Tradotto da Matteo Francia ed Eros R.F., da RTSG
Indice
Parte I: Il bottino di guerra
La maggior parte degli imperi della storia ha utilizzato il credito come strumento di sottomissione dei vari Stati e colonie del proprio dominio imperiale. In qualità di creditori, prestavano denaro a tassi di interesse usurari alle loro colonie subordinate, mantenendole in uno stato di perpetua servitù debitoria. L’impero moderno degli Stati Uniti non fa eccezione a questa regola. Spesso attraverso le istituzioni “multilaterali” dominate dagli Stati Uniti, come il Fondo Monetario Internazionale (FMI), gli Stati Uniti si impadroniscono dei Paesi dell’Africa o del Sud America, ad esempio, dove il FMI concede prestiti ad alto tasso di interesse e a condizioni molto ristrittive, come la privatizzazione delle risorse pubbliche e naturali e la loro vendita alle aziende americane, la riduzione dei salari dei lavoratori e la “democratizzazione” dei governi da un giorno all’altro. Il risultato comune è che questi Paesi e i loro abitanti non possono più consumare neppure le proprie risorse, costretti ad acquistarle da un’azienda americana, e solo con il denaro preso in prestito da un’istituzione che segue i diktat americani.
Ma questa non è l’intera storia dell’imperialismo finanziario statunitense. Michael Hudson, prolifico storico del potere finanziario americano ed ex banchiere di Wall Street, ha raccontato un’altra dimensione di questa storia. Hudson si è fatto conoscere come autore di Super Imperialism, pubblicato per la prima volta nel 1972 dopo la fine del Gold Standard, con una seconda edizione nel 2002 e una terza edizione più recente nel 2021, in cui ogni edizione segue i cambiamenti in tempo reale nella struttura del sistema monetario internazionale. Una delle tesi centrali di Super imperialismo è che gli Stati Uniti hanno inventato un ruolo aggiuntivo e del tutto nuovo per se stessi in quanto maggior debitore del mondo. A differenza di tutte le altre nazioni debitrici, possono farla franca lasciando i loro debiti non pagati, perché il loro status di debitori è uno strumento di potere piuttosto che un punto di debolezza. In effetti, non sarebbe esagerato dire che gli Stati Uniti praticamente obbligano le altre nazioni a concedere prestiti a se stessi, pena la decimazione delle loro economie nazionali e la riduzione in povertà delle loro popolazioni. La sua capacità di esercitare questa forma di potere sul mondo è radicata nel fulcro del suo sistema unipolare: l’egemonia globale del dollaro.
La capacità unica dell’America di usare il suo status di debitore come strumento di dominio ha una lunga storia, che ha origine nella sua funzione più tradizionale di primo creditore internazionale (funzione che mantiene tuttora). Dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’economia nazionale americana era indiscutibilmente la più forte del mondo, mentre la maggior parte delle economie europee era stata indebolita dalla guerra. Di conseguenza, l’Europa si trovò a dipendere dagli Stati Uniti sotto quasi tutti i punti di vista: non solo le nazioni europee dipendevano dalle esportazioni americane, ma avevano anche ingenti debiti di guerra nei confronti degli Stati Uniti, che non potevano pagare senza perdere anche la capacità di pagare le esportazioni americane. Era quindi il momento per l’America di brillare come leader benevolo del mondo libero. L’internazionalizzazione del dollaro americano, attraverso copiosi prestiti governativi e investimenti privati all’estero, doveva essere il simbolo dello status dell’America come faro di libertà, il messianico ricostruttore dell’Occidente devastato dalla guerra.
L’impareggiabile forza economica degli Stati Uniti dopo le guerre significava che il ripristino del commercio mondiale, anche se poteva sembrare un laissez-faire, sarebbe stato effettivamente realizzato dagli Stati Uniti stessi e alle loro condizioni. Nelle parole di Michael Hudson, «dato che solo gli Stati Uniti possedevano la valuta estera necessaria per intraprendere sostanziali investimenti all’estero e solo l’economia statunitense godeva di un potenziale di esportazione tale da spiazzare la Gran Bretagna e gli altri rivali europei, l’ideale del laissez-faire era sinonimo di estensione mondiale del potere nazionale statunitense». Ciò significava che il governo statunitense poteva efficacemente scoraggiare i governi stranieri dal partecipare alla pianificazione e alla regolamentazione delle loro economie, mentre nel frattempo pianificava e regolava efficacemente non solo la propria, ma anche le economie delle nazioni clienti.
In qualità non solo di prima potenza industriale, ma anche di principale creditore del mondo intero, gli Stati Uniti si trovavano quindi nella posizione di strutturare l’economia globale in gran parte nel proprio interesse, come qualsiasi potenza monopolistica vuole fare, anche in un ambiente di laissez-faire. I Paesi europei, così come quelli dell’Asia orientale come il Giappone, avrebbero avuto poca scelta se non quella di accettare i termini della ricostruzione economica guidata dagli Stati Uniti, finanziata da una marea di dollari sostenuti dall’oro, per potersi permettere non solo i debiti di guerra ma anche la capacità di consumare le esportazioni americane e di ricostruire la propria capacità industriale. Questo accordo sembrava, per il momento, un vantaggio generale per l’economia mondiale che l’America ora presiedeva.
Ma le cose cominciarono a cambiare quando i leader statunitensi si resero conto che finché la bilancia dei pagamenti del governo fosse rimasta in attivo, ricevendo dalle economie straniere più di quanto avesse speso in esse, l’auspicata ricostruzione del mondo sotto il pieno controllo americano non si sarebbe concretizzata. Si scoprì che i prestiti intergovernativi e gli investimenti privati all’estero semplicemente non potevano raggiungere il risultato desiderato. Le riserve monetarie estere si stavano esaurendo man mano che i governi di tutto il mondo pagavano i loro debiti agli Stati Uniti, e la loro capacità di permettersi le importazioni dall’America era quindi destinata a rimanere sotto il pareggio. Gli Stati Uniti dovevano quindi capire come spendere ancora di più i loro dollari all’estero, in particolare come spingere la bilancia dei pagamenti oltre il surplus e verso il deficit.
Questo obiettivo fu raggiunto quando gli Stati Uniti intrapresero una serie di guerre in Asia, in particolare la guerra di Corea e quella del Vietnam. Il mondo fu inondato di dollari a un ritmo “entusiasmante” e allarmante. All’inizio questo sembrava portare un necessario elemento di stabilità all’economia mondiale, consentendo ai governi stranieri di rifinanziare le proprie industrie e di ripagare i propri debiti. Tuttavia, i crescenti livelli di spesa in deficit del governo statunitense, concentrati quasi interamente sulle spese militari all’estero, provocarono negli anni Sessanta una corsa all’oro a livello internazionale. I governi di tutto il mondo, compreso quello francese guidato all’epoca dal presidente Charles de Gaulle, chiesero il pagamento. Le scorte d’oro degli Stati Uniti cominciarono ad esaurirsi e l’America si avvicinò presto al precipizio della bancarotta a causa delle sue spese militari troppo ambiziose, che non mostravano segni di diminuzione.
La grande soluzione a questa crisi crescente arrivò nel 1971, quando il presidente Nixon decise ufficialmente di slegare il dollaro dall’oro, il bene tangibile che per tanto tempo aveva sostenuto il dollaro. Improvvisamente, le nazioni straniere che possedevano grandi quantità di dollari non potevano più consegnarli in cambio di oro. L’unica alternativa era quella di consegnarli in cambio di titoli del Tesoro americano. Si trattava di un trucco geniale: invece di avere un debito d’oro nei confronti delle economie straniere, gli Stati Uniti si trovavano ora in una posizione di debito nei confronti dei propri dollari stampati, il cui pagamento era garantito da un pagherò del governo: un titolo del Tesoro statunitense. Le banche centrali straniere non avevano altra scelta se non quella di investire in questi titoli del Tesoro, perché se non avessero assorbito il costante afflusso di dollari, le loro esportazioni sarebbero state svantaggiate rispetto a quelle statunitensi. I governi stranieri furono quindi costretti a diventare creditori degli Stati Uniti, pena l’esclusione dal mercato globale a causa del potere monopolistico americano. In questo modo gli Stati Uniti inventarono un nuovo modo di finanziare il proprio deficit di spesa: riprendendo in prestito i propri dollari dai governi del mondo, che furono così costretti a pagare le imprese militari degli Stati Uniti in Asia.
Nelle parole di Hudson, «anche quando gli Stati Uniti sono diventati il più grande debitore ufficiale del mondo, hanno convinto l’Europa, il Vicino Oriente e l’Asia orientale a non usare la loro posizione di creditori per creare un’alternativa al regime di commercio speciale e al favoritismo monetario americano. Il mezzo secolo successivo, dal 1971 al 2021, ha visto i leader stranieri subordinare l’interesse nazionale dei loro Paesi al finanziamento di Stati Uniti sempre più indebitati, investendo la crescita delle riserve internazionali in buoni del Tesoro americano».
Per la maggior parte del dopoguerra, fino agli anni ’70, gli Stati Uniti sono stati di gran lunga la prima potenza industriale del mondo, con l’URSS come stretta concorrente. Il potere degli Stati Uniti sull’economia mondiale si esercitava su più fronti contemporaneamente: come primo creditore delle economie povere del Terzo Mondo, come primo debitore dei Paesi dell’Europa e dell’Asia orientale e come maggiore superpotenza industriale sul mercato globale. È stato negli anni ’80 che il terzo asse del potere statunitense ha subito un cambiamento significativo e l’economia americana è entrata in una fase di marcata de-industrializzazione.
Nel capitolo finale dell’edizione 2021 di Super imperialismo, Hudson descrive questo processo come il risultato, almeno in parte, dell’enfasi posta dall’America sull’aumento degli investimenti esteri a partire dagli anni Sessanta. Oltre a costringere gli altri Paesi a diventare suoi creditori, il governo americano ha cercato di finanziare le proprie spese in deficit generando entrate dagli investimenti esteri. I margini di profitto più elevati derivanti dall’espansione dei mercati, dall’abbassamento dei prezzi della manodopera e dalla finanziarizzazione interna hanno comportato maggiori eccedenze di ricchezza che potevano essere utilizzate per finanziare il deficit del bilancio federale, generando al contempo interessi per gli investitori. Nel frattempo, la bilancia commerciale si è spostata in deficit e gli Stati Uniti, invece di essere il più grande esportatore del mondo e costringere il mondo a essere suo cliente, sono diventati il più grande importatore del mondo e il resto del mondo è stato costretto a dipendere dai consumi e dagli investimenti americani. Le aziende americane trasferirono i loro impianti di produzione all’estero, in particolare in Cina, alla ricerca di manodopera più economica, e milioni di colletti blu americani rimasero senza lavoro. (Secondo la narrativa comune, che Hudson conferma, questi eventi hanno portato all’ascesa del populismo e all’elezione di Donald Trump nel 2016).
Nel frattempo, l’economia interna degli Stati Uniti ha subito un cambiamento radicale in direzione della finanziarizzazione, un cambiamento che anche Michael Hudson ha documentato in modo molto dettagliato nel suo libro del 2022, The Destiny of Civilization: Financial capitalism, Industrial capitalism, or Socialism. Hudson individua nella finanziarizzazione, insieme alla spesa pubblica in deficit, un’altra delle cause principali dello svuotamento dell’industria americana. Quando l’economia è diventata dominata da rentiers e finanzieri, aumentando i costi degli investimenti produttivi, le industrie produttive sono state mandate all’estero in cerca di manodopera più economica. Le aziende americane sono diventate multinazionali, con la sede centrale in patria e le fabbriche in Cina o altrove. Come scrive Hudson: «Il capitalismo finanziario di oggi non sta seguendo un percorso che porta al dominio industriale abbassando le strutture dei prezzi nazionali per portarli ai costi di produzione effettivamente necessari (cioè al valore). Al contrario, la strategia del private equity consiste nel rilevare le aziende a credito, per poi vendere le loro attività e caricarle di pseudo-costi (compresi nuovi prestiti) per pagarsi i dividendi… L’economia statunitense si sta deindustrializzando. Una quota crescente dei salari e dei profitti industriali viene pagata al settore finanziario e ai settori assicurativo e immobiliare ad esso collegati, sotto forma di interessi, commissioni finanziarie e assicurative e rendite immobiliari privatizzate».
Certo, la ricchezza americana è ancora generata in gran parte dalla produzione, ma dalla produzione estera, che nasce da investimenti americani all’estero e genera profitti in mercati di consumo in gran parte americani in patria. Allo stesso modo, il consumo americano si avvale in larga misura di merci straniere. Le disuguaglianze di classe del capitalismo industriale classico sono ora distribuite tra paesi o blocchi distinti in tutto il mondo, tanto che è possibile sostenere che la Cina, la Russia, il Messico, i paesi dell’OPEC e le economie in via di sviluppo di tutto il mondo occupano ora la posizione tradizionale del proletariato, come definito da Karl Marx, mentre gli Stati Uniti occupano in gran parte la posizione della borghesia classica. Ma all’interno dei confini degli stessi Stati Uniti, le disuguaglianze di ricchezza non sono generate da questa classica divisione tra classi, definita dalla loro vicinanza ai mezzi di produzione; piuttosto, tali disuguaglianze sono prodotte dalla pura e semplice manipolazione e ridistribuzione verso l’alto dei flussi di denaro per mano dell’aristocrazia rentier e finanziaria.
Allo stesso tempo, la dipendenza dei Paesi esportatori stranieri dai consumi e dagli investimenti americani costituisce un’inversione del vecchio modello, in cui i Paesi dipendevano dall’America proprio per le sue esportazioni. Inoltre, mentre gli Stati Uniti registrano il più grande deficit commerciale del mondo, la Cina registra quasi il più grande surplus commerciale del mondo – e gli Stati Uniti sono il principale cliente della Cina. Essendo un’economia trainata dalle esportazioni, la Cina ha bisogno di un costante afflusso di valuta estera, in particolare del dollaro, per sostenere la propria economia. Di conseguenza, le aziende cinesi si ritrovano con grandi quantità di dollari in eccesso, che poi portano in una banca cinese per cambiarli nella loro valuta locale, lo yuan. Tutti i dollari che fluiscono attraverso l’economia cinese finiscono quindi alla banca centrale cinese, la People’s Bank of China, che – seguendo i governanti debitori dell’egemonia statunitense – li investe tipicamente in titoli di Stato americani, come prestito al governo americano. Il deficit della bilancia dei pagamenti di quest’ultimo viene così ripagato e la costruzione di migliaia di basi militari in tutto il mondo è interamente finanziata dal debito.
Per decenni, la Cina e altri paesi non hanno avuto altra scelta se non quella di prestare i loro dollari agli Stati Uniti, ma ora per una serie di ragioni uniche. Da quando gli Stati Uniti hanno imparato a usare la loro posizione di debitori come arma di dominio, le banche centrali straniere hanno dovuto trovare il modo di spendere i loro dollari in eccesso per mantenere i prezzi delle loro esportazioni bassi rispetto a quelli degli Stati Uniti. La particolarità della situazione odierna è che i Paesi stranieri devono farlo anche se gli Stati Uniti sono ora in deficit commerciale anziché in surplus commerciale. Se si rifiutassero di accettare dollari per le loro esportazioni, “fallirebbero”, essendosi isolati dal loro principale mercato globale. Ma se permettessero l’afflusso illimitato di dollari, si troverebbero fuori dal mercato globale, superati anche da un’economia statunitense deindustrializzata.
L’asimmetria di questo sistema truccato è evidente dal fatto che nessun’altra valuta nazionale gode di questo privilegio: solo il dollaro ha il potere di decimare le economie produttive di tutto il mondo semplicemente con un eccesso di offerta. Poco importa che la capacità produttiva dell’economia interna americana sia essa stessa in declino: l’economia reale è sempre meno rilevante per un’economia finanziarizzata. Inoltre, gli Stati Uniti beneficiano in ogni modo di questo accordo. Non solo gli americani possono godere di un consumo illimitato di beni a basso costo provenienti dalla Cina e raccogliere profitti illimitati dalla produzione cinese, ma possono anche spendere fondi illimitati per consolidare la loro presenza militare in tutto il mondo, aggiungendo la minaccia della violenza a quella della decimazione economica, al fine di mantenere le nazioni straniere in soggiogazione a se stesse.
Parte II: Le prospettive della de-dollarizzazione
Gli Stati Uniti si sono assicurati di non dover ripagare i propri debiti alle nazioni creditrici di tutto il mondo per molto tempo e l’accordo dello scorso anno tra il Congresso e l’amministrazione Biden per sospendere il tetto del debito non ha fatto altro che prolungare indefinitamente la vita di questo sistema truccato. Le dispute partitiche negli Stati Uniti sulle esigenze della spesa in deficit sono una distrazione dal fatto evidente che gli Stati Uniti non possono rinunciare al loro status di debitori se vogliono mantenere la loro egemonia globale, perché il loro debito è proprio il modo in cui finanziano le immense somme di spesa che servono a costruire tale egemonia. E si dà il caso che la conservazione e l’estensione di questa egemonia sia sostenuta dall’intera classe dirigente americana, indipendentemente dalla loro affiliazione partitica o dai loro discorsi moralistici sul debito nazionale.
Tuttavia, non si può ragionevolmente pensare che il sistema internazionale del dollaro su cui poggia lo status di debitore egemone dell’America possa durare per sempre. In un’economia altamente finanziarizzata, può sembrare che questo possa durare all’infinito, ma l’economia reale non è così priva di limiti. Per prima cosa, l’asimmetria dell’egemonia del dollaro è stata messa in forte risalto dagli eventi successivi all’operazione militare speciale della Russia in Ucraina, nel febbraio 2022, quando le nazioni occidentali di tutto il mondo, guidate ovviamente dagli Stati Uniti, hanno risposto all’invasione del presidente Vladimir Putin imponendo pesanti sanzioni sul petrolio russo. Questo non è andato a vantaggio di tutte le parti coinvolte, compresi molti Paesi europei – tra i più stretti alleati e partner commerciali degli Stati Uniti –, e ha invece contribuito a un aumento globale dei prezzi dell’energia.
È sempre più evidente a una crescente maggioranza di nazioni del mondo che il loro assoggettamento al sistema internazionale del dollaro non ha funzionato a loro vantaggio. Al contrario, le nazioni occidentali caratterizzate da alti livelli di consumo si ritrovano vittime di prezzi inflazionati a causa delle sanzioni sul petrolio russo o come effetto a valle della politica monetaria statunitense. Per le nazioni che detengono ingenti debiti nei confronti degli Stati Uniti o di istituzioni multilaterali dominate dagli Stati Uniti, come il FMI o la Banca Mondiale, il sistema del dollaro ha reso sempre più difficile perseguire il proprio sviluppo economico e la modernizzazione. L’accumulo di ingenti debiti con interessi estremamente elevati, unito alla difficoltà di ottenere prestiti senza accettare politiche ambientali restrittive, ha impedito a questi Paesi di investire nelle loro basi industriali interne, contribuendo così all’immiserimento delle loro popolazioni più povere e lavoratrici. Ciò sta indubbiamente alimentando livelli crescenti di risentimento nei confronti degli architetti di questo sistema usurario con sede negli Stati Uniti.
Nel frattempo, le nazioni esportatrici a cui è stata concessa una certa misura di sviluppo interno si sono comunque trovate vulnerabili alle restrizioni commerciali punitive imposte dal governo sempre più bellicoso e autoritario degli Stati Uniti. Uno di questi Paesi è la Russia, che, nonostante il suo precipitoso declino economico dopo la caduta dell’Unione Sovietica, ha acquisito una posizione di fondamentale importanza geoeconomica grazie alla sua produzione di petrolio per l’esportazione. Un altro di questi Paesi è la Cina, il più grande paese esportatore al mondo e quindi uno dei maggiori creditori di dollari nei confronti del governo statunitense, che detiene una delle più grandi riserve di titoli del Tesoro americano al mondo (seconda solo al Giappone). Anche l’economia cinese ha subito un ciclo di sanzioni economiche punitive durante la presidenza di Donald Trump. Il presidente Biden non ha fatto altro che estendere e inasprire i metodi del suo predecessore, nel tentativo continuo di spingere la Cina all’isolamento dal mercato globale. Di conseguenza, non sorprende che i leader cinesi siano diffidenti nei confronti dell’approccio sempre più aggressivo dell’America e siano quindi desiderosi di sfuggire ai rigidi confini dell’impero del dollaro.
Fortunatamente per la Cina, l’economia cinese è progredita fino a diventare, secondo alcune misure, più grande di quella statunitense, e possiede una capacità industriale molto più forte. Sebbene per decenni la Cina sia stata dipendente dal dollaro statunitense per il commercio e gli investimenti – che l’ha mantenuta inequivocabilmente nell’orbita dell’imperium globale americano –, si sta rapidamente profilando la possibilità di uno sganciamento internazionale dal sistema del dollaro. Ciò è dovuto in gran parte alla rapida crescita dell’autosufficienza della Cina in settori quali la finanza, le infrastrutture, la scienza e la tecnologia. Nessun altro Paese moderno può vantare un percorso così rapido verso l’indipendenza economica. In questa fase avanzata di sviluppo, la Cina potrebbe persino essere in grado di trarre vantaggio dagli aggressivi tentativi di disaccoppiamento degli Stati Uniti. Sebbene abbiano mostrato un netto miglioramento negli ultimi decenni, le pessime condizioni di lavoro e gli orari di lavoro brutalmente lunghi di milioni di lavoratori cinesi sono oggetto di “leggenda” nei Paesi occidentali. Ironia della sorte, ora che la Cina nel suo complesso ha sviluppato una base industriale in grado di reggersi da sola, un disaccoppiamento forzato potrebbe effettivamente contribuire al miglioramento della qualità della vita dei lavoratori cinesi. Da un lato, infatti, potrebbero non essere più costretti a lavorare così a lungo, dal momento che non produrranno più i beni e i profitti del mondo occidentale oltre ai propri.
Inoltre, se l’Occidente si stacca dalla Cina, potrebbe inavvertitamente liberare molte delle risorse produttive di quest’ultima da impiegare in progetti di sviluppo che la Cina stessa ha ormai preso in considerazione da anni, come l’estensione della Belt and Road Initiative del presidente Xi Jinping attraverso il continente eurasiatico e oltre. In modo simile, come molti commentatori hanno osservato, le sanzioni imposte dagli Stati Uniti e da altre nazioni occidentali contro la Russia stanno già avendo l’effetto involontario di spingere ulteriormente la Russia e altre nazioni “sotto le braccia” della Cina, aumentando il potere combinato del blocco BRICS come fronte unito contro l’egemonia statunitense. Quindi, ironia della sorte, gli strumenti punitivi che gli Stati Uniti hanno in mano in gran parte grazie all’egemonia internazionale del dollaro potrebbero in realtà diventare i fautori della loro stessa rovina.
In effetti, i Paesi che rientrano nella sfera d’influenza in espansione della Cina – come quelli che fanno parte del blocco BRICS, dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai e dell’Iniziativa Belt and Road – stanno già sperimentando alcuni modesti guadagni dalla loro alleanza con la Cina e dall’indipendenza dagli Stati Uniti. La stessa Iniziativa Belt and Road ha uno scopo strettamente legato alla de-dollarizzazione: aprire nuove strade per gli investimenti cinesi in alternativa ai titoli di Stato statunitensi, alleggerendo così la pressione per continuare ad accettare il dollaro come unico mezzo per costruire la propria ricchezza. Da questo punto di vista, il forte impegno della Cina per lo sviluppo economico e la modernizzazione industriale, in particolare nel mondo povero e nel “Sud globale”, segnala il suo desiderio di uscire dalla “trappola del creditore” in cui è costretta a prestare i suoi dollari in eccesso. Invece, quei dollari possono essere e sono stati spesi per una vasta gamma di progetti infrastrutturali in Asia e in Africa, contribuendo così allo sviluppo della capacità produttiva regionale e alla modernizzazione in tutto il mondo. Sebbene questo non risolva immediatamente il problema del dominio del dollaro, contribuisce certamente a un’importante fase preliminare alla de-dollarizzazione. L’indipendenza dagli Stati Uniti richiederà, semmai, forme concrete di autosufficienza economica regionale, come quelle fornite da infrastrutture e tecnologie più avanzate.
Tuttavia, il successo finale di tali progetti dipenderà dalla capacità dei Paesi coinvolti nella Belt and Road Initiative di iniziare a utilizzare le proprie valute o lo yuan cinese al posto del dollaro. Lo sviluppo di un’alternativa internazionale stabile al dollaro rimane una delle maggiori sfide per questi Paesi. A dire il vero, negli ultimi mesi sono stati fatti grandi passi avanti in questa direzione: Cina, Russia, Brasile, India, Kenya, Arabia Saudita, Paesi ASEAN, Emirati Arabi Uniti e altri ancora hanno già iniziato a commerciare nelle loro valute locali, con la Cina decisamente in testa. Tuttavia, restano ancora molti passi avanti da compiere affinché queste misure siano efficaci. Il blocco dei BRICS nel suo complesso e la collettivitàd dei membri dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai non hanno ancora raggiunto il livello di autosufficienza economica e di produttività necessario per sostenere il valore delle loro valute rispetto al dollaro, per non parlare della resistenza ai livelli di decimazione che potrebbero essere inflitti dalle sanzioni statunitensi.
Nel frattempo, in Europa, la percezione pubblica dell’America si sta spostando e riallineando, anche se non ancora abbastanza da far presagire un imminente distacco dal “super imperialismo” americano. Tuttavia, man mano che gli effetti del disaccoppiamento forzato dal petrolio russo procedono, la deindustrializzazione dell’Europa (già in corso) sarà rapidamente accelerata, la sua dipendenza dalle esportazioni di gas naturale liquido americano sarà accentuata e il suo asservimento ai capricci dell’élite finanziaria e governativa americana sarà ancora più marcato. Sono state tendenze simili a quelle che hanno prodotto la rivolta populista occidentale della fine degli anni 2010. L’intensificarsi di queste tendenze nei prossimi anni non attenuerà certo le polarizzazioni interne dell’Occidente e potrebbe addirittura spingere alcune nazioni europee (ad esempio l’Ungheria) a cercare nuove partnership economiche all’estero, come con la Cina, libere dalla sfera di influenza economica americana. Ciò richiederà molto probabilmente il raggiungimento della libertà dal dollaro americano.
Come ho spiegato nella prima parte di questo saggio, la posizione debitoria degli Stati Uniti rispetto a nazioni come la Cina, il Giappone e i Paesi europei ha contribuito a decenni di espansione militare nel mondo. La minaccia dell’intervento militare degli Stati Uniti come ultima misura è sempre al limite delle tensioni economiche mondiali, nel caso in cui queste si intensifichino fino al punto di ebollizione. Purtroppo, è un pericolo a cui le nazioni creditrici del mondo sono state costrette a contribuire accumulando grandi riserve di titoli di Stato statunitensi, come unico modo disponibile per assorbire il loro capitale in eccesso.
In definitiva, l’unico modo per porre fine a questo sistema truccato, che serve solo gli interessi della più grande nazione debitrice del mondo, è che le nazioni creditrici ed esportatrici trascendano la loro dipendenza dagli investimenti e dai consumi statunitensi – rinunciando, in breve, alla loro dipendenza dal dollaro. Ma questo richiederà un rinnovato impegno per lo sviluppo economico e l’industrializzazione, libero dai vincoli imposti dalla politica estera degli Stati Uniti. L’unica nazione al mondo con la capacità di sostenere tale indipendenza è la Cina, i cui leader sono ben consapevoli del pesante fardello dello sviluppo globale che grava sulle loro spalle. I Paesi che lottano per mantenere la propria indipendenza dall’America farebbero bene a tenerne conto nei loro calcoli.