emancipazione dei loro grandi popoli dall’ultimo Stato di apartheid del nostro secolo, superando finalmente questo secolo dell’umiliazione arabo intensificatosi dal drammatico Sykes-Pykot.

L’unica speranza è che quindi i tempi cambino più velocemente, e che il crollo dell’impero americano – che punterà al proprio cortile di casa forse inutilmente, dato le contraddizioni interne troppo forti – si concretizzi al più presto, portando anche all’abbandono del progetto sionista in Terra santa.

Che fare, intanto?
I socialisti in Italia sono ancora impreparati, ed è davvero assurdo, a pensarci, che il sistema capitalistico sia crollato prima che il popolo (non solo italiano ma occidentale in generale) fosse in grado di organizzarsi per colmare il vuoto e risolvere le contraddizioni asprissime che si stanno manifestando nei piani alti.
Seguendo la prassi leninista, come sappiamo oltre all’organizzazione del Partito rivoluzionario occorre che vi siano spaccature in seno all’alta borghesia. Paradossalmente ci troviamo nella situazione in cui queste spaccature ci sono, e non sono mai state così forti, ma non vi è alcuna organizzazione dal basso, e ci troviamo dunque in uno stato di impotenza tragico.
Intanto, nel nostro piccolo, non ci resta che prepararci teoricamente al nuovo mondo, come già in molti stiamo facendo.
Le basi teoriche ormai le abbiamo a sufficienza, ma manca tutto il resto. Siamo pieni di analisti capaci, anche con proposte molto interessanti, come le integrazioni alternative all’euro, o la ovvia partecipazione dell’Italia nelle iniziative internazionali quali la Via della seta.

Il peggio ‒ e cioè il rischio di una guerra totale nucleare ‒ pare essere miracolosamente passato, ma non abbiamo assolutamente scongiurato il grigio futuro che spetta all’Italia, in mano ad incapaci confusi che non sanno minimamente cosa fare, legati mani e piedi dal vincolo esterno e i limiti che ci siamo imposti da soli, come fessi, anche nella nostra Costituzione.
Dopo 500 anni di insopportabile e irresponsabile dominio nazista europeo sul mondo intero, non ci resta che prepararci all’inferno in casa, mentre il resto del mondo conoscerà finalmente il paradiso.

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