Pubblicato in nove parti su L’AntiDiplomatico.
Indice
1. L’evoluzione storica del socialismo
Il materialismo dialettico concepisce l’universo come “un movimento della materia, retto da leggi”, che si riflette nella nostra conoscenza, “prodotto superiore della natura”1. Il pensiero è riflesso di questa realtà, ed è perciò anch’esso in un processo di continuo movimento e trasformazione. Al modificarsi della realtà materiale non può che corrispondere una trasformazione del pensiero. Essendo il nostro pensiero il riflesso della realtà materiale, noi possiamo arrivare alla comprensione oggettiva di questa. Il pensiero umano è espresso però da singoli individui, che non possono che avere una conoscenza relativa, limitata dal tempo e dallo spazio, oltre che dallo stato di sviluppo della società e delle sue forze produttive e scientifiche. La realtà oggettiva può essere conosciuta come somma di verità parziali, che storicamente si perfezionano in un’approssimazione sempre più esatta. Come espresso da Friedrich Engels nell’Anti-Dühring, la contraddizione “tra il carattere del pensiero umano, che ci sembra necessariamente assoluto, e la sua effettuazione in individui il cui pensiero non è che limitato” può essere risolta “solo per mezzo delle generazioni umane”2, arrivando alla verità assoluta per mezzo dell’accumulo di verità relative che si susseguono nello sviluppo storico.
Dal punto di vista marxista è innegabile l’esistenza di una verità oggettiva, che si riflette nel pensiero umano, come è innegabile che il carattere approssimativo delle nostre conoscenze goda di limiti sempre più vicini alla completa verità. In questo senso la dialettica marxista abbraccia il relativismo, ma senza limitarsi ad esso, ossia senza unire la comprensione della relatività di tutte le cose la negazione della verità oggettiva, ma affermando “la relatività storica dei limiti dell’approssimazione delle nostre conoscenze”3 alla verità oggettiva. Ogni sistema di pensiero è quindi storicamente relativo, e riesce ad approssimarsi alla realtà all’interno di limiti determinati dalle circostanze materiali.
Il socialismo non è differente. Esso nacque cinquecento anni fa dai grandi utopisti dell’era moderna, che seppero unire la mai svanita immagine di una società egualitaria, reminiscenza del comunismo primitivo, alla prefigurazione di una piena emancipazione dell’essere umano, resa possibile dall’accelerazione impressa ai fenomeni storici dall’incipiente sviluppo capitalistico. Ma queste immagini, come i progetti di riforma universale della società che sarebbero stati varati, non erano che debolmente collegati alla realtà materiale, di cui non si comprendevano i processi di trasformazione. Ma proprio sulla base di questa produzione si poté costruire l’analisi marxista, che vi unì i contributi dati dall’economia politica classica e dalla filosofia tedesca, creando così un formidabile strumento capace di portare a un grado maggiore di consapevolezza dei processi storici e della natura dello stesso universo. Il marxismo non è solo il frutto di menti geniali, ma è anch’esso un prodotto della Storia che non avrebbe potuto comparire se non in determinate contingenze e come tappa precisa del percorso dello sviluppo umano. Non si tratta di una buona “intuizione”, di una formula per la società ideale che avrebbe potuto fare la propria comparsa nel mondo un millennio prima così come cinque secoli dopo, ma del frutto della maturazione di una certa coscienza data dalla trasformazione oggettiva del mondo materiale.
“La dottrina di Marx è onnipotente perché è giusta. Essa è completa ed armonica, e dà agli uomini una concezione integrale del mondo”4: questa “onnipotenza” non è ricavata dal possesso di qualche verità esoterica o da una particolare benedizione divina, ma è data dal suo carattere scientifico. Il marxismo è una scienza, e come tale si fonda sull’analisi della realtà materiale e storicamente evolve secondo un processo di maturazione che lo porta ad una sempre maggiore aderenza alla realtà oggettiva e una sempre più raffinata capacità di descriverne la trasformazione. La traiettoria storica del marxismo può infatti essere vista come un percorso d’apprendimento fondato sul costante confronto con la realtà materiale, una lotta senza quartiere contro tutte le incrostazioni metafisiche e le influenze ideologiche reazionarie che gli ha permesso di catalizzare il processo di sviluppo umano, galvanizzando la lotta per l’emancipazione in ogni parte del globo e con risultati sempre più grandi e manifesti.
In primo luogo, il marxismo ha superato tramite l’analisi scientifica del capitalismo il socialismo cosiddetto “utopistico”, sottomettendo i vari progetti di trasformazione sociale alle leggi oggettive dello sviluppo storico e riconoscendo la lotta di classe come base dell’evoluzione dialettica delle società umane. Attraverso la riflessione sul potere politico e la necessità di una sua conquista da parte delle forze progressive del proletariato, il marxismo ha superato le deformazioni in senso anarchico e sindacalista del pensiero socialista. Con l’ingresso del capitalismo nella sua fase imperialista il marxismo è passato dalla riflessione sulla presa del potere alla sua concreta conquista. La Rivoluzione d’Ottobre, resa possibile dal carattere di “anello debole” nella catena dell’imperialismo dell’impero zarista e dalla correttezza della linea politica dei bolscevichi, ha simbolicamente aperto l’era della rivoluzione socialista e proletaria, intesa non come singolo evento circoscrivibile a un dato paese, ma come salto qualitativo globale, processo concreto e oggettivo che coinvolge tutte le forze progressive e le oppone ai disperati sforzi reazionari di quelle regressive.
Il confronto con la realtà della gestione del potere e della costruzione del socialismo ha permesso al marxismo di compiere un’ulteriore tappa nel suo processo d’apprendimento, liberandosi dei lasciti utopistici presenti in certe minoranze legati al miraggio di una rapida instaurazione del “regno della libertà”, del dileguare del denaro, dei confini, dello Stato, del mercato e finanche delle varie nazionalità. La costruzione del socialismo in Unione Sovietica liquidò le correnti trotskiste e “libertarie”, da quel momento in poi passate da essere tendenze errate all’interno del partito comunista a veri e propri strumenti anticomunisti dell’imperialismo.
Il grande merito di Lenin e del suo allievo Stalin non consiste solo nell’aver compreso, a differenza degli opportunisti della Seconda Internazionale, il nesso tra la rivoluzione democratica e quella proletaria, ossia come “la rivoluzione democratica borghese si trasforma nella seconda”, che “risolve cammin facendo problemi della prima”5, e che costruendo la dittatura del proletariato, “forma particolare dell’alleanza di classe tra il proletariato, avanguardia dei lavoratori, e i numerosi strati non proletari dei lavoratori”6, ossia contadini e settori inferiori della borghesia, ma anche nell’avere impostato la questione nazionale e coloniale nella fase imperialista del capitalismo nella maniera più corretta, riconoscendo lo strettissimo legame tra la lotta della classe lavoratrice dei paesi avanzati dell’Occidente con quella dei popoli oppressi e subordinati agli Stati imperialisti. Mao Zedong partì da questa base teorica per un ulteriore sviluppo teorico e pratico, dando un grande esempio di adattamento alle concrete condizioni nazionali delle verità universali del marxismo-leninismo, riuscendo tramite la guerra popolare di lunga durata, la tattica della “campagna che circonda la città”, l’applicazione della linea di massa e l’obiettivo strategico della creazione della Nuova Democrazia come passo verso il socialismo a guidare alla vittoria la più grande rivoluzione anticoloniale della Storia. Il Pensiero di Mao Zedong, pur avendo, similmente al leninismo, una valenza internazionale indiscutibile, mostra un carattere decisamente cinese. Questo non solo in termini di “sinizzazione” del marxismo, ma anche in quanto primo esperimento originale di costruzione del socialismo in un contesto extra-europeo, risultato di processi di sviluppo non riducibili agli schematismi evolutivi eurocentrici che costituirono un limite anche per il marxismo-leninismo sovietico, per quanto in misura assai inferiore rispetto al messianesimo “social-sciovinista” occidentale delle correnti trotskiste e bordighiste7. La rivoluzione cinese ha dimostrato il carattere multilineare dello sviluppo storico umano, e ha rappresentato un fondamentale salto dall’internazionalismo astratto a una reale estensione globale dei processi rivoluzionari. La nazionalizzazione del marxismo è stata lo strumento essenziale per una sua reale internazionalizzazione.
L’approfondimento di questa dimensione specificatamente nazionale, necessario per rispondere alle questioni poste dalla costruzione del socialismo in Cina, portò alla sviluppo della Teoria di Deng Xiaoping, anch’essa ricca di contributi allo sviluppo globale della teoria socialista, non in ultimo luogo quelli legati al rapporto tra socialismo ed economia di mercato.
Come l’analisi leninista rispondeva alle questioni poste dall’epoca dell’imperialismo maturo, pronto ad esplodere nella conflagrazione bellica del 1914-1918, così quella di Mao Zedong e di Deng Xiaoping rifletteva le trasformazioni in corso a seguito dello sviluppo del bipolarismo della Guerra Fredda e dell’ingresso degli Stati Uniti e di tutto il loro sistema in una fase di crisi progressiva e irreversibile. La maturazione di questo processo di decadenza ha portato direttamente alla fase attuale, quella della multipolarizzazione del mondo e della costruzione di una comunità umana dal futuro condiviso. Il prodotto teorico dell’evoluzione del marxismo in questa nuova epoca è il Pensiero di Xi Jinping, vero “marxismo del XXI Secolo”, capace di affrontare correttamente e proficuamente le questioni poste dai nostri tempi e di assicurare all’edificazione di un’ordine internazionale multipolare il rafforzamento della sua natura rivoluzionaria e progressiva tramite il ruolo guida dei comunisti. Il Pensiero di Xi Jinping non è solo tra le principali bussole teoriche di quest’epoca, ma è anche il marxismo del periodo in cui inizia il definitivo superamento della fase imperialista del capitalismo a favore dell’evoluzione in senso socialista dell’intero Pianeta, nuova tappa fondamentale della rivoluzione proletaria iniziata nell’Ottobre del 1917.
Il multipolarismo e la globalizzazione rappresentano le due tendenze prevalenti dei nostri tempi. Il cammino d’evoluzione, apprendimento e auto-correzione del marxismo lo ha reso in grado di affrontare le sfide poste da ciò in maniera profonda e completa, come espresso massimamente dal Partito Comunista Cinese e dal suo Comitato Centrale con al centro il segretario Xi Jinping. Da Oriente a Occidente la multipolarizzazione del mondo è un fatto oggettivo e incontrastabile, e tutti, compresi i detrattori, non possono ormai che fare i conti con questo processo. Gli oppositori del multipolarismo, da destra e da “sinistra”, lo qualificano come un vero e proprio “assalto” delle autocrazie al cosiddetto “ordine internazionale basato sulle regole” di matrice liberale ed americanocentrica, o al più come un semplice “cambio della guardia” all’interno dello stesso sistema di dominazione: concezioni sbagliate che dimostrano la totale subalternità alla penetrazione ideologica dell’imperialismo o la pervasività di certa falsa coscienza anche in ambienti “radicali”. Allo stesso tempo vi sono diversi sostenitori del processo di multipolarizzazione del mondo che evidenziano solo la pars destruens, l’opera di liquidazione dell’egemonia statunitense, senza rilevare il profondo cambio di paradigma e l’ingresso in una fase inedita della Storia umana: una visione, per quanto sicuramente non errata, unilaterale e incapace di cogliere l’intera portata dei processi in corso. L’analisi marxista, maturata nei suoi due secoli di sviluppo, è in grado di dare la lettura più esauriente dei processi che si svolgono sotto i nostri occhi nella loro complessità e direzionalità storica. Anche in questo senso il multipolarismo è inconcepibile senza il marxismo.
2. La prassi come criterio della verità, il materialismo dialettico come metodo
Attraverso l’evoluzione teorica descritta, il marxismo è passato dall’essere l’idea di pochi circoli d’avanguardia ad essere la forza trainante di alcuni tra i più grandi partiti e Stati al mondo, una forza determinante nello scenario internazionale da almeno un secolo, e mai come oggi vitale e potente. Ciò è stato possibile non solo grazie agli sforzi di numerose generazioni di rivoluzionari, ma soprattutto per un metodo, quello dato dal materialismo dialettico, fondato su un costante confronto con la realtà materiale, applicato tanto all’analisi teorica quanto alla prassi politica. Questo metodo parte dalla realtà e alla realtà ritorna, mettendo al bando ogni soggettivismo e deformazione unilaterale. Il criterio prescritto dal materialismo dialettico per avvicinarsi sempre di più alla verità non è l’adesione a dogmi aprioristici, ipse dixit, identitarismi estetici o sofismi verbali, ma la prassi. Solo la prassi, solo i fatti reali permettono di risalire alla verità.
“La questione se al pensiero umano spetti una verità oggettiva, non è questione teorica bensì una questione pratica. Nella prassi l’uomo deve provare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del suo pensiero”8. L’esame della pratica è l’unico metro adeguato per valutare la verità di un pensiero. Non ne esistono altri, e il marxismo correttamente riconosce ciò. Il problema della definizione del criterio per stabilire la verità non casualmente è scomparso da decenni dallo scenario politico dell’Occidente, anche nella variopinta galassia della cosiddetta “estrema sinistra” locale. Influenzati dall’ideologia neoliberale e dal pensiero postmoderno, i “marxisti” occidentali sostengono, apertamente o meno, che esistano le verità, con ogni singola persona portatrice di una, o più, visioni qualitativamente equivalenti e parimenti valide. La realtà oggettiva viene negata a favore di una molteplicità di verità relative fondate sul gusto personale, sull’opportunità, sulla volontà soggettiva, che riflettono nient’altro che pensieri e sensazioni dell’individuo, che sceglie di rappresentare se stesso e quello che fa in un dato modo, di “identificarsi” come qualcosa (o qualcuno). Questa deformazione gnoseologica può ancora prosperare solamente perché l’estrema sinistra occidentale rifiuta di porsi il problema della presa del potere e della trasformazione dell’esistente, ed è quindi totalmente disinteressata ad una prassi che possa ottenere risultati, costruire consenso e modificare rapporti di forza. Essendo limitati nei propri orizzonti a un mero “sopravvivere” come aggregato identitario, per i vari gruppi e gruppuscoli in questione è totalmente indifferente stabilire se ciò che si pensa sia coerente con la realtà oggettiva: quello che importa è rispettare determinati stereotipi e criteri estetico-formali. Ciò potrebbe essere accettabile per chi si pone entro i confini del liberalismo, ma non è compatibile col marxismo.
L’incapacità di fare proprio il metodo marxista, al di là delle rivendicazioni identitarie, porta a una fondamentale incomprensione della realtà concreta, della quale non si riesce a dare spiegazione senza averla prima mutilata e ridotta ai proprio personalissimi schemi interpretativi. L’unione di soggettivismo e identitarismo porta al dogmatismo più becero e rumoroso, sempre pronto a lanciare accuse contro chi osa deviare dall’ortodossia dell’immaginazione per scendere coi piedi per terra. L’adesione alla realtà, indizio per molti di “revisionismo”, “rossobrunismo” e dir si voglia, è il fondamento di un’analisi corretta e di una prassi conseguente. Solo il confronto costante con la realtà concreta permette di ottenere risultati, di compiere passi avanti nel processo conoscitivo e quindi procedere coscientemente verso il fine posto: “Il progresso dei concetti (dialettica soggettiva), riflettendo propriamente la realtà, deve conformarsi a ciò che sta procedendo nel mondo esterno (oggettivo) e non permettere di farsi separare dalla sua base. La coscienza deve sforzarsi di adattarsi al progresso (dialettico) dell’oggetto riflesso”9.
La lotta per riportare il pensiero alla realtà ha caratterizzato il progresso storico del movimento comunista internazionale ed è ciò che ha permesso a questo di prosperare e mostrare la correttezza delle proprie idee e della propria concezione del mondo. Marx ed Engels costruirono una teoria socialista fondata sulla realtà attraverso il metodo scientifico. Lenin adattò l’analisi marxista alla nuova realtà della fase imperialista del capitalismo, abbandonando gli errori e gli schematismi della II Internazionale. Stalin seppe promuovere lo sviluppo del socialismo nel contesto dato dalla crisi generale del capitalismo e del manifestarsi del fascismo, conducendo l’URSS alla vittoria nella Grande Guerra Patriottica. Mao Zedong, rifiutando le dannose tentazioni emulatrici della “via sovietica”, si basò sulla realtà per trovare la strada propria della rivoluzione cinese e portare avanti l’edificazione socialista nel proprio paese e similmente Deng Xiaoping fondò la sua azione riformatrice sul principio di verificare le proprie idee nella realtà per correggere le deviazioni e gli errori in cui era caduto il PCC. Oggi è proprio il confronto serrato con la realtà a rendere il Partito Comunista Cinese guidato dal segretario Xi Jinping in grado di porsi all’avanguardia delle storiche trasformazioni che stanno avvenendo.
Molti comunisti negano nel loro agire pratico il principio marxista e scientifico per il quale l’unico parametro per stabilire la veridicità di un pensiero è la prassi. In troppi non partono dai fatti per analizzare la situazione concreta, ma dai libri, dai “classici marxisti”, pensando così di risultare più “ortodossi” e corretti. In realtà questa è la ricetta perfetta per separarsi dal marxismo e per andare incontro all’errore, se non per finire direttamente a militare nel campo avverso. La ricerca della verità attraverso i fatti costituisce il cuore del materialismo dialettico e della scienza, è “la base della visione del mondo proletaria e la base ideologica del marxismo”10. È un principio metodologico irrinunciabile che esprime l’unità tra teoria e pratica, poiché il pensiero nasce dai fatti e ad essi ritorna per essere confermato o smentito: “Scopri la verità attraverso la pratica, e ancora attraverso la pratica verifica e sviluppa la verità. Partire dalla conoscenza percettiva e svilupparla attivamente in conoscenza razionale; quindi partire dalla conoscenza razionale e guidare attivamente la pratica rivoluzionaria per cambiare sia il mondo soggettivo che quello oggettivo. Pratica, conoscenza, ancora pratica e ancora conoscenza. Questa forma si ripete in cicli infiniti e con ogni ciclo il contenuto della pratica e della conoscenza sale a un livello superiore. Questa è la totalità della teoria materialistica dialettica della conoscenza, e tale è la teoria materialistica dialettica dell’unità del sapere e del fare”11.
Il militante comunista non deve costruire “utopie socialiste” immaginarie nella sua testa e pretendere che la realtà si adegui ai suoi pensieri, ma, al contrario, deve trovare nel progresso reale degli eventi la strada che porta alla soluzione dei problemi delle masse, aiutando queste nella lotta e arrivando, grazie all’efficacia dell’analisi scientifica del materialismo dialettico, a ricoprire un ruolo guida tra queste. Per arrivare a ciò, per riuscire a portare a termine quello che nel 1899 Vladimir Lenin definiva il dovere di un partito comunista, ossia l’introdurre “decisi ideali socialisti nel movimento spontaneo della classe lavoratrice” per arrivare a “fondere questo movimento spontaneo con le attività del partito rivoluzionario in un unico insieme indivisibile”12. Il ripudio della pratica come unico criterio per stabilire la verità ha portato la cosiddetta “estrema sinistra” italiana ad essere incapace di avere qualsiasi influenza tra le masse. In concreto, queste, animate da un materialismo istintivo, sommariamente corretto per quanto poco raffinato, si sono dimostrate nell’ultimo decennio politicamente assai più avanzate, coerenti e in contatto con la realtà della stragrande maggioranza delle piccole soggettività “rivoluzionarie” che ospita il nostro paese.
Dai “Forconi” al movimento di contestazione alla gestione pandemica, le masse hanno immediatamente compreso che l’Unione Europea e l’euro sono nemici degli interessi del popolo lavoratore e che le istituzioni italiane sono fondamentalmente organi esecutivi di volontà esterne al nostro paese, totalmente subalterne ad esse e sprovviste della benché minima volontà di tutelare i diritti, la salute e il futuro della cittadinanza. Al contrario, l’estrema sinistra è globalmente rimasta a guardare davanti ai movimenti di massa, gridando al “fascismo” e scagliandosi contro le pretese “infiltrazioni”. Sulla questione europea ha mostrato, anche nei suoi elementi più avanzati, ambiguità e “cerchiobottismo”, e ancora oggi in molti si ostinano a parlare di “un’altra Europa”, senza rilevare il dato fondamentale, ossia che il progetto federale europeo è strutturalmente pensato per tutelare gli interessi di Washington e del grande capitale del continente, essendo essenzialmente un prodotto americano ed imperialista. Questi errori hanno indubbiamente inficiato la causa socialista in Italia, non fornendo nessun argine all’inquadramento del dissenso delle masse in forme di opposizione controllata, dalla Lega a Fratelli d’Italia.
Le masse sono mosse da un “materialismo istintivo” perché sono più a contatto con la realtà, dovendo lavorare per vivere e facendo esperienza diretta della precarizzazione, dell’indebitamento e della crescente difficoltà ad affrontare la quotidianità per loro e per le loro famiglie. Al contrario, i circoli militanti della “sinistra radicale” sono spesso composti da studenti universitari e liceali, pensionati e PMC, accompagnati da sottoproletari e da persone auto-marginalizzatesi perché mosse da istinti nichilisti. Si tratta di persone in genere prive di responsabilità o reali preoccupazioni materiali, slegate da qualsiasi contesto familiare e sociale al di fuori della propria piccola cerchia di “militanti” e dipendenti dallo Stato per sussidi od occupazioni pubbliche (in specie quella di insegnante). La loro condizione li rende incapaci di rendersi conto dei problemi, delle preoccupazioni, dei punti di vista e degli interessi della stragrande maggioranza della popolazione, e li espone all’infiltrazione ideologica liberale, spesso mediata attraverso il pensiero anarchico o all’estremismo “di sinistra”.
La loro visione del mondo non è infatti materialista, ma metafisica ed antidialettica, e perciò non in grado di restituire contezza della realtà e dei suoi processi di trasformazione. Il dogmatismo e l’identitarismo stereotipato si sostituiscono all’analisi concreta della realtà concreta, isolando singoli aspetti, singole questioni ed astraendole dal contesto generale, e quindi impedendone una valutazione corretta. Ciò è immediatamente rilevabile se si tiene conto delle posizioni politiche generalmente espresse dalla “sinistra radicale” italiana ed occidentale: si sostengono le milizie separatiste curde in Siria perché “progressiste”, ignorando il ruolo che hanno giocato nella frantumazione del paese e nel favorire l’occupazione americana della parte orientale di questo; si osteggia Orban in quanto “conservatore”, ignorando il suo impegno contro l’escalation del conflitto con la Federazione Russa all’interno della NATO e dell’Unione Europea; si appoggia il cosiddetto “movimento LGBTQIA+” in difesa dei “diritti”, nonostante l’importante ruolo giocato dalle organizzazioni che ad esso fanno riferimento nella destabilizzazione dei paesi ostili all’imperialismo statunitense; si vede in qualsiasi voce critica rispetto all’immigrazione di massa una manifestazione di razzismo e xenofobia, anche se sono proprio le politiche suprematiste dell’occidente collettivo a causare, e fomentare, i flussi migratori, ottenendo da ciò in cambio una grande manovalanza da poter sfruttare senza ritegno.
Il materialismo dialettico, metodo analitico del marxismo, è l’opposto della metafisica, in quanto considera tutta la realtà naturale, storica e spirituale come un processo, un moto incessante di cambiamento e trasformazione, e considera tutti i fenomeni nella loro interdipendenza e nel loro movimento, come un insieme connesso ed organico: “Il metodo dialettico ritiene che nessun fenomeno della natura può essere capito se preso a sé, isolatamente, senza legami coi fenomeni che lo circondano, poiché qualsiasi fenomeno, in qualsiasi campo della natura, può diventare un assurdo se lo si considera al di fuori delle condizioni che lo circondano, distaccato da esse; e, al contrario, qualsiasi fenomeno può essere compreso e spiegato se lo si considera nei suoi legami inscindibili coi fenomeni che lo circondano, condizionato dai fenomeni che lo circondano”13.
Il materialismo dialettico insegna ad analizzare ciò che accade nella sua totalità e nel suo carattere contraddittorio. A differenza dell’idealismo, che concepisce la Storia come semplice crescita, o decrescita, quantitativa di enti omogenei, isolati e qualitativamente immutabili, il materialismo dialettico vede il reale processo di trasformazione di ogni cosa, fatto avanzare principalmente dal carattere intimamente contraddittorio di ogni fenomeno e come caratterizzato non solo da accumuli quantitativi, ma anche da salti qualitativi, per cui una cosa si trasforma in qualcos’altro in un dato contesto. Studiando il metodo dialettico, Engels arrivò a individuare le sue tre leggi fondamentali:
- la legge della trasformazione della quantità in qualità e vice versa;
- la legge della compenetrazione degli opposti;
- la legge della negazione della negazione14.
La prima descrive come ogni fenomeno, raggiunto in certo livello di variazione quantitativa, si trasforma qualitativamente, diventa qualcos’altro: arrivato al suo punto d’ebollizione, un liquido evapora, cambiando di stato; raggiunto un certo livello di compenetrazione tra il capitale bancario e quello industriale viene a svilupparsi il capitale finanziario, che sancisce la fine del libero mercato con l’avvento del capitalismo monopolistico; giunto a un certo livello di centralizzazione e monopolizzazione del credito, del potere politico e militare, del progresso tecnico e degli strumenti d’informazione, l’imperialismo statunitense si è trasformato in imperialismo egemonico, dando vita a un sistema unipolare nettamente distinto rispetto alla precedente fase di concorrenza inter-imperialistica.
La seconda definisce l’unità, o identità, degli opposti, ossia il riconoscimento delle tendenze opposte e apparentemente mutuamente esclusive in ogni fenomeno e processo. La contraddittorietà, lontana dall’essere un’assurdità unicamente concepibile nel pensiero, è la base concreta dello sviluppo, che è il prodotto della lotta (interna) tra i due opposti in questione. Lenin individuò nel riconoscimento identità degli opposti la chiave per la comprensione dei processi, senza la quale non si possono che ottenere letture unilaterali e superficiali: “La condizione per la conoscenza di tutti i processi del mondo nel loro “auto-movimento”, nel loro sviluppo spontaneo, nella loro vita reale, è la conoscenza di essi come unità degli opposti”15.
La negazione delle negazione esprime il procedere dialettico per cui gli opposti contraddittori sono superati a favore di una sintesi che è allo stesso tempo negazione e recupero in un contesto mutato. Nell’Anti-Dühring, Friedrich Engels rende il concetto anche tramite la sua rappresentazione matematica, pensando ad un valore a: “Se questo viene negato, otteniamo -a (meno a). Se neghiamo tale negazione, moltiplicando –a per -a, otteniamo +a2, cioè la quantità positiva originaria, ma ad un grado più elevato, elevata alla seconda potenza”16. Dal punto di vista del processo storico, si può vedere come la lotta di classe tra proletariato e borghesia dia origine al socialismo, che non è semplicemente la negazione dell’ordine capitalista, ma il suo superamento, la sua sublazione, che ne raccoglie l’eredità per spingersi oltre ai suoi limiti.
Nessun processo o fenomeno mostra una contraddizione singola. Al contrario, se ne presentano sempre molteplici, soprattutto nei complessi processi storici, sociali e spirituali della specie umana. Nella pluralità delle contraddizioni ognuna di esse è in una determinata, e transitoria, posizione rispetto alle altre, e necessita di uno strumento di risoluzione appropriato. Mao Zedong, confrontandosi con la complessa situazione cinese, diede particolare importanza alla capacità di riconoscere i rapporti relativi tra le varie contraddizioni e il mutamento di questi: “Se in un processo ci sono più contraddizioni, una di queste deve essere la contraddizione principale che gioca il ruolo principale e decisivo, mentre le altre occupano una posizione secondaria e subordinata. Pertanto, nello studio di qualsiasi processo complesso in cui sono presenti due o più contraddizioni, dobbiamo dedicare ogni sforzo alla ricerca della sua contraddizione principale. Una volta compresa questa contraddizione principale, tutti i problemi possono essere facilmente risolti”17.
La contraddizione fondamentale del capitalismo è quella che oppone proletariato alla borghesia. Questo schema può essere usato di per sé solamente per ragionamenti astratti, in quanto nella realtà concreta quella non è mai l’unica contraddizione presente, né si manifesta in maniera diretta e “pura”. La contraddizione fondamentale di un periodo storico funge da base, ma non rappresenta sempre e comunque quella principale. Ogni tappa di un processo di sviluppo vede una particolare contraddizione svettare sulle altre, divenendo quella principale e caratterizzando la fase. Nell’epoca dell’imperialismo è chiaro come la contraddizione tra borghesia e proletariato prenda forma in maniera differente, più acuta, caratterizzandosi non solo per lo sfruttamento economico e l’oppressione politica, ma anche per la minaccia posta alla stessa esistenza umana data dalla sempre incombente minaccia di conflitti globali, di scala e violenza inaudite nella Storia dell’Umanità. Ma è altrettanto vero come essa non sia che la base fondamentale sulla quale si costruiscono numerose altre contraddizioni, che in periodi specifici prendono il sopravvento. Nei paesi coloniali dell’inizio del secolo scorso la contraddizione tra contadini poveri o braccianti e grandi latifondisti era indubbiamente prioritaria rispetto a quella tra classe lavoratrice e borghesia. Tra gli Anni ‘30 e ‘40 è chiaro come la contraddizione principale fosse quella data dal disegno egemonico-coloniale hitleriano, con la conseguenza che il movimento comunista internazionale, l’Unione Sovietica, i paesi imperialisti liberali e i paesi coloniali si trovavano materialmente nella condizione in cui ogni contraddizione tra di loro non poteva che assumere un carattere secondario. Similmente, a seguito della sconfitta dell’Asse, il disegno egemonico degli Stati Uniti andò a caratterizzare la contraddizione principale, concretamente spostando dallo stesso lato dello scontro il campo socialista e i paesi desiderosi di conquistare (o mantenere) la propria indipendenza. La rottura sino-sovietica, che frantumò il campo socialista aprendo la strada finanche a conflitti armati, si può analizzare come il riuscito tentativo da parte delle forze dell’imperialismo di confondere le idee proprio riguardo alla gerarchia delle contraddizioni, divenuto possibile grazie a distorsioni ideologiche e ad errori nella gestione del rapporto tra partiti comunisti e tra Stati socialisti.
La fine della Guerra Fredda e l’affermazione globale dell’unipolarismo statunitense ha reso principale la contraddizione tra multipolarismo e unipolarismo, ossia tra la tendenza storica oggettiva alla costruzione di relazioni internazionali democratiche, di una nuova globalizzazione differente da quella guidata dagli USA e di nuovi spazi di indipendenza nazionale e la ferrea opposizione a tutto ciò del regime imperialista statunitense, intenzionato a difendere la gerarchia internazionale che vede le cricche imperialiste di Washington all’apice e lo stesso sistema imperialista, giunto alla sua fase terminale. Conseguentemente, tutte le forze che concretamente si oppongono all’egemonia statunitense sono da considerarsi amiche; tutte quelle che la appoggiano, sia pure indirettamente e senza cognizione, sono da considerarsi nemiche. Il presidente turco Erdoğan, quando rompe l’unità interna della NATO mantenendo aperto il dialogo economico e diplomatico con la Federazione Russa, è da sostenere, per quanto non prometta né affidabilità, né coerenza; i vari partitucoli “comunisti” occidentali che berciano su presunti “opposti imperialismi” sono da riconoscere come nemici e da combattere, nonostante sventolino bandiere rosse e si agghindino con simbologia sinistreggiante.
La contraddizione non è un’opposizione statica, ma luogo di trasformazione e movimento. La dialettica mostra come questi opposti “possano essere e diventare identici ‒ in quali condizioni sono identici, trasformandosi l’uno nell’altro ‒ perché la mente umana non dovrebbe considerare questi opposti come morti e rigidi, ma come viventi, condizionali, mobili, trasformantesi l’uno nell’altro”18. Una contraddizione è quindi un processo in cui un qualcosa, partendo da una condizione di inferiorità, si trasforma nel suo opposto, arrivando a dominarlo e a superarlo. Esempio lampante è la rivoluzione socialista, inizialmente assai più debole delle forze del sistema capitalista, ma progressivamente sempre più forte ed oggi arrivata in procinto di essere l’aspetto dominante della contraddizione. Questo processo di trasformazione prevede anche la possibilità per una contraddizione di passare dall’essere antagonistica al non esserlo, e viceversa. Per contraddizione antagonistica si intende quella i cui due aspetti sono opposti inconciliabili, mentre la contraddizione non antagonistica è quella in cui il cambiamento e lo sviluppo di uno dei due aspetti non necessità l’abbattimento dell’altro. In dati contesti una contraddizione antagonistica può trasformarsi in una non-antagonistica, potendo così essere risolta attraverso mezzi “pacifici”. Così per esempio Mao Zedong definisce la natura della contraddizione tra il proletariato cinese e la borghesia nazionale nel contesto della Nuova Cina: “Le contraddizioni tra la classe operaia e la borghesia nazionale sono contraddizioni tra sfruttati e sfruttatori e sono per se stesse contraddizioni antagonistiche. Tuttavia nelle condizioni concrete del nostro paese, se si trattano nel modo dovuto, le contraddizioni antagonistiche tra queste due classi si possono trasformare in contraddizioni non-antagonistiche, possono essere risolte in modo pacifico”19.
L’incapacità di gerarchizzare e valutare qualitativamente in maniera corretta le varie contraddizioni e di procedere dai fatti per trovare la verità porta a separarsi dalla realtà e a cadere in errori fondamentali. Oggigiorno, non riconoscere la contraddizione tra unipolarismo e multipolarismo come contraddizione principale porta direttamente a sostenere, per quanto in maniera magari inconsapevole, il regime egemonico di Washington. Chi respinge il carattere progressivo della lotta per il multipolarismo in genere lo fa partendo dall’assunto che ciò che sta accadendo oggi non sarebbe altro che una riproposizione della competizione inter-imperialistica degli inizi del secolo scorso: una concezione ciclica della Storia che poco ha a che fare con il materialismo dialettico, e che testimonia:
- la mancata comprensione della questione nazionale;
- la mancata comprensione dei rapporti tra economia di mercato e costruzione socialista;
- la promiscuità ideologica col liberalismo e gravi distorsioni nella visione del mondo;
- la mancata comprensione della natura politica ed economica degli attuali attori internazionali e la direzionalità storica della loro azione.
Vale la pena analizzare le questioni qui sopra indicate per chiarire in maniera sufficientemente esauriente la natura dello sviluppo multipolare.
3. La questione nazionale
“Gli operai non hanno patria”: queste parole del Manifesto del Partito Comunista scritte da Marx ed Engels spesso vengono citate con superficialità per dimostrare un preteso carattere “antipatriottico” del pensiero marxista e la sua incompatibilità con qualsiasi forma di orgoglio nazionale. Tali ricostruzioni non solo sono superficiali, ma dimostrano una profonda ignoranza dell’attività rivoluzionaria dei due fondatori del socialismo scientifico. Contestualizzare le parole del Manifesto nell’insieme del testo da cui sono tratte ne permette un’interpretazione scevra da deformazioni.
“Inoltre, si è rimproverato ai comunisti ch’essi vorrebbero abolire la patria, la nazionalità. Gli operai non hanno patria. Non si può togliere loro quello che non hanno. Poiché la prima cosa che il proletario deve fare è di conquistarsi il dominio politico, di elevarsi a classe nazionale, di costituire se stesso in nazione, è anch’esso ancora nazionale, seppure non certo nel senso della borghesia”: gli operai “non hanno patria” in quanto ogni paese era all’epoca controllato politicamente dalle classi possidenti, le quali privano il proletariato di ogni “cittadinanza”, impedendogli di godere pienamente dei frutti del proprio lavoro e della totalità delle attività sociali. Il proletariato “non ha patria” nella stessa misura in cui potevano non averla i perieci e gli iloti sotto il dominio spartano: non si tratta di negarne la Storia, la cultura, il carattere nazionale, ma di sottolinearne l’estraneità alla gestione del potere. “Non hanno patria” indica l’assenza di potere politico, non di nazionalità, come emerge chiaramente dalle frasi successive, con l’invito al proletariato a “elevarsi a classe nazionale” conquistando quel potere, uscendo da quello stato d’asservimento e alienazione in cui l’ordine borghese lo condannava. Il proletariato lottando per la conquista del potere scopre il proprio carattere nazionale, che ha un “senso diverso da quello borghese”, in quanto superamento dialettico di questo. Sublazione del nazionalismo borghese, l’internazionalismo proletario non implica un’impossibile e imbelle rinuncia alle caratterizzazioni nazionali, ma le porta in nuovo contesto, dandogli un nuovo valore. È infatti una tendenza già espressa dal capitalismo quella dell’accorciamento delle distanze tra i vari popoli, una tendenza che, continua il Manifesto, sarà sempre più acuta sotto al socialismo, poiché “[l]o sfruttamento di una nazione da parte di un’altra viene abolito nella stessa misura che viene abolito lo sfruttamento di un individuo da parte di un altro. Con l’antagonismo delle classi all’interno delle nazioni scompare la posizione di reciproca ostilità fra le nazioni”20. Lo strettissimo legame tra questione nazionale e questione sociale emerge già da queste righe dei fondatori del socialismo scientifico,che permettono di elaborare un indispensabile metro di giudizio: privato della dimensione dell’emancipazione sociale, qualsiasi programma nazionale non può che restare parziale, un artifizio retorico del quale si può servire la borghesia; similmente, priva della sua dimensione nazionale, qualsiasi prospettiva di rinnovamente sociale non può che restare al livello di astratto chiacchiericcio, impossibile da trasformare in realtà concreta e anzi utilizzabile come copertura per condotte reazionarie. La liberazione delle nazioni oppresse viene posta come uno degli indirizzi fondamentali del moto di rinnovamento sociale che compone la missione storica del proletariato. Le stesse lotte d’emancipazione nazionale non devono essere concepite come un qualcosa di estraneo, o solo parzialmente connesso, alle lotte di classe, ma sono in realtà una forma di manifestazione di queste21. Ciò dipende proprio dallo sviluppo del capitalismo, le cui forze sono costrette non solo al sempre più metodico e razionale sfruttamento della forza lavoro nazionale, ma anche all’imposizione del proprio dominio ai danni di popoli vicini e lontani. Con le stesse parole di Marx, andando a generalizzare i ragionamenti formulati per la realtà americana verso tutti i territori occupati dalle potenze colonialiste, potremmo dire che “i popoli moderni non hanno saputo fare altro che mascherare la schiavitù nel loro proprio paese e l’hanno imposta senza maschera nel Nuovo mondo”22.
Le lotte di classe all’interno di un paese possono essere viste come lotte tra due visioni opposte di questo, tra due opposti patriottismi. Uno è quello delle classi dominanti, che è rappresenta prima di tutto il proprio diritto indisturbato a sfruttare la nazione e gli eventuali possessi coloniali, l’altro è quello del proletariato che “non è semplicemente amore per la terra natia, per le sue bellezze e ricchezze naturali; il patriottismo dei lavoratori include l’idea e l’aspirazione che le bellezze e le ricchezze naturali cessino di essere una fonte di arricchimento e di piacere per un pugno di capitalisti e di grandi proprietari terrieri, e diventino una fonte materiale di benessere e progresso per tutti i lavoratori del paese”23. Questa visione sarà ulteriormente elaborata da Lenin, il quale parlerà dell’esistenza di “due nazioni” all’interno di ogni nazione moderna, che, rapportate al contesto grande-russo, egli riassume come “la nazione degli Purishkeviches, dei Guchkovs e degli Struves” e quella “dei Chernyshevsky e dei Plekhanov”24, ossia da una parte la visione di una Grande Russia e di una cultura grande-russa fondata sugli interessi delle classi dominanti, l’altra su quelli del popolo lavoratore, sulla sua storia di lotte e dell’eredità di sviluppo progressivo che è chiamato a raccogliere e a portare avanti. È il sapere distinguere tra queste due “nazioni” e agire in maniera coordinata e unitaria con le classi lavoratrici degli altri paesi a distinguere il nazionalista borghese dall’internazionalista proletario, non già il rinnegare l’eredità storica nazionale.
Marx ed Engels dedicarono ampie attenzioni alla questione nazionale, sostenendo le lotte delle nazioni polacca e irlandese, la guerra dell’Unione contro il Sud schiavista negli Stati Uniti, oltre i processi di unificazione nazionale in Germania e Italia. La loro visione materialista dialettica li portava a ciò non in virtù di qualche principio astratto dogmaticamente applicato, ma dalla concreta analisi dello sviluppo storico, del ruolo della borghesia emergente nella creazione dei moderni Stati nazionali, della loro necessità per lo sviluppo capitalistico e quindi anche del proletariato, e del ruolo di quest’ultimo nella lotta per la piena realizzazione del programma democratico, tappa essenziale per uno sviluppo in senso socialista La conquista dell’indipendenza nazionale è requisito essenziale proprio per lo sviluppo concreto dell’internazionalismo, come riconosciuto da Engels nella prefazione del 1893 all’edizione italiana del Manifesto del Partito Comunista, in cui scrisse: “Senza l’autonomia e l’unità restituite a ciascuna nazione europea, né l’unione internazionale del proletariato, né la tranquilla e intelligente cooperazione di queste nazioni verso fini comuni potrebbero compiersi”.
La questione nazionale è però da comprendersi come influenzata e dipendente dalla contraddizione fondamentale del capitalismo, non come un qualcosa di indipendente. In questo senso essa viene posta da Marx ed Engels dal punto di vista generale della democrazia europea e dell’internazionalismo proletario25. L’emancipazione di ogni popolo sarebbe stata impossibile fino a che fossero esistite relazioni diseguali fra questi26, e quindi lo sviluppo e il successo del movimento proletario ne sarebbero stati inficiati. La creazione degli Stati nazionali è un passaggio fondamentale dello sviluppo della classe borghese, la quale presto però lavora per superare le barriere appena create. La tendenza “cosmopolitica” della borghesia prepara il terreno all’internazionalismo, creandone le condizioni di sviluppo, oltre dare vita, con l’aggressione coloniale e per mezzo dello sfruttamento imperialista, ai movimenti di liberazione nazionale. Dal punto di vista dei lavoratori le rivendicazioni nazionali sono parte delle rivendicazioni democratiche generali, che devono essere interpretate sotto la chiave di lettura dell’emancipazione storica della classe operaia27, e quindi dell’umanità: “Il proletariato non può emancipare solo se stesso; esso deve lottare per l’emancipazione di tutti i lavoratori, per l’emancipazione della nazione e dell’Umanità: solo così esso può emancipare se stesso completamente e definitivamente”28.
La nazionalità non può essere negata: in quanto sintesi di un percorso storico, una sua negazione non sarebbe unicamente la negazione del passato anche delle classi lavoratrici, ma soprattutto del loro futuro, della loro possibilità di essere altro rispetto alla massa amorfa da gestire a colpi di bastone e di carota a cui lo vorrebbe limitare la classe borghese. Il marxismo insegna che non esiste un “patriottismo” astratto, ma un patriottismo concretamente definito dal suo contenuto di classe, a seconda del quale può essere legato agli interessi delle classi dominanti o delle masse lavoratrici, può avere una funzione regressiva o progressiva, può essere una tendenza da combattere o una fondamentale risorsa per la lotta politica e lo sviluppo. Da ciò ne deriva anche che i “doveri patriottici”, primo tra tutti quello della “difesa della patria”, non possono esseri accettati, o respinti, in astratto, ma solo in relazione al loro contenuto concreto, ossia di classe: “Il marxismo deduce il riconoscimento della difesa della patria nelle guerre come, ad esempio, quella della grande rivoluzione francese e di Garibaldi in Europa, e la negazione della difesa della patria nella guerra imperialista del 1914-1916 dall’analisi dei particolari storici concreti di ogni singola guerra e in nessun modo da qualunque principio generale né da un qualunque punto del programma”29.
Riconoscere la legittimità della parola d’ordine della “difesa della patria” significa riconoscere la legittimità di una guerra, significa giustificarla e prendere parte attiva in essa per la vittoria del proprio paese, inteso come delle istituzioni che in quel momento lo governano. Non si può quindi ammettere da un punto di vista marxista né la negazione della “difesa della patria” in sé e per sé, né tantomeno una sua accettazione decontestualizzata sulla base del principio “right or wrong, my country”. Il supporto a una guerra deve dipendere necessariamente dalla sua connotazione politica: non si può spacciare come dovere patriottico la partecipazione a una guerra imperialista, a priori dai risvolti bellici. Per questo motivo, saltando ai giorni nostri, nessun comunista ucraino dovrebbe sentire come “dovere patriottico” la partecipazione agli sforzi bellici del regime di Kiev, braccio armato della NATO, ma al contrario dovrebbe impegnarsi per sabotare questi sforzi e per favorire la più rapida vittoria dell’esercito russo e delle forze di resistenza ucraine.
Attorno alla questione della “difesa della patria” vi è una perfetta continuità tra Lenin e i fondatori del socialismo scientifico, i quali non esitavano a parlare di “guerra nazionale” e a riconoscerne la legittimità: “Marx ed Engels affermano nel Manifesto comunista che i lavoratori non hanno patria. Ma lo stesso Marx più di una volta invocò la guerra nazionale: Marx nel 1848, Engels nel 1859 (la fine del suo opuscolo Po’ e Reno, dove il sentimento nazionale dei tedeschi è direttamente in fiamme, dove essi sono direttamente chiamati a combattere una guerra nazionale). Engels nel 1891, di fronte alla guerra allora minacciosa avanzata della Francia (Boulanger) + Alessandro III contro la Germania, riconobbe direttamente la “difesa della patria”. Marx ed Engels erano dei confusi che dicevano una cosa oggi e un’altra domani? No. A mio avviso, l’ammissione della “difesa della patria” in una guerra nazionale risponde pienamente alle esigenze del marxismo. Nel 1891 i socialdemocratici tedeschi avrebbero dovuto realmente difendere la loro patria nella guerra contro Boulanger + Alessandro III. Questa sarebbe stata una varietà peculiare di guerra nazionale”30.
D’altronde, lo stesso rivoluzionario russo affermerà, in piena Prima Guerra Mondiale, la presenza tra le masse del proletariato politicamente cosciente del suo paese di un forte orgoglio nazionale, di un amore per il proprio paese e per la sua cultura: “È il senso d’orgoglio nazionale alieno per noi, proletari coscienti della Grande Russia? Certamente no! Noi amiamo la nostra lingua e il nostro paese, è noi stiamo facendo del nostro meglio per far innalzare le sue masse che duramente lavorano (ovvero i nove decimi della sua popolazione) ad un livello di coscienza democratica e socialista. A noi è assai più penoso vedere e percepire le violenze, l’oppressione e le umiliazioni che il nostro amato paese soffre per mano dei macellai dello zar, i nobili ed i capitalisti. […] “Nessuna nazione può essere libera se opprime altre nazioni”, dicevano Marx ed Engels, i più grandi rappresentanti della coerente democrazia del diciannovesimo secolo, che divennero i maestri del proletariato rivoluzionario. E, pieni di un senso d’orgoglio nazionale, noi, operai Grande-Russi, vogliamo, qualunque cosa accada, una libera ed indipendente, democratica, repubblicana e orgogliosa Grande-Russia, una che basi i suoi rapporti con i suoi vicini sul principio umano di uguaglianza, e non sul principio feudale del privilegio, così degradante per una grande nazione. Proprio perché noi vogliamo ciò, noi diciamo: è impossibile, nel ventesimo secolo ed in Europa (persino nell’estremo est d’Europa), “difendere la madrepatria” in altro modo che non sia l’utilizzo di ogni mezzo rivoluzionario per combattere la monarchia, i proprietari terrieri ed i capitalisti della propria madrepatria, cioè, i peggiori nemici del proprio paese. Noi diciamo che i Grandi-Russi non possono “difendere la madrepatria” in altro modo che desiderando la sconfitta dello zarismo in qualsiasi guerra, questo essendo il male minore per i nove decimi degli abitanti della Grande-Russia. Perché lo zarismo non solo opprime economicamente e politicamente i nove decimi, ma in più demoralizza, degrada, disonora e prostituisce essi insegnando loro ad opprimere altre nazioni e a coprire questa vergogna con frasi ipocrite e simil-patriottiche”31.
L’ingresso nella fase imperialista del capitalismo ampliò l’importanza della questione nazionale e coloniale, poiché l’imperialismo, ripartendo i popoli della Terra sotto la dominazione di un pugno di potenze, pose le basi per intensi scontri attorno alla questione dell’indipendenza, dando vita a profonde contraddizioni tra il crescente desiderio per un’esistenza nazionale autonoma dei popoli colonizzati e la necessità delle forze imperialiste di tenerli sotto il proprio gioco. Gran parte della Seconda Internazionale non si rese però conto dell’importanza delle contraddizioni portate dall’imperialismo, derubricando la questione coloniale e nazionale a un ruolo secondario, quando non sacrificandola direttamente in nome di processi coloniali visti come “civilizzatori”, e quindi “progressivi”, sulla base di interpretazioni parziali e meccanicistiche del pensiero marxista. Partendo dalla realtà per la sua riflessione e scartando ogni facile lettura dogmatica, Vladimir Lenin superò questi errori, collegando la questione della liberazione delle colonie e delle semi-colonie alla più generale questione nazionale, e alla lotta generale contro l’imperialismo. Ciò che aveva costituito il “peccato mortale”32 della II Internazionale, ossia il social-imperialismo, veniva corretto dai bolscevichi unendo in una sola battaglia i popoli d’Oriente e d’Occidente. La rivoluzione socialista non veniva più vista unicamente come la contrapposizione meccanica di due classi astrattamente intese, né come qualcosa di limitato ai proletari delle metropoli occidentali, ma come “la lotta di tutte le colonie e di tutti i paesi oppressi dall’imperialismo, di tutti i paesi dipendenti contro l’imperialismo internazionale”, vista come aspetto della della “guerra civile dei lavoratori contro gli imperialisti e gli sfruttatori”33. L’Oriente, e tutti i paesi coloniali, prima relegati ai margini della Storia anche da parti consistenti del movimento socialista, veniva finalmente parificato rispetto al progredito Occidente. Affermando l’appartenenza delle lotte anti-coloniali alla lotta contro l’imperialismo, e dunque contro il capitalismo, Lenin conquistava alla causa rivoluzionaria gran parte dell’Umanità. Se l’imperialismo aveva asservito i popoli della terra a un pugno di grandi magnati della finanza, Lenin, sviluppando un socialismo adatto alla sua epoca, aveva posto le basi teoriche per una comune lotta contro di essi, capace di unire miliardi di esseri umani nel riconoscimento dell’identità dei propri interessi e di una particolare missione storica.
La sempre più profonda saldatura tra il movimento comunista internazionale e la lotta antimperialista dei popoli oppressi diede un intenso sviluppo alla riflessione sulla questione nazionale e sul patriottismo all’interno del mondo comunista, e anche in relazione al diffondersi del fascismo, che proprio sul recupero retorico dei temi patriottici e nazionali costruiva i propri progetti imperiali ed egemonici. Come sottolineato dal dirigente comunista bulgaro Georgi Dimitrov in occasione del VII Congresso dell’Internazionale Comunista, l’avvento al potere di partiti e formazioni fasciste era stato reso possibile anche da errori dei locali partiti comunisti, che non erano efficacemente riusciti ad opporsi ai fascisti, permettendo a questi di egemonizzare i temi patriottici e nazionali, facendo riferimento in particolare alla Germania: “I nostri compagni in Germania, per molto tempo non tennero nella dovuta considerazione il sentimento nazionale offeso e l’indignazione delle masse contro Versailles”34. Il riferimento è ai tentativi del KPD sotto la dirigenza di Ernst Thälmann di riportare il partito su una linea leninista rifiutando il compromesso con le forze socialdemocratiche, accusate di essere “socialfasciste” e di “tradire il paese” , e attaccando il crescente partito nazista mettendo in risalto le sue ipocrisie e la sua vuota demagogia sul terreno della questione nazionale. Sotto Thälmann il partito si oppose al Piano Young e al Trattato di Versailles, al pagamento delle riparazioni di guerra e del debito internazionale, mentre aprì alla volontaria unione di tutte le popolazioni di lingua tedesca in un solo Stato, nella consapevolezza che “[s]olo il martello della dittatura del proletariato può spezzare le catene del Piano Young e dell’oppressione nazionale”, e che “[s]olo la rivoluzione sociale della classe operaia può risolvere la questione nazionale della Germania”35. Prese di posizioni corrette e coraggiose, purtroppo in ritardo rispetto agli eventi e non condivise da quella parte di partito ideologicamente deviata. Per questo motivo Dimitrov insistette particolarmente sull’identità tra i comunisti e i veri patrioti del proprio paese: “Beninteso, è necessario denunciare ovunque e in ogni occasione davanti alle masse e dimostrare loro concretamente che la borghesia fascista, con il pretesto di difendere gli interessi nazionali generali, conduce la sua politica egoistica di oppressione e di sfruttamento del proprio popolo e di saccheggio e asservimento di altri popoli. Ma non dobbiamo limitarci a questo. È in pari tempo necessario dimostrare, con la lotta stessa della classe operaia e con l’azione dei partiti comunisti, che il proletariato, insorgendo contro ogni forma di asservimento e di oppressione nazionale, è l’unico vero combattente per la libertà nazionale e l’indipendenza del popolo. Gli interessi della lotta di classe del proletariato contro i suoi sfruttatori e oppressori del proprio paese non ostacolano affatto il libero e felice avvenire della nazione. Al contrario, la rivoluzione socialista significherà la salvezza della nazione e le aprirà la strada verso altezze più elevate. Per il fatto stesso che la classe operaia, nel momento presente, crea le sue organizzazioni di classe e rafforza le sue posizioni, per il fatto che difende contro il fascismo i diritti democratici e la libertà, che essa lotta per l’abbattimento del capitalismo, essa, per questo stesso fatto, lotta già per un tale avvenire della nazione. Il proletariato rivoluzionario lotta per salvare la cultura del popolo, per liberarlo dalle catene del decadente capitalismo monopolistico, dal barbaro fascismo che la violenta. Solo la rivoluzione proletaria può evitare la distruzione della cultura e portarla al suo massimo splendore come cultura veramente nazionale – nazionale nella forma e socialista nel contenuto – che si realizza sotto i nostri occhi nell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, sotto la direzione di Stalin36”.
Pensando al caso italiano, anche per quanto riguarda il nostro paese abbiamo la dimostrazione materiale di come la sottovalutazione e l’incomprensione della questione nazionale condanni inevitabilmente alla sconfitta. Una certa miopia politica camuffata per “ortodossia” spinse gran parte della prima dirigenza del Partito Comunista d’Italia a rimanere estranea al movimento dell’occupazione delle terre da parte dei reduci, alla lotta antifascista di formazioni quali gli Arditi del Popolo e a mantenere al minimo i contatti con De Ambris e D’Annunzio, che da Fiume lasciavano intravedere la possibilità di costruire una seria opposizione al fascismo proprio facendo leva sulla protesta contro la pace di Versailles, oltre che farsi aperti portatori di una “Lega dei popoli oppressi” che avrebbe unito, dall’Irlanda ai paesi arabi, colonie e semi-colonie contro le potenze imperialiste, con sguardo rivolto alla Russia sovietica. L’internazionalismo astratto si mostrò per quello che era, vigliaccheria e capitolazionismo, spalancando le porte al fascismo incombente. La mancanza di volontà di pensarsi come parte del processo storico nazionale è stata una causa importante dell’incapacità da parte di comunisti e socialisti dell’inizio del XX Secolo di proporsi concretamente come classe dirigente del paese: non puoi dirigere ciò che non conosci e non valorizzi. Non è un caso che proprio chi più coerentemente pose all’ordine del giorno l’evoluzione concreta del proletariato in classe dirigente, si pensi alla stagione dell’occupazione delle fabbriche e ai consigli di fabbrica, ossia Antonio Gramsci, non avesse il minimo dubbio nel collocare l’internazionalismo come prodotto di un’affermata tradizione nazionale, come ripresa e superamento delle conquiste della plurimillenaria civiltà italiana, cristiana e latina, e la classe lavoratrice come erede e continuatrice di questa: “Il moto nazionale che condusse all’unificazione dello Stato italiano deve necessariamente sboccare nel nazionalismo e nell’imperialismo nazionalistico e militare? Questo sbocco è anacronistico e antistorico; esso è realmente contro tutte le tradizioni italiane, romane prima, cattoliche poi. Le tradizioni sono cosmopolitiche. […] L’elemento «uomo», nel presente italiano, o è uomo-capitale o è uomo-lavoro. L’espansione italiana è dell’uomo-lavoro, non dell’uomo-capitale e l’intellettuale che rappresenta l’uomo-lavoro non è quello tradizionale, gonfio di retorica e di ricordi meccanici del passato. Il cosmopolitismo italiano non può non diventare internazionalismo. Non il cittadino del mondo, in quanto civis romanus o cattolico, ma in quanto lavoratore e produttore di civiltà. Perciò si può sostenere che la tradizione italiana dialetticamente si continua nel popolo lavoratore e nei suoi intellettuali, non nel cittadino tradizionale e nell’intellettuale tradizionale. […] La missione di civiltà del popolo italiano è nella ripresa del cosmopolitismo romano e medioevale, ma nella sua forma più moderna e avanzata”37. Un’interpretazione della “missione storica” del popolo italiano che si può dire derivata da quella mazziniana: “E quando lo saranno – quando avrete assicurato a voi tutti il pane del corpo e quello dell’anima – quando liberi, uniti, intrecciate le destre come fratelli intorno a una madre amata, moverete in bella e santa armonia allo sviluppo delle vostre facoltà e della missione Italiana – ricordatevi che quella missione è l’unità morale d’Europa: ricordatevi gl’immensi doveri ch’essa v’impone. L’Italia è la sola terra che abbia due volte gettato la grande parola unificatrice alle nazioni disgiunte. La vita d’Italia fu vita di tutti. Due volte Roma fu la Metropoli, il Tempio del mondo Europeo: la prima, quando le nostre aquile percorsero conquistatrici da un punto all’altro le terre cognite e le prepararono all’Unità colle istituzioni civili; la seconda, quando, domati dalla potenza della natura, dalle grandi memorie e dall’ispirazione religiosa, i conquistatori settentrionali, il genio d’Italia s’incarnò nel Papato e adempì da Roma la solenne missione, cessata da quattro secoli, di diffondere la parola Unità nell’anima ai 55 popoli del mondo Cristiano. Albeggia oggi per la nostra Italia una terza missione: di tanto più vasta quanto più grande e potente dei Cesari e dei Papi sarà il POPOLO ITALIANO, la Patria Una e Libera che voi dovete fondare. Il presentimento di questa missione agita l’Europa e tiene incatenati all’Italia l’occhio ed il pensiero delle Nazioni”38.
Il tentativo dell’Asse di costruire una propria egemonia planetaria fondata sull’instaurazione di un regime coloniale (se non schiavile) nell’Unione Sovietica e in Cina riaprì la questione nazionale anche nell’Occidente travolto dalle armate hitleriane, ponendo all’ordine del giorno la necessità concreta di lottare per l’indipendenza nazionale in un contesto in cui questa era fondamentalmente minacciata. La vittoria di Hitler non avrebbe significato infatti unicamente un mutamento nei rapporti di forza tra i paesi imperialisti, ma una violenta e totale dominazione dei popoli di tutto il continente. La sconfitta dell’Asse ad opera dell’Unione Sovietica, delle nazioni alleate, , degli eserciti cinesi e delle forze patriottiche di resistenza impedì la realizzazione di un tale scenario, ma l’ascesa degli Stati Uniti a potenza egemone del sistema capitalista e i loro progetti di estendere tale egemonia a livello planetario non poterono che riaffermare la necessità di per i comunisti di continuare a porre all’ordine del giorno la lotta per la liberazione nazionale, non solo nei paesi coloniali e semi-coloniali, ma anche nella stessa Europa capitalista, come espressamente raccomandato da Stalin: “Prima la borghesia era considerata la guida della nazione: essa difendeva i diritti e l’indipendenza della nazione e li poneva “al di sopra di tutto”. Ora non vi è più traccia del “principio nazionale”, oggi la borghesia vende i diritti e l’indipendenza della nazione per dei dollari. La bandiera dell’indipendenza nazionale e della sovranità nazionale è stata gettata a mare: non vi è dubbio che questa bandiera toccherà a voi di risollevarla e portarla in avanti, a voi rappresentanti dei partiti comunisti e democratici, se volete essere i patrioti del vostro paese, se volete essere la forza dirigente della nazione. Non vi è nessun altro che la possa levare in alto”39.
La questione dell’indipendenza nazionale si venne a porre con grande importanza anche in Italia, trovatasi suo malgrado nel campo atlantico. La grande borghesia italiana, seppur mossa per un certo periodo dall’ambizione di trasformare l’Italia in una potenza imperialista, non riuscì mai ad emanciparsi completamente né dalla necessità di sussidi pubblici, né dall’influenza determinante del capitale straniero, che fosse francese, inglese o tedesco, tanto che nel 1919, dalle colonne de L’Avanti!, Gramsci potè affermare: “L’Italia è diventata un mercato di sfruttamento coloniale, una sfera di influenza, un dominion, una terra di capitolazioni, tutto fuorché uno stato indipendente e sovrano. […] Quanto più la classe dirigente ha precipitato in basso la nazione italiana, tanto più aspro sacrificio deve sostenere il proletariato per ricreare alla nazione una personalità storica indipendente“40. Ma a seguito del biennio ‘48-’49 la situazione conobbe un cambiamento determinante, con la concreta riduzione dell’Italia a un protettorato, una semi-colonia dell’impero statunitense. Il Partito Comunista Italiano, memore delle lezioni del passato e attento all’esempio dato dall’Unione Sovietica, seppe per tutti gli Anni’ 30 e ‘40 porsi correttamente come guida della lotta per la liberazione nazionale, contribuendo a organizzare i volontari garibaldini in Spagna ed Etiopia, preparando così il terreno per la Guerra di Liberazione Nazionale del’43-’45. È proprio in questa occasione che i comunisti, a guida dei più grandi contingenti partigiani, seppero dare maggiore prova del loro patriottismo e del loro diritto a proporsi come unica forza politica capace di portare avanti lo sviluppo storico della nazione italiana dopo il conclamato fallimento del sistema liberal-capitalista, sfociato nella anti-nazionale dittatura fascista e nella catastrofe bellica. I comunisti italiani mostravano come ci fosse perfetta identità tra essere forza rivoluzionaria, progressiva, internazionalista e patriottica. Luigi Longo lo ribadì: “Si vogliono dare lezioni di patriottismo a noi comunisti; ma nessuno può dare lezioni di patriottismo a noi; perché, noi comunisti, siamo i soli che abbiamo sempre difeso gli interessi vitali del nostro popolo e della nostra Patria. Non ci possono certo dar lezioni di patriottismo i fascisti e i monarchici che hanno portato il nostro paese alla catastrofe. Sono essi che hanno ridotto l’Italia, da potenza libera e indipendente da che era, a paese occupato di cui si discutono le frontiere e la stessa unità. Non ci possono certo dare lezioni di patriottismo le classi dirigenti italiane, che hanno fatto, fino a ieri, il bello e il cattivo tempo, e che ci hanno dato il fascismo, la guerra e la catastrofe finale. Sono queste classi dirigenti che, ieri, per egoistici interessi di casta, hanno asservito l’Italia alla Germania nazista, e che, oggi, sono pronte a cercare un nuovo padrone che le garantisca contro le richieste di una maggiore giustizia sociale e contro la democrazia”41.
Ancora più profonda l’identificazione tra patriottismo e internazionalismo operata nei contesti coloniali e semi-coloniali, dove la lotta per il socialismo, dovendo in primis abbattere l’ostacolo dato dalla dominazione straniera, non conobbe mai degenerazioni “anti-patriottiche” e il manifestarsi del nichilismo nazionale. Il Partito Comunista Cinese è uno degli esempi più calzanti di questa identità, da vedersi non come una “somma” o un congiungimento, ma una manifestazione pratica della nuova realtà portata dalla rivoluzione socialista, come affermato da Mao Zedong: “Sin dagli albori della storia non è mai stato possibile fondare le relazioni tra le nazioni su una tale identità di interessi, su un tale rispetto e fiducia reciproci, su una tale assistenza e ispirazione reciproca quali sono in vigore tra i paesi socialisti. Questo perché i paesi socialisti sono paesi di un tipo completamente nuovo in cui le classi sfruttatrici vengono rovesciate e i lavoratori sono al potere. Nelle relazioni tra questi paesi è praticato il principio dell’integrazione tra patriottismo e internazionalismo”42. Questa visione risulta oggi completamente assente all’interno della “sinistra occidentale”, ma è più viva che mai negli Stati socialisti o in quelli dove le forze comuniste godono di una grande influenza sociale. Qui il patriottismo viene visto come un’insostituibile virtù dei cittadini e una necessità per ogni vero comunista, e non deve sorprendere che, davanti all’intensificarsi della lotta “tra due-ismi” a livello internazionale data dallo sviluppo del multipolarismo e dalla crisi dell’egemonismo statunitense, la Repubblica Popolare Cinese, sotto la direzione di Xi Jinping, abbia promosso nell’ottobre del 2023 la Legge per l’Educazione Patriottica, per rafforzare lo spirito patriottico tra i giovani e promuovere il ringiovanimento nazionale. Nelle parole dello stesso Xi Jinping, l’amore per la propria patria non è solo “il più profondo e duraturo sentimento al mondo”43, ma anche una “potente sorgente di forza per difendere la nostra dignità e l’indipendenza nazionale”44 su cui basarsi per la realizzazione del sogno cinese e per sviluppare sempre più il sistema socialista con caratteristiche cinesi.
L’attuale processo di multipolarizzazione altro non è che una guerra di liberazione internazionale che si compone anche delle singole lotte di liberazione dei vari paesi contro l’egemonismo di Washington, ossia la dittatura terroristica internazionale dei cartelli finanziari che controllano il regime nordamericano. L’unipolarismo statunitense ha portato a un’elisione senza precedenti della sovranità e dell’indipendenza delle nazioni, asservendo in una gerarchizzazione totale e ineludibile tutti i popoli della Terra, portando così l’imperialismo nella sua fase apicale. L’abbattimento dell’ordine internazionale unipolare è condizione essenziale per poter garantire un libero sviluppo politico e sociale dei vari popoli. Finché l’impero di Washington avrà potere e influenza, finché il Dollaro, la sua forza militare e il suo “soft power” continueranno a godere della forza che hanno oggi, nessun paese al mondo potrà dirsi totalmente indipendente e sicuro nella sua condizione. La sovranità illimitata che Washington si attribuisce deriva precisamente dall’azzeramento della sovranità degli altri paesi, che possono sopravvivere solo nei temi, modi e termini decisi dal centro egemonico. L’opposizione a questo ordine di cose è presentata alle varie opinioni pubbliche come qualcosa di intrinsecamente “pericoloso”, “destabilizzante” o “irrazionale”. Solo “autocrati” affamati di potere e “fondamentalisti” di varia risma potrebbero concepire un’esistenza diversa rispetto a quella passata sotto al tallone di Washington. Tale propaganda può funzionare in primo luogo perché nei paesi occidentali e in quelli più controllati dal regime unipolare è stato sapientemente spinto il nichilismo storico come rimedio a qualsiasi pulsione alla dignità e al coraggio. Il nichilismo storico è la tendenza a considerare in maniera astratta e decontestualizzata o a ripudiare interi periodi della Storia di una nazione o di una civiltà. Esso trova un ambiente favorevole sia nell’aperto liberalismo, sia nei vari gruppi che, da destra e “sinistra”, millantano posizioni “antisistema”. Si tratta di una potente arma dell’egemonia, strumentale nel distruggere la consapevolezza storica e sociale del popolo, portandolo ad abbandonare la fiducia in se stesso e nelle sue potenzialità. La lotta contro il nichilismo storico riflette la lotta di classe in un particolare settore ideologico. Il Presidente Xi Jinping e tutto il Partito Comunista Cinese sono non a caso da anni impegnati in una serrata lotta contro il nichilismo storico, correttamente individuato come uno degli strumenti che favorirono il crollo dell’Unione Sovietica, portando prima alla denuncia di Stalin, quindi di Lenin, della stessa rivoluzione e della dittatura del proletariato. Ma il nichilismo storico può essere utilizzato come arma non solo per abbattere il potere comunista e fomentare la sovversione ideologica nel contesto di una società socialista: esso agisce anche nei paesi sottoposti alla dominazione imperialista per delegittimare e denigrare la Storia di questi, presentandola sotto la sua luce peggiore e negando i suoi successi. Concretamente, il nichilismo storico trova applicazione anche nella negazione di tutte le conquiste storiche di un popolo, alimentando la narrazione che lo vorrebbe eternamente condannato a un ruolo subalterno perché “incapace di gestirsi”, “non abbastanza disciplinato” o in altro modo internamente viziato da qualche mancanza impossibilitante. Ciò porta a vedere il dominio di Washington come “condizione naturale” preferibile alla barbarie generata da “popoli bambini” lasciati a se stessi. La lotta contro il nichilismo storico, promosso da destra e da “sinistra”, è quindi un parte importante della lotta antimperialista.
Il mondo multipolare che sta venendo costruito rappresenterà la negazione dell’egemonismo. Ciò non sta a significare l’avvento di un’era di “protezionismo radicale” con ogni paese, o gruppo di paesi, chiuso e ripiegato su se stesso, ma la formazione di un nuovo ordine internazionale segnato da una dialettica tra indipendenza e interdipendenza, rappresentato dal concetto proposto dal presidente Xi Jinping di Comunità umana dal futuro condiviso, fondato sull’uguaglianza della sovranità dei vari paesi, il rispetto reciproco e la cooperazione mutualmente vantaggiosa, oltre che la coesistenza armoniosa di diverse civiltà e culture. Lo sviluppo capitalistico ha fatto segnare la questione nazionale da due tendenze: da un lato quella alla lotta per l’indipendenza nazionale e alla costruzione di Stati nazionali; dall’altro quella al venir meno delle barriere tra gli Stati e la creazione di una vita economica internazionale, ossia della globalizzazione. Queste due tendenze, all’indipendenza e all’interdipendenza, rappresentano per l’imperialismo due opposti inconciliabili, ma non è così per il socialismo: “Per l’imperialismo queste due tendenze rappresentano contraddizioni inconciliabili; perché l’imperialismo non può esistere senza sfruttare le colonie e trattenerle con la forza nel quadro dell’“insieme integrale”; perché l’imperialismo può unire le nazioni solo attraverso le annessioni e le conquiste coloniali, senza le quali l’imperialismo è, in generale, inconcepibile. Per il comunismo, al contrario, queste tendenze non sono che due facce di un’unica causa: la causa dell’emancipazione dei popoli oppressi dal giogo dell’imperialismo; perché il comunismo sa che l’unione dei popoli in un unico sistema economico mondiale è possibile solo sulla base della fiducia reciproca e dell’accordo volontario, e che la strada per la formazione di un’unione volontaria dei popoli passa attraverso la separazione delle colonie dall’insieme imperialista integrale attraverso la trasformazione delle colonie in Stati indipendenti”45.
Nella costruzione di un mondo multipolare non possiamo che vedere l’ultimo sostanziale passo verso l’emancipazione dei popoli dal sistema imperialista, che, venendo meno, aprirà le porte a un’epoca segnata dalla piena vittoria della rivoluzione socialista.
4. Socialismo e mercato
L’abbattimento dell’egemonismo statunitense, assetto definitivo del sistema imperialista, sarebbe impossibile senza due fattori determinanti:
- una “nuova globalizzazione” opposta a quella basata sul Washington Consensus;
- lo straordinario sviluppo economico, scientifico e produttivo della Repubblica Popolare Cinese.
Entrambi questi fattori chiamano in causa la riflessione sul rapporto tra socialismo ed economia di mercato. Nel Manifesto del Partito Comunista, Karl Marx e Friedrich Engels affermano che il proletariato, una volta conquistato il potere politico, dovrà adoperarlo per “strappare a poco a poco alla borghesia tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, cioè del proletariato organizzato come classe dominante, e per moltiplicare al più presto possibile la massa delle forze produttive”46. Il carattere progressivo di tale accentramento è ulteriormente specificato nelle righe successive, in cui si individuano come sommarie norme generali l’esproprio della proprietà fondiaria, ossia la cancellazione di quel rimasuglio feudale che è la proprietà sconnessa da un utilizzo produttivo, l’introduzione di un’imposta fortemente progressiva e l’accentramento del trasporto e del credito nelle mani dello Stato, oltre che l’aumento di numero delle “fabbriche nazionali”, ossia l’ingrandimento dell’economia pubblica. Per quanto queste indicazioni non possano ritenersi né esauriente né assolute, appare chiaro come già nel 1848 per i fondatori del socialismo scientifico la rivoluzione non socialista non avrebbe portato all’immediata e generale abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione. Questo perché, al contrario dei socialisti utopisti e di certi radicali piccolo-borghesi, essi correttamente comprendevano il capitalismo e i suoi rapporti di produzione come storicamente determinati, e non come una sorta di “difetto morale” da correggere per raggiungere l società perfetta.
Il capitalismo è stato immensamente rivoluzionario e ha grandemente contribuito al progresso umano. Similmente, la sua parentesi storica è stata caratterizzata da terrificanti brutalità ed abusi, da violenze di portata a volte sconosciuta nei secoli precedenti. Questi due aspetti convivono dialetticamente. Le contraddizioni interne al sistema capitalista, acuendosi nel tempo, portano allo sviluppo della rivoluzione socialista. Questa permette il superamento dello stallo in cui il sistema capitalista è incappato a causa della sua evoluzione in senso speculativo e parassitario. Ma come avviene questo superamento? Come si presenta materialmente questa trasformazione? Il materialismo dialettico ci insegna che le trasformazioni avvengono attraverso accumuli quantitativi e salti qualitativi. Ci insegna anche che nessun processo è “puro”, che ogni salto qualitativo non significa fare tabula rasa, e che è sulla base dell’esistente per come è, non per come si vorrebbe fosse, che viene costruito il futuro. Ciò riflette la reale evoluzione storica, che testimonia come in una data società non vi sia mai un unico modo di produzione, ma diversi, tra cui uno dominante. I modi di produzione più arretrati progressivamente spariscono, quelli più avanzati percorrono il cammino inverso, imponendosi come dominati. Il capitalismo non ha potuto imporsi sul sistema feudale che dopo secoli di lotta e sviluppo, dovendo peraltro convivere fino ai nostri giorni con certi suoi lasciti materiali. Allo stesso modo il modo di produzione feudale non ha soppiantato da un giorno all’altra quello schiavile, ma si è progressivamente imposto come modo dominante in un processo storico millenario. La statalizzazione del credito, dei trasporti e della produzione e delle opere strategiche47 sono gli strumenti principali che la classe lavoratrice, espropriate politicamente le precedenti classi dominanti, dovrà utilizzare per portare avanti uno sviluppo più rapido possibile delle forze produttive e una coerente trasformazione dei rapporti di produzione. Il mercato, sotto regime socialista, sarà qualitativamente differente rispetto al mercato capitalistico, in quanto le condizioni in cui si trova ad esistere saranno radicalmente mutate. Marx, nel terzo libro del Capitale, evidenzia come il mutamento del contesto cambi profondamente la natura di una stessa cosa, facendo l’esempio della differenza tra il capitale produttivo d’interessi e il capitale usuraio: “Ciò che distingue il capitale produttivo d’interesse, in quanto elemento essenziale del modo di produzione capitalistico, dal capitale usurario, non è affatto la natura o il carattere di questo capitale stesso. Sono soltanto le mutate condizioni nelle quali esso opera e quindi anche la figura completamente mutata di chi prende a prestito nei confronti di chi dà il denaro a prestito”48. Solo una piena maturazione del sistema socialista, data da uno straordinario sviluppo delle forze produttive, è capace di eliminare la necessità materiale dell’esistenza del mercato. Il raggiungimento della proprietà comune dei mezzi di produzione crea una società cooperativa in cui “i produttori non scambiano i propri prodotti”49, in cui “viene abolita la produzione delle merci e contemporaneamente il dominio del prodotto sul produttore” e” [l]’anarchia nella produzione sociale viene sostituita da un’organizzazione sistematica e definita”50. Ma questo stato di cose è il prodotto di uno sviluppo progressivo che ha come primo atto cosciente la conquista del potere politico da parte della classe lavoratrice.
Appare chiaro quindi che, almeno per i primi tempi, le fasi inferiori, della costruzione di una società socialista il mercato e l’economia privata coesistano in un contesto dominato dal modo di produzione socialista e dall’economia pubblica. La successiva esperienza storica ha confermato la correttezza questa prospettiva rispetto ai disegni millenaristici di chi predicava la subitanea abolizione del denaro, del mercato e di ogni forma di economia non-pubblica.
Fu la Rivoluzione d’Ottobre e la conseguente creazione di uno Stato socialista a zittire tramite la pratica le chiacchiere “massimaliste” di chi si aspettava la magica e immediata sparizione del mercato, della moneta e di ogni regime proprietario che non fosse quello collettivo. Dopo la parentesi del “comunismo di guerra”, riorientamento economico dettato dalle necessità belliche ma foriero di tensioni estreme con le campagne, Vladimir Lenin guidò l’affermazione della Nuova Politica Economica, la NEP, basata su una rinnovata libertà di commercio, sullo sfruttamento del personale tecnico e amministrativo borghese e del capitale tanto domestico quanto straniero, in poche parole di una notevole “restaurazione del capitalismo”51 resa necessaria dallo stato miserevole delle campagne, per colpa del quale qualsiasi politica d’espansione industriale centralizzata si trasformava in un velleitario miraggio. Una restaurazione del capitalismo, ma sotto il controllo dello Stato proletario, un capitalismo costruito attorno alla base dell’economia pubblica socialista, articolato in una molteplicità di forme proprietarie ibride, dalle concessioni alle cooperative, e sottoposto alla direzionalità politica del Partito Comunista Russo (Bolscevico).
Settori non indifferenti dell’estrema sinistra occidentale gridarono al tradimento, orientandosi contro i bolscevichi e verso la cosiddetta “opposizione di sinistra”, guidata da anarchici e Socialisti Rivoluzionari e concretamente alleata con le potenze imperialiste, la stessa area politica che organizzò l’attentato a Lenin del 30 agosto 1918. Ai loro occhi la permanenza del mercato, del denaro e dello Stato rappresentavano la prova tangibile del tradimento. Sfidando queste accuse “Lenin riesce a porre al centro dell’attenzione il problema dello sviluppo economico di un paese arretrato, che è uscito prostrato dalla guerra mondiale e da quella civile e che deve fronteggiare una situazione internazionale densa di pericoli”52. Tutti questi “anticapitalisti ortodossi” deficitavano della diretta esperienza nella gestione del potere statale e, conseguentemente, di una piena comprensione della realtà. La linea leninista era stata rafforzata dall’ascesa dei comunisti al vertice dello Stato, e la pratica della gestione del potere non poteva che silenziare con i suoi risultati concreti le chiacchiere idealiste di chi confondeva la prospettiva rivoluzionaria con un messianesimo pre-moderno. Lenin riconobbe la necessità di superare questa concezione affermando come “trasportati dall’ondata di entusiasmo”, i bolscevichi avevano contato “di organizzare, con ordini diretti dello Stato proletario, la produzione statale e la ripartizione statale dei prodotti su base comunista in un paese di piccoli contadini”. Riconoscendo l’ingenuità di tale visione, Vladimir Il′ič sentenziò: “La vita ci ha rivelato il nostro errore. Occorreva una serie di fasi transitorie: il capitalismo di Stato e il socialismo, per preparare ‒ con un lavoro di una lunga serie d’anni ‒ il passaggio al comunismo”53. Questo passaggio, da realizzarsi basandosi sullo stimolo dell’interesse personale e con l’appoggio dell’entusiasmo, sarebbe stata l’unica strada percorribile verso il comunismo.
Il capitalismo di Stato avrebbe rappresentato in sé un progresso delle condizioni economiche rispetto alla piccola produzione disorganica54. Quello sovietico sarebbe però stato un capitalismo di Stato di tipo “particolare”, in quanto il potere proletario avrebbe avuto un ruolo determinante: “Ricopriamo tutte le posizioni chiave. Teniamo la terra; appartiene allo Stato. Questo è molto importante, anche se i nostri avversari cercano di far credere che non abbia alcuna importanza. Questo non è vero. Il fatto che la terra appartenga allo Stato è estremamente importante ed ha anche un grande significato pratico dal punto di vista economico”55. L’apertura ai capitali occidentali, che si dimostrarono però meno interessati del previsto, avrebbe ottenuto “il rafforzamento della situazione del potere sovietico e il miglioramento delle condizioni [economiche]” dietro il pagamento di un “tributo al capitalismo mondiale”, al capitalismo “più colto, più progredito, quello dell’Europa occidentale”56 sotto forma di concessioni per lo sfruttamento temporaneo di miniere, foreste e pozzi petroliferi per averne in cambio attrezzature e macchinari moderni. Un capitalismo da cui era necessario imparare l’arte dell’amministrazione, della gestione economica, dell’esercizio del potere e dello sviluppo della tecnica per mettere ciò a beneficio dello Stato proletario e della causa socialista. I limiti di questa promiscuità con il capitalismo sarebbero stabiliti “dalla pratica, dall’esperienza”, in quanto “[n]on v’è nulla da temere per il potere proletario finché il proletariato tiene fermamente il potere nelle sue mani, tiene fermamente nelle sue mani i trasporti e la grande industria”57. Una visione totalmente opposta rispetto a quella di chi vede nel capitalismo un “male morale” da sradicare, una “colpa” dal quale serve tenersi lontani. Il capitalismo di Stato sotto potere proletario avrebbe rappresentato al contrario l’inizio del percorso socialista, con il recupero in una situazione mutata di quello che era stato il punto culminante dello sviluppo capitalistico: “Perché il socialismo è semplicemente il prossimo passo avanti rispetto al monopolio capitalista di stato. O, in altre parole, il socialismo è semplicemente il monopolio del capitalismo di Stato, creato per servire gli interessi di tutto il popolo e in questa misura ha cessato di essere monopolio capitalista”58.
Il successo di questo modello venne dimostrato dai fatti: la nascente Unione Sovietica poté resistere all’assedio internazionale e riportare la sua economia ai livelli pre-bellici attorno al 1925, garantendo un importante incremento delle condizioni di vita e della stabilità sociale nelle campagne. La successiva virata di Stalin verso la collettivizzazione e la riduzione degli spazi del mercato da un lato si rivelò essenziale al fine di quell’enorme sviluppo industriale che permise la vittoria nella Grande Guerra Patriottica, dall’altro pose le fondamenta per i difetti strutturali del sistema sovietico, che non poterono mai essere superati: un settore agricolo relativamente debole, uno sviluppo diseguale tra industria pesante e industria leggera, con conseguente carenza di prodotti di consumo, un’economia tendente al burocratismo e chiusa alle innovazioni straniere.
Dopo l’esperienza leninista, il più grande contributo alla riflessione sul rapporto tra socialismo e mercato fu dato da Deng Xiaoping, iniziatore della politica di Riforma e Apertura che portò in maniera straordinariamente rapida la Cina ai vertici dell’economia mondiale. Deng Xiaoping dovette opporsi a chi, da “sinistra”, confondeva il socialismo con l’esaltazione della povertà, rinnegando la stragrande maggioranza dell’attività politica di Mao Zedong. “La povertà non è socialismo. Per portare avanti il socialismo, un socialismo che sia superiore al capitalismo è imperativo prima di tutto eliminare la povertà”59: il sistema socialista avrebbe dovuto dimostrare sul campo, e non nei dibattiti retorici, la propria superiorità, pena lo scomparire. Lo sviluppo delle forze produttive, e non la redistribuzione della miseria, è il compito essenziale del socialismo, con la superiorità di questo sistema che si manifesta proprio attraverso “una crescita delle forze produttive più rapida e vasta che sotto il sistema capitalista”60. Solo uno sviluppo considerevole delle forze produttive poteva garantire il passaggio ad una società socialista avanzata, e da questa al comunismo. Ciò venne e tuttora è comunemente trascurato da numerosi “marxisti”, che si rifiutano di superare i limiti di “un’enfasi parziale a favore dei rapporti di produzione e dell’obiettivo finale del comunismo a detrimento dell’emancipazione delle forze produttive e dei mezzi pratici per raggiungere quegli obiettivi”61.
L’esperienza aveva dimostrato come il controllo totale e centralizzato degli apparati statali sulla produzione non rispondesse alle necessità del paese giunto a quel particolare livello di sviluppo, ossia la fase primaria del socialismo, segnata da una bassa produttività delle forze produttive e di un mercato debole e poco sviluppato. È a partire da questa situazione reale, e non da valutazioni immaginarie, che si sarebbe dovuto procedere per portare avanti il percorso di costruzione e rafforzamento del socialismo. Nel 1956, in occasione dell’VIII Congresso del Partito Comunista Cinese, l’allora vicepresidente del PCC Chen Yun propose per lo sviluppo dell’economia cinese un sistema fondato sul ruolo centrale del settore pubblico e uno ausiliario del privato62. Questa prospettiva, che rispondeva alle reali esigenze materiali e che si poneva in continuità col percorso di costruzione del socialismo cinese, venne abbandonata a favore di una svolta “a sinistra” che si rivelò largamente incapace di garantire un rapido sviluppo al paese, e che aprì le porte agli errori ideologici e pratici della Rivoluzione Culturale.
Solo a partire dal terzo plenum dell’XI Comitato Centrale la politica economica cinese tornò aderente alla realtà concreta del paese, grazie all’impegno per emancipare le menti e la corretta prassi della ricerca della verità tramite i fatti. L’interpretazione di “sinistra” del marxismo, forte anche degli errori sovietici, continuava a porre il sistema socialista e l’economia di mercato in una stretta antitesi. Il mercato era visto esclusivamente, ed erroneamente, come un connaturato al capitalismo, e incapace di servire altri scopi se non l’accumulazione di capitale per i possidenti. Deng Xiaoping, partendo dal marxismo-leninismo e dal pensiero di Mao Zedong, promosse una grande innovazione teorica sostenendo come, in realtà, “non sist[esse] una contraddizione fondamentale tra socialismo ed economia di mercato”63: “Dobbiamo capire teoricamente che la differenza tra capitalismo e socialismo non è un’economia di mercato in contrapposizione a un’economia pianificata. Il socialismo ha una regolamentazione tramite le forze di mercato, e il capitalismo ha un controllo attraverso la pianificazione64. […]. Non dovete pensare che se avremo una qualche economia di mercato prenderemo la strada del capitalismo. Semplicemente non è vero. Sono necessarie sia un’economia pianificata che un’economia di mercato. Se non avessimo un’economia di mercato, non avremmo accesso alle informazioni provenienti da altri paesi e dovremmo rassegnarci a restare indietro”65. Il mercato non è altro che uno strumento, al pari della pianificazione, un qualcosa che è nato anteriormente al capitalismo e che sopravviverà ad esso. In quanto “pianificazione e regolazione tramite il mercato sono entrambi mezzi per controllare l’attività economica”, “il mercato può servire anche il socialismo”66. La stessa evoluzione monopolistica del capitalismo può essere vista come una progressiva restrizione degli spazi d’azione delle forze del mercato, in cui centrale è l’associazione tra le autorità pubbliche e i vari trust o cartelli finanziari. Si deve quindi riconoscere la relazione tra mercato e capitalismo come non strettamente condizionata: il mercato può esistere anche al di fuori di una società dominata dal capitalismo, mentre il capitalismo non necessità di un mercato realmente libero o privo di condizionamenti, e non necessita nemmeno di un’estensione progressiva degli spazi d’azione di questo. Al contrario, i processi di concentrazione del capitale e di socializzazione del lavoro che hanno dato origine ai moderni colossi multinazionali dimostrano come lo stesso capitalismo applichi in maniera crescente forme di pianificazione economica. Le più grandi aziende dispongono al proprio interno di dipartimenti frutto di integrazioni orizzontali e verticali dei processi produttivi, che, se in passato erano a tutti gli effetti diverse entità economiche legate da rapporti di mercato, ora agiscono in maniera coordinata e pianificata, al di fuori del mercato. L’estensione della pianificazione economica è ancora più evidente se si pensa al capitale finanziario monopolistico. Già l’economista liberale Schumpeter rilevava, nel secondo dopoguerra, come le banche agissero come una sorta di versione privata del Gosplan, l’agenzia di pianificazione sovietica, indirizzando il credito sulla base di proprie previsioni e interessi, facendo materializzare la “mano invisibile” del mercato a seguito di ciò. Come da lui precedentemente affermato, “il capitalismo sta venendo ucciso dai suoi risultati”67: le crescenti concentrazione del capitale e socializzazione del lavoro stanno rendendo progressivamente obsolete le stesse strutture “classiche” del capitalismo nella sua fase di libero mercato, già ampiamente superata da più di un secolo. All’atto pratico, la lotta per la costruzione di un sistema socialista nel mondo moderno non è tra “economia di mercato” ed “economia pianificata”, ma tra gruppi contrapposti che si contendono il controllo delle leve apicali dell’economia e la pianificazione ad esse associata. L’anarchia del mercato del capitalismo si esprime in uno uso irrazionale, mutevole e privatistico di questa pianificazione economica, che risponde unicamente all’interesse di particolari settori del capitale monopolistico, contrapposto a quello dei settori concorrenti e a quello della stragrande maggioranza dell’umanità. La distribuzione tramite il mercato delle risorse avviene unicamente “a valle” rispetto alle “alture dominanti” dell’economia mondiale, e riflette gli indirizzi pianificati dal capitale finanziario monopolistico, o, nei paesi socialisti, dai partiti comunisti. Mai come oggi appare chiara l’abolizione della proprietà privata per la stragrande maggioranza delle persone prodotta dal sistema capitalista. Il passaggio al socialismo comporta una “negazione della negazione”, con il recupero della proprietà persa nel capitalismo tramite la sua trasformazione in senso collettivo e sociale. Il mercato e i suoi attori, così come concepiti astrattamente dall’economia borghese e anche da troppi marxisti amatoriali, semplicemente appartengono già al passato.
L’estrema sinistra occidentale ha ereditato ogni distorsione “massimalista” attorno alla questione del rapporto tra mercato e socialismo, confondendo quest’ultimo con miraggi basati sul mutualismo anarcoide più vicini a una comune hippie che a qualsiasi progettualità politica concreta. Non riuscendo a comprendere le reali aspirazioni delle masse per lo sviluppo economico e per condizioni di vita progressivamente migliori, l’estrema sinistra occidentale non può che ignorare gli enormi risultati ottenuti da Stati socialisti come la Cina, il Vietnam o il Laos attraverso una corretta comprensione del rapporto tra sistema socialista ed economia di mercato. La lotta alla povertà, lo sviluppo tecnico e produttivo, la creazione di una ricchezza condivisa sempre maggiore per centinaia di milioni di persone sono fatti “poco interessanti” per loro, fatti che anzi suonano come campanelli d’allarme per il preteso “tradimento” degli ideali. La verità è che, mentre gli attuali paesi socialista provano giornalmente davanti a tutto il mondo la superiorità del loro sistema, l’estrema sinistra occidentale non è riuscita a ottenere nessun risultato concreto, conquistandosi l’indifferenza, se non l’astio, della quasi totalità degli abitanti di questo emisfero, in particolare di chi vive del proprio lavoro e che, tramite questo, deve provvedere alla propria famiglia.
Le moltitudini giudicano “el fine et non el mezo”68, i risultati, e non i mezzi con cui questi vengono ottenuti. Tra la povertà mascherata da intransigenza ideologica e il benessere sceglieranno sempre la seconda. L’incapacità di sostenere la competizioni dei regimi liberal-capitalisti occidentali è stata tra le cause della caduta del blocco sovietico. Le riforme della Repubblica Popolare Cinese sono invece state ciò che ha garantito a questo Stato socialista non solo di sopravvivere, ma di conquistare le “alture dominanti” dell’economia mondiale, imponendosi come uno dei principali attori a livello internazionale e contribuendo al progresso generale e all’emancipazione dell’Umanità. La Cina retta dal Partito Comunista Cinese è riuscita a dare l’innegabile e tangibile prova della superiorità del sistema socialista, mentre i resti dell’ordinamento unipolare sono costretti a ricorrere a forme sempre più spietate di guerra ibrida nel disperato tentativo di contenerne l’ascesa. La costruzione di un’economia di mercato da affiancare, con un ruolo di complemento, a quella pubblica, ha permesso la creazione di un’efficiente sinergia tra i due settori. I limiti della pianificazione (rischio di soggettività delle scelte, lentezza nel riorientamento, difficoltà di coordinazione tra i vari settori) sono così temperati dagli effetti positivi del mercato; allo stesso modo i limiti della regolazione economica sulla base del mercato (impossibilità nel perseguire obiettivi a lungo termine, reticenza ad investire in settori a bassa profittabilità, tendenza allo sperperio di risorse) sono superati grazie all’intervento statale69. Questa struttura corrisponde alla fase primaria del socialismo, caratterizzata da “un sistema d’economia di mercato con un meccanismo di regolazione guidato dal piano”, che impone regolazioni economiche che sono “basate sulla regolazione tramite il mercato e dominate dalla regolazione statale”70. L’accademico marxista cinese Chen Enfu vede nello sviluppo dell’economia socialista di mercato non solo “una sublazione dell’economia capitalista di mercato, ma anche una negazione dei modelli dell’economia naturale [della Cina] e della tradizionale rigida economia del prodotto71”72. Questo percorso storico porterà allo sviluppo di una forma economia di transizione al comunismo che egli definisce “economia pianificata della merce-prodotto”73, propria di uno stadio intermedio del socialismo che vede uno sviluppo delle forze produttive tale da garantire sempre di più la possibilità di una distribuzione secondo le necessità.
Attualmente la Repubblica Popolare Cinese si trova nella fase primaria del socialismo, caratterizzata da un sistema economico avente la regolazione tramite il mercato come elemento di base e la regolazione statale come elemento dominante. L’aver governato in maniera efficace questa fase di sviluppo ha permesso alla dirigenza comunista cinese di porre come obiettivo per il centenario dalla fondazione della RPC l’avvenuta costruzione di un paese socialista moderno. La “svolta” guidata da Deng Xiaoping non fu una “restaurazione del capitalismo” nel senso comunemente inteso dai critici, ma un necessario adeguamento del paese alle reali condizioni materiali, simile in ciò alla NEP di Lenin. Dalla Nuova Politica Economica si distingue però in quanto questa fu pensata come “ritirata strategica” dell’economia socialista, mentre le riforme cinesi sono guidate dall’innovazione teorica secondo cui il mercato può continuare ad esistere all’interno dello stesso sistema socialista. Solo lo sviluppo delle forze produttive permette alla progettualità socialista di avanzare. È grazie all’uscita dalla povertà e alla creazione di condizioni di vita dignitose per centinaia di milioni di persone che le autorità della RPC hanno potuto mantenere uno stretto controllo politico sulla produzione strategica e sulla ricerca, mettendo all’angolo le voci a favore di una degenerazione in senso neoliberista e della cessione di sovranità alle forze dell’imperialismo. La fase della Cina “fabbrica del mondo” interessata unicamente ad attirare capitali per esportare nei mercati europei merci a basso costo è già finita, superata dalla volontà di fondare lo sviluppo del paese sull’innovazione e sul mercato interno, un proposito già visibile sotto la dirigenza di Hu Jintao ma che ha raggiunto la più grande e coerente estensione sotto l’attuale dirigenza di Xi Jinping. Oggi giorno, dal 5G all’intelligenza artificiale, dalla ricerca nucleare ai computer quantistici, la Cina è all’avanguardia nello sviluppo tecnologico.
Il Presidente Xi Jinping ha potuto parlare a tal riguardo dello sviluppo di “nuove forze produttive di qualità” come risultato dell’applicazione delle ultime innovazioni tecnologiche ai diversi rami dell’industria. Il processo di rapido sviluppo delle forze produttive tradizionali garantito dalla politica di Riforma e Apertura, unito allo sviluppo di una capacità d’innovazione nazionale capace di rendere la Cina in grado di affrontare il monopolio esercitato dagli Stati Uniti sulle tecnologie più dirompenti fino a qualche anno fa, ha portato alla nascita delle nuove forze produttive di qualità, gettando le basi per una sostanziale trasformazione del modello di sviluppo cinese. La produttività, come riconosciuto dall’analisi marxista, è il fattore più attivo e rivoluzionario nella promozione del progresso sociale. Vladimir Lenin, com’è noto, disse che “il comunismo è il potere sovietico più l’elettrificazione di tutto il paese”74. Con questa frase il rivoluzionario russo stava mettendo al centro lo sviluppo delle forze produttive, la crescita della produttività e l’ammodernamento dell’apparato produttivo come condizioni necessarie per la costruzione socialista al pari del controllo del potere politico da parte della classe lavoratrice. Lo sviluppo delle nuove forze produttive di qualità si inserisce come parte integrante del percorso per rendere la Cina un moderno paese socialista entro il 2049. Le nuove forze produttive di qualità hanno come base non “i lavoratori ordinari che si impegnano in semplici lavori ripetitivi”, ma lavoratori di nuovo tipo, personale“con competenze di importanza strategica che è in grado di creare effettivamente nuove forze produttive di qualità”75, in un percorso di progressiva risoluzione della contraddizione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. L’adeguamento dei rapporti di produzione alla nuova realtà sarà effetto dello sviluppo delle nuove forze produttive di qualità e condizione necessaria alla loro piena liberazione: “I rapporti di produzione sono determinati e reagiscono alle forze produttive. In quanto tale, l’emergere di nuove forze produttive di qualità porterà inevitabilmente a cambiamenti rivoluzionari nei rapporti di produzione e richiederà l’instaurazione di un nuovo insieme di relazioni ben adattate che serviranno a proteggere, liberare e sviluppare queste forze. Riformando e migliorando costantemente i rapporti di produzione e stabilendo nuovi modelli, sistemi e meccanismi di gestione, forniremo importanti garanzie per il continuo sviluppo di nuove forze produttive di qualità”73.
Lo sviluppo economico cinese ha beneficiato della globalizzazione a guida statunitense. Gli investimenti stranieri nella Repubblica Popolare Cinese sono infatti da inserirsi nel contesto complessivo dato dall’imposizione globale del neoliberismo e del Washington Consensus. Beijing, al contrario di molti altri Stati, ha saputo però sfruttare quest’occasione per trasformare dialetticamente la situazione: gli investimenti stranieri non hanno minato la sovranità del paese, ma hanno contribuito a creare le basi per quello sviluppo che avrebbe, in ultima battuta, portato la RPC a sfidare efficacemente lo stesso modello della globalizzazione neoliberale.
Il processo di multipolarizzazione del mondo, che ha le sue radici negli ultimi decenni del XX Secolo, si è costituito in risposta al consolidarsi del progetto egemonico statunitense, di cui il Washington Consensus e la globalizzazione sono stati parte integrante. Il ruolo fondamentale del Dollaro all’interno dell’economia mondiale, il monopolio tecnologico, del credito e dell’informazione sono stati tanto importanti per la costruzione del sistema unipolare quanto le capacità belliche di Washington. La globalizzazione a guida statunitense ha catalizzato tutto ciò, ma ha allo stesso tempo ha gettato le basi per il suo superamento. Per decenni i paesi del mondo, dagli alleati subalterni degli USA fino ai paesi socialisti, sono stati costretti a dipendere da tecnologie sviluppate negli Stati Uniti, a utilizzare i Dollari nelle loro transazioni internazionali, a consumare passivamente la cultura e la narrazione statunitense e a rivolgersi a istituzioni come quelle connesse alla Banca Mondiale e al Fondo Monetario Internazionale per il credito. Gli effetti di ciò non si devono calcolare in termini di condizionamento e “soft power”, ma anche tenendo presente le vere e proprie operazioni di rapina e saccheggio che sono state attuate ai danni dei paesi più deboli, investiti da crisi debitorie e attacchi speculativi, e che, in cambio dei prestiti, hanno dovuto accettare la privatizzazione di ampi settori dell’economia pubblica e delle risorse naazionali. Ciò è accaduto non solo nel Terzo Mondo, ma finanche in Europa. Di ciò non si può addossare completa responsabilità alle varie classi dirigenti: per molti versi il mantra neoliberista del “There is no alternative” era divenuto realtà. O l’integrazione economica internazionale sotto l’indiscutibile potestà americana, o l’isolamento e l’assedio. In entrambi i casi lo spettro della povertà e del sottosviluppo avrebbe accompagnato il percorso scelto. Il processo di multipolarizzazione del mondo e l’ascesa economica della Repubblica Popolare Cinese hanno profondamente e irreversibilmente mutato questa situazione. Catalizzata dalle stesse pratiche arroganti e prive di riguardi per il diritto internazionale, la de-dollarizzazione avanza, con sempre più paesi che scelgono di commerciare nelle rispettive valute internazionali e di diversificare le proprie riserve. Allo stesso tempo, grazie alla New Development Bank del gruppo BRICS e a istituti come la Asian Infrastructure Investment Bank connessa alla Nuova Via della Seta, i paesi in via di sviluppo e bisognosi di credito possono ora ottenerlo senza dover sottoscrivere onerose condizionalità politico-economiche.
La consapevolezza della natura intrinsecamente predatoria della globalizzazione a guida statunitense è progressivamente aumentata non solo a livello governativo, ma anche tra le popolazioni dei vari paesi, che sono state portate a osteggiare istintivamente ogni accordo di libero scambio e a vedere con sospetto le varie organizzazioni internazionali. Ciò sta venendo ora sfruttato dalle stesse forze dell’egemonia che, profondamente in crisi, tentano di rallentare la crescita delle economie emergenti, Cina in testa, attraverso guerre economiche e misure protezionistiche. Queste, propagandate come volte alla tutela della produzione nazionale da “competizioni sleali”, non sono indirizzate al benessere delle popolazioni occidentali, ma unicamente alla difesa dell’egemonia statunitense. Per i paesi europei il rapporto con gli USA si configura come una dipendenza fortemente dannosa, come dimostrano misure aggressive come l’attentato al Nord Stream 2 e l’Inflation Reduction Act varato da Biden. Al contrario, lo sviluppo di un mondo multipolare rappresenterebbe un’opportunità anche per l’Europa tramite una più stretta integrazione con le economie mediterranee ed eurasiatiche e la partecipazione a uno sviluppo condiviso.
Come più volte riconosciuto dal Presidente Xi Jinping, la globalizzazione, intesa come progressiva integrazione economica dell’Umanità, rappresenta una tendenza oggettiva dei tempi, un processo irreversibile la cui attuale configurazione richiede non già una irrealistica messa in discussione integrale, ma un nuovo orientamento, una trasformazione radicale che ponga al centro gli interessi materiali dei diversi paesi e lo sviluppo comune dell’Umanità. Parlare in questi termini di “trasformazione” della globalizzazione non significa altro che riconoscere le conseguenze economiche della multipolarizzazione del mondo. Il mercato non può più essere visto come un feticcio da adorare in maniera fondamentalistica, ma ricondotto al suo ruolo di strumento a cui ricorrere in maniera controllata e secondo norme chiare e univoche. Allo stesso tempo non si può pensare a una futura economia mondiale come a un insieme di “isole” fondamentalmente separate le une dalle altre. La dialettica tra indipendenza e interdipendenza si manifesterà pienamente nell’economia del mondo multipolare, portando a una maggiore integrazione senza però che ciò comprometta la sovranità dei vari paesi o gruppi di paesi. Ciò è impossibile fintanto che l’imperialismo statunitense conserverà la sua posizione egemonica, ma diverrà immediatamente possibile una volta che questo sarà abbattuto, garantito dal sistema di governance globale a cui la Repubblica Popolare Cinese e le altre forze impegnate nello sviluppo della multipolarizzazione del mondo stanno lavorando, fondato tanto sulle Nazioni Unite quanto sulle nuove forme organizzative multilaterali sviluppate negli ultimi decenni. Il progressivo scollamento degli Stati Uniti e dei loro satelliti dal diritto internazionale e dalla stesso ONU come istituzione mostra come questa, debitamente riformata nel suo funzionamento per garantire una maggiore rappresentanza ai paesi in via di sviluppo, abbia ancora un carattere progressivo, non sfruttato debitamente nei decenni trascorsi dalla sua fondazione proprio a causa dell’egemonismo statunitense e dello sbilanciamento a favore dei paesi occidentali. Il Presidente Xi Jinping ha sottolineato questa valenza delle Nazioni Unite, collegandola strettamente al processo di multipolarizzazione ora in corso: “Il mondo sta attraversando un processo storico di accelerazione e cambiamento. Sono fiducioso che la luce della pace, dello sviluppo e del progresso sarà sufficiente per fugare le tenebre della guerra, della povertà e dell’arretratezza. L’ulteriore evoluzione nella direzione di un mondo multipolare e l’ascesa dei mercati emergenti e dei paesi in via di sviluppo sono ormai una tendenza storica inarrestabile. La globalizzazione economica e l’informatizzazione hanno agito da volano nel liberare le forze produttive della società, creando opportunità di sviluppo senza precedenti, ma al contempo portando nuove sfide e minacce che dobbiamo affrontare con il dovuto impegno. […] Bisogna portare avanti e valorizzare la missione e i principi dell’ONU, creare un nuovo modello di relazioni internazionali incentrato sulla cooperazione reciprocamente vantaggiosa e porre le basi di una comunità umana dal futuro condiviso”76.
La globalizzazione a guida statunitense ha approfondito il divario tra i paesi e rafforzato le gerarchie internazionali. Interi continenti sono stati condannati al sottosviluppo e sistematicamente saccheggiati, mentre un pungo sempre più ristretto di oligarchi della finanza ha potuto godere di potere e ricchezza mai visti prima. Il monopolio del credito e tecnologico, sostenuti dalla forza bruta, applicata sia in maniera diretta che ibrida, hanno fatto in modo che qualsiasi paese non potesse che diventare un succube fornitore dell’egemone e dei suoi più stretti alleati subalterni. In questo contesto la lotta di classe si è acuita tanto a livello internazionale quanto all’interno dei singoli paesi, gettando le condizioni soggettive per il superamento del sistema esistente. La nuova globalizzazione che si sta imponendo a livello mondiale si differenzia fondamentalmente da questo modello, basandosi su un sistema di governance multilaterale e democratico in costruzione, sul ripudio dell’egemonismo e sul ruolo centrale attribuito agli scopi sociali e progressivi dello sviluppo: uno sviluppo che è incentrato sulle persone, che mira alla loro emancipazione tramite la lotta alla dipendenza, alla povertà e al sottosviluppo. Si potrebbe obiettare che ciò non costituisce che una visione idealizzata simile a quelle già proposte ai tempi della Società delle Nazioni o della fondazione dell’ONU. La realtà è differente: il periodo storico che stiamo vivendo è completamente inedito, e un nuovo assetto pacifico dell’Umanità è reso possibile dalla natura politica e storica del processo di multipolarizzazione del mondo. Questo non rappresenta un ritorno a blocchi di potenze contrapposte, ma comporta la costruzione di una comunità umana dal futuro condiviso, ossia il concreto superamento del capitalismo giunto alla sua fase imperialista. A guidare questo processo non ci sono infatti borghesia finanziarie concorrenti rispetto agli USA, ma le forze progressive di tutto il Pianeta.
5. Multipolarismo e comunità umana dal futuro condiviso
Nel suo “saggio popolare” sull’imperialismo, Vladimir Lenin descrive l’origine di quella nuova fase del capitalismo come diretta conseguenza dei processi di accumulazione e di concentrazione del capitale ad essa precedenti Negli ultimi decenni del XIX Secolo la simbiosi di capitale industriale e bancario portò alla formazione del capitale finanziario, mentre questo si “fuse” efficacemente con i governi nazionali, in un processo che venne a maturare nei paesi capitalisticamente più avanzati. L’attrito fra le varie potenze, di forza più o meno equivalente, portò alla divisione del mondo in varie sfere d’influenza, tra le quali il primato andava all’impero britannico, culla del capitalismo finanziario e padrone dei mari, una posizioni insidiata dal rapido sviluppo, economico e militare, del Reich guglielmino, contro il quale si trovavano schierati anche la Francia, a capo di uno sterminato impero coloniale, e la Russia zarista, “anello debole” della catena imperialista. Geograficamente lontani ma di crescente importanza, due altri imperi componevano lo scenario imperialista tra XIX e XX Secolo, ossia quello giapponese e quello americano.
Indubbiamente i vari paesi imperialisti avevano un peso diverso, ma nessuno di essi era tanto forte da poter esercitare un ruolo egemonico a livello globale. Da qui la necessità di alleanze e la progressiva costituzione di quei due schieramenti che si sarebbero reciprocamente annientati nella Grande Guerra. La capitalizzazione relativa dei vari mercati azionari possono rendere l’idea della magnitudo comparabile dei vari imperi: al 1899 il mercato azionario controllato dall’Inghilterra era il più grande, pari al 24.2% del totale, seguito da quello americano (14.5%), da quello tedesco (12.6%) e da quello francese (11.2%). Gli altri paesi occidentali si assestavano tra il 2% e il 5%. Un rapido confronto con il 2024 permette di notare una strabiliante differenza: al primo posto abbiamo gli Stati Uniti, con un mercato azionario pari al 60.5% del totale, seguito dai mercati di tutto il resto del pianeta che non riescono nemmeno ad avvicinarsi al 7%.

Anche solo da questi dati, senza chiamare quindi aspetti relativi al “soft power”, alla forza militare e alla pervasività delle reti clientelari e degli apparati segreti, emerge chiaramente una netta differenza tra la situazione attuale e quella che si trovò a descrivere: il capitale finanziario statunitense non è più “in competizione” con avversari dalle dimensioni paragonabili, ma svetta su di essi dominandoli e riducendoli in posizione subalterna, in una posizione di incomparabile forza.
Il ruolo egemonico degli Stati Uniti non è paragonabile a quello assunto dall’Inghilterra nella prima fase dell’epoca dell’imperialismo, ma rappresenta un elemento inedito capace di caratterizzare una fase altrettanto inedita nelle sue dinamiche. Per comprendere ciò serve tenere a mente il percorso storico che ha permesso agli Stati Uniti di passare da potenza regionale a unico egemone globale.
Isolati da due Oceani rispetto alla “world island”, gli Stati Uniti si fortificarono e svilupparono capitalisticamente grazie alla colonizzazione dell’America settentrionale, grazie alla quale una classe imprenditoriale propensa al rischio poté avviare lo sfruttamento su vasta scala delle risorse di un intero continente, sostenuta da un mercato interno in continua espansione e dall’attiva collaborazione delle autorità federali. La conquista del West fu il trampolino di lancio per l’espansione verso Sud, ai danni degli altri paesi americani, e verso Ovest, assicurandosi una stabile presenza nel Pacifico.
Nel 1823 il presidente Monroe espresse l’idea per la quale qualsiasi nuovo intervento europeo nel continente americano sarebbe stato interpretato come un atto potenzialmente ostile verso gli Stati Uniti. Questo messaggio rifletteva la volontà da parte degli Stati Uniti di combattere la penetrazione europea sul continente, contrapponendo l’autonomia di questo alla Pax Britannica in formazione. Erano infatti gli anni della lotta per l’indipendenza dei paesi sudamericani che si sarebbero trovati, da lì a pochi decenni, a fronteggiare proprio il “fratello maggiore” del Nord, dove il capitale finanziario era nel frattempo giunto a piena maturazione e posto saldamente alla guida del potere politico77. Si aprirono così gli anni dell’intervento per ottenere l’indipendenza di Panama dalla Gran Colombia, e il controllo statunitense del canale, delle Guerre delle Banane, della guerra contro la Spagna per Cuba e Portorico, della penetrazione imperialista nell’Asia-Pacifico, dalle Hawaii alla Cina, passando per Guam, le Filippine e le Midway, oltre che della Diplomazia del Dollaro, attraverso la quale gli strumenti finanziari, sostenuti all’occasione da interventi armati, fornivano il mezzo attraverso cui legare a sé paesi stranieri tramite debiti inestinguibili, controllandoli politicamente.
L’impero statunitense ha potuto costruirsi in un relativo isolamento, foraggiato da misure protezionistiche e da consistenti flussi migratori, da un capitale aggressivo e spregiudicato, e senza la minaccia di invasioni straniere, in un contesto sgombro dall’influenza di classi aristocratiche o proprietà feudali.
Il capitalismo entrò nella sua fase imperialista negli ultimi decenni del XIX Secolo, quando le esigenze di competizione strategica, il bisogno di trovare nuovi sbocchi per i capitali accumulati in Occidente e la reazione alla crisi iniziata nel 1873 spinsero le potenze dell’epoca alla completa spartizione dell’Africa, ad una più aggressiva penetrazione nel continente asiatico e, come si è detto, a una politica espansionistica degli Stati Uniti verso Sud e verso Ovest. Tale processo, caratterizzato dalla centralità del capite monopolistico e dei finanzieri, portò alla divisione del mondo tra un piccolo numero di Stati dominanti e una grande massa di paesi asserviti e debitori, legati ai primi da forme più o meno esplicite, più o meno profonde di colonialismo. La centralizzazione del potere economico in sempre meno mani, in pochi cartelli capaci di raggruppare quote significative dell’economia mondiale, si accompagnò ad un’ancor più marcata gerarchizzazione internazionale giustificata ideologicamente dal preteso “fardello dell’uomo bianco”, dalla missione civilizzatrice del liberalismo occidentale, moralmente legittimato nella sua opera di sistematico annientamento di ogni opposizione esterna o interna e di sfruttamento dei territori sottomessi. Questo primo periodo della fase imperialista del capitalismo, caratterizzato da un “centro” industrializzato composto da una molteplicità di Stati avanzati sostanzialmente equivalenti in termini di potere economico e militare si interruppe brutalmente con la Prima Guerra Mondiale, esplosione delle contraddizioni accumulate negli anni tra quelli, impegnati in una sempre più serrata competizione per le risorse, i mercati e gli spazi utili agli investimenti nell’immensa “periferia” coloniale e semi-coloniale. Per questi motivi, come efficacemente illustrato da Lenin, ogni retorica “nazionale” volta a veicolare il supporto per uno dei due fronti non era altro che artifizio propagandistico: “[…] bisogna dimostrare che la guerra in corso non si combatte per emancipare le nazioni, ma per stabilire quale dei briganti debba opprimere più nazioni”78. Nel caso in cui questa retorica fosse promossa da partiti socialista, ciò avrebbe costituito una “caricatura del marxismo”, un vero e proprio tradimento della classe operaia, che vedeva i propri interessi perfettamente distinti da quelli di ciascun gruppo imperialista. Molti partiti della Seconda Internazionale ciononostante decisero di appoggiare la guerra, richiamandosi alla categoria di “guerra nazionale” per spiegare lo scontro in corso, avendo la mente ferma ai conflitti del Secolo scorso. Ma la situazione era profondamente differente era in realtà profondamente differente. Nel nuovo contesto di scontro tra le potenze imperialiste, la parola d’ordine della “difesa della patria” non poteva essere riconosciuta come legittima, in quanto se contestualizzata storicamente nella situazione concreta non poteva che tradursi nel riconoscimento degli interessi della borghesia imperialista: “Il marxismo deduce il riconoscimento della difesa della patria nelle guerre come, ad esempio, quelle della grande rivoluzione francese e di Garibaldi in Europa, e la negazione della difesa della patria nella guerra imperialista del 1914-1916 dall’analisi dei particolari storici concreti di ogni singola guerra e in nessun modo da qualunque principio generale […]”79. Solo la corretta comprensione del contesto portato dalla fase imperialista del capitalismo permise ai bolscevichi russi di portare avanti una prassi politica corretta e arrivare all’abbattimento del regime zarista e alla Rivoluzione d’Ottobre, con la creazione, una volta sconfitto l’intervento straniero, dell’Unione Sovietica.
La Prima Guerra Mondiale fu l’evento che permise agli Stati Uniti, già in sviluppo relativo più rapido dalla fine dell’800, di elevarsi complessivamente al di sopra delle potenze imperialiste europee. Al 1913, prima dell’inizio della guerra, gli Stati Uniti dovevano ai paesi europei circa 13 miliardi di dollari, mentre cinque anni dopo non solo i loro conti erano stati sanati, ma erano diventati creditori del Vecchio Continente per nove miliardi di dollari80. Come Lenin osservò nel 1918, “i miliardari americani erano più ricchi degli altri si trovavano, geograficamente parlando, più al sicuro. Sono loro che hanno guadagnato di più. Essi hanno reso tributari tutti i paesi, anche i più ricchi. Hanno arraffato centinaia di miliardi di dollari”81. Le grandi potenze europee uscirono dal conflitto distrutte economicamente e moralmente, con forti conflittualità sociali e devastazioni materiali. L’impero zarista e quello tedesco erano crollati per il conflitto, seguiti dall’impero ottomano e dall’Austria-Ungheria. I paesi dell’Intesa, formalmente vincitori, si trovavano fortemente indebitati con il nuovo belligerante che aveva fatto il suo ingresso nel conflitto nel 1917 e dal quale ne uscì non solo indenne, ma anche rafforzato nel suo peso internazionale. La proposta del presidente Wilson di riforma internazionale va letta anche come espressione della volontà, e della crescente capacità, degli Stati Uniti di ergersi a “giudici” del mondo, garanti del suo ordinamento.
Il dominio statunitense sul mondo non era però giunto ancora a maturazione. Francia e l’Inghilterra, per quanto drenate dal conflitto, erano riuscite a conservare il proprio impero, ma rimaneva per loro il fantasma di uno Stato tedesco ancora esistente, a discapito delle pressioni francesi, quello di un’Italia che dal ‘22 sarà impegnata in una politica estera di aggressivi tentativi d’affermazione, e soprattutto del nuovo confronto geopolitico con l’Unione Sovietica. Dopo aver sostenuto attivamente i tentativi secessionisti e le armate bianche, i paesi occidentali furono negli anni costretti al riconoscimento di questo paese che a lungo fu trattato alla stregua di un “appestato”. Ciò fu facilitato anche dalla repressione sanguinolenta dei tentativi di “fare come in Russia”, dall’Italia al Baltico, dall’Ungheria alla Finlandia, che avrebbe allontanato lo spettro della rivoluzione comunista, oltre che dalla postura internazionale dell’Unione Sovietica, che tra gli Anni ‘20 e ‘30 si dedicò intensamente alla ricostruzione interna e al rafforzamento economico, cercando finanche di attrarre capitali occidentali e normalizzare le relazioni diplomatiche.
L’Inghilterra era riuscita a frustrare il secondo tentativo, considerando quello napoleonico come il primo, di creare un’egemonia continentale europea, cosa che la Germania aveva collegato anche ad un vasto incremento della propria marina, protagonista della Flottenpolitik di Von Tirpitz finalizzato a mettere in discussione il dominio marittimo britannico. Il fallimento del tentativo guglielmino avrebbe però significato l’avvento di una nuova egemonia, che avrebbe vinto ogni resistenza britannica.
La crisi del 1929 si schiantò contro questo mondo colpendo soprattutto gli Stati Uniti d’America e, per i legami finanziari, la Germania di Weimar. I danni sociali furono ingenti, e se il New Deal roosveltiano fu sicuramente più proficuo delle misure austeritarie dei suoi predecessori, sarà solo con la Seconda Guerra Mondiale che l’economia americana riuscirà veramente a scrollarsi di dosso i resti del ‘29 ed ergersi su un mondo nuovamente in macerie.
La Seconda Guerra Mondiale lasciò l’Europa in condizioni ancora peggiori rispetto al precedente. Al continente in ginocchio arrivò la mano “salvifica” del cosiddetto Piano Marshall, l’European Recovery Program, per cui lo spazio d’azione politico veniva scambiato con finanziamenti e forniture commerciali, legando gli “alleati” europei a un vincolo politico e debitorio. Ma un’altra arma permise agli Stati Uniti di torreggiare sugli alleati: nel 1944 a Bretton Wood vennero creato il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, che, assieme al GATT, avrebbero gettato le basi del sistema dollaro-centrico che avrebbe dominato l’Occidente per gli anni a venire. Qui venne imposta la convertibilità di tutte le valute col dollaro, e la convertibilità di questo a cambio fisso con l’oro: il dollaro divenne, soppiantando la sterlina, valuta di riserva internazionale, sorretta da una potenza relativa non più comparabile e da una fortissima attrattività per i capitali della borghesia europea. La creazione della NATO nel 1949, del progetto federale europeo anche tramite l’American Committee for United Europe e la supervisione della disgregazione degli imperi coloniali del Vecchio Continente furono altri passaggi necessari per l’imposizione di questa egemonia, che riuscì a imporsi nonostante i tentativi dei nuovi alleati subalterni di mantenere spazi d’autonomia. Si pensi all’intervento olandese in Indonesia tra il 1945 e il 1949, a quello francese in Indocina o alla crisi di Suez del 1956, così come all’accantonamento dei piani franco-britannici per la disgregazione della Germania e l’annessione di parti del territorio tedesco.
Il più grande contrasto al nascente egemonismo americano venne dal campo socialista e dai paesi non allineati, espressione della stragrande maggioranza dell’Umanità e di una tendenza storica irresistibile che da un lato abbatteva le dominazioni coloniale, dall’altro apriva spazi alle forze comuniste per poter esercitare un ruolo guida all’interno dei movimenti di liberazione nazionale. Dopo il 1949, con la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese, il campo socialista e i suoi alleati e stretti interlocutori arrivarono ad occupare una parte considerevole della superficie terrestre. Nonostante il ripudio di qualsiasi politica conflittuale da parte sovietica negli ultimi anni della dirigenza di Stalin, e nonostante la volontà dei paesi di recente indipendenza di intrattenere un dialogo rispettoso sia con Mosca e Pechino che con Washington, gli Stati Uniti risposero a questa evoluzione incrementando la propria repressione internazionale, come testimoniato, tra gli altri fatti, dal supporto dato al regime di Syngman Rhee nella Corea occupata, dall’intervento in Guatemala del 1954, dal bombardamento dell’Indonesia di Sukarno nel 1958, dalla costituzione unilaterale della BRD e dalla creazione del marco tedesco in Germania, dal supporto alla repressione del movimento comunista greco, dall’opposizione al processo di unificazione vietnamita oltre che, internamente dal maccartismo e dalla Red Scare. La repressione interna agli Stati Uniti fu rivolta sia contro il movimento comunista, cresciuto notevolmente tra gli Anni ‘30 e ‘40, sia contro tutti quei funzionari o personaggi pubblici ritenuti non sufficientemente disposti ad assecondare la nuova crociata anticomunista. È noto come persino numerosi addetti del Dipartimento di Stato, e in particolare gli esperti dell’estremo Oriente, furono licenziati in quanto accusati di essere “filo-comunisti” dopo la sconfitta di Chiang Kai-Shek in Cina. Negli Stati Uniti non erano comunque in pochi a credere in un futuro di pace e amicizia con l’Unione Sovietica, memori dell’appena trascorso periodo di cobelligeranza in funzione antifascista. Tra questi in primis i comunisti americani. A discapito di quanto sostenuto dalla propaganda maccartista, questi non erano “agenti di Mosca”, ma cittadini che sinceramente si facevano portatori della visione di degli Stati Uniti capaci di collaborare a livello internazionale con l’URSS per la causa del progresso e di superare le terrificanti discriminazioni e ineguaglianze ancora presenti al loro interno, ultimando il cammino emancipatorio iniziato con la guerra del 1861-65. Paul Robeson, attore e atleta afroamericano, che dopo aver sostenuto ardentemente le forze repubblicane in Spagna e l’intervento americano nella Seconda Guerra Mondiale venne portato davanti alla Commissione per le Attività Antiamericane per rispondere della sua vicinanza al Partito Comunista degli Stati Uniti d’America. In quell’occasione Robeson ebbe modo di attaccare chi si era eretto a suo giudice: “[…] voi signori siete i non patriottici, voi siete gli antiamericani, voi dovreste vergognarvi di voi stessi!”82. Anche in questa occasione il potere di classe della borghesia si ammantava della bandiera della “difesa della patria” per colpire i suoi nemici politici, rei di lottare per un paese e per un futuro diverso da quello preparato dai baroni di Wall Street.
In risposta alla crescente popolarità del socialismo e alla sempre più rapida diffusione delle lotte anticoloniali, gli Stati Uniti si impegnarono a partire dalla Dottrina Truman in una lotta senza quartiere contro le forze progressive internazionali. In quest’ottica vennero preparati colpi di Stato, fomentate guerre civili, organizzati atti terroristici e condotte operazioni di destabilizzazione sociale ed economica: una guerra ibrida a tutto campo che non lasciava spazio alla neutralità, rivolgendosi minacciosamente contro chiunque non avesse accettato la totale subordinazione all’agenda geostrategica statunitense. Un elenco completo di tutti i paesi colpiti dagli Stati Uniti o soggetti a forti pressioni esterne per eterodirigerne l’agenda politica comprenderebbe la stragrande maggioranza di tutti i paesi della Terra. La crescente aggressività di Washington era diretta a prevenire qualsiasi estensione del campo socialista, ma anche contro le lotte di liberazione che avrebbero affrancato paesi coloniali rendendoli indipendenti e autonomi nella loro politica, compromettendo così i regimi di sfruttamento imposti a vantaggio del capitale monopolistico occidentale. A dispetto di quanto attuato sino alla Seconda Guerra Mondiale, dal 1945 in poi gli USA e i loro alleati subalterni non perseguirono la strada dell’asservimento coloniale diretto, ma quella di instaurazione di regimi “neocoloniali”, come descritto dal presidente ghanese Kwame Nkrumah nel suo noto saggio: “L’essenza del neocolonialismo è che lo Stato ad esso soggetto è, in teoria, indipendente e possiede tutti i simboli esteriori della sovranità internazionale. In realtà il suo sistema economico e quindi le sue politiche sono diretti dall’esterno”83.
Il sistema della “Guerra Fredda” divenne progressivamente sempre più bipolare, un contesto che rese particolarmente difficile per i vari Stati avere una propria autonomia politica nel mezzo dello scontro tra le superpotenze. Gli Stati Uniti si assicurarono all’interno del proprio campo un controllo pressoché illimitato sugli “alleati” tramite propri agenti nelle istituzioni, reti paramilitari e politiche sotterranee oltre che una mastodontica opera culturale ed ideologica. Al contrario il campo socialista vide scatenarsi tensioni sempre più marcate, culminate non solo in feroci lotte ideologiche ma anche in scontri armati diretti, come quelli avvenuti tra Cina ed Unione Sovietica nel 1969, causati sia da errori ed eccessi cinesi sia dall’instaurazione sotto la dirigenza di Krusciov di relazioni squilibrate e impari tra i vari partiti comunisti e Stati socialisti. L’accentuarsi di queste tendenze errate nella prassi internazionale sovietica porterà il Partito Comunista Cinese all’elaborazione della “teoria dei tre mondi”: “A giudicare dai cambiamenti nella situazione internazionale, il mondo oggi è diviso in tre parti, o tre mondi, che sono sia interconnessi che in contraddizione l’uno con l’altro. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica compongono il Primo Mondo. I paesi in via di sviluppo in Asia, Africa e America Latina compongono il Terzo Mondo. I paesi sviluppati tra questi due compongono il Secondo Mondo”. Il Terzo Mondo rappresentava nella visione proposta dalla RPC la principale forza di resistenza ai tentativi egemonici, in quanto i paesi di quello costituivano le principali vittime dello scontro internazionale in termini di sovranità negata e di sicurezza compromessa. Allo stesso tempo anche i paesi del Secondo Mondo rappresentavano un potenziale alleato, poiché, per quanto legati a una superpotenza o, addirittura, mantenenti vincoli coloniali con i paesi del Terzo Mondo, “[a]llo stesso tempo, tutti questi paesi sviluppati sono a vario grado controllati, minacciati o bullizzati da una superpotenza o dall’altra. Alcuni di questi sono stati ridotti da una superpotenza in una posizione di dipendenza sotto l’insegna di una cosiddetta “famiglia”. In vario grado, tutti questi paesi hanno il desiderio di staccarsi di dosso la schiavitù o il controllo di una superpotenza e salvaguardare la propria indipendenza nazionale e l’integrità della propria sovranità”84.
Si può dire che questa analisi rispecchiasse in maniera sufficientemente accurata la situazione creatasi nel campo socialista e le contraddizioni aperte anche dalla degenerazione para-egemonica dell’Unione Sovietica. Questa contraddizioni furono sfruttata dagli Stati Uniti nel quadro della loro violenta controffensiva innescata nella seconda metà degli Anni ‘70 in risposta alla crescente mobilitazione delle classi subalterne in Occidente, alla diffusione delle lotte per l’indipendenza, all’ulteriore espansione del campo socialista e alla crisi generale del capitalismo associata alla decadenza del modello keynesiano e allo shock petrolifero del 1973. Anticipata in un celebre rapporto della Commissione Trilaterale85, questa prese forma con il neoliberismo incarnato da Reagan e dalla Thatcher, e si caratterizzò per una rinnovata aggressività tanto negli spazi periferici ‒ colpi di Stato, guerre civili, pratiche terroristiche, supporto a organizzazioni terroristiche… ‒ quanto nel centro del sistema capitalista, con la sistematica aggressione contro le conquiste democratiche della classe lavoratrice. Il centro capitalista mutò la sua natura da industriale a finanziario-speculativo, entrando per questo in rapporto di ancor più stretta dipendenza, e sfruttamento, con la periferia neocoloniale e semi-coloniale. A ciò contribuì la fine della convertibilità del dollaro in oro decisa da Nixon e la conseguente crescita esponenziale del debito pubblico americano, con un dollaro dal valore sempre più garantito unicamente dalla possibilità della sua imposizione coatta. Il grande cambiamento introdotto da Nixon, reso necessario dalle crescenti necessità di spesa da destinare agli armamenti, ebbe tra le sue conseguenze quella di creare una per gli Stati Uniti una posizione inedita di “padrone/debitore”. Il crescente deficit nelle bilance commerciali e dei pagamenti degli USA non divenne sinonimo di diminuzione della propria influenza egemonica, ma, grazie alle specificità del dollaro, divenne uno strumento per legare a sé i paesi creditori, obbligandoli a finanziare la spesa pubblica statunitense attraverso l’acquisto di titoli di Stato, in un meccanismo di “redistribuzione verso l’alto” della ricchezza, capace di condizionare in negativo tutte le economie mondiali con la sua capacità di offerta pressoché illimitata. Come è stato rilevato dall’economista statunitense Michael Hudson, questa forma di “servitù creditoria” ha permesso agli Stati Uniti di finanziare il proprio crescente deficit del bilancio grazie al debito contratto con gli altri paesi: “Poiché le banche centrali straniere ricevevano dollari dai loro esportatori e dalle banche commerciali che preferivano la valuta nazionale, non avevano altra scelta che di prestare questi dollari al governo degli Stati Uniti. La gestione di un’eccedenza di dollari nella bilancia dei pagamenti divenne sinonimo di prestito di tale eccedenza al Tesoro americano. La nazione più ricca del mondo era in grado di ottenere automaticamente prestiti dalle banche centrali straniere semplicemente gestendo un deficit nei pagamenti. Più cresceva il deficit dei pagamenti degli Stati Uniti, più dollari finivano nelle banche centrali straniere, che poi li prestavano al governo degli Stati Uniti investendoli in obbligazioni del Tesoro di vario grado di liquidità e commerciabilità. Il bilancio federale degli Stati Uniti è andato sempre più in deficit in risposta all’economia delle armi e del burro, gonfiando un flusso di spesa interna che si è riversato su altre spese. Il bilancio federale degli Stati Uniti è andato sempre più in deficit in risposta all’economia “guns-and-butter”, gonfiando un flusso di spesa interna che si è riversato su altre importazioni e investimenti esteri e su ulteriori spese militari all’estero per mantenere il sistema egemonico. Ma invece di tassare i cittadini e le imprese statunitensi o di obbligare i mercati dei capitali americani a finanziare il crescente deficit federale, le economie straniere erano obbligate ad acquistare i nuovi titoli del Tesoro emessi. La spesa americana per la Guerra Fredda divenne così una tassa sugli stranieri”86.
Gli scontri interni al campo socialista, uniti alla degenerazione ideologica esemplificata dal nichilismo storico e all’incapacità di reggere il confronto economico con l’Occidente, contribuirono all’indebolimento dell’Unione Sovietica, che non sopravvisse alle “riforme” di Gorbaciov. Il disfacimento dell’Unione privò il mondo di un grande argine allo strapotere statunitense. La Repubblica Popolare Cinese, con cui a partire dal 1972 gli Stati Uniti avevano normalizzato le relazioni diplomatiche, era ancora economicamente e militarmente troppo arretrata per rappresentare un ostacolo, e l’Occidente coltivava persino l’illusione che questa avrebbe seguito la strada dell’URSS, accettando una “evoluzione pacifica” verso il liberalismo e la piena restaurazione del capitalismo. Per l’Occidente si aprì un periodo di stabilità, sviluppo e innovazione, che nel resto del mondo fu però segnato dalla tragedia di conflitti senza fine, incertezza, instabilità e insicurezza. La definizione scientifica più precisa e valida della nuova fase venutasi a creare è stata fornita dal grande studioso marxista cinese Cheng Enfu, presidente della Scuola di Marxismo e dell’Accademia Cinese di Scienze Sociali. Per rappresentare la specifica fase contemporanea caratterizzata dalla globalizzazione e dalla finanziarizzazione del capitale monopolistico egli ha introdotto il termine “neoimperialismo”87. Di questo egli ha individuato le cinque caratteristiche principali:
- Il nuovo monopolio della produzione e della distribuzione, basato su gigantesche multinazionali economicamente più grandi di interi paesi.
A partire dalla stagflazione degli Anni ‘70 una marcata concentrazione del capitale si è associata ad una sua più grande internazionalizzazione, con le aziende che, per tutelare i propri margini di profitto, hanno spostato i propri investimenti oltreoceano. Il numero delle multinazionali è cresciuto, ed esse sono diventate gigantesche, capaci di torreggiare persino sull’economia di intere nazioni. Il controllo sulla produzione e sui mercati ha permesso di far accelerare l’accumulazione di capitale, catalizzata anche dalla promozione della liberalizzazione degli investimenti e dall’abbattimento di ogni tipo di barriera, che ha costretto sempre più aziende piccole, medie e grandi alla bancarotta o alla fusione con le multinazionali.
- Il nuovo monopolio del capitale finanziario, che gioca un ruolo decisivo nell’economia mondiale e genere uno sviluppo “deforme” con la finanziarizzazione dell’economia.
Il capitale finanziario, fusione del capitale bancario con quello industriale, ha potuto svilupparsi pienamente solo venute meno le barriere tecniche e politiche a un più stretto collegamento tra gli investimenti internazionali, la finanza e i mercati. A partire dagli Anni ‘70 la globalizzazione a trazione statunitense e la finanziarizzazione dell’economia hanno permesso uno sviluppo senza precedenti del capitale finanziario. Non a caso oggi la maggior parte dei soggetti multinazionali che controllano monopolisticamente l’economia sono banche, che, attraverso partecipazioni azionarie e fusioni sono capaci di controllare istituti minori e, a cascata, le principali arterie dell’economia mondiale. Il processo di concentrazione del capitale ha raggiunto livelli esorbitanti, come descritto da una ricerca di alcuni accademici svizzeri nel 2011: “Nel dettaglio, quasi il 40% del controllo sul valore economico delle multinazionali nel mondo è detenuto, attraverso una complicata rete di rapporti di proprietà, da un gruppo di 147 multinazionali centrali, che ha quasi il pieno controllo su se stesso. I principali azionisti all’interno del nucleo centrale possono quindi essere considerati una “super-entità” economica nella rete globale delle società. Un ulteriore fatto rilevante a questo punto è che il 75% del nucleo principale sono intermediari finanziari”88.
Le politiche volte alla liberalizzazione finanziaria hanno letteralmente svuotato l’economia reale a favore della finanza speculativa, e hanno messo a disposizione del centro imperialista uno strumento di predazione rivolto contro le classi subalterne e i paesi periferici. La corsa alla deregolamentazione ha rimosso le più significative barriere all’attività finanziaria. Un momento importante fu il venir meno della separazione tra banche commerciali e banche d’investimento, una norma diffusasi in tutto il mondo a seguito della crisi del 1929: ad esempio, Il governo Amato nel 1993 si mosse in questo senso, abolendo tramite il “Testo Unico” la Legge Bancaria del 1936; sei anni dopo fu seguito dal presidente americano Clinton, che promulgò l’abolizione del Glass-Steagall Act del 1933. L’economia reale fu letteralmente svuotata a favore della finanza speculativa, e l’espansione del capitale finanziario verificatasi negli ultimi decenni è strettamente connessa alla deindustrializzazione che ha attraversato l’Occidente. Il capitale, non trovando sbocchi sufficientemente profittevoli di natura produttiva, venne destinato ad attività speculative. Gli stessi profitti delle aziende non permettono più di coprire i crescenti debiti, ma unicamente di ricomprare le azioni emesse per gonfiarne artificialmente il valore e attrarre così nuovi investimenti: 449 delle 500 aziende elencate dallo Standard & Poor’s 500 Index hanno utilizzato tra 2003 e 2012 ben 2.400 miliardi di dollari per ricomprare le proprie azioni, ossia il 54% dei loro ricavi89. La sovraestensione dell’economia finanziaria a detrimento dell’economia reale, unita alla stagnazione economica, ha portato persino il consumo a dover essere sostenuto dal credito, mentre le bolle azionarie attirano sempre più investimenti nell’economia finanziaria.
- Il monopolio del dollaro americano e della proprietà intellettuale, promotori di una divisione internazionale del lavoro non equa e di una crescente polarizzazione internazionale.
Grazie ai lasciti del sistema stabilito a Bretton Woods nel 1944, gli Stati Uniti possono scambiare direttamente la loro moneta per beni reali, lavoro e risorse, affrontando così il loro deficit economico e fiscale. Il ruolo centrale del dollaro nell’economia mondiale favorisce il trasferimento delle ricchezze dai paesi debitori a quelli creditori, in primis verso gli Stati Uniti d’America. Persino la Repubblica Popolare Cinese, nonostante il suo enorme sviluppo, è ancora vittima di questo meccanismo: essa vende agli USA beni a basso costo e le sue risorse, venendo pagata in dollari che possono essere utilizzati solo per comprare beni virtuali o buoni del Tesoro americani, fornendo così credito agli USA. Al contrario, gli Stati Uniti esportano, in Cina come altrove, servizi o beni ai quali non si può aggiungere valore.
Il ruolo del dollaro garantisce agli Stati Uniti il monopolio internazionale del credito, permette di sostenere la concentrazione di capitali tramite il finanziamento di acquisizioni e fusioni, e si pone concretamente come freno allo sviluppo delle economie del resto del mondo, non in ultimo luogo tramite la crescente inflazione provocata dalla massa sempre più grande di dollari messi in circolazione. Similmente, anche il controllo dei brevetti agisce in questo senso, prevenendo il trasferimento tecnologico e garantendo uno strumento per imporre il rispetto delle sanzioni.
- Il nuovo monopolio dell’alleanza internazionale oligarchica con al centro un sovrano egemonico, gli USA, attorniato da diversi grandi paesi, che fornisce le basi per l’imposizione di politiche monetarie, la diffusione della cultura volgare e per poter minacciare militarmente gli avversari del monopolio.
La caratteristica più evidente di questa nuova fase imperialista è la ripartizione tra un egemone e una serie di paesi ad esso strettamente collegati, che compongono il “centro imperiale”. Il centro di questo è il G7, che funge da piattaforma di coordinamento, strettamente connessa per l’esecuzione delle sue decisioni a enti internazionali come l’FMI, la WTO e la Banca Mondiale. L’ordine internazionale così costituito non è nient’altro che un alleanza di alto livello dei principali monopoli capitalisti, controllata dagli Stati Uniti per perseguire i propri interessi strategici. A partire degli Anni ‘70 queste strutture sono state le principali promotrici della controrivoluzione neoliberale, imponendo il Washington Consensus a livello internazionale e condannando così interi paesi al sottosviluppo, a vantaggio di pochi creditori, direzionando verso Washington il plusvalore. La NATO è lo strumento di pressione militare di questa alleanza. Creata in funzione anticomunista nel 1949, a partire dalle illegali aggressioni contro la Jugoslavia e l’Iraq essa è diventata espressamente uno strumento offensivo e dalla portata globale, caratteristiche accentuate negli ultimi anni con la persistente volontà americana di creare una “NATO del Pacifico” e integrare sempre più paesi extraeuropei nell’alleanza.
- L’intensificazione negli aspetti predatori, egemonici, parassitari, moribondi, decadenti e fraudolenti del tardo imperialismo, rispondente alla sua essenza economica e alla tendenza generale.
Il neoimperialismo non è altro che un nuovo stadio dell’imperialismo, segnato da una maggiore concentrazione di capitale e dalla monopolizzazione delle risorse, dei mezzi di produzione, delle conoscenze, delle reti logistiche da parte del capitale finanziario monopolistico. L’acutizzazione delle tendenze già descritte da Lenin all’inizio del secolo scorso ha portato al saccheggio sia della classe lavoratrice che dell’economia di interi paesi. Il controllo dei prezzi e la creazione di bolle speculative permette l’intenso sfruttamento dei paesi stranieri; la privatizzazione dei beni pubblici e statali garantisce che la ricchezza collettiva cada nelle mani di pochi speculatori; il dominio nella finanza, nel commercio, nella sfera dell’informazione e in quella bellica permette di accentuare la divisione gerarchica tra centro e periferia. Si tratta di un meccanismo di polarizzazione visibile tanto all’interno delle società occidentali quanto a livello globale. Gli Stati Uniti esercitano una funzione parassitaria sull’economia mondiale: la ricchezza prodotta viene diretta verso i patrimoni dei pochi oligarchi della finanza che controllano la Casa Bianca. Questo natura parassitaria viene occultata retoricamente, ma emerge con sempre più forza nelle manifeste contraddizioni tra l’elogio del libero mercato e la guerra economica condotta contro paesi strategicamente “pericolosi”, tra la professione di fede democratica e “doppi standard” applicati a livello internazionale, tra vocazione “libertaria” e sistematica occupazione dei centri culturali, dei media, della sfera dell’informazione, del mondo accademico e del cyberspazio, tra “difesa della pace” e ricorso a ogni strumento di guerra, ibrida o diretta, per sostenere la propria egemonia. Tutto ciò indica come l’imperialismo sia ancor più moribondo e decadente rispetto ai tempi di Lenin, e suggerisce che, al di là dei rovesci subiti da alcuni paesi socialisti nel secolo scorso, la tendenza storica generale non sia mutata.
Lo stadio definito da Cheng Enfu come “neoimperialista” si può dire inizi con il 1991, inaugurando l’era in cui il progetto egemonico di Washington raggiunge il suo apice. Ma proprio la realizzazione di questo progetto egemonico si accompagna alla sempre più marcata comparsa delle spinte contrarie, quelle verso la multipolarizzazione del mondo e la democratizzazione dei rapporti internazionali.
A seguito del crollo dell’Unione Sovietica e dei paesi ad essa alleati, gli Stati Uniti poterono imporre violentemente il proprio dominio al resto del mondo, come testimoniano sia le ferocissime campagne militari, che dall’Iraq alla Serbia costarono milioni di morti, sia l’imposizione, più o meno sorridente, di misure economiche liberiste e del paradigma del Washington Consensus, politiche atte a favorire gli interessi della finanza di Wall Street a detrimento della stragrande maggioranza della popolazione. La globalizzazione a trazione statunitense, che almeno dal Nixon Shock in poi si era retta sempre più sulla speculazione e sulle capacità “dissuasive” date dal potenziale bellico statunitense, poté imporsi globalmente come unico modello concepibile, la vera e propria “fine della Storia” a cui ogni paese si sarebbe dovuto inesorabilmente adeguare. Questa visione, popolarizzata dal teorico sostenitore dell’imperialismo occidentale Francis Fukuyama, avrebbe accompagnato la coscienza delle oligarchie occidentale per gli anni a venire. Ma intanto la talpa scavava, e si preparava ad uscire fuori: la globalizzazione guidata da Washington non aveva solo integrato i mercati mondiali, ma aveva unito davanti a un comune oppressore, infinitamente arrogante e affamato, la stragrande maggioranza dell’Umanità. Sarebbe stata solo una questione di tempo prima che emergesse una guida politica capace di condurre la lotta anti-egemonica. I presupposti erano già pienamente visibili. La Repubblica Popolare Cinese, dopo aver efficacemente soppresso il tentativo di sovversione liberale avvenuto nel 1989, continuava la sua poderosa ascesa economica, collegando strategicamente la propria economia a quelle occidentali e frustrando così ogni progetto sanzionatori; la Federazione Russa resisteva al tentativo di ridurla a uno stato semi-coloniale messo in campo dagli USA a partire dalla presidenza Eltsin e, accanto agli oligarchi e dei vari svendi patria, continuavano a godere di grande potere i settori legati alle forze armate, ai servizi di sicurezza e all’economia pubblica; l’Iran, uscito con grandi danni dalla guerra imposta contro l’Iraq, poteva avviare un grande rafforzamento economico, politico e militare. Accanto a questi paesi si andava a costruire un ampio fronte, unito dalla comune volontà di difendere la propria indipendenza e di ribellarsi, per quanto inizialmente in maniera assai cauta, a paradigmi internazionali marcatamente squilibrati a favore di Washington. Il pericolo strategico era reale, come previsto da Brzezinski nel 1997, stesso anno in cui la Federazione Russa e la Repubblica Popolare Cinese firmarono una dichiarazione congiunta sulla costruzione di un mondo multipolare e di un nuovo ordine internazionale: “Potenzialmente, lo scenario più pericoloso sarebbe quello di una grande coalizione tra Cina, Russia e forse Iran, una coalizione “antiegemonica” unita non dall’ideologia ma da rivendicazioni complementari. Ricorderebbe per dimensioni e portata la sfida posta una volta dal blocco sino-sovietico, anche se questa volta la Cina sarebbe probabilmente a guidare e la Russia seguirebbe”90. Le bombe cadute su Belgrado, Kabul e Baghdad, le “rivoluzioni colorate” esplose in tutta l’Eurasia, gli squadroni della morte schierati dalle multinazionali americane contro i sindacalisti sudamericani e le riforme strutturali imposte dal Fondo Monetario Internazionale capaci di mettere in ginocchio interi paesi avrebbero creato il terreno necessario a far crescere questa “coalizione antiegemonica”. In questo contesto, gli Stati Uniti, nel loro attacco globale all’autodeterminazione e alla sovranità popolare, avevano allora come unico obiettivo salvaguardare il proprio progetto egemonico scongiurando l’avvento di nuovi concorrenti e il rafforzamento degli esistenti. I paesi “ribelli” dovevano essere puniti: dal Venezuela del presidente Chavez, contro il quale furono organizzati innumerevoli tentativi di golpe, alla Jamahiriya libica, a più riprese attaccata e alla fine distrutta, all’Iraq, anch’esso annientato e occupato militarmente.
La costruzione dell’unipolarismo americano, il “nuovo ordine mondiale” di G.W. Bush, vide parallelamente emergere un’opposizione sempre più aperta, galvanizzata anche dalla grande crisi economica apertasi nel biennio 2007-2008, che diffuse ancora di più a livello internazionale le critiche e le contestazioni alla globalizzazione a trazione statunitense. Le economie emergenti necessitavano di margini d’azione che l’egemonismo statunitense non poteva concedere, e per questo si organizzarono in strutture multilaterali come l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, fondata nel 2001, oppure i BRICS, creati nel 2009. I primi segnali di un cambiamento di fase significativo si ebbero nel 2008, quando sotto la presidenza di Barack Obama l’interesse americano si spostò dal Medio Oriente al Pacifico, secondo la dottrina di contenimento nota come Pivot to Asia. La Cina veniva identificata come uno dei principali avversari strategici, cosicché l’attenzione statunitense dovette spostarsi a Est per tentare l’accerchiamento, facendosi forze sui propri possedimenti semi-coloniali in Giappone, Corea del Sud e sull’isola di Taiwan, strappata al governo del Kuomintang grazie a rivoluzioni colorate in tutto e per tutto simili a quelle organizzate nell’Europa orientale. Nello stesso tempo non diminuì la pressione sul settore mediorientale, con lo scatenarsi delle “primavere arabe”, aventi il triplice obiettivo di distruggere governi ostili, indebolire la presenza russo-iraniana nella regione araba e rompere i legami fra i due lati del Mediterraneo. Libia, Tunisia, Egitto, Yemen caddero nel caos. La Siria, sede dell’importante base navale russa di Tartus, sembrò sul punto di cedere, con aspri combattimenti a pochi chilometri dagli uffici del presidente Bashar al-Asad, ma grazie all’intervento militare diretto della Federazione Russa e dell’Iran le milizie jihadiste collegate ad Israele e Stati Uniti e lo Stato Islamico furono ridotte a controllare poche roccaforti. Solo la zona di Idlib e la parte ad est dell’Eufrate, occupata dalle forze curde filo-americane e dalle stesse truppe statunitensi, rimasero in mani nemiche. L’intervento nel conflitto siriano da parte della Federazione Russa segnò la prima sconfitta strategica dell’egemonia statunitense, che non riuscì a “pacificare” la regione sotto la sua bandiera. L’intero Medio Oriente sarebbe stato strappato al controllo di Washington grazie a un progressivo rafforzamento dell’Iran e dei movimenti di resistenza nei vari paesi, dalla Palestina all’Iraq.
Accanto alla strategia di contenimento della Cina vi era quella dell’aggressione diretta contro la Federazione Russa. Con il golpe di Euromaidan, che mise al potere in Ucraina un regime ultra-nazionalista fondato sul revanscismo anti-russo e sull’esaltazione dei collaborazionisti nazisti della Grande Guerra Patriottica, venne creata la testa di ponte necessaria alla lotta contro Mosca, che, nei piani degli imperialisti, sarebbe dovuta essere rinforzata da regimi similari che altre “rivoluzioni colorate” avrebbero portato al potere in Bielorussia e Kazakhstan, dove, però, i tentativi di destabilizzazione vennero repressi. Dal Donbass al Pacifico, passando per la Siria, si aprì così la linea del fronte principale tra multipolarismo e unipolarismo. Principale, ma non unica: l’Africa e il Sud America divennero anch’essi focolai di conflittualità, basti pensare a golpe come quello “bianco” contro Lula o quello militare, dalla momentanea efficacia, contro Morales, o ancora all’Operazione Gedeone che, nella mente di Trump e dei suoi consiglieri, avrebbe dovuto abbattere il Venezuela bolivariano.
Il primo punto di questo fronte a deflagrare in una guerra aperta è stato quello ucraino, con l’intervento russo nel febbraio del 2022 a sostegno delle Repubbliche Popolari di Lugansk e Donetsk. Questo intervento, reso inevitabile dalla manifesta indisponibilità da parte dell’Occidente ad arrivare a qualsiasi mediazione e dal carattere sempre più aggressivo del regime di Kiev è stato un catalizzatore dei processi internazionali in corso, portando l’Occidente ad essere sempre più isolato a livello mondiale e diseguale al suo interno, con gli Stati Uniti capaci ora di imporre cocenti umiliazioni come l’imposizione di regimi sanzionati autolesionisti e l’attentato al Nord Stream 2 ad alleati subalterni un tempo aventi notevoli spazi d’autonomia come la Germania. Allo stesso tempo il resto del mondo ha visto aumentare i legami e le forme d’integrazione, sia a livello politico, con una crescita dei partenariati strategici, sia economico e finanziario, con la mirabile espansione dei BRICS e l’accelerazione del processo di de-dollarizzazione. Le politiche anti-russe dei paesi occidentali, adottate in ossequio agli ordini della Casa Bianca, hanno portato a un progressivo scollamento persino in campo atlantico, con la crescente indisposizione di paesi come la Turchia, l’Ungheria e la Slovacchia a vedere i propri interessi nazionali sacrificati sull’altare di una guerra per procura contro la Federazione Russa.
L’esplosione del conflitto aperto in Ucraina e Donbass non è stata che l’inizio. Parallelamente sono cresciute le tensioni nella penisola coreana e nel Mar Cinese Meridionale, con paesi come il Giappone e le Filippine e autorità come quelle di Seoul e di Taipei progressivamente preparata materialmente (e psicologicamente) al conflitto armato con la Repubblica Popolare Cinese. Nel continente africano numerosi paesi sono riusciti a sottrarsi al controllo neocoloniale di Parigi e Washington, sia tramite colpi di Stato militari fortemente appoggiati dalla popolazione, come nei casi di Niger, Burkina Faso, Guinea e Mali, sia tramite regolari elezioni, come nel caso del Senegal. L’appoggio di Russia, Cina e Iran è stato centrale per frustrare i tentativi di riconquista da parte delle forze occidentali, come nel caso delle minacce di intervento armato francese contro il Niger attraverso l’esercito nigeriano. Nell’America Latina la resistenza all’imperialismo statunitense, sostenuto dalla borghesia compradora locale, ha permesso a Nicaragua, Cuba e Venezuela di stroncare diversi tentativi di sovversione e di “rivoluzioni colorate”, mentre le elezioni in Colombia e Brasile hanno permesso di cacciare i più ardenti sostenitori della sudditanza del continente al dominio di Washington. Anche in questa regione la collaborazione economica con il “campo multipolare” è stata essenziale a innescare percorsi di sviluppo per anni bloccati dalle sanzioni e dalla guerra economica promossa dagli USA, come nel caso del Venezuela. Grazie all’operazione Tempesta di al-Aqsa lanciata nell’ottobre 2023 dalla resistenza palestinese e sostenuta dall’Iran e dalle forze di resistenza della regione, da Hezbollah ad Ansarallah, una pedina chiave del sistema egemonico statunitense come l’entità sionista è stata messa portata a una crisi possibilmente irreversibile, che si manifesta sia nella sempre più brutale violenza contro la popolazione civile palestinese, sia nell’instabilità politica.
È chiaro che davanti a noi vi sia una vera e propria Terza Guerra Mondiale combattuta in maniera ibrida e su numerosi fronti che, per quanto non ancora segnata da confronti militari diretti tra le principali potenze, rischia costantemente escalation incontrollabili dati dall’ostinata volontà degli Stati Uniti di non rinunciare a una egemonia nei fatti già minata dallo stesso percorso storico. Questa testardaggine non è dovuta unicamente all’intransigentismo ideologico del suprematismo occidentale di cui sono infarcite le menti delle classi dirigenti di questa parte del mondo, un’ottica delirante che porta a vedere il mondo come ripartito tra un “giardino ordinato” e una “giungla selvaggia”, ma anche alla necessità per il capitale finanziario di Wall Street e della City di Londra di lottare sino alle estreme conseguenze per tutelare la sua stessa esistenza, ormai totalmente dipendente da quel regime speculativo e di sfruttamento costruito tramite la globalizzazione a guida statunitense. Come ribadito più volte dal presidente Biden, gli Stati Uniti si auto-rappresentano come l’unica “nazione indispensabile”91, secondo una nota formulazione della Albright. La realtà dei fatti però è in crescente contraddizione con questa formulazione. Stiamo vivendo un’epoca di trasformazioni profonde, e gli Stati Uniti devono decidere se riconoscersi come un paese normale, uno tra molti, o semplicemente scomparire nella loro attuale configurazione.
L’ordine internazionale esistente fino a pochi anni fa, lo stato di totale subordinazione dell’Umanità alla tirannia delle lobbies di Washington, ha fatto il suo tempo. In questa fase di lotta e trasformazione non è permessa nessuna vigliacca “equidistanza”, e qualsiasi chiacchiera sugli “opposti imperialismi” deve essere smascherata per quello che è: becero opportunismo, tradimento a favore dell’imperialismo.
Una buona parte dei partiti “comunisti” occidentali, dai resti del trotskismo organizzato sino alle sigle che orbitano attorno al KKE, camuffano la propria reale posizione reazionaria tramite una fraseologia massimalista basata sul “nénéismo”: essi rifiutano la realtà per quello che è, e scelgono di sostenere un immaginario “terzo campo” che dovrebbe liberarli dal gravoso fardello dell’analisi concreta della situazione concreta e dalla faticosa necessità di mostrare il coraggio politico che dovrebbe essere connaturato a chi si propone come avanguardia di quella classe che vorrebbe abolire e superare l’esistente e condurre l’intera umanità verso una nuova fase del suo sviluppo. Essi preferiscono riciclare analisi formulate un secolo fa in condizioni completamente differenti dalle attuali sostenendo che se si sono rivelate corrette ai tempi devono esserlo altrettanto oggigiorno. Il loro sofismo è nettamente opposto al metodo materialista dialettico in quanto non considera le cose da tutte le angolazioni, nella loro complessità e nei percorsi di trasformazione, ma prende postulati corretti solo in determinate condizioni e li rende assoluti. Ragionando sulla degenerazione della Seconda Internazionale, Vladimir Lenin pose sotto attacco proprio i metodi sofistici con cui si pretendeva di giustificare una guerra imperialista attraverso il ricorso agli schemi della guerra nazionale proposti da Engels e Marx in un contesto differente. Gli opportunisti della Seconda Internazionale pretendevano di giustificare la militanza a favore di questo o quello schieramento imperialista chiamando in causa una natura nazionale della guerra esistente solo nella narrazione propagandistica della grande borghesia. Similmente gli opportunisti moderni pretendono di condannare la lotta per la costruzione di un mondo multipolare categorizzandola come manifestazione di “contraddizioni inter-imperialiste”. Ai vari “compagni” occidentali manca la comprensione degli ultimi 80 anni di Storia! Dove sarebbero i rapporti di dominazione e sfruttamento imposti dalla Russia? Dove sarebbero i protettorati indiani, i popoli piegati dal saccheggio brasiliano o decimati dalle mira espansionistiche cinesi? Dove sarebbero le vittime dell’imperialismo iraniano? Fantasie che possono esistere solo nelle menti più annebbiate dalla propaganda borghese e dal suprematismo occidentalista, tra chi è ben protetto dagli effetti distruttivi dell’egemonismo americano. Al contrario l’azione internazionale di paesi come Russia, Cina e Iran ha ampliato gli spazi di autonomia e autodeterminazione dei popoli, contribuendo a costruire percorsi di sviluppo basati sull’auto-rafforzamento e a difendere, o riconquistare, l’indipendenza nazionale. Dall’Africa alla Palestina, dalle Isole Salomone all’America Latina tutto ciò è perfettamente chiaro alla stragrande maggioranza dell’Umanità, che guarda con crescente interesse a progetti come la Via della Seta e all’integrazione economica in seno ai BRICS sulla base dei concreti risultati ottenuti dall’esperienza di collaborazione economica con Mosca e Pechino.
Tenendo presente la traiettoria storica del sistema imperialista, il suo passaggio da una molteplicità di centri di potere concorrenti ed equivalenti a una stretta gerarchizzazione in seno allo stesse economie capitalistiche avanzate, costrette a piegarsi alla volontà dell’egemone anche a prezzo della loro stessa tenuta, appare chiaro come la situazione contemporanea non possa minimamente essere paragonata a quella del 1914, e, di conseguenza, è perfettamente comprensibile come lo scontro internazionale in atto non mostri nessuna somiglianza con la Prima Guerra Mondiale. Quella che è in corso non è una guerra per una diversa spartizione del mondo tra blocchi imperialisti, non è uno scontro per decidere chi opprimerà più nazioni, ma una guerra di liberazione internazionale condotta da un fronte eterogeneo e con non poche contraddizioni contro il prodotto storico dell’epoca dell’imperialismo: gli Stati Uniti d’America. Parlare attualmente di imperialismo brasialiano, indiano o, ancora peggio, di un imperialismo russo o cinese non è solo errato da un punto di vista teorico, in quanto nessuno di questi paesi, nemmeno quelli dalla più marcata dirigenza borghese, vive grazie all’azione parassitaria sul resto del mondo, ma è anche in profonda antitesi alla realtà per come è: nessun altro Stato al di fuori degli USA è capace di esercitare quella violenza internazionale inseparabile dalla natura materiale di uno Stato imperialista, nessun altro paese vive in maniera così cristallina ed esemplare ogni privilegio di un’esistenza parassitaria garantita dal controllo della finanza speculativa e dall’egemonia del dollaro. Parlare di “opposti imperialismi”, per quanto retoricamente possa sembrare sintomo di “ortodossia marxista”, nei fatti dimostra unicamente una dissociazione dalla realtà, l’incapacità di comprendere la situazione reale nella quale si opera politicamente e un ossessivo culto del libro che porta a valutare il presente solo alla luce del passato, quasi che ogni sviluppo della Storia non possa che essere il ripetersi ciclico di ciò che è già avvenuto, in una prospettiva ben distante da quella del materialismo dialettico, ma anzi profondamente metafisica, un idealismo volgare figlio della decadente borghesia occidentale.
La narrazione basata sugli “opposti imperialismi” non trova riscontri pratici, e si fonda essenzialmente sulla decontestualizzazione e sul citazionismo libresco. Essa deriva essenzialmente dalla visione propria di quella che è stata chiamata “sinistra compatibile”: l’ordine imperialista può essere respinto a parole, ma qualsiasi contrasto materiale ad esso deve essere bollato come altrettanto negativo, se non peggiore, dello status quo, ottenendo così una perfetta simbiosi tra massimalismo fraseologico e prassi reazionaria. Tale orientamento ha chiare radici “atlantiche”, fondandosi sull’operato del Congress for Cultural Freedom, fondato dalla CIA negli Anni ‘50 per promuovere una “contro-egemonia controllata” all’interno della sinistra in funzione anticomunista, rappresentata eminentemente dalla Scuola di Francoforte. Questa versione annacquata e distorta del marxismo è perfettamente compatibile con il progetto egemonico statunitense e, come notato da Carlos L. Garrido nel suo essenziale lavoro sul feticcio della purezza del marxismo occidentale, “non è un caso che si possano trovare solo “marxisti” che sono più critici del socialismo che del capitalismo all’interno del mondo accademico e dei media”92. Non è un caso che queste formazioni “rivoluzionarie”, dagli anarchici più movimentisti ai “maoisti”, passando per la galassia trotskista, possa vegetare nell’indifferenza del potere borghese, mentre invece formazioni dall’estetica assai meno dirompente e dalla fraseologia più moderata siano investite da vere e proprie campagne diffamatorie, se non da violenze e repressione politica, per una collocazione concreta in opposizione all’egemonismo statunitense, come testimoniano numerosi casi, da quello del Partito Comunista Americano negli Stati Uniti all’opposizione patriottica moldava, da Sahra Wagenknecht in Germania allo SMER slovacco. E non è nemmeno un caso che queste formazioni “rivoluzionarie” finiscano inevitabilmente ad essere subalterne rispetto alla “sinistra” imperiale. È arcinoto che in Italia, come nel resto dell’Occidente, la galassia antagonista e disobbediente non è che l’ala movimentista del centrosinistra, la sua “guardia plebea a buon mercato”, come giustamente rilevato da Costanzo Preve, pronta a mobilitarsi a comando contro gli i nemici indicati loro da Bruxelles e Washington, siano questi presunti “fascisti”, “populisti”, “razzisti”, “omofobi” o semplicemente normali cittadini non abbastanza entusiasti del “sogno europeo” e del suo corollario di precarizzazione e di distruzione di ogni solidità familiare, relazionale, sociale e identitaria.
Che cos’è la lotta per il multipolarismo? La lotta per il multipolarismo non è altro che una particolare manifestazione della lotta di classe, che vede la stragrande maggioranza dell’Umanità, ossia chi svolge funzioni produttive e vive del proprio lavoro, contrapposta a una ristrettissima cerchia di speculatori e finanzieri, una borghesia che, arrivata all’estremo del suo percorso storico, è materialmente concentrata, al di là di ogni formalità burocratica, in un nocciolo duro innestato sull’asse Washington-Londra-Bruxelles.Da un lato abbiamo appunto la borghesia compradora e il capitale imperialista statunitense, con quello dei suoi imperialismi subalterni e relative strutture, Unione Europea in primis, dall’altro la saldatura di interessi fra le classi subalterne (lavoro dipendente e precario, piccola borghesia, lavoratori autonomi, pensionati, disoccupati…) e settori di borghesia nazionale che in questa fase rivendicano la lotta per l’indipendenza e contro l’egemonia. Ciò è sia visibile nei paesi attualmente coinvolti nel processo multipolare, sia dovrebbe rappresentare l’orizzonte d’azione politica nei paesi laddove al potere vi è la borghesia compradora e le cricche legate all’imperialismo americano. Rinnegare la lotta di classe espressa dal multipolarismo significa concretamente porsi nel campo della reazione e dell’imperialismo, significa praticare un social-sciovinismo euro-atlantista mascherato da marxismo ortodosso, significa tradire la classe lavoratrice a favore del grande capitale. Nulla di nuovo per chi è già abituato da decenni a spacciare la subalternità ideologica al liberalismo e all’egemonia di Washington come affermazione di qualche “identità rivoluzionaria”.
Quello che abbiamo davanti non è una “ridefinizione delle sfere d’influenza”, ma la costruzione di un nuovo ordine internazionale basato su nuovi paradigmi. Ciò non è frutto del caso, ma dell’evoluzione storica e della volontà politica degli attori coinvolti. La manifestazione teorica più conseguente di ciò viene ancora una volta dal Partito Comunista Cinese, con l’elaborazione del concetto di Comunità umana dal futuro condiviso e l’opera concreta per la sua costruzione. Questo concetto, che si ritrova con insistenza nei documenti politici cinesi, rappresenta la più chiara visione attualmente prodotta sulle tendenze dei tempi attuali e sulla strada che l’Umanità dovrebbe percorrere: una grande ristrutturazione dei rapporti internazionali e dei modelli di sviluppo, l’adozione di strumenti democratici di risoluzione delle contraddizioni, la preminenza della cooperazione mutualmente vantaggiosa e ad ampio respiro sulla competizione e sulla conflittualità. Ciò potrà essere reso possibile solo dall’abbattimento del sistema imperialista egemonico degli Stati Uniti e l’edificazione al suo posto di una nuova architettura internazionale priva di egemoni. Ciò però non significa certo una diversa “fine della Storia”: contraddizioni continueranno ad esistere, persino marcate, ma ciò che sarà cambiata sarà la fase storica: la vittoria del multipolarismo porterà alla costruzione di una comunità umana dal futuro condiviso, ambiente in cui il socialismo potrà svilupparsi ed estendersi, progressivamente e come conseguenza del moto politico di rinnovamento globale e dell’immensa liberazione delle forze produttive dalle catene dell’imperialismo, a livello planetario, in un contesto segnato a livello internazionale dalla compresenza di indipendenza e interdipendenza come poli non conflittuali delle relazioni tra popoli e Stati.
Parlando alla settantesima Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2015, Xi Jinping espose con chiarezza questa necessità di rinnovamento: “Tutti i paesi, congiuntamente, devono tenere in mano le redini del destino del mondo. Tutte le nazioni, senza eccezioni, devono essere uguali: il grande non può schiacciare il piccolo, il forte non può opprimere il debole, il ricco non può avvantaggiarsi a danno del povero. Il principio della sovranità non si estrinseca solamente nell’inviolabilità della sovranità nazionale, nell’integrità territoriale e nella non interferenza negli affari interni dei singoli paesi, deve estrinsecarsi anche nel diritto di ognuno di scegliere liberalmente il proprio sistema sociale e il proprio modello di sviluppo economico, così come deve estrinsecarsi nel rispetto dovuto alle azioni messe in atto da ogni paese per promuovere lo sviluppo economico e sociali e migliorare il tenore di vita della propria popolazione”93.
La costruzione di un mondo dove cooperazione, non ingerenza, pluralismo di culture, civiltà, sistemi politici e sociali non significa, è bene ripeterlo, la fine di ogni conflitto o contraddizione. Sarebbe antidialettico e antimarxista affermarlo. Il mondo multipolare, la comunità umana dal futuro condiviso, continueranno a conoscere scontri e tensioni, perché continuerà ad esistere, ancora per un certo tempo, il sistema capitalistico, e questo anzi avanzerà compiutamente là dove esistono ancora rapporti di produzione arretrati e condizioni semi-coloniali. Ma queste contraddizioni non saranno più di tipo antagonistico ‒ poiché se trattate nel modo dovuto, ossia attraverso un nuovo sistema di governance globale indirizzato alla costruzione di una comunità umana dal futuro condiviso, le contraddizioni tra i vari paesi e le loro classi dirigenti, potranno trasformarsi in contraddizioni non-antagonistiche ‒, non porteranno alla creazione di rapporti di dipendenza e subalternità, poiché la fase in cui si sarà entrati sarà completamente diversa e inedita: con il superamento del sistema imperialista si sarà nella prima fase della concreta instaurazione del socialismo su scala planetaria. Il socialismo ha occupato sino a questo momento una posizione subordinata nella sua contraddizione con il capitalismo. L’abbattimento del sistema unipolare rappresenta il momento della trasformazione in cui i due aspetti di questa contraddizione vedono la propria relazione invertirsi. La comunità umana dal futuro condiviso è l’ambiente in cui il socialismo cresce nella sua predominanza, preparando la strada al salto qualitativo rappresentato dal passaggio alla società comunista, e il capitalismo gradualmente scompare su scala mondiale. Lo studioso marxista cinese Yu Pei dà una precisa descrizione di questa relazione: “L’idea di una comunità globale con un futuro condiviso è l’incarnazione della teoria marxista dell’emancipazione umana in queste nuove condizioni storiche e identifica un obiettivo e una direzione per le future iniziative dell’umanità. In questo senso, la costruzione di una comunità globale con un futuro condiviso è una tappa che dobbiamo attraversare se vogliamo realizzare in futuro “una comunità di individui liberi”. Il comunismo è un risultato inevitabile dello sviluppo sociale: questo obiettivo è lontano ma non senza speranza, e la ragione della sua eventuale realizzazione può essere trovata sia nella storia che nella realtà94. Questa direzionalità politica smentisce l’analisi di chi vede nella promozione del multipolarismo null’altro che una riedizione della teoria kautskyana del “superimperialismo”. Questa descrive la possibilità di una “coesistenza pacifica” di vari sistemi imperialisti impegnati in uno sfruttamento congiunto del mondo, senza più la necessità per questi di far ricorso alla guerra come strumento di competizione. Ciò non ha nulla a che vedere con il multipolarismo, che si fonda sulla coesistenza tra diversi Stati, sistemi politici e sociali in un contesto regolato da una governance globale che prevenga ogni progetto egemonico.
La lotta per il multipolarismo, che ha la costruzione di una Comunità umana dal futuro condiviso come finalità, è una vera e propria guerra di liberazione su scala internazionale. Un qualcosa di inedito, poiché inedita è la situazione che vede l’apice della dominazione statunitense sul mondo e al contempo l’apice della resistenza a questa dominazione. La contraddizione tra questi due elementi è sempre più matura, e porterà al superamento del sistema imperialista stesso. Il campo “unipolarista” ha al suo vertice la piramide finanziaria di Wall Street, e alla sua base la borghesia compradora dei vari paesi subalterni e gli apparati collaborazionisti e clientelari locali. Il campo multipolare è assai più eterogeneo, sia dal punto di vista sociale che statale. Esso vede la convergenza degli interessi delle masse lavoratrici del mondo che, tranne nei settori di “aristocrazia operaia” cooptati dal sistema imperialista, hanno tutto da guadagnare dall’abbattimento del Washington Consensus e dall’apertura di spazi per esercita la propria sovranità democratica, con quelli della borghesia nazionale dei vari paesi, tanto del Sud del Mondo quanto, in certa parte, dell’Occidente subalterno alla guida predatoria statunitense. Questa composizione di classe è ben visibile nei paesi che sostengono, più o meno apertamente e coerentemente, la multipolarizzazione del mondo: dove vi è una maggiore dipendenza dal capitale imperialista e forza politica della borghesia nazionale l’appoggio alla trasformazione multipolare sarà più debole e incostante, dove le forze progressive espressione della classe lavoratrice e della tendenza allo sviluppo giocano un ruolo decisivo l’impegno a favore del multipolarismo è aperto e sincero. Nel primo gruppo possiamo annoverare paesi come la Turchia, l’India o l’Arabia Saudita, mentre il secondo raccoglie il vero “nucleo” del processo di trasformazione ora in atto, di cui i più influenti rappresentanti non possono che essere la Repubblica Popolare Cinese, la Federazione Russa e la Repubblica Islamica dell’Iran95. Il processo di trasformazione ora in corso non lascerà immutati nemmeno questi attori. Essi ne usciranno profondamente modificati, con la fazione interna ad essi più vicina alla borghesia compradora e all’imperialismo americano fortemente ridimensionata se non del tutto eliminata. È il caso, tra gli altri, della Russia, dove le esigenze belliche necessariamente stanno portando a una maggiore presenza dello Stato nell’economia e allo scontro con certi “oligarchi” e centri di potere i cui interessi sono strettamente all’Occidente e alla sottomissione a questo. Come già rilevato giustamente da Alexander Dugin, per vincere il conflitto in corso la Russia dovrà trasformare questa in una “guerra popolare”, mobilitando le masse anche ideologicamente, una tendenza che è stata confermata dai fatti anche con la nomina di Andrei Belousov, sostenitore della direzione pubblica dell’economia, al Ministero della Difesa. Ma è anche il caso di tutti gli Stati “mediani”, dove si verificherà una polarizzazione interna che non sarà unicamente lo scontro fra diversi settori di Capitale, ma lo scontro fra gli interessi delle classi subalterne e di settori di borghesia nazionale contro quelli dell’imperialismo e della borghesia compradora, con in ballo quindi una modifica dei rapporti di forza a favore del popolo lavoratore.
Questa inedita configurazione internazionale si presta a un paragone piuttosto calzante non già alle teorie kautskyane, ma alla rivoluzione cinese, dove la vittoria fu garantita da un Fronte Unito guidato dal PCC ed espressione della convergenza di interessi di più classi e partiti, un felice e fruttuoso adattamento della strategia del Fronte Popolare al contesto cinese promosso da Mao Zedong portato avanti a partire dalla seconda metà degli Anni ‘30 sino ai giorni nostri.
Il Fronte Unito nacque come alleanza, guidata politicamente dal Partito Comunista Cinese, delle classi rivoluzionarie, ossia proletariato, contadini, piccola borghesia e borghesia nazionale, unite nell’opposizione all’imperialismo, in particolare a quello giapponese, che all’epoca rappresentava per la nazione cinese la contraddizione principale: “Qual è il compito tattico fondamentale del Partito? La creazione di un vasto fronte unito nazionale rivoluzionario, non altro. Quando la situazione della rivoluzione cambia, occorre mutare di conseguenza la tattica e i metodi di direzione della rivoluzione. Il compito dell’imperialismo giapponese, dei collaborazionisti e dei traditori della patria è trasformare la Cina in una colonia; il nostro compito è invece trasformare la Cina in uno Stato libero, indipendente, che goda dell’integrità territoriale. […] Se finora il nostro governo è stato basato sull’alleanza degli operai, dei contadini e della piccola borghesia urbana, da oggi in poi esso dovrà essere un governo che comprenda anche quegli elementi delle altre classi che vogliono partecipare alla rivoluzione nazionale. Oggi il compito fondamentale di un tale governo è quello di opporsi al tentativo dell’imperialismo giapponese di annettere la Cina. Questo governo sarà molto largo e includerà non solo coloro che sono interessati alla rivoluzione nazionale e non alla Rivoluzione agraria, ma anche, se lo vogliono, coloro che non sono in grado di lottare contro gli imperialisti europei e americani per i vincoli che li legano a essi, ma che sono pronti a lottare contro l’imperialismo giapponese e i suoi lacchè”96.
Venivano così compresi nel Fronte Unito non solo i proletari e i contadini, i più saldi nella lotta per l’indipendenza nazionale e politicamente più affidabili, ma anche diversi settori borghesi che mostravano comportamenti più ambigui e meno univoci, ma che erano comunque portati, per un insieme di interessi materiali e coscienza patriottica, ad opporsi almeno alle manifestazioni più violente e umilianti dell’imperialismo. La garanzia della direzionalità della lotta era data dal controllo politico del PCC, che avrebbe impedito qualsiasi deviazione verso compromessi di convenienza, eterna tentazione degli strati medio-alti di borghesia.
Anche se con le ovvie differenze date dal diverso contesto d’applicazione e dalla diversa, e più complessa, natura dei soggetti coinvolti, l’attuale lotta per il multipolarismo può essere vista come un’applicazione su scala internazionale del medesimo principio. È chiaro come gli interessi del popolo lavoratore siano contrapposti a quelli dell’imperialismo statunitense, che attraverso la speculazione, l’austerità, la predazione della ricchezza pubblica, la negazione dei diritti sociali, le guerre e la miseria esso ha per loro rappresentato sempre una forza esclusivamente regressiva, ma è altrettanto importante notare come la globalizzazione a guida statunitense abbia sistematicamente negato gli interessi di settori relativamente ampli di borghesia, quelli più legati al contesto nazionale e meno competitivi sui mercati globali. La corsa al riarmo e le prospettive di disaccoppiamento economico ha inoltre non solo ulteriormente danneggiato questi, ma esteso gli effetti nocivi anche a quelli più strettamente legati alle economie emergenti. Se si pensa al piano internazionale, appare ancora più chiaro come le esigenze di sviluppo, sicurezza e stabilità che accomunano tutti i paesi del mondo siano negate materialmente dalla prassi predatoria dell’imperialismo statunitense e dalle sue catene economiche, politiche e ideologiche. Ne nasce una convergenza d’interessi che, per quanto parziale, è decisiva e risponde alla principale contraddizione della nostra epoca.
Non sorprende quindi come nel fronte per il multipolarismo vi siano paesi e organizzazioni estremamente diversificati, da Hezbollah al Venezuela, dalla Russia al Niger, dalla Corea popolare al Burkina Faso, dalla Siria al Nicaragua, dal Brasile all’Algeria. A chi spetta la direzione politica di questo movimento? È innegabile che i grandi successi politici, economici e scientifici della Repubblica Popolare Cinese propendano per una crescente attrattività di questa e dell’esempio dato dal suo modello a livello internazionale.
Scrivendo a Kautsky nel settembre del 1882, Friedrich Engels espose l’idea per cui un Occidente socialista avanzato avrebbe traghettato il resto del mondo arretrato verso il progresso esclusivamente tramite meccanismi economici, senza bisogno di interventi armati o coercitivi di nessun tipo97. Vladimir Lenin, parlando ai delegati della X Conferenza Panrussa del PCR(B) nel maggio del 1921, affermò come lo sviluppo economico fosse divenuto fondamentale in un contesto di progressiva crisi del mondo capitalista, tanto da dover esercitare la principale influenza sulla rivoluzione internazionale tramite esso98. La Repubblica Popolare Cinese, avendo occupato le “alture dominanti” dell’economia mondiale, essendo divenuta l’unica vera superpotenza manifatturiera al mondo, guidando lo sviluppo scientifico e avendo garantito un valido esempio nella lotta alla povertà e al sottosviluppo, è pienamente in grado di ricoprire il ruolo di “magnete” a livello internazionale per guidare pacificamente e senza imposizioni l’evoluzione in senso socialista dell’Umanità. Il crescente interesse di partiti politici e governative statali di ogni continente al sistema del socialismo con caratteristiche cinesi non ne è che una prova.
L’analisi dei fatti dimostra come la lotta per il multipolarismo sia concretamente la lotta per l’indipendenza nazionale e la lotta per il socialismo. Sostenere la lotta per il multipolarismo significa appoggiare materialmente lo sviluppo del socialismo, osteggiarla, al di là dell’apparenza identitaria, significa combattere contro lo sviluppo verso il socialismo dell’Umanità. Gli interessi delle masse popolari occidentali non sono distinti rispetto a quelli della classe lavoratrice internazionale, e attualmente si identificano concretamente con la lotta per il multipolarismo. Questa lotta è quindi da sostenere, senza se e senza ma, senza distinguo, ma con un posizionamento chiaro e politicamente ragionato. Con l’inasprimento delle contraddizioni e la sempre più rapida evoluzione dei processi la chiarezza è fondamentale e necessaria, non è più possibile tergiversare e nascondersi dalla realtà.
All’interno dello scenario italiano non vi sono istituzioni o forze organizzate di massa apertamente e coerentemente schierate per il multipolarismo. Vi sono alcuni soggetti associativi “corpuscolari” che esprimono certe posizioni, mentre le masse, ogni qualvolta vi siano movimenti di protesta e di scontento, inevitabilmente arrivano più o meno coscientemente a porre la questione dell’indipendenza nazionale dal giogo statunitense, e quindi della multipolarizzazione del mondo. La Chiesa Cattolica, nella sua complessità interna, ha espresso qualche cauta apertura sotto il pontificato di Bergoglio alla democratizzazione delle relazioni internazionali e a una nuova configurazione della struttura di potere mondiale. Ciò però non si è tradotto in un impegno a sostegno di ciò da parte della vasta rete associativa connessa al Vaticano, probabilmente anche per attriti interni alla curia romana.
Al contrario, le forze sostenitrici dell’unipolarismo e dell’egemonismo statunitense sono presenti e dotate di un’influenza strabiliante, frutto di una penetrazione pluridecennale nel mondo accademico, nella cultura, nella società civile, nei media, nelle istituzioni, nei partiti e nella burocrazia. Dalla destra alla “sinistra compatibile” movimentista, passando per gli apparati sindacali, le associazioni di categoria, le cooperative e le varie fondazioni, vi è una sostanziale uniforme, per quanto esteticamente differenziata, adesione al progetto egemonico di Washington, portata avanti sia sulla base di un convincimento ideologico, sia su quella di interessi clientelari da tutelare. Nel nostro contesto nazionale in cui l’ortodossia atlantista è stata imposta a furia di complotti, attentati, rapimenti e omicidi, spicca per fedeltà servile il Partito Democratico e la relativa rete organizzativa, dalla CGIL all’Arci, dall’ANPI alle varie cooperative dei più svariati settori. Per quanto il governo Meloni abbia manifestato la totale disponibilità delle forze della destra a svendere l’interesse nazionale e rischiare finanche il coinvolgimento in una guerra mondiale in nome della sottomissione a Washington, il Partito Democratico rimane sempre la “riserva strategica” sempre impiegabile dagli Stati Uniti per evitare qualsiasi sbandamento dell’Italia. La residuale, ma rumorosa, area della “sinistra” disobbediente e dall’estetica massimalista, nonostante la distanza verbale, agisce essenzialmente come bassa manovalanza per il Partito Democratico, popolarizzandone le battaglie socio-economiche e operando una vera e propria “repressione preventiva” contro qualsiasi organizzazione o movimento politico possa distaccarsi dai canoni dell’accettabilità liberale. È importante notare come la cosiddetta estrema sinistra guardò nel suo complesso con profonda ostilità a movimenti genuinamente popolari e dalle potenzialità progressive come quello dei Forconi del 2013, quello anti-europeista degli anni 2016-2019 e a quello di contestazione contro la gestione pandemica del 2021-2022. E serve altrettanto tenere a mente come questi “antagonisti” abbiano diretto le proprie violenze e la proprie contestazioni pubbliche principalmente contro gruppuscoli totalmente ininfluenti e semi-sconosciuti dell’estrema destra oppure contro personalità “colpevoli” di una diversa opinione su materie di costume, e quasi mai invece contro i soggetti politici responsabili, tra le altre cose, del golpe neonazista in Ucraina del 2014, della promozione dell’integrazione europea o della partecipazione dell’Italia alle campagne imperialiste degli USA. La contestazione a questi gruppi, nei rari casi in cui avviene, è comunque sempre depotenziata, e animata, nel pieno stile della “sinistra compatibile”, da una parallela critica “nénéista” anche alle vittime dell’aggressione imperialista o a chi si sta difendendo da questa. Questo non rappresenta che uno dei numerosissimi segnali che indicano la reale collocazione politica della cosiddetta “estrema sinistra” in Italia: una forza reazionaria, anticomunista e subalterna all’imperialismo statunitense.
6. L’Italia: paese semicoloniale
L’apparato di controllo e repressione (preventiva e non) costruito dagli Stati Uniti in Italia a partire dal 1943 è significativamente più grande e influente di quelli speculari costruiti in altri paesi subalterni a Washington. Per questo motivo l’Italia assume più le caratteristiche di una semi-colonia, di un protettorato rispetto a quelle di un paese sottomesso ma dotato ancora di certi spazi d’autonomia come, per esempio, la Francia. L’Italia non può essere considerata un paese imperialista: è chiaro che il nostro paese faccia parte del campo imperialista, ma come semi-colonia di Washington e della sua egemonia.
Nella sua storia contemporanea l’Italia ha attraversato una sua fase da imperialista, per quanto caratterizzata sempre da una (parziale) subordinazione al capitale straniero, prima a quello tedesco99, poi a quello anglo-francese. L’arretratezza relativa del sistema produttivo e la debolezza della grande borghesia portarono a un “imperialismo in miniatura”, capace unicamente di ottenere il controllo di zone residuali del continente africano, senza peraltro riuscire a trarre vantaggi significativi dallo sfruttamento di queste. Non è un caso che la grande borghesia nostrana, per mantenere il controllo del paese, sia stata tra le prime nel mondo occidentale a dover ricorrere agli strumenti del fascismo, testimoniando la particolare debolezza delle istituzioni liberali italiane e della classe capitalistica, che solo per gli errori soggettivi del movimento socialista italiano riuscì a rimanere al suo posto.
Nonostante ogni fattore di debolezza, agli inizi del secolo scorso l’Italia si poteva definire un paese imperialista, controllata da un capitale monopolistico dedito alla predazione internazionale. Come è possibile dunque parlare oggi di Italia “semi-coloniale”? Da una prospettiva marxista ciò non è solo possibile, ma fondamentalmente corretto, perché si fonda sull’analisi della realtà attuale e dei processi di trasformazione che hanno investito il nostro paese nell’ultimo secolo.
La Storia non è l’eterna ripetizione del medesimo, ma processo dialettico di trasformazione, caratterizzato da uno “stato di cambiamento e movimento perpetui, di rinnovamento e di sviluppo incessanti, dove sempre qualche cosa nasce e si sviluppa, qualche cosa si disgrega e scompare”100. Può accadere che qualcosa muti nel suo opposto e che, a seguito dell’accumularsi di cambiamenti quantitativi, un grande sconvolgimento qualitativo trasformi in maniera radicale un soggetto, e quindi la relazione tra questo e gli altri. Ciò non rappresenta un evento eccezionale, ma anzi un fenomeno caratterizzante del processo dialettico, in quanto ogni contraddizione necessariamente prevede anche l’identità tra i due termini che la compongono, per quanto relativa e transitoria: “L’identità degli opposti […] è il riconoscimento (scoperta) delle tendenze contraddittorie, mutuamente esclusive, opposte in tutti i fenomeni e processi della natura (comprese la mente e la società). […] L’unità (coincidenza, identità, equipollenza) degli opposti è condizionata, provvisoria, transitoria, relativa. La lotta degli opposti che si escludono reciprocamente è assoluta, come sono assoluti lo sviluppo, il movimento”101.
Ogni contraddizione permette che i due termini, a causa del loro rapporto particolare tra opposizione e identità, influenzandosi vicendevolmente e sviluppandosi, possano cambiare di posizione relativa e variare nella loro natura. Ogni processo vede variazioni quantitative portare, accumulandosi, a profondi salti qualitativi. Questi due stati del movimento si possono dire di riposo relativo e di cambiamento evidente: “Ambedue sono dovuti alla lotta reciproca dei due elementi contraddittori, contenuti nella cosa stessa. Quando una cosa nel suo movimento si trova nel primo stato, subisce soltanto modificazioni quantitative e non qualitative e perciò si manifesta in stato di riposo apparente. Quando invece una cosa nel suo movimento si trova nel secondo stato, poiché le modificazioni quantitative che essa ha subito nel primo hanno raggiunto un punto massimo, si verifica la dissoluzione della cosa come entità, avviene un cambiamento qualitativo e di conseguenza la cosa appare in stato di cambiamento evidente. L’unità, la coesione, l’unione, l’armonia, l’equipollenza, la stabilità, la stagnazione, il riposo, la continuità l’equilibrio, la condensazione, l’attrazione, ecc., che noi osserviamo nella vita quotidiana, sono manifestazioni delle cose che si trovano nello stato di modificazioni quantitative, mentre la dissoluzione dell’unità, la distruzione dello stato di coesione, unione, armonia, equipollenza, stabilità, stagnazione, riposo, continuità, equilibrio, condensazione, attrazione, ecc. e il loro passaggio allo stato opposto sono le manifestazioni di cose che si trovano nello stato delle modificazioni qualitative, delle modificazioni che avvengono con il passaggio da un processo all’altro. Le cose mutano continuamente passando dal primo al secondo stato e la lotta degli opposti esiste in entrambi gli stati, ma la soluzione della contraddizione si compie durante il secondo stato. Ecco perché l’unità degli opposti è condizionata, temporanea, relativa, mentre la lotta degli opposti che si escludono reciprocamente è assoluta”102.
Una classe subalterna può divenire classe dominante, un modo di produzione avanzato può trasformarsi in arretrato, un paese indipendente può trasformarsi in una colonia, in un protettorato, in una dipendenza straniera. Questa dialettica storica sta alla base del divenire ed è ciò che concretamente caratterizza lo stesso scorrere del tempo, che è inevitabile e oggettivo processo di trasformazione. Ciò ha profonde ricadute sul piano politico, poiché senza possibilità di trasformazione di qualcosa nel suo opposto sarebbe semplicemente impensabile qualsiasi forma di mutamento delle condizioni materiali, con il risultato di rendere vana qualsiasi speranza ed eterna qualsiasi gerarchia sociale, qualsiasi oppressione, con un’umanità ineluttabilmente inchiodata a un eterno presente in attesa, forse, dell’intervento salvifico di qualche ente esterno alla realtà materiale. Riconoscere la capacità dell’Umanità di intervenire in senso positivo sulle proprie condizioni, di risolvere i problemi che si pone significa riconoscere la possibilità che qualcosa si trasformi nel suo opposto. Comprendere i meccanismi per i quali ciò avviene significa arrivare al materialismo dialettico, che mostra come “l’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione”103.
La Storia offre infiniti esempi di ciò: il capitalismo, un tempo fonte di progresso e sviluppo, si è trasformato in un ostacolo decadente e avvizzito a qualsiasi nuovo avanzamento produttivo, sociale, politico e culturale; la classe borghese, prima una classe dinamica e progressiva, si è trasformata in una classe parassitaria e reazionaria; la Cina, da paese povero e conteso tra vari gruppi imperialisti, si è trasformato grazie al Partito Comunista Cinese in un paese avanzato e moderatamente prospero, avviato alla piena realizzazione di un sistema socialista moderno; l’Unione Sovietica, a causa del nichilismo storico e dell’arretramento ideologico, è passata da essere un grande paese socialista al dissolvimento e alle devastazioni degli Anni ‘90; gli Stati Uniti si sono trasformati da una lontana colonia d’oltreoceano alla potenza imperialista egemonica, mentre ora è in corso un’inevitabile ulteriore processo che li porterà o a essere un paese “normale” tra tanti, o a scomparire per come esistono oggi; i partiti politici della grande borghesia italiana, che per diversi decenni si erano ammantati di parole d’ordine “patriottiche” e di una retorica imperialista aggressiva, si sono trasformati nei fedeli servitori di interessi stranieri, aprendo le porte al pieno controllo del nostro paese da parte degli Stati Uniti e dei vari attori minori ad essi collegati, dall’Inghilterra alla Germania, da Israele alla Francia.
La trasformazione dell’Italia da paese imperialista in semi-colonia, un’evoluzione inedita, resa possibile solo dalla particolare configurazione dei rapporti di forza venutasi a creare dopo le due guerre mondiali e dalla debolezza relativa della borghesia italiana è difficilmente contestabile ed è verificabile quotidianamente nelle molteplici manifestazioni della subordinazione del nostro paese, grande borghesia inclusa, al potere egemonico di Washington. Ciò su cui bisogna interrogarsi è come questa, per noi tra le più importanti da definire, sia stata possibile, e, soprattutto, quali siano i grandi cambiamenti qualitativi che ne ha portato la realizzazione. Già Lenin, descrivendo la fase dell’imperialismo a lui contemporanea, notava come esistessero diverse “forme transitorie della dipendenza statale”104 risultato dello scontro tra le potenze imperialistiche che, nonostante una formale indipendenza, segnavano un diverso grado di dipendenza politica, diplomatica e finanziaria, magari non ancora giunto all’estremo della diretta dipendenza coloniale, ma comunque abbastanza acuto da qualificare il paese in questione come un protettorato di una potenza, o una semi-colonia.
Un paese indipendente, penetrato da una borghesia più potente della propria, asservito economicamente a uno Stato imperialista straniero, costretto a sottostare a logiche parassitarie e predatorie, a divenire il “cortile di casa” di altri, retto da una “borghesia compradora” del tutto connivente e subalterna a quella imperialista straniera, perde fattivamente la propria indipendenza, e si trasforma progressivamente in una colonia, passando attraverso varie “forme transitorie” e collocandosi internazionalmente nella posizione permessa dalla forza relativa della borghesia compradora locale e dalle necessità della potenza imperialista. Ciò è successo numerose volte nel corso della Storia, per esempio nel caso degli antichi Stati d’Asia e Africa, progressivamente sottomessi all’imperialismo europeo, sia quelli occidentali o “costruiti” dagli occidentali nel resto del mondo, o in quello degli Stati del Sud America, a lungo economicamente controllati dalla Gran Bretagna e poi resi a tutti gli effetti il cortile di casa di Washington, o ancora in quello dei più piccoli paesi dell’Europa del primissimo novecento, dal Portogallo alla Romania, dalla Serbia alla Bulgaria, tutti estremamente limitati nelle proprie capacità d’azione autonoma e contesi dalle potenze imperialiste tanto da diventarne, a diverse gradazioni, dipendenze.
L’Italia rappresenta un caso particolare, proprio in virtù del suo inedito cammino. Il passaggio da paese imperialista a paese semicoloniale rappresenta un unicum, ed è stato reso possibile dalla sovrapposizione di condizioni esterne ed interne. Da un lato la debolezza relativa della grande borghesia italiana, interessata più alla rendita che all’investimento produttivo e gravemente sprovvista di quell’audacia che sta alla base di qualsiasi grande impresa militare, politica o economica; dall’altro il profondo mutamento portato dal passaggio dalla fase di decomposizione degli imperialismi europei a favore di quello statunitense e della sua egemonia.
Ciò ha portato alla creazione un nuovo tipo di configurazione statale, con il mantenimento di tratti tipici di un paese imperialista (la predominanza della finanza parassitaria, il mantenimento di legami di predazione e controllo su altri paesi, il controllo economico da parte del capitale finanziario) unito a legami di subordinazione internazionale a un centro imperialista egemonico, capace di imporre la propria volontà in materia economica, militare, culturale e sulla politica estera di quel paese. Paesi come Francia e Giappone rappresentano oggi giorno perfettamente questo tipo di configurazione. L’Inghilterra si distingue per la sua autonomia relativa, più che altro dovuta a una forma particolare d’integrazione nel potere imperialista egemonico statunitense e per la forza finanziaria della City di Londra. Al contrario, l’Italia si distingue per la sua assenza di autonomia. Sprovvista di una rete di dipendenze coloniali come quelle della Francia nell’Africa occidentale e della capacità produttiva e finanziaria del Giappone, il nostro paese vive una condizione più assimilabile a quella semi-coloniale, con una totale subordinazione a Washington che priva la nostra attuale classe dirigente di qualsiasi margine d’azione autonomo, con la relativa condanna del paese a uno stato di minorità imposta. La Germania si trova ad oggi in una fase di transizione dalla condizione francese a quella italiana, come dimostrano le eclatanti vicende del Nord Stream e l’inscalfibile volontà di proseguire nella guerra alla Russia a priori dalle conseguenze socio-economiche di questa.
La “sinistra antagonista”, incapace di formulare un’analisi coerentemente marxista e fondata sulla concreta analisi dei tempi attuali, spesso si lancia all’attacco di un preteso “imperialismo italiano”, chiamando in causa magari qualche partecipazione dell’ENI alle attività estrattive nel continente africano. Ma si tratta veramente di imperialismo? Si tratta veramente dell’indizio di una natura “imperialista” del sistema italiano attuale, della sua capacità di creare legami di subordinazione e predazione a livello internazionale? O, piuttosto, di qualche briciola che, cadendo dal tavolo, si presta anche ad essere rosicchiata dai topi, topi che potrebbero essere scacciati in qualsiasi momento con ben poca fatica e considerazione da parte dei commensali? La verità va ricercata nei fatti.
La grande borghesia italiana contemporanea, fortemente legata a quelle di Francia, Germania e Stati Uniti, paesi in cui si concentrano gran parte degli IDE italiani in uscita e dai quali provengono buona parte di quelli in entrata in Italia105, non dispone, al contrario rispetto agli inizi del Secolo scorso, di uno Stato nazionale indipendente e politicamente da essa controllato capace di tutelarla e di assecondarne le volontà espansive. È per questo che è costretta a rifugiarsi sotto la tutela di istituzioni imperiali come la NATO e l’Unione Europea, separandosi sempre più marcatamente dal contesto nazionale e dai settori medio-inferiori della borghesia nazionale. In questo senso essa diviene una “borghesia compradora” di tipo nuovo, non legata esclusivamente a un ruolo commerciale, ma impegnata per assicurare le migliori condizioni possibili per lo sfruttamento semi-coloniale dell’Italia, fondato sull’esproprio della ricchezza pubblica e privata a vantaggio del capitale monopolistico finanziario, sull’eterodirezione politica, sulla servitù militare e la negazione di qualsiasi percorso di sviluppo alternativo.
Le recenti vicende connesse al “Piano Mattei” varato dal Governo Meloni permettono, tra i numerosi casi, di smentire la retorica che dipinge l’Italia come “paese imperialista”. Se così fosse, davanti al progressivo ripiegamento francese, uno Stato italiano imperialista avrebbe subito colto l’occasione per gettarsi a capofitto nel teatro africano per tentare di saccheggiare quanto possibile e, soprattutto, di stabilire con i paesi del continente relazioni di dipendenza e subordinazione. Ma non è andata proprio così. Una manciata appena di paesi africani si è dimostrata interessata alla cooperazione con l’Italia, che, al di là delle belle parole, ha visto la sua vocazione “imperialista” arrestarsi…alle coste del Mediterraneo. Ogni accordo con la Tunisia, partner potenzialmente strategico dopo la rottura delle relazioni energetiche con la Russia, avvenuta per ordine di Washington, è saltato per il netto rifiuto da parte della Casa Bianca. Questa infatti pretende che il presidente tunisino Saied approvi il pacchetto di riforme strutturali a base di privatizzazione e tagli allo stato sociale ordinato dal Fondo Monetario Internazionale come condizione per l’apertura di qualsiasi linea di credito, e rifiuta di consentire qualsiasi alternativo intervento europeo. Il presunto “imperialismo italiano”, visione appannata di chi riesce a malapena a balbettare qualche frase risalente ad altre epoche e scritta in altri contesti, si dimostra per quello che è: un meschino tentativo da parte della grande borghesia italiana di afferrare per sé qualche briciola, del tutto dipendente dalla volontà della Casa Bianca e dalla sua approvazione. Ben strano questo “imperialismo”!
La realtà semicoloniale del nostro paese emerge però in maniera altrettanto imponente se si tiene conto delle condizioni interne di questo. Negli ultimi dieci anni 1,3 milioni di persone hanno lasciato l’Italia. Di queste, la stragrande maggioranza è composta da giovani, spesso laureati, in “fuga” verso i paesi dell’Europa settentrionale o gli Stati Uniti dove hanno migliori occasioni di ottenere un’occupazione in linea con la propria formazione, tendenzialmente d’ambito tecnico e scientifico. Un vero e proprio salasso in cui sono attivamente impegnate università e multinazionali occidentali, che vedono l’Italia come una carcassa da spolpare, privandola di un capitale umano per cui il sistema è strutturalmente impossibilitato a creare sbocchi produttivi. Se questa cifra è quantificabile con una certa precisione, nonostante l’ambiguo stato di molti italiani espatriati ma non ancora registrati all’apposita anagrafe, è più difficile tenere conto dei pluri-miliardari investimenti predatori che negli ultimi decenni hanno permesso a fondi speculativi e squali vari dell’alta finanza di banchettare con i resti privatizzati del sistema pubblico italiano e con numerose eccellenze privati medio-grandi. Dalla TIM, la cui infrastruttura digitale è stata svenduta alla KKR, fondo speculativo statunitense in odor di CIA, alla Magneti Marelli, passata in proprietà a un gruppo giapponese anch’esso controllato dalla KKR, passando per le numerose vicende simili a quelle della FIAT-Chrysler, con un’internazionalizzazione sinonimo di divorzio da qualsiasi investimento produttivo nel paese d’origine, o anche degli interventi volti unicamente a ridimensionare, se non eliminare, concorrenti, dalla Perugina all’Ercole Marelli. Per tacere, ovviamente, delle infinite privatizzazioni intercorse dagli Anni ’90 ad oggi, azioni alle quali tutti i governi, a prescindere dal colore, hanno sempre dato il proprio assenso, e che anche l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni ha ritenuto necessarie, come lasciano intendere le parole di Tajani, che, commentando la cessione del 4% dell’ENI e la possibile privatizzazione di Poste Italiane e Ferrovie dello Stato, ha parlato di una “grande stagione di privatizzazioni” per rimpinguare le casse dello Stato.
L’Italia, materialmente in un marcato declino economico sin dal biennio 2007-2008, ben lontana dall’esistenza di “paese imperialista” che prospera sulla subordinazione di altri paesi, è condannata ormai in virtù delle imposizioni di Bruxelles ad avere come unico orizzonte la “vocazione turistica”, il convertirsi integralmente ad attrazione per i ricchi borghesi dell’Occidente, che, dalla Germania agli Stati Uniti, non aspettano altro che la bella stagione per fotografare le nostre splendide rovine e gustare i prodotti tipici, accompagnati da qualche guida sottopagata e serviti da personale precario, alloggiando in quartieri ridotti a residence per gli ospiti economicamente incompatibili con le possibilità dell’italiano medio. Uno scenario che ricorda, al limite, quello della Cuba pre-rivoluzionaria o della Shanghai in cui sui i negozi erano esposti cartelli con scritto “vietato l’ingresso ai cani e ai cinesi”. Altro che “potenza imperialista”!
La crisi pluridecennale attraversata dal nostro paese ha dato la perfetta occasione al capitale finanziario monopolistico per rafforzare la sua presa sull’economia italiana, sfruttando il venir meno delle barriere e dei controlli verificatosi a partire dagli Anni’ 80. A seguito della crisi del 2011 il settore bancario è stato particolarmente vulnerabile agli assalti internazionali. Il primo azionista di UniCredit è il fondo americano Blackrock, che ne controlla il 6,8%, mentre la banca Goldman Sachs ha una partecipazione aggregata nel capitale pari al 5,34%; gli investitori istituzionali, che compongono il 77% degli azionisti della banca, sono principalmente statunitensi (38%) e inglesi (27%)106. Banca Intesa Sanpaolo, la prima banca italiana per capitalizzazione, vede anch’essa una forte presenza di BlackRock, arrivato ad essere il secondo azionista nel 2020 con il controllo del 5,048% delle azioni, mentre la Goldman Sachs, che in precedenza aveva una partecipazione aggregata superiore al 6%, l’ha recentemente ridotta all’1,54%. Quote azionarie importanti, anche superiori al 5%, sono detenute da BlackRock anche in altri istituti di credito italiani, come UBI Banca e Monte dei Paschi di Siena. Ma non solo banche: BlackRock controlla, direttamente o indirettamente, quote azionarie importanti della Telecom, di Italo, della holding Azimut, della Prysmian, della Leonardo e di numerose altre aziende, anche di rilevanza strategica. L’altro grande gestore di fondi statunitense, Vanguard Group, gode anch’esso di importanti partecipazioni azionarie nelle principali banche italiane, comprese Banca Intesa, MPS, UBI Banca, Banco Popolare e BPM. Il controllo di quote azionarie significative permette a questi colossi, tra i simboli della nuova concentrazione del capitale finanziario di monopolistico, di controllare le “alture dominanti” dell’economia italiana, e influenzare le scelte politiche a favore delle privatizzazioni e di un progressivo rilassamento delle misure atte a contenere la loro prassi monopolistica. Non è un caso che Larry Fink, co-fondatore e presidente di BlackRock, sia intervenuto al G7 in Puglia del giugno 2024. Questa penetrazione del capitale statunitense in Italia, di cui si sono dati appena una manciata di dettagli, ha influenzato l’enorme trasferimento di ricchezza verificatosi negli ultimi decenni a vantaggio degli USA, esploso in particolare dopo il 2008 con il progressivo saccheggio della ricchezza privata e pubblica degli italiani. Quella che in realtà è stata una tendenza europea diventa ben visibile se si confrontano i dati sulla ricchezza dei vari paesi. Al 2008 l’Italia possedeva il 5,6% dell’economia mondiale, circa un sesto della quota americana. Dodici anni dopo, nel 2022, l’Italia era scesa al 2.4%, una quota dodici volte e mezzo più piccola di quella americana107. Questo imponente collasso relativo si deve al vero e proprio saccheggio della ricchezza delle famiglie italiane, diminuita del 7,7% al netto dell’inflazione tra 2011 e 2022 a causa del progressivo venir meno delle coperture pubbliche per servizi essenziali e all’aumento delle spese. I processi di privatizzazione hanno visto in prima fila il capitale finanziario monopolistico statunitense, e l’orientamento delle politiche di ogni governo italiano hanno favorito questi sia in maniera diretta che indiretta, ossia sia svendendo quote dell’economia pubblica o imponendo vincoli e norme che renderanno inevitabili future privatizzazioni, come nel caso della recente riforma fiscale del governo Meloni o del progetto dell’autonomia differenziata, portato avanti soprattutto dalla Lega ma fondato sull’operato del centrosinistra, dalla riforma del titolo V della Costituzione del 2001 agli accordi tra Veneto, Emilia-Romagna e Lombardia e il governo Gentiloni. La penetrazione del capitale statunitense è resa possibile dalla subordinazione politica del nostro paese a Washington. Non si tratta di una semplice “influenza” che compete con altre uguali e contrarie, ma di un catalizzatore dei processi d’asservimento iniziati fin dall’European Recovery Program e dal viaggio negli USA di De Gasperi.
La totale subordinazione economica all’imperialismo statunitense non può che sposarsi a quella politica. E, dopo il Cermis, Ustica, Moro, l’Operazione Blue Moon, la pregiudiziale anticomunista imposta fin dal 1947, la Gladio, l’assassinio di Gheddafi, il ritiro dalla Via della Seta, le sanzioni alla Russia, l’invio di navi militari nel Mar Rosso e nel Mar Cinese Meridionale, le decine di bombe atomiche accatastate sotto i nostri piedi, le intercettazioni dell’NSA e l’aumento delle spese militari, prontamente sganciato dal calcolo del rapporto debito/PIL grazie alla “vittoria” del nuovo patto di stabilità e infiniti altri esempi, sarebbe insultante anche nei confronti del più imbecille degli italiani dover argomentare al fine di dimostrare ciò. Il pilota automatico imposto al nostro paese dal 1948 è evidente a chiunque osservi la realtà italiana per quella che è, ed è anche apertamente rivendicato persino dai media e da ex-presidenti del consiglio, come Romano Prodi, che a dicembre 2023, ridendo, spiegò a Lilli Gruber come scegliere “ministri degli esteri americani e ministri dell’economia bruxellesi” fosse un qualcosa di obbligato, facendo riferimento alla “normalizzazione” del governo Meloni.
La dipendenza politica ed economica dagli Stati Uniti prova il rapporto semicoloniale con il regime di Washington, un rapporto unico anche nell’ambito dello scenario europeo, che vede comunque la totale subordinazione dei paesi del continente agli USA. Questa situazione impone ai comunisti la comprensione della natura prioritaria della lotta per l’indipendenza nazionale e permette di vedere sotto la corretta angolazione le questioni della collaborazione sociale e politica con altre forze e classi. La contraddizione tra l’imperialismo egemonico statunitense e la nazione italiana è la contraddizione principale che abbiamo di fronte, espressione particolare di quella che è la contraddizione principale a livello internazionale, quella tra l’imperialismo statunitense e la tendenza inarrestabile alla multipolarizzazione del mondo e alla democratizzazione delle relazioni internazionali. Ogni altra contraddizione è, in confronto a questa, secondaria.
Il regime internazionale di Washington è in piena decadenza e si avvia alla sua scomparsa, in un modo o nell’altro. Non c’è da aspettarsi realisticamente né dalla grande borghesia italiana, né da quella di altri paesi europei, un “sussulto” volto ad approfittare del collasso del padrone per imporre nuovamente un proprio particolare imperialismo al mondo. La Storia non è il ripetersi del medesimo, e quella stagione si è conclusa. Davanti abbiamo un nuovo scenario, inedito, segnato dalla costruzione di un mondo multipolare e di una comunità umana dal futuro condiviso, un processo guidato politicamente dal più grande partito comunista del pianeta, il Partito Comunista Cinese, e da Stati che rappresentano per ogni popolo in lotta un interlocutore affidabile e una speranza, come la Federazione Russa, l’Iran, la Corea Popolare…L’Italia non è condannata a morire con il vecchio mondo: può partecipare alla costruzione di quello nascente. Per farlo è necessaria una nuova liberazione nazionale che cacci via gli imperialisti statunitensi e le cricche di speculatori e compradores loro alleati. È necessario riconquistare la nostra indipendenza, ma per muoversi politicamente in questo senso serve prima riconoscere la natura semicoloniale dell’Italia contemporanea, abbandonando qualsiasi confusione in merito e rifondando sui fatti e sul materialismo dialettico la propria visione del mondo.
7. L’Italia nel mondo multipolare
Come più volte sottolineato da Vladimir Putin e da Xi Jinping, l’epoca attuale è un’epoca di trasformazioni rivoluzionarie. Le tendenze oggettive e irreversibili verso la multipolarizzazione del mondo e la ridefinizione delle dinamiche della globalizzazione aprono possibilità di profonde trasformazioni politiche all’interno dei vari paesi, compresi quelli più eterodiretti dal regime internazionale di Washington. In questa situazione il popolo italiano ha l’occasione storica di poter riconquistare la propria indipendenza nazionale, necessariamente legata a una trasformazione in senso socialista del paese. Ciò è dovuto non solo alla crisi irreversibile che attanaglia il sistema statunitense, ma anche alle opportunità politiche aperte dagli effetti di questa crisi a livello nazionale, che possono essere efficacemente sfruttate dalle forze rivoluzionarie.
Negli ultimi anni vi sono stati due principali tentativi da parte di settori della classe dirigente italiana di ottenere in maniera “contrattata” maggiori spazi d’autonomia rispetto al padrone a stelle e strisce. Entrambi hanno dato risultati scadenti, non riuscendo a portare a un mutamento sostanziale dei rapporti di forza.
Il primo tentativo è stato quello operato durante i governi di Giuseppe Conte, che hanno visto l’ingresso dell’Italia nella Via della Seta e il mantenimento, nonostante le pressioni occidentali, di una certa interlocuzione con la Federazione Russa, fatto che ha portato, tra l’altro, alla missione medica russa in Italia durante la pandemia Covid-19. Questo sussulto autonomista è stato schiacciato da un vero e proprio “golpe bianco” promosso, non a caso, da Matteo Renzi, e destinato a portare alla formazione del governo tecnico di Mario Draghi.
Il secondo tentativo è rappresentato da quello del governo Meloni, che, ispirandosi alla Polonia, cerca tramite l’ultra-atlantismo di ottenere il supporto americano in funzione anti-tedesca e anti-francese. Una prospettiva velleitaria che si fonda sulla speranza inspiegabile per la quale gli Stati Uniti, spolpati i propri alleati subalterni tradizionalmente caratterizzati da un’autonomia più marcata, si farebbero qualche riguardo nei confronti dell’Italia. Dovrebbero bastare per togliere ogni dubbio i magri risultati del Piano Mattei, il diniego statunitense a ogni accordo con la Tunisia se questa non accetta preventivamente il piano di ristrutturazione proposto dal Fondo Monetario Internazionale o ancora l’ordine di sostituire prontamente il gas russo con quello americano portato da navi gasiere.
I due tentativi sopra descritti sono falliti poiché è impossibile, ora più che mai, qualsiasi concertazione col potere statunitense. All’aggravarsi della crisi irreversibile che lo avvolge, questo deve necessariamente aumentare la propria presa sugli alleati subalterni, restringendone gli spazi di manovra e aumentando l’intensità del saccheggio e della predazione ai loro danni nel disperato tentativo di rallentare il declino. Ciò è ampiamente dimostrato, tra i numerosi esempi, dal caso tedesco, con l’attentato al gasdotto Nord Stream e il sifone di capitali azionato con l’Inflation Reduction Act, ma anche con da quello taiwanese, con l’ambigua coesistenza di inviti alla bellicosità verso la RPC e furbeschi incentivi alla delocalizzazione sul continente americano delle aziende produttrici di semiconduttori e microprocessori.
L’unica strada praticabile rimane quella dell’aperto scontro con gli Stati Uniti per l’abbattimento del loro regime egemonico. È chiaro che questa prospettiva non possa essere nemmeno ipotizzata dal personale degli apparati istituzioni semi-coloniali italiani. È per questa ragione che serve promuovere le spinte “dal basso” contro lo stato d’asservimento in cui si trova il nostro paese, portando sul terreno dell’opposizione agli USA e al loro sistema egemonico ogni manifestazione di dissenso e ogni mobilitazione di massa destinate a comparire all’aggravarsi della crisi in atto. È proprio sui movimenti di massa e sulla capacità di questi di dare vita ad avanguardie politiche in sintonia con i tempi attuali ciò su cui serve fare affidamento, mentre va abbandonata ogni progettualità fondata sia sull’opera di testimonianza estetica delle formazioni residuali e autoreferenziali della cosiddetta “estrema sinistra”, sia sul miraggio di un “ravvedimento” della classe dirigente italiana o, più in generale, europea. Certamente all’approfondirsi della decadenza del sitema imperiale statunitense aumentano le contraddizioni interne alla classe dirigente occidentale tra l’ala più “ortodossa” di questa, decisa a seguire il padrone a stelle e strisce fino alla morte, e l’ala più pragmatica, interessata in primo luogo alla propria sopravvivenza e quindi non pregiudizialmente chiusa in maniera assoluta a un inserimento nel nuovo contesto multipolare, ma non ci si può fare illusioni a proposito abdicando l’iniziativa politica a questa componente, che, particolarmente in Italia, non ha saputo dimostrare né il coraggio, né l’inziativa necessari a presentarsi come un credibile interlocutore politico. È chiaro che questa ala, da un punto di vista di classe sommariamente ascrivibile alla borghesia nazionale e politicamente rappresentata in genere da certi partiti del centrodestra, in primis la Lega, vada sostenuta in ogni contrasto che possa sorgere contro la borghesia compradora e gli apparati di controllo statunitensi nel nostro paese, ma è altrettanto chiaro come questo sostegno debba essere finalizzato a mostrare alle più grandi masse la natura intrinsecamente contraddittoria e limitata dei programmi politici di questa parte di classe dirigente, per smascherare il suo opportunismo e la sua vigliaccheria, che gli impediscono di portare avanti una lotta conseguente e aperta per l’indipendenza nazionale, per attirarla con una funzione subalterna e dipendente nell’ipotizzabile fronte unito impegnato nella lotta di liberazione.
Paradossalmente, in questo ipotetico fronte sono molto più difficili da collocare i “marxisti” italiani rispetto ai vari settori delle masse popolari. Ciò non è solo il risultato di una loro presenza trascurabile nel tessuto sociale italiano, ma anche di deficit strutturali che parrebbero paradossali se inquadrati nel contesto attuale. Il marxismo vive a livello mondiale un periodo di grande vitalità, forza e attrattività. Centinaia di partiti e paesi guardano alla Repubblica Popolare Cinese e al Partito Comunista Cinese come portatori di un virtuoso esempio per quanto riguarda la creazione di un percorso autonomo di sviluppo e modernizzazione, la difesa dell’indipendenza nazionale e la costruzione di una prosperità condivisa. Ciò in Occidente può apparire surreale, in quanto si è abituati a una pluralità di partiti, collettivi e organizzazioni a vario titolo “comuniste” privi di qualsiasi riconoscimento, simpatia o stima tra le masse, che li guardano con indifferenza se non con ostilità. Ciò si spiega, principalmente, con due motivi:
- 1) i “marxisti occidentali” vivono in una bolla autoreferenziale, un microcosmo artificiale privo di punti di contatto con la realtà. Per questo non gli è possibile verificare nei fatti le proprie idee, che rimangono tralaltro completamente sconnesse dagli sviluppi teorici internazionali e dal procedere storico di quasi otto miliardi di esseri umani;
- 2) il “movimento comunista” italiano e occidentale si è trasformato in un qualcosa a metà tra un’associazione reducistica e il “braccio armato” dei liberal-progressisti. Alla riprova dei fatti, il “movimento comunista” italiano e occidentale si pone al di fuori del movimento comunista internazionale, materialmente contrapposto ad esso sia dal punto di vista pratico che teorico. I partiti comunisti più grandi e influenti al mondo, sia quelli che governano interi paesi, sia quelli che giocano un ruolo chiave nella propria politica nazionale, non hanno nulla in comune con i “comunisti” nostrani, se non un generico richiamo iconografico.
Si impongono due imperativi ineludibili:
- 1) in Italia il movimento comunista deve essere ricreato da zero, occorre sgombrare il terreno dalle infiltrazioni trotskiste e anarchiche, dai nostalgici degli Anni ’70, dai “contestatori”, dagli habitué di circoli, dai militanti di professione e “antifa” vari, per poter condurre un’opera di ri-popolarizzazione del marxismo, renderlo nuovamente un qualcosa di conosciuto e apprezzato dalle persone comuni, dai lavoratori, dalle famiglie di questo paese, sottrarlo al monopolio di studenti universitari liberali e di bohémien innamorati del degrado urbano. Ciò non costituisce certo un invito a “buttar via il bambino con l’acqua sporca”, né a emarginare aprioristicamente singoli o gruppi provenienti dall’area della cosiddetta “estrema sinistra”, ma impone a questi ultimi una netta presa di coscienza sulla necessità inevitabile di tranciare ogni legame e bruciare ogni ponte proprio con quell’area, le sue ritualità e la sua (distorta) visione del mondo. Solo in questo modo si potrà onorare la tradizione rivoluzionaria di generazioni di rivoluzionari italiani, della parte migliore di questo paese, e, conseguentemente, riportare in alto la bandiera del marxismo, ora immersa nel fango della cosiddetta “estrema sinistra”. La transizione rivoluzionaria che attraversa il mondo e che caratterizza la nostra epoca è particolarmente propizia a ciò, in quanto solo l’analisi marxista permette di valutare correttamente i processi in corso e di contestualizzarli nel generale superamento storico del capitalismo giunto alla sua fase imperialista a favore della progressiva estensione del sistema socialista su scala internazionale. Gli italiani che si rifanno al movimento comunista internazionale e al pensiero marxista devono quindi abbandonare ogni remora e ogni “pudore”, così come ogni “timore reverenziale” verso la cosiddetta “estrema sinistra”, i suoi giudizi e le sue condanne, e riconoscerla per ciò che realmente è: un peso morto da abbandonare al suo destino.
- 2) Non può esistere un rinnovato movimento comunista in Italia senza la prioritaria costruzione di un grande campo pratriottico dedito politicamente alla lotta di liberazione nazionale e culturalmente allo sviluppo di quelle risorse culturali che millenni di civiltà italiana ci hanno donato per permettere l’edificazione di un’Italia indipendente, socialista e capace di esistere nel nascente mondo multipolare e di partecipare alla costruzione di una comunità umana dal futuro condiviso. Questo campo patriottico deve comprendere tutte le forze politiche, sociali e culturali materialmente opposte all’egemonia statunitense e allo stato di subordinazione del nostro paese. Al fine della sua costruzione non è utile far riferimento ad aree politiche desuete e sconnesse dalla realtà materiale italiana, ma serve invece concentrarsi soprattutto sulle forze multiformi e originali nate nel nostro paese a seguito della crisi iniziata nel 2008, proseguita nel decennio successivo sotto i vari “governi tecnici”, catalizzata dal periodo pandemico e dall’esplosione militare delle contraddizioni tra unipolarismo e multipolarismo.
La necessaria opera di ri-popolarizzazione del marxismo ha come requisiti 1) lo studio e la comprensione dei più recenti contributi della teoria marxista e 2) il mantenere e promuovere la fiducia nel popolo.
Il primo requisito è necessario per emancipare la mente e liberare i propri orizzonti da qualsiasi infiltrazione liberale e dalla cancrena ideologica del “marxismo occidentale”, e sviluppare un’analisi della realtà corretta capace di portare a una prassi conseguente. Il secondo requisito è indispensabile per rendere la prassi qualcosa di diverso da un gioco delle parti autoreferenziali. Il pensiero per cui il popolo sarebbe ignorante, arretrato, pecorone, irrecuperabile e via dicendo è assolutamente letale, ed è da combattere senza tregua. Nonostante la scomparsa di qualsiasi organizzazione politica e sindacale seriamente alternativa rispetto all’ordinamento neoliberista, le masse italiane hanno a più riprese dato vita a movimenti di protesta imponenti, e, generalmente, si sono distinte per aver individuato ben più in fretta delle minoranze politicizzate gli attacchi che erano portati contro di loro, per quanto non riuscendo ad andare al di là di una consapevolezza primitiva di questi, insufficiente e contraddittoria. È sintomatico il fatto che, per esempio, sulle questioni internazionali, sul giudizio dell’Unione Europea, sull’immigrazione di massa, sulle questioni culturali legate alla “fluidità sessuale”, le masse si trovino anni luce davanti alla stragrande maggioranza dei gruppuscoli “marxisti” o sedicenti tali. Già dal governo Monti e dal successivo movimento dei Forconi le masse italiane hanno dato dimostrazione di ritenere l’Unione Europea un organismo antitetico ai loro interessi, opinione ribadita di anno in anno con la costante crescita dei partiti che, strumentalmente, abbracciavano nella loro propaganda posizioni euroscettiche. Al contrario, in gran parte della cosiddetta “estrema sinistra”, il dirsi contro l’Unione Europea rimane tutt’ora qualcosa di controverso, che, nel caso, è da condire con premesse e distinguo per evitare l’ignobile caduta nel “campo sovranista”. Lo stesso vale per il conflitto ucraino: una parte sostanziosa della popolazione italiana si è detta da subito contraria alla partecipazione dell’Italia a quella che viene percepita, giustamente, come una guerra della NATO; al contrario, nell’estrema sinistra italiana, con poche eccezioni, è l’atteggiamento “nénéista” a farla da padrone, atteggiamento che, nei fatti, si trasforma nella partecipazione alla crociata egemonica del regime di Washington. Mentre la cosiddetta “estrema sinistra” da decenni difende a spada tratta la pretesa “accoglienza”, facendo propria l’agenda No-Border del capitale finanziario, tra la gente comune è sempre più diffusa l’ovvia constatazione che l’immigrazione di massa non ha portato che a malessere sociale, violazioni dei diritti umani e sfruttamento. Sempre l’estrema sinistra, con eccezioni quasi nulle, partecipa ormai da anni alla lotta “inclusiva” basata sulla “decostruzione” dei generi e degli orientamenti sessuali, promuovendo la loro piena riduzione a bizzaria individuale, condendo tutto ciò con un attacco spietato alla famiglia come realtà socio-biologica e a qualsiasi di regolamentazione morale della sessualità e delle relazioni, arrivando, nemmeno velatamente in buona parte dell’Occidente, a inquietanti aperture verso la “poliamorosità”, prospettive denataliste e la pedofilia. Il rigetto della stragrande maggioranza della popolazione per questi prodotti decadenti dell’ideologia borghese è netto e pressoché totale: ben pochi sono disposti a rinunciare alla realtà sessuale e biologica per accettare l’idea che “uomini” e “donne” siano solo costrutti sociali, che la riproduzione sia unicamente un “peso per il Pianeta” e che ogni comportamento destinato al piacere “consenziente” sia per forza di cose legittimo.
Le masse italiane hanno saputo anche tradurre in atti concreti l’opposizione all’agenda neolibersita, si pensi ai diversi movimenti che hanno invaso le piazze del paese dal 2011 in poi, non ultimo quello in contestazione della gestione pandemica, ma anche alla grande quantità di mobilitazioni locali, di comitati di associazioni cittadini che si sono sviluppati in ogni parte della Penisola attorno a questioni quali la privatizzazione dell’acqua, dei servizi pubblici, la chiusura di ospedali, scuole o posti di lavoro, o ancora la subordinazione delle politiche locali agli interessi di speculatori e gruppi di potere. Se queste mobilitazioni non hanno potuto, nella stragrande maggioranza dei casi, evolversi verso una più decisa politicizzazione è a causa della mancanza di un’avanguardia politica e organizzativa. Le forze dell’estrema sinistra si sono dimostrate complessivamente non all’altezza di ricoprire tale ruolo, ma hanno anzi in più occasioni dirottato i movimenti per condurli nel rassicurante alveo del settarismo identitario, utilizzandoli tipicamente per rafforzare le forze del centro-sinistra nelle competizioni elettorali locali e nazionali.
Nonostante il clima di crescente sfiducia verso la politica, tanto quella parlamentare quanto quella extraparlamentare, non è venuta meno la carica mobilitativa del popolo italiano. È imperativo quindi agire affinché ogni singola mobilitazione, da quelle di carattere locale a quelle più generali, possa essere ricondotta politicamente alla lotta per l’indipendenza nazionale e per l’abbattimento del sistema egemonico degli Stati Uniti d’America, e affinché dall’esperienza acquisita ne possano nascere forme d’organizzazione più stabili tra la cittadinanza. La riconquista dell’indipendenza nazionale, lotta connessa alla contraddizione principale dei nostri tempi, dev’essere l’indirizzo fondamentale dell’azione politica. Occorre mostrare come l’Italia possa sopravvivere come paese e garantire un avvenire migliore alla sua popolazione solo tramite un suo inserimento nel nascente mondo multipolare. Il partenariato con strutture come i BRICS e la SCO, una rinnovata partecipazione alla Via della Seta e lo smantellamento del potere economico delle oligarchie finanziarie nel nostro paese sono essenziali al fine di mettere in campo strategie di re-industrializzazione, di rinnovamento infrastrutturale, di recupero delle competenze tecniche perdute in questi decenni e di sviluppo dell’alta tecnologia. Non esiste una questione sociale, culturale, economica, politica del nostro paese che non sia subordinata al rapporto tra l’Italia e il mondo multipolare.
In questo contesto chi si identifica nel movimento comunista internazionale deve agire principalmente a favore della crescita e della maturazione del movimento di liberazione nazionale. Solo in questo contesto i comunisti potranno emergere come avanguardia e classe dirigente. Vladimir Lenin ricorda come “la dottrina di Marx è onnipotente perché è giusta”108. Il marxismo prova nei fatti la sua superiorità analitica e come strumento rivoluzionario. Allo stesso modo le masse provano nei fatti la loro crescente sfiducia nell’attuale sistema e il loro desiderio di trasformazione dell’esistente. Unendo l’utilizzo cosciente del marxismo alla fiducia e all’immedesimazione nelle masse nulla sarà impossibile, nemmeno quella liberazione nazionale che oggi può apparire tanto lontana e improbabile.
- V. Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo, Milano, Sapere Edizioni, 1970, p. 137.[↩]
- F. Engels, Anti-Dühring, Mosca, Progress, 1947, p. 52.[↩]
- V. Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo, Milano, Sapere Edizioni, 1970, p. 110.[↩]
- V. Lenin, Tre fonti e tre parti integranti del marxismo, in Prostvestscenie, n. 3, marzo 1913.[↩]
- V. Lenin, Per il quarto anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, in Opere scelte in due volumi, Vol. II, Mosca, Edizioni in lingue estere, 1948, p. 726.[↩]
- V. Lenin, Prefazione alla pubblicazione del discorso “Ingannare il popolo con slogan su libertà ed eguaglianza”, in Collected Works, Vol. XXIX, Mosca, Progress, 1965, p. 381.[↩]
- La sbrigativa liquidazione del modo di produzione asiatico propria del marxismo sovietico contribuì alla secolare egemonia in tutto l’Occidente dell’idea di un’evoluzione storica lineare necessariamente fondata su tappe determinate unicamente dalla stessa esperienza storica europea. Lo schema schaivismo-feudalesimo-capitalismo-socialismo non solo si dimostra falso, ma una sua universalizzazione “occidentalizzante” non può che essere dannosa per la costruzione socialista proprio in quei contesti dove maggiormente ha dato frutti e speranze, ossia quelli esterni all’Occidente. Il riconoscimento della multilinearità dei processi di sviluppo è essenziale al fine di garantire all’analisi (e alla prassi) marxista una maggiore aderenza alla realtà e per sviluppare gli “anticorpi” necessari a prevenire qualsiasi degenerazione che, sotto la bandiera dell’intransigenza e dell’ortodossia, si faccia portatrice degli interessi imperiali di Washington.[↩]
- K. Marx, Tesi su Feuerbach, in K. Marx, F. Engels, Scritti scelti, Roma, Editori Riuniti, 1966, p. 188.[↩]
- V. Adoratskij, Dialectical Materialism, New York, International Publisher Co., 1934, p. 25.[↩]
- Deng Xiaoping, Emancipate the Mind, Seek Truth from Facts and Unite as One in Looking to the Future, in Selected Works, Vol. II, Beijing, Foreign Languages Press, 1994, p. 153.[↩]
- Mao Zedong, Sulla pratica, in Opere scelte, Vol. I, Beijing, Foreign Languages Press, 1967, p. 308.[↩]
- V. Lenin, Our Immediate Task, in Collected Works, Vol. IV, Mosca, Progress, 1960, p. 217.[↩]
- I. Stalin, Materialismo storico e dialettico, in Questioni del leninismo, Roma, Edizioni Rinascita, 1952, pp. 646-647.[↩]
- F. Engels, Dialettica della natura, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 77.[↩]
- V. Lenin, On Dialectics, in Collected Works, Vol. XXXVIII, Mosca, Progress, 1976, p. 358.[↩]
- F. Engels, Anti-Dühring, Mosca, Progress, 1947, p. 84.[↩]
- Mao Zedong, On Contradiction, in Selected Works, Vol. I, Beijing, Foreign Languages Press, 1967, p. 332.[↩]
- V. Lenin, Conspectus of Hegel’s The Science of Logic, in Collected Works, Vol. XXXVIII, Mosca, Progress, 1958, pp. 97-98.[↩]
- Mao Zedong, Sulla giusta soluzione delle contraddizioni in seno al popolo, in Opere-teoria della rivoluzione e della costruzione del socialismo, Roma, Newton Compton, 1977, p. 66.[↩]
- K. Marx, F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, Milano, Feltrinelli, 2017, p .31.[↩]
- D. Losurdo, La lotta di classe: una storia politica e filosofica, Roma, Laterza, 2013, pp. 15-23.[↩]
- K. Marx, Miseria della filosofia, Carrara, Edizioni Acrobat, 2019, p. 28.[↩]
- B. Ziherl, Communism and Fatherland, Belgrado, Jugoslovenska Knjiga, 1949, p. 10.[↩]
- V. Lenin, Critical Remarks on the National Question, in Prosveshcheniye nn. 10,11, 12, ottobre-novembre 1913.[↩]
- C. S. Caracciolo, introduzione a J. Stalin, Il marxismo e la questione nazionale, Torino, Einaudi, 1974, p. 18.[↩]
- “Un popolo che ne opprime un altro non può essere libero”, come scritto da F. Engels in un articolo a titolo Un proclama polacco l’11 giugno 1874 sul quotidiano socialdemocratico tedesco Der Volksstaat.[↩]
- C. S. Caracciolo, introduzione a J. Stalin, Il marxismo e la questione nazionale, Torino, Einaudi, 1974, p. 23.[↩]
- Liu Shaoqi, Come diventare un buon comunista, Milano, Edizioni Oriente, 1965, p. 47.[↩]
- V. Lenin, La rivoluzione socialista e il riconoscimento delle nazioni all’autodecisione, in C. Basile, I bolscevichi e la questione nazionale, Genova, Altergraf, 2017, p. 42.[↩]
- V. Lenin, Lettera a I. Armand, 30 novembre 1916.[↩]
- V. Lenin, Sull’orgoglio nazionale dei Grandi Russi, Sotsial-Demokrat n. 35, 12 dicembre 1914.[↩]
- I. Stalin, La Rivoluzione d’Ottobre e la questione nazionale, in Il marxismo e la questione nazionale e coloniale, Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 149.[↩]
- V. Lenin, Al II Congresso dei Popoli dell’Oriente, in Opere Scelte, Mosca, Progress, 1978, pp. 526-527.[↩]
- G. Dimitrov, Rapporto al VII Congresso dell’Internazionale Comunista, in Dal Fronte Antifascista alla Democrazia Popolare, Roma, Edizioni Rinascita, 1950, p. 17.[↩]
- Comitato Centrale del KPD, Dichiarazione programmatica per la liberazione nazionale e sociale del popolo tedesco, Die Rote Fahne, 24 agosto 1930.[↩]
- G. Dimitrov, Rapporto al VII Congresso dell’Internazionale Comunista, in Dal Fronte Antifascista alla Democrazia Popolare, Roma, Edizioni Rinascita, 1950, p. 69.[↩]
- A. Gramsci, Risorgimento, Quaderno IX, 127.[↩]
- G. Mazzini, Dei doveri dell’uomo, Katechon Edizioni, Fermo, 2023, pp. 55-56.[↩]
- I. Stalin, Discorso al XIX Congresso del PCUS, in Verso il Comunismo, Roma, Edizioni di Cultura Sociale, 1952, p. 8.[↩]
- A. Gramsci, Italiani e cinesi, in L’Avanti!, 18 luglio 1919.[↩]
- L. Longo, Nessuno può dare lezioni di patriottismo ai comunisti, supplemento a Quaderno del propagandista, febbraio 1946.[↩]
- Mao Zedong, Speech at Moscow Celebration Meeting, in People’s China, 1 dicembre 1957.[↩]
- Xi Jinping, Discorso a un simposio con gli studenti dell’Università di Pechino, 2 maggio 2018.[↩]
- Xi Jinping, Discorso alla cerimonia commemorativa per il centenario del Movimento del 4 Maggio, 30 aprile 2019.[↩]
- I. Stalin, Foundation of Leninism, Parigi, Foreign Languages Press, 2020, p. 67.[↩]
- K. Marx, F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, in Opere Scelte, Roma, Editori Riuniti, 1966, p. 312.[↩]
- Gli ateliers nationaux francesi sorti dopo la rivoluzione del febbraio 1848 si caratterizzarono per la produzione a favore della Guardia Nazionale, di cui gli operai erano membri, e le opere edili d’interesse pubblico. Il termine “fabbriche nazionali” usato da Marx deve essere ricondotto ai settori fondamentali e strategici, quali quello metallurgico, la cantieristica, la produzione di armi e di materiale bellico di vario tipo. Questi settori erano anche quelli più sviluppati anche nei paesi dalla più tarda industrializzazione.[↩]
- K. Marx, Il Capitale, Vol. III/2, Roma, Editori Riuniti, 1980, pp. 698-699.[↩]
- K. Marx, Critique of Gotha Program, Parigi, Foreign Languages Press, 2021, p. 14.[↩]
- F. Engels, Anti-Dühring, Mosca, Progress, 1947, p. 178.[↩]
- Vladimir Lenin, Rapporto al II Congresso dei Centri di educazione politica di tutta la Russia, in Economia della Rivoluzione, Milano, ilSaggiatore, 2017, p. 402.[↩]
- D. Losurdo, Il marxismo occidentale, Bari-Roma, Editori Laterza, 2017, p. 15.[↩]
- V. Lenin, Per il quarto anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, in Opere Scelte, Mosca, Progress, 1978, p. 672.[↩]
- “Noi spesso facciamo ancora oggi il seguente ragionamento: “Il capitalismo è un male, il socialismo è un bene”. Ma questo ragionamento è sbagliato, poiché non tiene conto della somma di tutte le forme economiche e sociali esistenti, e ne considera soltanto due. Il capitalismo è un male in confronto al socialismo. Il capitalismo è un bene in confronto al periodo medievale, in confronto alla piccola produzione, in confronto al burocratismo che è connesso alla dispersione dei piccoli produttori”. V. Lenin, Sull’imposta in natura, in Economia della Rivoluzione, Milano, ilSaggiatore, 2017, p. 362.[↩]
- V. Lenin, Report to the Fourth Congress of the Communist International, in Collected Works, Vol. XXXIII, Mosca, Progress, 1977, p. 428.[↩]
- V. Lenin, Sull’imposta in natura, in Economia della Rivoluzione, Milano, ilSaggiatore, 2017, p. 358.[↩]
- V. Lenin, Sull’imposta in natura, in Economia della Rivoluzione, Milano, ilSaggiatore, 2017, p. 369.[↩]
- V. Lenin, The Impending Catastrophe and How to Combat It, in Collected Works, Mosca, Progress, 1977, p. 362.[↩]
- Deng Xiaoping, To Uphold Socialism We Must Eliminate Poverty, in Selected Works, Vol. III, Beijing, Foreign Languages Press, 1994, p. 223.[↩]
- Deng Xiaoping, Building a Socialism With a Specifically Chinese Character, in Selected Works, Vol. III, Beijing, Foreign Languages Press, 1994, p. 73.[↩]
- Yang Chungui, Deng Xiaoping Theory and the Historical Destiny of Socialism, in The Marxist, Vol. XVII, n. 2 (aprile-giugno 2001).[↩]
- “Dovremmo consentire a un gran numero di piccole fabbriche di continuare a operare in modo indipendente. Molte cooperative artigiane dovrebbero essere suddivise in cooperative più piccole gestite da squadre o famiglie. I membri delle cooperative agricole dovrebbero essere autorizzati a svolgere in proprio diversi tipi di attività secondarie. Il controllo del mercato sui prodotti locali minori dovrebbe essere allentato. Non dobbiamo temere un aumento dei prezzi di alcune merci entro certi limiti e per brevi periodi di tempo. La gestione pianificata di alcuni rami dell’economia dovrebbe essere modificata. […]. La configurazione complessiva della nostra economia socialista sarà la seguente. Nella gestione dell’industria e del commercio, il cardine sarà la gestione statale e collettiva, da integrare in misura minore con la gestione individuale. Per quanto riguarda la pianificazione della produzione, la maggior parte dei prodotti manifatturieri e agricoli del paese sarà prodotta secondo il piano; e, allo stesso tempo, una certa quantità di prodotti dovrebbe essere prodotta in base alle mutevoli condizioni di mercato nell’ambito prescritto dal piano statale. Per l’industria e l’agricoltura, la produzione pianificata sarà il pilastro, da integrare con la produzione non regolamentata nell’ambito prescritto dal piano statale e in conformità con le fluttuazioni del mercato. Pertanto, il mercato nel nostro paese non sarà mai un libero mercato capitalista, ma un mercato socialista unificato”. Chen Yun, Problem Arisen Following Socialist Transformation, in Selected Works, Vol. III, Beijing, Foreign Languages Press, 1999, p. 25.[↩]
- Deng Xiaoping, There is No Fundamental Contradiction Between Socialism and a Market Economy, in Selected Works, Vol. III, Foreign Languages Press, Beijing, 1994, p. 151.[↩]
- La contraddizione fondamentale del capitalismo tra l’anarchia della produzione sociale e organizzazione della produzione all’interno della singola fabbrica si acutizza progressivamente con un’aumento dell’irrazionalità complessiva e uno sviluppo di strumenti di pianificazione che si estendono ad interi settori, prima con oligopoli e monopoli privati, poi col capitalismo di Stato, gettando così concretamente le basi per il passaggio al socialismo, facendo sì che “la produzione, priva di un piano, della società capitalista capitol[i] davanti alla produzione, secondo un piano, dell’irrompente società socialista”, F. Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 109. Nel rapporto dialettico tra l’anarchia sociale e la produzione organizzata il termine prevalente diviene sempre di più il secondo, prima attraverso accumuli qualitativi che portano allo sviluppo del capitalismo di Stato in una società borghese, poi al salto qualitativo della rivoluzione socialista. Nuovi accumuli quantitativi permettono il passaggio tra le fasi iniziali del socialismo sino al salto qualitativo dell’instaurazione della società comunista.[↩]
- Deng Xiaoping, Seize the Opportunity and Develop the Economy, in Selected Works, Vol. III, Foreign Languages Press, Beijing, 1994, p. 350.[↩]
- Deng Xiaoping, Remarks During an Inspection Tour, in Selected Works, Vol. III, Beijing, Foreign Languages Press, 1994, p. 354.[↩]
- J. Schumpeter, Capitalism, Socialism, Democracy, Londra-New York, Routledge, 2003, p. 410.[↩]
- N. Machiavelli, Niccolò Machiavelli a Giovan Battista Soderini Perugia, 13-21 settembre 1506, in Tutte le opere, Firenze, Bompiani, 2018, p. 2699.[↩]
- Cheng Enfu, China’s Economic Dialectic, New York, Int.[↩]
- Cheng Enfu, Op. cit., p. 309.[↩]
- Ossia un tipo d’economia in cui i prodotti del lavoro non sono trasformati in merci, si riferisce alle politiche economiche del periodo.[↩]
- Chen Enfu, Op. cit., pp. 307-308.[↩]
- Ibidem.[↩][↩]
- V. Lenin, Rapporto del Comitato esecutivo centrale e del Consiglio dei commissari del popolo sulla politica estera e interna, 22 dicembre 1920, in Economia della Rivoluzione, Milano, ilSaggiatore, 2017, p. 317.[↩]
- Qiu Ping, Understanding the Essence of New Quality Productive Forces, in Qiushi, Vol. XVI, n. LXVII, 2024.[↩]
- Xi Jinping, Creiamo insieme un nuovo partenariato di cooperazione reciprocamente vantaggioso, in Governare la Cina, Vol. II, Beijing, Foreign Languages Press, 2017, pp. 670-671.[↩]
- A tal proposito sarà centrale la creazione nel 1913 della Federal Reserve, che, anche se frutto di un atto governativo, avrebbe sempre goduto di quell’autonomia necessaria a vincolare le scelte degli Stati Uniti verso un crescente interventismo e al cammino imperiale, di cui i principali beneficiari e promotori erano proprio i finanziari di Wall Street. I Rockefeller e i Morgan furono centrali nella sua costruzione, che avvenne in risposta alla crisi finanziaria del 1907 e al rialzo dei tassi d’interessi della banca d’Inghilterra, con il conseguente restringimento del credito concesso dalla banche inglesi ai capitalisti americani e il deflusso di oro verso il Vecchio Continente. Tutt’ora Morgan e Rockfeller controllano la FED di New York, vero centro dell’istituzione.[↩]
- V. Lenin, Attorno ad una caricatura del marxismo, in C. Basile, I bolscevichi e la questione nazionale, Genova, Altergraf, p. 265.[↩]
- V. Lenin, La rivoluzione socialista e il riconoscimento delle nazioni all’autodecisione, in C. Basile, I bolscevichi e la questione nazionale, Genova, Altergraf, 2017, p. 142.[↩]
- S. Nearing, J. Freeman, Dollardiplomatie, Berlino, Grunewald, 1927, p. 25.[↩]
- V. Lenin, Lettera agli operai americani, in Pravda, 22 agosto 1918.[↩]
- P. Robeson, Testimony of Paul Robeson before the House Committee on Un-American Activities, 12 giugno 1956.[↩]
- K. Nkrumah, Neocolonialism, the Last Stage of Imperialism, Londra, Thomas Nelson & Sons, Ltd, 1965, p. 4.[↩]
- Deng Xiaoping, Speech By Chairman of the Delegation of the People’s Republic of China, Deng Xiaoping, At the Special Session of the U.N. General Assembly, 10 aprile 1974.[↩]
- Si tratta del documento The Crisis of Democracy, in cui si metteva in chiaro il pericolo rappresentato per l’apparato bellico statunitense dalla crescita del potere contrattuale delle classi subalterne e dalla conseguente estensione dello stato sociale.[↩]
- M. Hudson, Super Imperialism, Londra-Sterling, Pluto Press, 2002, p. 17.[↩]
- Cheng Enfu, Lu Baolin, Five Characteristics of Neoimperialism-Building on Lenin’s Theory of Imperialism in the Twenty-First Century, Monthly Review, Vol. LXXIII, n.1, 1 maggio 2021.[↩]
- S. Vitali, J. B. Glattfelder,S. Battiston, The Network of Global Corporate Control, in PLoS ONE 6, no. 10, 2011.[↩]
- W. Lazonick, Profits Without Prosperity, in Harvard Business Review, settembre 2014.[↩]
- Z. Brzezinski, The Grand Chessboard, New York, Basic Books, 1997, p. 54.[↩]
- J. Biden, Remarks by President Biden on the United States’ Response to Hamas’s Terrorist Attacks Against Israel and Russia’s Ongoing Brutal War Against Ukraine, 20 ottobre 2023.[↩]
- C. L. Garrido, The Purity Fetish and the Crisis of Western Marxism, Dubuque, Midwestern Marx Publishing Press, 2023, p. 27.[↩]
- Xi Jinping, Creiamo insieme un nuovo partenariato di cooperazione reciprocamente vantaggioso e poniamo le basi per una comunità umana dal futuro condiviso, in Governare la Cina, Vol. II, Firenze, Giunti-Foreign Languages Press, 2019, p. 670.[↩]
- Yu Pei, A Global Community with a Shared Future from a Macro-Historical Perspective, in Qiushi Journal, n. 3 (2019).[↩]
- Alla “sinistra compatibile” occidentale sembrerà assurdo annoverare la cosiddetta “teocrazia” iraniana tra quei paesi dove la classe lavoratrice ha una decisiva influenza politica. Tale pregiudizio riflette la subalternità del marxismo occidentale alla narrazione liberale anche per quanto riguarda la Rivoluzione Islamica del 1979 e al percorso politico dell’Iran. L’appoggio delle masse popolari è stato una componente decisiva e fondamentale per l’instaurazione della Repubblica Islamica, la quale ha dato vita a un sistema sociale che risponde al concreto stato di sviluppo delle forze produttive del paese. Questo, per quanto contenga elementi di capitalismo, vede al contempo un importante ruolo giocato da strutture cooperative come le Bonyad, che controllano si stima attorno al 20% del PIL, e dall’espressione economica di organizzazioni civico-militari come i Basij, con i loro onnipresenti comitati di base, e le Guardie della Rivoluzione.[↩]
- Mao Zedong, Sulla tattica contro l’imperialismo giapponese, in Selected Works, Vol. I, Beijing, Foreign Languages Press, 1965, pp. 162-166.[↩]
- “Una volta riorganizzata l’Europa e l’America del Nord, ciò fornirà una potenza così colossale e un esempio tale che i paesi semi-civili seguiranno spontaneamente la loro scia. Solo le esigenze economiche saranno responsabili di ciò. Ma per quanto riguarda quali fasi sociali e politiche dovranno poi attraversare questi paesi prima di giungere anch’essi all’organizzazione socialista, oggi possiamo solo avanzare ipotesi piuttosto inutili. Solo una cosa è certa: il proletariato vittorioso non può imporre benedizioni di alcun tipo a una nazione straniera senza compromettere così la propria vittoria. Il che ovviamente non esclude affatto guerre difensive di vario genere”, F. Engels, Lettera a K. Kautsky, 12 settembre 1882.[↩]
- “L’attuale situazione internazionale è tale che si è stabilito una sorta di equilibrio temporaneo e instabile, ma pur sempre equilibrio; è il tipo di equilibrio in cui le potenze imperialiste sono state costrette ad abbandonare il desiderio di scagliarsi contro la Russia sovietica, nonostante il loro odio per lei, perché la disintegrazione del mondo capitalista avanza costantemente, l’unità diminuisce costantemente, mentre l’assalto Il numero delle forze delle colonie oppresse, che contano più di un miliardo di abitanti, aumenta di anno in anno, di mese in mese e perfino di settimana in settimana. Ma su questo punto non possiamo fare congetture. Ora esercitiamo la nostra principale influenza sulla rivoluzione internazionale attraverso la nostra politica economica. I lavoratori di tutti i paesi, senza eccezione e senza esagerazione, guardano alla Repubblica Russa dei Soviet. Questo è stato ottenuto. I capitalisti non possono tacere o nascondere nulla. Ecco perché colgono così avidamente ogni nostro errore e debolezza economica. La lotta in questo campo è ormai diventata globale. Una volta risolto questo problema, avremo sicuramente e finalmente vinto su scala internazionale. Ecco perché per noi le questioni dello sviluppo economico diventano di un’importanza assolutamente eccezionale. Su questo fronte dobbiamo vincere con una crescita costante e un progresso che deve essere graduale e necessariamente lento. Penso che grazie al lavoro della nostra conferenza raggiungeremo sicuramente questo obiettivo”, V. Lenin, Discorso al X Congresso Panrusso del PCR(B), 26-28 maggio 1921.[↩]
- Basti pensare a tal riguardo al ruolo centrale che ebbe il capitale tedesco per la fondazione e la crescita di due tra le più importanti banche miste italiane, la Banca Commerciale Italiana e la Credito Italiano, passate progressivamente sotto l’orbita anglo-americana durante gli Anni ‘40 e ‘50.[↩]
- J. Stalin, Materialismo storico e materialismo dialettico, in Principi del Leninismo, Editori Riuniti, Roma, 1952, p. 647.[↩]
- V. Lenin, On the Question of Dialectics, in Collected Works, Vol. XXXVIII, Mosca, Progress, 1976, p. 358.[↩]
- Mao Zedong, Sulla contraddizione, in Opere-teoria della rivoluzione e costruzione del socialismo, Roma, Newton Compton, 1977, p. 241.[↩]
- K. Marx, Per la critica dell’economia politica, in K. Marx, F. Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma, 1966, p. 747.[↩]
- V. Lenin, L’imperialismo: fase suprema del capitalismo, in Opere Scelte, Progress, Mosca, 1976, p. 231.[↩]
- Per i dati in questione si rimanda all’elaborazione della Banca d’Italia sugli investimenti diretti esteri per paese controparte, rinvenibili sul sito dell’istituto.[↩]
- Dati elaborati dalla UniCredit attraverso l’analisi di numerose fonti, tra cui il libro soci, Consob “Modello 120A”, dati pubblici, S&P Global shareholders analysis di Marzo/Aprile 2024, riscontrabili sul sito della banca stessa.[↩]
- UBS, Global Wealth Report 2023.[↩]
- V. Lenin, Tre fonti e tre parti del marxismo, in Opere Scelte, Roma, Riuniti, 1965, p. 475.[↩]