È dalle critiche che nascono i migliori contributi teorici e politici. È indiscutibile. Tutto il marxismo, e tutti gli scritti marxisti, sono basati fondamentalmente su critiche. Siano essi rivolti a destra o a quelli “più a sinistra”. Trovo quindi, al netto della mia ragione o del mio torto, aver speso utilmente tempo nella stesura di questa ampia critica alle tesi della rivista Indipendenza, che nella sua ultima pubblicazione “Fascismo/antifascismo, eurasiatismo, “rossobrunismo”, destra/sinistra“, spara indistintamente ovunque, colpendo, tra i tanti, proprio il Comunitarismo, il realismo politico, la geopolitica e l’Eurasiatismo – tutti aspetti ideologici e strumenti di analisi fondamentali per il marxismo-leninismo del XXI secolo.
Siano le mie tesi sbagliate lo dirà il tempo; credo comunque che la pubblicazione di questo saggio possa far cambiare idea a diversi italiani, e nel caso non lo faccia, sarò comunque contento di aver portato almeno un minimo di conoscenze basilari in più su due questioni – il comunitarismo e la geopolitica –, tali da aprire uno spiraglio a riflessioni e nuove idee. Cose che ai marxisti occidentali servirebbero assolutamente, dato che stiamo, rispetto ai compagni cinesi e russi, fortemente indietro coi tempi e in termini qualitativi (dei termini quantitativi evitiamo di parlare per evitare la depressione).
Buona lettura, e non me ne vogliate se pecco di citazionismo. Sembra assurdo ma ho scremato il più possibile; ho cercato di mettere i passaggi più rilevanti, evitando però di lasciare pezzi e provocare incomprensioni, accuse di parzialità e interpretazione, preferendo citare i passaggi dunque per intero. Sono inoltre dell’idea che non valga la pena scrivere cose identiche già dette da altri – se non per sistematizzarle o sintetizzarle –, oltre al fatto che, se si parla di un determinato autore, la cosa più giusta sia interpellarlo direttamente – anche se non più presente tra noi, grazie all’invenzione umana migliore di tutte, cioè la scrittura.
Indice
Sul Comunitarismo
Mi stupisco che Indipendenza, dopo aver avuto in passato rapporti importanti con un pensatore così rilevante sull’argomento come Costanzo Preve, abbia posto l’idea del comunitarismo nella pattumiera, tra l’altro in uno scritto in cui vengono confutati di fatto tutti i «rossobrunismi» e le nuove forme del «fascismo», implicitamente ponendo dunque il pensiero comunitarista in questa triste classificazione.
1. Sui fondamenti del Comunitarismo
Indipendenza scrive che reputa positivo il fatto che i comunitaristi «denunciano la dissoluzione sociale, l’individualismo, il relativismo morale e l’assenza di una dimensione etica condivisa, tipici delle società occidentali contemporanee», ma, fa notare, «si fermano a un livello piuttosto superficiale, trascurando completamente di prendere in considerazione i rapporti economici e di classe capitalistici quali elementi decisivi nel determinare il carattere delle società occidentali. E difatti le proposte in positivo appaiono piuttosto deboli, per lo più dei meri correttivi al liberalismo, che nei suoi aspetti fondanti non viene messo in discussione».
Parlare del comunitarismo come «correttivi al liberalismo» è profondamente sbagliato. Mentre il liberalismo, «gli occidentali», «pongono l’accento sui diritti personali, gli orientali», i comunitaristi, «lo mettono sugli obblighi del singolo verso la società. Se per i primi al centro di tutto sta la persona, per i secondi la comunità» [“Le radici confuciane della Cina contemporanea“].
Come sintetizza bene Chen Lai su Renmin Ribao [“Conosciamo a fondo i valori distintivi della Cina“], il pensiero comunitarista della Cina confuciana, che può esser preso come riferimento nei suoi valori per il Comunitarismo in generale (come fa ad esempio Preve quando parla dei modi di produzione comunitari), si fonda su quattro principi cardine:
1) «La responsabilità [责任本位的立场]» verso gli altri e la Comunità «viene prima della libertà» personale o individuale [个人本位的立场];
2) «Il dovere viene prima dei diritti», e questo è un principio che troviamo non solo in Confucio [I Dialoghi, L. VI, XX; L. XII, XXI] ma anche in diversi pensatori comunitaristi e socialisti fuori dalla Cina, come Giuseppe Mazzini e José Martí, entrambi considerati i Padri della Patria rispettivamente in Italia e a Cuba (Ne Dei Diritti dell’Uomo Mazzini scrive: «[si deve trovare] un principio educatore… che guidi gli uomini al meglio, che insegni loro la costanza nel sagrificio, che li vincoli ai loro fratelli senza farli dipendenti dall’idea d’un solo o dalla forza di tutti. E questo principio è il Dovere. Bisogna convincere gli uomini (…) che ognuno d’essi deve vivere non per sé, ma per gli altri – che lo scopo della loro vita non è quello d’essere più o meno felici, ma di rendere se stessi e gli altri migliori – che il combattere l’ingiustizia e l’errore a benefizio dei loro fratelli, e dovunque si trova, è non solamente diritto, ma dovere: dovere da non negligersi senza colpa, dovere di tutta la vita»
Martí afferma allo stesso modo: «Il vero uomo non guarda da quale parte si vive meglio, ma da quale parte si trova il dovere; ed è questo l’unico uomo pratico il cui sogno di oggi sarà la legge di domani, perché colui che sia entrato con gli occhi nelle viscere dell’universo e abbia visto fremere i Popoli, fiammeggianti e insanguinati nel coacervo dei secoli, sa che il futuro, senza eccezione alcuna, è dalla parte del dovere».)
3) «Il gruppo [公] è superiore all’individuo/personale [私]». Confucio questo, come sempre in brevi frasi taglienti, lo sintetizza affermando che «Chi basato sul suo interesse agisce, molto si adira» [I Dialoghi, L. IV, XII]: avere in vista se stessi e i propri interessi non può far a meno di ferire gli altri: così si arriva alla rabbia, alla collera e al litigio, alla spaccatura della Comunità.
4) «L’armonia [和] è superiore al conflitto»; citando Zhang Zai, filosofo dialettico ante-litteram del periodo Song, «ogni fenomeno ha il suo opposto, che necessariamente agisce in senso contrario; ogni contrario porta una discordia, che deve essere risolto con l’armonia» [citato da Chen Lai, “Conosciamo a fondo i valori distintivi della Cina“].
Aggiungerei personalmente altri principi cardine, prendendo come riferimento sempre il pensiero confuciano. In particolare da I Dialoghi:
5) «Il Saggio fugge dalla competizione» [L. III, VII], perché porta a conflitti basati sull’interesse individuale o di una parte della Comunità.
6) «L’uomo virtuoso si appaga della sua virtù [come] il [solo] guadagno» [L. IV, II; e L. IV, XI], in quanto è vero che l’uomo, vivente ed essere materiale, necessita di materia per sopravvivere e vivere, ma avere come fonte della propria appagazione la materia piuttosto che la propria virtù o rettitudine, porta alla competizione e quindi al conflitto.
Il Comunitarismo stravolge ogni fondamento filosofico su cui si regge l’individualismo e il relativismo.
Persino il concetto di “libertà”, tanto caro agli occidentali, soprattutto dall’illuminismo e dalla Rivoluzione francese, è un concetto in sé individualista, nel senso che ha ormai preso oggi. A ragione Giuseppe Mazzini distingue tra Libertà e arbitrio, così come lo fa implicitamente Rousseau1, affermando che seguire i propri desideri individuali e naturali è schiavitù, in contrapposizione alla libertà, cioè seguire le leggi stabilite dalla Comunità.
Ed un esempio storico-antropologico è la Civiltà dei Quechua (Incas), che qui cito brevemente per poi trattare meglio in seguito: «La libertà individuale è un aspetto del complesso fenomeno liberale. Una critica realista può definirla come base giuridica della civiltà capitalista (…). Una critica idealistica può definirla come un’acquisizione dello spirito umano nell’era moderna. In nessun caso questa libertà si adattava alla vita degli Inca. L’uomo Tawantinsuyo non sentiva assolutamente il bisogno di libertà individuale. Così come non sentiva assolutamente il bisogno, ad esempio, della libertà di stampa. (…) Se lo spirito di libertà si rivelò ai Quechua, fu senza dubbio in una formula, o meglio in un’emozione diversa dalla formula liberale, giacobina e individualista della libertà.» [José Carlos Mariàtegui, Sette saggi di interpretazione della realtà peruviana, III]
Citando Preve, principale teorico del comunitarismo in Italia, «La comunità è la mediazione dialettica fra la singolarità dell’intimo (la morale) e l’universalità del comune (etica). L’individualismo, persino nelle sue forme migliori e nobili, si basa sul presupposto errato della possibilità di rapporto diretto fra la singolarità e l’universalità». Chi rappresenta l’universalità, per esser chiari, «non può certo essere un popolo, una religione, una nazione o una cultura particolare, ma soltanto il genere umano. A sua volta il genere umano non è un presupposto, ma è il risultato di una potenzialità che si realizza in un processo storico di universalizzazione reale» [Costanzo Preve, Verso una definizione condivisa di Comunitarismo].
Questo è essenzialmente ciò su cui si basa la Dialettica della storia, da Hegel ad Engels («tra il carattere del pensiero umano, che ci sembra necessariamente assoluto, e la sua effettuazione in individui il cui pensiero non è che limitato», occorre una sintesi universale, sia nello spazio attraverso le Comunità, sia nel tempo attraverso le generazioni, come si afferma nell’Antidühring; ma ciò vale per la Verità e la Scienza quanto per la Morale: «Una morale che superi gli antagonismi delle classi e le loro sopravvivenze nel pensiero, una morale veramente umana è possibile solo a un livello sociale in cui gli antagonismi delle classi non solo siano completamente superati, ma siano anche dimenticati per la prassi della vita»). Solo attraverso la Comunità si può raggiungere una Verità assoluta, una Totalità in generale, come affermata nel pensiero di Florenskij [“Totalità e totalitarismo“].
2. Sulla definizione di Comunità e la realtà del Comunitarismo
Tornando al testo della critica, Indipendenza afferma che il Comunitarismo viene definito «sempre sulla base di concettualizzazioni in negativo (chiarendo cioè cosa non si è) e mai in positivo (definendo invece cosa si è)».
Se abbiamo dimostrato, con i principi confuciani, che non è vero il fatto che non venga «mai [definito] in positivo», è vero che le concettualizzazioni vengano spesso poste o partano comunque «in negativo». Ma ciò è assolutamente normale. Come afferma Preve nel suo Manifesto filosofico del Comunismo comunitario, «Lo stesso Marx non ha mai definito il comunismo se non in modo del tutto vago (movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti, società in cui ognuno darà secondo le sue capacità e riceverà secondi i suoi bisogni, abolizione della forma di valore del lavoro umano, eccetera). Il comunismo è stato sempre definito in termini di teologia “negativa”, e cioè con un approccio distintivo e contrastivo con la produzione capitalistico.»
«Ebbene, questo fatto, lungi dall’essere una debolezza del concetto, è una sua forza, perché gli permette di sopravvivere all’obsolescenza delle sue forme storiche» [Costanzo Preve, La scuola di Marx].
E non solo; così come disse anche Engels nell‘Antidühring, «Tutte le definizioni hanno scientificamente scarso valore. Per sapere in modo veramente esauriente che cosa è [ad esempio] la vita, dovremmo percorrere tutte le sue forme fenomeniche dalle più basse alle più alte. Tuttavia per l’uso ordinario tali definizioni sono molto comode e in parte non si può farne a meno; inoltre non possono fare del danno, purché non si dimentichino le loro inevitabili deficienze» [corsivo mio].
Della stessa opinione è Hegel, parafrasato da Preve:
«Hegel aveva ragione quando scrisse che è inutile definire teoricamente il nuoto prima di nuotare. Da un punto di vista astratto, il comunitarismo è soltanto l’astratto contrario polare dell’individualismo e del collettivismo, che in quanto opposti in correlazione essenziale non fanno che rovesciarsi continuamente l’uno nell’altro. Concretamente, soltanto la pratica comunitaria può alla lunga mostrare la sua superiorità rispetto alle pratiche individualistiche e collettivistiche» [Verso una definizione condivisa di Comunitarismo].
Insomma così come il Comunismo, il Comunitarismo è un qualcosa che andrà a definirsi nel concreto col tempo, con la teoria e soprattutto la pratica, con l’affrontare la realtà, partendo dal presupposto che i suoi obiettivi siano il superamento dell’individualità e la tutela della Comunità (sia nella struttura che nello spirito), con i principi cardine che abbiamo citato prima e che sono già piuttosto delineati grazie alle esperienze storiche e culturali della Civiltà cinese e di altri popoli.
Ma non è solo la Cina a portarci esempi pratici di Comunitarismo. Preve a ragione cita anche l’India (al netto della struttura castale sviluppata nel tempo, con la fusione degli indo-europei con i dravidici), ma soprattutto l’impero Quechua (Incas) del Perù (su cui tra poco torneremo), oltre alle comunità primitive africane, americane e del Pacifico – ignorando tuttavia la Russia, che tratterò brevemente evitando di dilungarmi, dato che ho in mente di parlarne in altra sede.
Tornando a noi; come abbiamo dimostrato, non è vera l’affermazione di Indipendenza secondo cui il Comunitarismo si basi «sempre sulla base di concettualizzazioni in negativo (chiarendo cioè cosa non si è) e mai in positivo (definendo invece cosa si è)».
Indipendenza, comunque, trova le cause di questa presunta criticità nel termine stesso “Comunità“, su cui si basa appunto il Comunitarismo. «Indipendentemente dalle interpretazioni e dalle declinazioni possibili, con il termine “comunitarismo” si indica una teoria politica e/o filosofica fondata sul concetto di comunità. E qui sta la ragione di tutti i suoi limiti, dal momento che quella di comunità è una categoria estremamente vaga, sfuggente, ambigua e pertanto inservibile a tale scopo.»
È stato scritto molto sul termine e sul concetto di Comunita [Gemeinschaft] contrapposto a Società [Gesellschaft], in primis da Ferdinand Tönnies, che, sintetizzando, in Comunità e Società li definisce come di seguito: «[la Società] Riguarda una costruzione artificiale, un aggregato di esseri umani che solo superficialmente assomiglia alla Comunità, nella misura in cui anche in essa gli individui vivono pacificamente gli uni accanto agli altri. Però, mentre nella Comunità gli esseri umani restano essenzialmente uniti nonostante i fattori che li separano, nella Società restano essenzialmente separati nonostante i fattori che li uniscono.»
Dugin sentitizza invece così nei Fondamenti di Geopolitica: «[la Comunità] si contrappone alla società, dove al posto dei legami organici prevalgono le norme di un contratto formalizzato tra individui. La comunità è governata dalla tradizione [o, come li chiamerebbero i confuciani, riti]. [La Società] è il risultato della disintegrazione delle formazioni comunitarie». Come afferma Marx, infatti, la società capitalista, fatta ad immagine e forma della borghesia, ha smembrato le comunità rurali, feudali su cui il capitalismo stesso è nato.
Un esempio pratico di questa distinzione lo porta il filosofo Peter Ruben: «Ogni convivenza familiare, intima, esclusiva (…) è intesa come vita in Comunità.
La Società è il pubblico, è il mondo. Si è in Comunità con la propria (famiglia), fin dalla nascita, con tutti i beni e i mali ad essa legati. […] Ma la Società umana è intesa come una mera coesistenza di persone indipendenti» [Cfr Die philosophie und Das marxsche erbe e Gesammelte philosophische Schriften].
Lo stesso Marx, nonostante non li abbia mai esplicitamente definiti o contraddistinti, col tempo iniziò a usare distintamente i due termini, in quanto in tedesco l’etimologia li rende più distinti di quanto non lo siano le parole “comunità” e “società” nella lingua italiana o nelle lingue neolatine in generale. Marx usa Gemeinschaft quando si parla di comunità comunista o socialista o intima in contesto capitalista, e Gesellschaft quando si parla di società capitalista nella sua interezza. Il filosofo Peter Ruben fa notare come infatti Marx utilizzi sempre in particolare l’aggettivo “comunitario” quando si intende «direttamente in compagnia di altre persone».
Continuando con Ruben: «Se lo scambio non porta alla semplice riproduzione (equilibrio), ma all’innovazione, il movimento sociale mette in discussione la struttura delle comunità coinvolte e le costringe a riorganizzarsi, a riformarsi. Questo crea un’apparenza di ostilità della società nei confronti della comunità… Ma rimane un’apparenza, perché la comunità non può essere eliminata al prezzo della conservazione fisica della specie». Da qui ad esempio la lotta dell’egemonia liberale contro le Comunità, come l’importante figura della Famiglia [“Il taglio del cordone ombelicale”] – quella che Rousseau nel Contratto sociale definiva «la più antica delle [comunità] e la sola naturale» (in verità nel suo caso usa il termine “societée“, non ponendovi distinzione col termine “communauté“). Cito questo passaggio di Carlo Formenti, che sintetizza bene la questione:
«Le solidarietà prepolitiche associate a legami famigliari, comunitari, di fede religiosa, ecc. sono bollate come vincoli arcaici da sciogliere in quanto nemiche dell’emancipazione individuale e del progresso; il personale viene politicizzato (“il personale è politico!”), nel senso che i politici vengono valutati per le qualità personali più che per le idee, mentre si diffonde la convinzione (particolarmente diffusa in ambito ambientalista, femminista e più in generale nelle culture alternative che predicano di cambiare il mondo “partendo dal basso”) in base alla quale i problemi sociali si risolverebbero cambiando i comportamenti personali. Last but not list l’esaltazione della “trasparenza” fine a sé stessa fa sì che i media sfornino a getto continui programmi basati sull’esibizione pornografica di sofferenze, sentimenti, performance erotiche, ecc.» [“Politicamente corretto, un’ideologia autoritaria e violenta“]
Dall’altra parte del globo, il Comunitarismo sostituisce il ruolo atomico dell’individuo con quello della Famiglia, la più piccola Comunità e atomo della Comunità umana; è dunque fondamentale per un Paese comunitarista come la Cina, in contrapposizione con la jihad nichilista occidentale (questa sì una jihad negativa), salvaguardare il valore della Famiglia [“Valori familiari, educazione familiare e tradizione familiare“].
Ma non vi è solo la Cina tra gli esempi di comunitarismo. Vi è la Civiltà amerinda, ma in particolare l’esperienza dell’impero dei Quechua. Anche Mariàtegui (di cui sto curando delle traduzioni e citerò ancora di seguito) parla infatti della resistenza delle Comunità, frutto dell’ormai defunto despotismo comunitario, ancora oggi presente (sia nel 1928 in cui ha scritto l’autore, sia oggi 2024): «(…) la vitalità del comunismo indigeno, che spinge immancabilmente gli aborigeni a varie forme di cooperazione e associazione. L’indiano, nonostante le leggi di cento anni di regime “repubblicano”, non è diventato individualista. E questo non perché sia refrattario al progresso, come vorrebbe il semplicismo dei suoi dettattori egoisti. (…) Il comunismo, invece, è rimasto per l’indiano la sua unica difesa. L’individualismo non può prosperare, e non esiste nemmeno in modo efficace, se non in un regime di libera concorrenza. E l’indiano non si è mai sentito meno libero di quando si è sentito solo.
Per questo motivo, nei villaggi dove le famiglie sono raggruppate e i legami del patrimonio e del lavoro comune sono stati estinti, esistono ancora, robuste e tenaci, abitudini di cooperazione e solidarietà che sono l’espressione empirica di uno spirito comunista [e comunitarista aggiungo io]. La Comunità risponde a questo spirito. È il suo organo. Quando l’esproprio e la distribuzione sembrano liquidare la comunità, il socialismo indigeno trova sempre i mezzi per ricostruirla, mantenerla o surrogarla. Il lavoro comune e la proprietà sono sostituiti dalla cooperazione nel lavoro individuale.» [Sette saggi di interpretazione della realtà peruviana, III]
Il dualismo tra Comunità e Società viene a ragione sintetizzato da Tönnies e da Ruben con il rapporto tra produzione e scambio. In genere è una Comunità a produrre, ma si interfaccia con la Società nello scambio.
Sia sotto l’aspetto, appunto, economico-mercantile, che sotto l’aspetto politico, secondo Tönnies la radice dell’individualismo occidentale e del modello di Società capitalista sta nella contrattualistica, in particolar modo in Hobbes e Spinoza.
E ciò è stato scritto, superficialmente, anche da Marx ed Engels. Seppure, come detto, non abbiano mai posto una distinzione esplicita tra i due termini, si avvicinano a dare una definizione di “società” ne L’Ideologia tedesca: «La società comprende tutto il complesso delle relazioni materiali fra gli individui all’interno di un determinato grado di sviluppo delle forze produttive». Il fatto che venga specificato «complesso delle relazioni materiali fra gli individui» pone un certo risalto sia alla determinazione degli individui come “mattoni” di questa forma di collettività (anche se, come afferma Preve, in Marx si intravede sempre un certo retaggio individualistico nel pensiero, persino quando si parla di Comunismo, ponendo risalto infatti sulla realizzazione della persona), sia l’aggettivo «materiali» legato alle relazioni, che la distingue appunto dalle relazioni sociali (paradossale il termine sociale qui nella lingua italiana).
Ruben si spinge oltre e contraddistingue sotto questo aspetto, in modo che io sappia originale, anche i termini “socialismo” e “comunismo”. Mentre il comunismo è, secondo Ruben, la creazione di un ordine comunitario, il socialismo è un ordine sociale che non cerca di abolire le istituzioni della società, ma di utilizzarle per farle servire gli interessi della maggioranza, pur sempre di individui, che non possiede una grande quantità di capitale di proprietà. Non abolendo ancora del tutto la struttura e sovrastruttura nata dai processi storici legati al capitalismo, il socialismo potrebbe appunto portare con sé retaggi individualistici tipici della società atomizzata capitalistica. Il socialismo è solo lo «sviluppo sistematico dell’idea di capitale, proprietà, famiglia, società e Stato sotto il dominio del lavoro» (Lorenz Stein), il lavoro in astratto, impersonale, e non già appunto sotto il dominio vero e proprio di una Comunità organica.
Preve, nel suo Manifesto (l’ultima parte in particolare) e in altri scritti, può sbagliare nell’identificare Stalin e presunte politiche “anti-comunitariste” (che sono semmai retaggi trotskisti poi eliminati proprio da Stalin, dando di nuovo peso alla famiglia, alla Patria e alla religione) come radice del progressivo deterioramento e indebolimento della struttura dell’Urss (su cui anche Preve concorda sia iniziato con Kruscev), così come cade in contraddizione, come Marx (e a sua volta Hegel), nell’affermare che sia diritto di ogni individuo ambire alla felicità, ma ormai pare sia un’idea così permeata nella cultura occidentale che è difficile non caderci. Finisce così nello stesso paragrafo a legittimare l'”omosessualità”, arrampicandosi sugli specchi poi nel criticarne l’istituzione del matrimonio e dei diritti civili per tali minoranze, dato che se apri al principio secondo cui tutti hanno diritto di essere felici, è difficile poi giustificare misure pubbliche che limitano tale felicità individuale.
Nonostante tutto ciò, Preve fa un lavoro impeccabile, soprattutto nella prima metà del Manifesto, nel rilevare un passato storico ed analizzare la continuità tra Comunitarismo e Comunismo:
«Grandjonc dimostra che il termine comunismo (con l’ismo finale, assente sia nel cenobitismo antico stoico che nel cenobitismo francescano medioevale) ha un’origine direttamente comunitaria, e proviene dalle correnti comunitarie e radicali della Rivoluzione francese del 1789. Nel primo volume Grandjonc rintraccia lo sviluppo della terminologia comunitaria in Europa fra il 1785 e il 1892 (…). È bene quindi sapere che chi parla di “comunismo comunitario” non si inventa proprio niente, ma semplicemente si ricollega, sia pure in forma rinnovata, a una storia che comincia più di due secoli fa.»
3. Sulle radici dell’individualismo
La critica di Indipendenza continua, affermando che i comunitaristi «si fermano a un livello piuttosto superficiale, trascurando completamente di prendere in considerazione i rapporti economici e di classe capitalistici quali elementi decisivi nel determinare il carattere delle società occidentali.»
Se è vero per certi “comunitaristi” come quelli che Preve identifica come «fenomeni accademici» o «universitari», è altrettanto vero che tutti gli altri identificano il capitalismo come fonte dei problemi legati all’individualismo, e ciò viene infatti detto già nell’Introduzione del Manifesto di Preve.
Tuttavia non bisogna cadere nella semplificazione meccanicistica e positivistica che ha ormai conquistato grandissima parte dei marxisti (occidentali in particolare), e cioè che il capitalismo porti inevitabilmente all’individualismo, l’egoismo ed altre manifestazioni del disgregamento della Comunità. Analizzando superficialmente il capitalismo è inevitabile intravedere i semi della discordia; basti pensare ai meccanismi del mercato, alla concorrenza (e riecco Confucio). Ma il mercato e la concorrenza, seppure col capitalismo abbiano raggiunto dimensioni senza precedenti, non sono particolarità del capitalismo ma, al massimo, della proprietà privata (o meglio del plusprodotto legato a questa). Il capitalismo in sé, astrattamente, non è la radice vera e propria dell’individualismo. Come afferma il sociologo Weber ne L’etica protestante, «L’avidità smodata di guadagno non si identifica minimamente col capitalismo e meno ancora con il suo “spirito”. Al contrario il capitalismo si identifica in un’impresa continua, razionale, di un guadagno sempre rinnovato: ossia della redditività. Un atto economico capitalistico deve significare in primo luogo un atto che si basa sull’attesa di un guadagno consentito dallo sfruttamento di possibilità di scambio – dunque su probabilità di interazione (formalmente) pacifiche». La radice vera e propria è secondo Weber il protestantesimo, sì intrecciato al capitalismo e alla classe borghese, ma un fenomeno innanzitutto religioso, storico, culturale.
Che l’individualismo non sia semplicemente frutto inevitabile del capitalismo lo afferma anche il marxista Mariàtegui, ed è chiaro: «L’Occidente (…) è solo parzialmente cattolico e latino. Il fenomeno capitalistico che domina l’intera epoca moderna è stato alimentato dal pensiero protestante, individualista e liberale, essenzialmente anglosassone». Allo stesso tempo, afferma anche che «Negli Stati Uniti credono che la fortuna e il potere siano ancora accessibili a chiunque abbia l’attitudine a conquistarli. E questa è la misura della sussistenza, all’interno della società capitalista, dei fattori psicologici che ne determinano lo sviluppo», ponendo dunque la radice dell’individualismo in più fattori, quali protestantesimo, pensiero anglosassone (influenzato dalla natura talassocratica), e contrattualistica («fortuna e potere accessibili a chiunque abbia attitudine a conquistarli»).
Fa bene infatti Indipendenza a specificare «occidentale» ogni qual volta che ha parlato appunto del fenomeno dell’individualismo. Il capitalismo è stato direttamente e indirettamente imposto come modo di produzione ormai in tutto il mondo, nonostante la differenziazione storica che c’è stata e di cui parleremo più avanti. Se fosse il capitalismo in sé la radice dell’individualismo, dovremmo ammettere che tutto il mondo sia agguantato da tale piovra ideologica. Eppure non è così. Che il capitalismo non sia abbastanza sviluppato in quei Paesi ancora comunitaristi o in parte comunitaristi non è neanche vero, dato che c’è una differenza di fatto minima se non nulla tra Russia, Serbia, o Iran e Occidente, contando inoltre che il pensiero individualista sia nato in un contesto di capitalismo non certamente sviluppato, come quello di tre secoli fa (o anche più, se andiamo veramente a fondo sulle radici di tutte le contraddizioni dell’occidente).
Weber identifica il problema nel protestantesimo, che a sua volta è nato dal cattolicesimo; Schmitt, suo allievo, identifica il problema nella talassocrazia; Tönnies identifica il problema nella contrattualistica; Preve, in ritardo ma comunque avanti rispetto gran parte degli italiani, individua le particolarità storiche dell’occidente (si veda ad esempio la breve spiegazione di come la schiavitù sia stata un’anomalia di queste parti nell’intervista Questioni di Filosofia, di Verità, di Storia, di Comunità). Tutti hanno di fatto ragione, ed espongono fatti che provano la propria tesi, ed è difficile individuare definitivamente quindi la fonte in comune, che abbia plasmato gli europei spingendoli in una catena a reazione che li ha portati a questo stato di triste eccezionalismo. La più vicina alla radice del problema è indubbiamente la predisposizione talassocratica dell’Europa, in quanto essendo un fattore geografico, è antecedente alla nascita del protestantesimo, cattolicesimo, e la schiavitù antica. Ma tratterò la questione quando si parlerà di Eurasiatismo, più avanti.
4. Socialismo materiale, rischio dell’individualismo collettivista, e di nuovo sui fondamenti del Comunitarismo
Così come il capitalismo, seppur legato ad esso, non è intrinsecamente individualista; così esser contro il capitalismo non ci rende automaticamente comunitaristi.
Preve a ragione distingue comunitarismo da collettivismo, che può essere appunto individualista. L’Unione Sovietica ad esempio, secondo Preve (e per me a torto), aveva un sistema collettivistico individualista.
Questo argomento lo tratta anche José Carlos Mariàtegui, il “Gramsci sudamericano”, che scrive le due grandissime quanto sottovalutate (almeno in occidente) Opere Difesa del marxismo e Sette saggi. Il primo in chiara polemica contro l’autore revisionista di “Oltre il marxismo“, che, riprendendo tesi di Marinetti (che «riunisce in un unico fascio Marx, Darwin, Spencer e Comte, per sparargli addosso più velocemente e più implacabilmente») e “neotomisti”, «partendo dall’estremo opposto della rivendicazione del Medioevo contro la modernità, scoprono nel socialismo la logica conclusione della Riforma e di tutte le eresie protestanti, liberali e individualiste». Il secondo, che ho citato già precedentemente, tratta della particolarità peruviana e amerinda, fondata sul concetto di Comunità in piena contrapposizione con la proprietà privata dell’occidente e la sua storia.
Ma procediamo con il tema dell’individualismo di certi socialisti. Mi perdonerete se porto qui un suo lungo passaggio, ma d’altronde ho già citato qui molti autori, ed è necessario a mio parere esporre sempre la citazione nella sua interezza, quando possibile, per evitare fraintendimenti:
«È necessario creare una coscienza di classe. Gli organizzatori sanno bene che la maggior parte dei lavoratori ha uno spirito di cooperazione e mutualismo. Questo spirito deve essere sviluppato ed educato fino a convertirlo in uno spirito di classe. La prima cosa che deve essere superata e sconfitta è lo spirito anarcoide, individualista, egoista, che oltre a essere profondamente antisociale, non costituisce altro che l’esacerbazione e la degenerazione del vecchio liberalismo borghese; la seconda cosa che deve essere superata è lo spirito di corporativismo, di mestiere, di categoria. La coscienza di classe non si traduce in arringhe assuefatte e sviscerate (…).
La coscienza di classe si traduce in solidarietà con tutte le richieste fondamentali della classe operaia. E si traduce, inoltre, in disciplina. Non c’è solidarietà senza disciplina. Nessuna grande opera umana è possibile senza l’unione che porta anche al sacrificio degli uomini che cercano di organizzarla. Prima di concludere queste righe, voglio dirvi che è necessario dare al proletariato d’avanguardia, insieme a un senso realista della storia, una volontà eroica di creazione e di attuazione. Il desiderio di miglioramento, l’appetito per il benessere, non sono sufficienti. Le sconfitte, i fallimenti del proletariato europeo hanno origine nel mediocre positivismo con cui timidi burocrati sindacali e blande squadre parlamentari coltivano una mentalità da Sancho Panza e uno spirito pigro nelle masse. Un proletariato che non ha un ideale più grande di una riduzione dell’orario di lavoro e di un aumento salariale di pochi centesimi non sarà mai capace di una grande impresa storica. E così come è necessario elevarsi al di sopra di un positivismo viscerale e grottesco, bisogna anche elevarsi al di sopra di interessi nichilisti negativi e distruttivi. Lo spirito rivoluzionario è uno spirito costruttivo. E il proletariato, così come la borghesia, ha i suoi elementi dissolventi, corrosivi, che inconsciamente lavorano per la dissoluzione della sua stessa classe.» [Messaggio al Congresso, 1927]
Sintetizzando, secondo Mariàtegui:
1) Individualismo, egoismo e spirito anarcoide (di cui quest’ultimo Lenin parla esaustivamente ne L’Estremismo (o meglio Sinistrismo)) sono i principali ostacoli per la creazione di una coscienza di classe. Corporativismo e campanilismo sono forme di individualismo collettivo che vanno a sua volta estirpate.
2) La maggior parte dei lavoratori ha uno spirito cooperativo e mutualistico, e ciò va posto in risalto nella lotta contro l’individualismo.
3) Il mezzo con cui la classe lavoratrice agisce nella lotta di classe è la disciplina, in piena linea leninista. La disciplina per la Comunità porta anche al sacrificio.
4) Il proletariato d’avanguardia deve avere un senso realista della storia e volontà eroica e creatrice.
5) E questo è importante: «La coscienza di classe si traduce in solidarietà con tutte le richieste fondamentali della classe operaia», ma attenzione a non focalizzarsi troppo sui diritti sociali, perché si tratta di successi nel breve termine, individuali: «Un proletariato che non ha un ideale più grande di una riduzione dell’orario di lavoro e di un aumento salariale di pochi centesimi non sarà mai capace di una grande impresa storica».
Dal punto 5 possiamo, in retrospettiva, giungere alla conclusione che i Partiti comunisti europei, focalizzandosi in pieno sui diritti sociali dei lavoratori senza porre in questione l’individualismo predominante nei rispettivi Paesi, ha scaricato la Rivoluzione nel cesso. Una volta raggiunti i diritti sindacali – tra l’altro in un contesto imperialista e di globalizzazione in cui il salario dei lavoratori è basato in buona parte sul sovraprofitto occidentale2 – sufficienti per restare sul proprio divano, con la panza piena, col telecomando in una mano e il boccale di birra nell’altra, il lavoratore si toglierà dalla mente la necessità della Rivoluzione.
Ed era della stessa opinione anche un altro marxista, già a fine ‘800, tra l’altro amico di Karl Marx. William Morris, poliedrico artista e da molti considerato il primo marxista inglese, nel suo discorso del 1893 Comunismo (sto attualmente traducendo una raccolta delle sue opere, tra cui questo discorso ancora assente in lingua italiana), pronuncia: «Le misure socialdemocratiche menzionate [qui Morris parla in sintesi delle lotte sindacali] sono tutte o dei piccoli alleviamenti per aiutarci a superare gli attuali giorni di oppressione, o dei mezzi per farci approdare nel nuovo Paese dell’uguaglianza. E c’è il rischio che vengano considerate come fini a se stesse. Anzi, è certo che la maggior parte di coloro che spingono per ottenerli non saranno in grado di vedere oltre, e riconosceranno il loro carattere temporaneo solo quando li avranno superati e staranno reclamando la cosa successiva. Ma devo sperare che possiamo instillare nella massa delle persone un qualche spirito di aspettativa, per quanto vago, al di là delle necessità dell’anno; e so che molti di coloro che sono sulla strada del socialismo guarderanno fin dal primo momento e abitualmente alla realizzazione della società dell’uguaglianza, e cercheranno di realizzarla per se stessi [corsivo mio] (…). Mi aspetto che questo spirito vivifichi la lotta per il semplice macchinario del socialismo e spero e credo che si diffonderà a tal punto con il raggiungimento del macchinario che, per quanto il vecchio spirito individualista possa tentare di renderei padrone del macchinario comunitario e cercare di governare il pubblico nell’interesse dei nemici del pubblico, sarà sconfitto.»
La massima leninista della lotta indistinta per i diritti sociali è ormai astorica, superata. Anche oggi, è inutile spingere per la settimana lavorativa da 4 giorni, il salario minimo, l’ulteriore taglio delle ore di lavoro o la lotta alla precarizzazione, se in parallelo non vi è una aspra, forte e logorroica lotta contro l’individualismo, l’edonismo, il nichilismo occidentale (proponendo ovviamente un modello alternativo comunitario prendendo riferimenti storici e culturali nostri e di altrui Civiltà). La lotta sindacale è utile solo ed esclusivamente in funzione propagandistica, in modo tale da far capire ai lavoratori che questo è solo “un assaggio” di ciò che sarà il mondo socialista. Altrimenti, diviene una lotta individualista fatta collettivamente: appunto l’individualismo collettivista (o collettivismo individualista) prima citato.
E anche una volta fatta la Rivoluzione, la lotta non sarà ancora finita. Così come continua la lotta contro la borghesia, il capitalismo, e gradualmente il mercato, così continua anche la lotta contro l’individualismo.
Che la lotta contro l’individualismo e il “materialismo” (nel senso volgare del termine) debba essere continua lo dice anche “Che” Guevara, in particolare nel suo Il Socialismo e l’Uomo a Cuba che, per quanto sia esplicito nei suoi intenti, non è aperto a interpretazioni. Riguardo l’individualismo: «Le tare del passato si trasmettono al presente nella coscienza individuale e c’è bisogno di un lavoro continuo per sradicarle», da un lato con l’educazione comunitaria, dall’altro con l’autoeducazione cosciente. «La nuova società in formazione deve lottare molto duramente con il passato. Ciò si avverte non solo nella coscienza individuale, su cui pesano i residui di un’educazione orientata sistematicamente all’isolamento dell’individuo, ma anche per il carattere stesso di questo periodo di transizione, con il permeare di rapporti di mercato». L’individuo, afferma Guevara nello stesso scritto, ha avuto un ruolo fondamentale nella Rivoluzione armata. Ad esso sono stati assegnati gradi, premi, ne venivano riconosciute le gesta, come persona dotata «di una sua specificità, con tanto di nome e cognome» (parole di Guevara). Questo prima, quindi durante le prime azioni rivoluzionarie col sostegno dei contadini («padrone orgoglioso del suo podere, intransigente e individualista», scrive in Cuba, eccezione storica o Avanguardia), e poi durante la lotta guerrigliera. Con la vittoria della Rivoluzione, l’individuo, afferma Guevara, è entrato in una piena dialettica, in piena sintesi con la Comunità. Anche durante il progresso verso il socialismo l’individuo (o meglio, la personalità; che Guevara erroneamente qui ignora come termine3) svolge un suo ruolo, e viene citato proprio Fidel Castro come esempio, in cui le masse, sì collettivamente, si identificano. Ma viene notata una tendenza progressiva nell’estendere tale ruolo d’avanguardia ad un numero sempre maggiore di persone: «Fidel ha dato alla Rivoluzione l’impulso nei primi anni (…); ma oggi esiste un buon gruppo di rivoluzionari che si sviluppa all’unisono con il nostro massimo dirigente e una gran massa che segue i propri leader perché ha fiducia in loro».
Eppure, nonostante si sia appena riconosciuto il ruolo dell’individuo, subito dopo viene detto ciò che, come già si è scritto, viene affermato, come visto, da più comunisti e socialisti: «Non si tratta di sapere quanti chili di carne si mangiano o quante volte l’anno possa andarsene a passeggiare sulla spiaggia, e neppure quante belle cose provenienti dall’estero si possano acquistare con gli attuali salari. Si tratta, piuttosto, di far sì che l’individuo si senta più completo, con molta maggiore ricchezza interiore e senso di responsabilità. Il cittadino del nostro Paese sa bene che l’epoca gloriosa che sta vivendo è fatta di sacrifici; e sa bene che cosa sia il sacrificio.»
E sacrificio non vuol dire solo stringere la cinghia attorno ai pantaloni. Sacrificio è sacrificio.
Dopo aver scritto la celebre citazione sul «vero rivoluzionario [che] è guidato da grandi sentimenti d’amore [verso l’umanità]», si afferma: «I nostri rivoluzionari d’avanguardia devono idealizzare questo amore per i popoli, per le cause più sacre e renderlo unico, indivisibile». E lo si fa sacrificando innanzitutto i propri interessi, in pieno spirito confuciano, cristiano (sicuramente non protestante o cattolico), comunitarista, o come si preferisce chiamarlo: «I dirigenti della Rivoluzione hanno figlie che nei loro primi balletti non imparano a nominare il padre; mogli che devono partecipare al sacrificio della loro vita, al fine di condurre la Rivoluzione verso il suo destino; la cerchia dei loro amici coincide con quella dei compagni della Rivoluzione. Non c’è vita al di fuori di questa. In tali condizioni, bisogna avere una grande dose di umanità».
E continua: «Il rivoluzionario, motore ideologico della Rivoluzione in seno al Partito, si consuma in questa attività ininterrotta, che finisce solo con la morte, a meno che il processo non si estenda su scala mondiale».
E rincara ulteriormente la dose sul benessere materiale (se messo in primo piano rispetto alle virtù) come potenziale corruzione nella mente degli individui: «Se un uomo pensa che per dedicare tutta la propria vita alla Rivoluzione non può permettere che la propria mente sia distratta dalla preoccupazione che a un figlio manchi un determinato prodotto, che le scarpe dei bambini siano rotte, che la sua famiglia sia priva di certi beni indispensabili, allora egli con questo ragionamento lascia infiltrare i germi della futura corruzione.
Per quanto ci riguarda, abbiamo stabilito che i nostri figli debbano avere o essere privi di ciò che hanno o di cui mancano i figli dell’uomo comune; e la nostra famiglia deve comprenderlo e lottare per questo.»
E quando Guevara parla di «società cubana/socialista» o «Comunità», non parla di società fatta di individui diretta verso un fine comune o il raggiungimento collettivo di benesseri individuali. È invece proprio una Comunità: «Questa immensa moltitudine si dispone in un certo ordine che corrisponde alla consapevolezza della sua necessità; non è una forza dispersa in migliaia di frazioni disseminate nello spazio come frammenti di una granata».
E la lotta contro il predominio del punto di vista materialista non si ferma a ciò. L’internazionalismo stesso non solo è necessario materialmente con fini anti-imperialistici (specialmente nel contesto cubano, come giustamente affermava Fidel, in cui l’unico modo per indebolire gli Usa è aiutando le lotte di liberazione in giro per il mondo, non potendo attaccare direttamente l’impero al suo cuore), ma è un dovere morale e pedagogico che porta gli uomini a pensare in senso comunitario: «L’internazionalismo proletario è un dovere, ma anche una necessità rivoluzionaria. Così educhiamo il nostro popolo», affermava Guevara.
Ma esser contro il materialismo, inteso come attaccamento al materiale, alla ricchezza e il benessere a discapito della ricchezza spirituale, non vuol dire ascetici e seguire una vita monastica forzatamente umile ed umiliante. Deng Xiaoping aveva ragione quando disse che «diventare ricchi è glorioso». Presa fuori contesto e sentirla pronunciata da altri soggetti come Briatore o Bezos potrebbe portare ad una interpretazione scontata, ma la ricchezza che intendeva giustamente Deng è quella intesa da chiunque sia marxista e con un minimo di senno. Comunismo non è povertà dei molti; leviamocelo dalla testa. Ma non è neanche consumismo capitalista senza più padroni. La questione è stata già trattata dal già citato William Morris, che distinse il bisogno dal desiderio, il benessere dalla ricchezza (chiaramente ogni lingua ha sue etimologie e la Cina di Deng avrà altre distinzioni), la gioia dal godimento, il lavoro utile dalla fatica inutile, l’arte dalla lussuria. In sintesi, vi è ricchezza dove vi è anche povertà; vi è benessere dove tutti vivono bene (e meglio rispetto a prima). Un cavaliere del 1500 era ricco un tempo, perché vi erano più poveri di lui, ma sarebbe probabilmente un “povero” oggi, contando i progressi che ha fatto la tecnologia e l’accesso che attualmente un operaio ha ad internet, cibo a quantità ecc. Non mi metterò ad elencare le differenze che marcano gli altri termini, ma invito alla lettura di Lavoro utile, fatica inutile e Arte e socialismo di Morris.
Sul bisogno e il desiderio vorrei però citare Preve, dalle sue Note critiche contro l’anarchismo post-moderno:
«La nozione di Comunismo in Marx è costruita su quella di Bisogno. Il comunismo è quella società in cui ognuno riceverà secondo i suoi bisogni. Ovviamente, tutti sanno che ci sono bisogni primari (mangiare, bere, vestirsi, abitare), bisogni secondari (mangiare, bere, vestirsi, abitare in modo confortevole) ed infine bisogni terziari (leggere un libro, andare in Madagascar a vedere le proscimmie, eccetera). Il comunismo non parte, come Rousseau, da un concetto naturalistico dei bisogni, ma da quello dei “bisogni ricchi”, che possono essere cioè soddisfatti sulla base dello sviluppo delle forze produttive e del general intellect. Io ho conosciuto molti “miserabilisti” ascetici ed invidiosi che si ritenevano erroneamente “marxisti”, so bene che Marx li avrebbe presi a calci nel sedere per le rampe delle sue scale, ma non sono mai riuscito a fargli capire che la semplice “invidia per i ricchi” non era un fattore della coscienza comunista. Il comunismo è la società dei bisogni ricchi. Ma per parlare di Bisogni è necessario rivolgersi agli antichi greci, terra sconosciuta per i marxisti. I greci, e non solo Epicuro, si erano già occupati moltissimo dei bisogni, in modo generalmente non repressivo (come fecero poi i cristiani, noti autocastratori, mangiatori di cavallette e residenti su colonne). Il bisogno arricchisce l’uomo, purché l’uomo sia sempre il padrone. Tutto qui. Ma è un tutto qui che implica una rivoluzione mentale gigantesca.
Il Desiderio, invece, proprio quello che Deleuze e Negri ritengono essere la fonte del comunismo, è proprio l’elemento riproduttore strutturale del consumo capitalistico. Il capitalismo vive di desideri, non di bisogni. I bisogni possono essere soddisfatti, ma in questo modo si avrebbe subito una crisi di sovrapproduzione e di sottoconsumo. I desideri invece sono infiniti, illimitati ed indeterminati per loro stessa natura. È questo il segreto della produzione capitalistica, la sua nevrotica infinitezza. Psicologi heideggeriani come Umberto Galimberti lo capiscono vagamente (…). I cosiddetti negriani invece non lo capiscono assolutamente, e ci si potrebbe aspettare da loro solo un risolino nevrotico di compatimento. Ma tutta la banda variopinta dei loro seguaci continuerà ad andargli dietro, ed anzi si ingrosserà, perché in questo modo possono avere la quadratura del circolo da loro agognata, l’idea di rivoluzione astratta ed il consumo capitalistico concreto. È per questo che sono pessimista.»
Sul tema dell’illimitatezza di cui il Comunismo ha peccato Preve ha scritto più saggi. Tutto sta nel Metron, il limite e la capacità di limite, a cui i grandi pensatori greci davano un’immensa importanza. In chiave comunista e comunitarista è chiaro come il limite della propria sete di ricchezza risiede lì dove si riconosce che la corruzione spirituale prende il sopravvento. Ciò a cui i comunisti devono pensare è in primis la causa comunitaria, comunista; la ricchezza personale è assolutamente secondaria, anche in contesto socialista.
Questo annullamento del sé per la Comunità lo si ritrova sia nel pensiero greco e cristiano-ortodosso (il concetto di Kenosis/κένωσις, cioè letteralmente “svuotarsi”), sia nel pensiero della Civiltà islamica, la cui universalità viene individuata nell’Ummah – sotto certi aspetti simile al concetto di Sobornost della Civiltà russa –, sia, di nuovo, nella Civiltà cinese.
Parlando brevemente della Civiltà russa: riguardo il sopracitato Sobornost [Собо́рность], è da ricordare quanto in Russia si sia scritto e ancora viene scritto sul tema del comunitarismo. Il termine è stato coniato dai grandi pensatori Ivan Kireyevskij e Aleksej Khomyakov, e vuol dire letteralmente «comunità legata spiritualmente», ed è entrato nel linguaggio intellettuale (poi comune) rapidamente, in particolare, inizialmente, nei circoli slavofili. «L’interezza della società, unita all’indipendenza e diversità personale dei cittadini, è possibile solo a condizione di una libera subordinazione delle persone separate a valori assoluti [corsivo mio] e nella loro libera creatività fondata sull’amore per il tutto, l’amore per la Chiesa, l’amore per la Nazione e lo Stato, e così via», scrive Kireyevskij. Losskij ne dà una definizione sostanziale: Sobornost è «La combinazione di libertà e unità di molte persone sulla base del loro comune amore per gli stessi valori assoluti».
Trubetskoij, nel suo Sulla natura della coscienza umana, scrive: «L’amore naturale è insito in tutti gli esseri viventi. A partire dalle sue manifestazioni supreme nell’amore familiare dell’uomo, dagli istinti di branco degli animali fino ai processi elementari di propagazione, ovunque troviamo quell’altruismo di base, organico, grazie al quale le creature si presuppongono interiormente l’una con l’altra, sono attratte da altre creature e stabiliscono non solo se stesse, ma anche altre creature, e vivono per gli altri [corsivo mio]».
Nella cultura russa, slava ortodossa in generale, il comunitarismo ha una radice storica diversa da quella delle altre etnie “europee”. Il lessico slavo attesta la presenza, fin dai tempi antichi, di una organizzazione territoriale comunitaria fondata sulla collettivizzazione delle terre, detta opole in Polonia, obcina in Boemia, verv’ nella Rus’ di Kiev, mir in Russia [мир, che sta anche a significare “pace” e “mondo”], zupa o zadruga in Jugoslavia. In Russia e in Serbia le comunità tradizionali si sono conservate fino ai tempi moderni, mentre nei Paesi slavi a stretto contatto con l’influenza tedesca, come la Polonia e la Cecoslovacchia, la proprietà privata si è consolidata progressivamente. Già nell’XI secolo il monaco Helmond, nella sua Cronaca degli Slavi, racconta come i duchi tedeschi che conquistarono le terre dei Polabi (nell’attuale Polonia) li costrinsero a coltivare «ciascuno il proprio campo» (agrum suum), a testimoniare come la proprietà privata4 sia giunta agli Slavi come prodotto esterno – come afferma ad esempio Giorgio Pasini in Note di storia dell’Europa orientale nel medioevo. Era questa infatti la differenza sostanziale tra lo ius slavicum e lo ius teutonicum, il diritto slavo e quello germanico. Le strutture sociali antiche si sono conservate più a lungo laddove il potere politico congiurava al mantenimento della società tradizionale, con i suoi privilegi ed obblighi. La Russia zarista e l’Impero Ottomano, nella cosiddetta “Europa”, sono stati tra i paesi più conservatori in tal senso. Per questo motivo la Serbia e la Russia sono tra le aree in cui, ancora fino all’Ottocento, la pratica comunitaria era diffusa. In Russia il mir era la veste amministrativa della comunità rurale, un’istituzione puramente economica che consentiva, al proprio interno, la presenza della famiglia patriarcale. Il mir nasceva per gestire collettivamente i beni della comunità, che poteva riguardare uno o più villaggi. L’amministrazione zarista incentivò il mir perché le consentiva di collegarsi con i singoli elementi da cui era più semplice esigere le tasse. Questo comportò la perdita dell’autogestione del mir, che però conservava il principio di uguaglianza economica interna. Ogni membro possedeva, in relazione alle necessità ed ai bisogni, le terre e gli armenti. Se, ad esempio, il numero di componenti della famiglia fosse calato, il mir avrebbe ridotto le terre e il bestiame a lei destinati. Ma ciò non si fermava alla gestione dei terreni. L’artel’ 5 era ad esempio l’associazione temporanea di operai o artigiani che alloggiavano insieme per periodi limitati in relazione a un lavoro da svolgere e dividevano fra loro i profitti. Il lavoro era suddiviso durante assemblee giornaliere. Il buon andamento dell’artel’ dipendeva dalla certezza egualitaria che caratterizzava la suddivisione del lavoro e la distribuzione dei proventi.
Non stupisce quindi se “persino” il comunista Gennadij Zjuganov, nel suo Stato e potere, scrive chiaramente: «Il tipo russo è individuato da un profondo carattere comunitario, quello che si è espresso tradizionalmente nelle grandi assemblee religiose. Ma il tipo russo si esprime anche nella fedeltà, nella lealtà. Queste nostre principali qualità nazionali sono state gravemente colpite dalla Perestrojka. Ora, la giustizia nazionale consiste nel ridare al popolo russo, prima di qualunque altra cosa, ciò che gli appartiene intimamente: le sue basiliche, la sua architettura, le sue canzoni, la sua musica. Il potere che circonda Eltsin è antinazionale. Manca totalmente ad esso il colore russo. E questo discorso vale perfettamente anche per la televisione e i mezzi d’informazione. L’altra coordinata, inseparabile dalla giustizia nazionale, è la giustizia sociale: il popolo russo non può esistere se non c’è la giustizia. Non può esistere nemmeno il collettivismo. Ebbene, se non si risvegliano queste due componenti, quella nazionale e quella sociale, io non riesco a vedere nessuna possibilità di rinascita.»
Si nota quindi come lo spirito comunitario della Civiltà russa, il Sobornost, sia particolare per la sua connotazione marcatamente spirituale, basata sì sul concetto universale di amore, ma in particolare in chiave cristiana ortodossa, dunque religiosa. Ma rimaniamo sul tema dell’amore, simile al concetto guevariano dell’Uomo nuovo totalmente dedicato all'”amore per l’umanità”.
Parlando di nuovo della Civiltà cinese; è stato qui più volte citato Confucio, pilastro del comunitarismo della Civiltà cinese. Ma la stessa Cina ha avuto esponenti assai più comunitari dello stesso Confucio. Principale “concorrenza” al confucianesimo durante il periodo delle Cento scuole di pensiero, il moismo segue la filosofia di Mo Tzu, cioè la filosofia dell’amore universale [兼爱]: principi come «tutti sono uguali sotto il Cielo» e la determinazione delle cariche istituzionali basate sulla virtù dei singoli piuttosto che la nascita nobiliare mettevano a serio rischio la struttura gerarchica del despotismo comunitario cinese, aprendo spiragli a delle riforme molto più comunitarie ed egualitarie di quanto non potesse proporre il confucianesimo.
Mencio, seguace di Confucio e Lao Tzu, scrive di Mo: «propugnava l’amore senza distinzioni: se, facendosi scorticare dal capo alle calcagna, avesse avvantaggiato il mondo, l’avrebbe fatto» (Lao Tzu, invece, «Tenendosi in mezzo [tra comunitarismo e individualismo] si avvicinò alla Via») [Citati in Il momento propizio, 99 storie confuciane].
Più avanti, si afferma che l’errore di Mo sta, nel suo «amore universale», «non riconoscere il padre», in quanto, se si ama tutti indistintamente, l’amore che si ha per la propria Famiglia diventa indistinguibile dall’amore verso il resto della Comunità. Una simile critica la si ritrova a secoli, anzi a più di un millennio di distanza, nel cosmista ortodosso Nikolaj Fëdorov, che accusa la sinistra russa ed europea del suo retaggio giacobino della “fratellanza” senza paternità – ignorando appunto che si è fratelli proprio per via della paternità in comune. Fëdorov tuttavia, essendo cosmista, poneva la questione su un piano assai più ampio di quanto non l’abbia messo Mencio parlando di Mo.
Tornando a noi; il sacrificio, il martirio per la causa, è senz’altro la cosa più nobile che ci sia. Ma di per sé, non c’è nulla di nobile nel morire. Il culto del martirio non è cosa da comunisti o comunitaristi. Fino ad ora sono stati citati più esempi, più citazioni di personaggi socialisti rilevanti sulla questione comunitaria, ma è chiaro che nessuno abbia mai cercato di morire per la causa col fine di morire per la causa. Guevara è morto per la causa, ma ovviamente non per propria scelta. La scelta è stata quella di aver lottato rischiando la propria vita, sacrificarla nel tempo e nel lavoro, ma non è stata comunque quella di morire per martirizzarsi. Queste cose le lasciamo ai fondamentalismi religiosi deviati col culto della morte e dell’autodistruzione nichilista. Anzi, si può dire, paradossalmente, che il fervente desiderio di morire con un gesto eroico, avendo un fine espressamente eroico, è un desiderio assolutamente individualista e narcisistico, che, paradossalmente, pone volontariamente la propria vita in sacrificio all’immortalità della propria immagine individuale. Chi vorrebbe buttare la propria vita così facilmente, evidentemente non dà abbastanza valore alla vita stessa.
Nel pensiero comunitario, tuttavia, il valore della propria vita viene posto coscientemente al di sotto (di miliardi di gradini) del benessere (e ovviamente della sopravvivenza) della Comunità. Il punto è porlo quando necessario. Alla Comunità, tra l’altro, servono sicuramente più persone vive che morte. Non a caso sono molteplici i casi di esili, volontari o meno, di eroi rivoluzionari che poi sono decisamente “tornati utili” da vivi; da Bolivar a Martí e Fidel, da Mazzini ai recenti Edward Snowden ed Evo Morales.
5. Comunitarismo, “comunitarismo”, Comunismo, e applicazione alla realtà
Indipendenza aggiunge infine queste critiche, che tratterò più brevemente in quanto personalmente le trovo più risultato di un pensiero frutto di una lunga storia di nemesi per nulla necessaria con certe posizioni reputate, dai sinistrati, “di destra”, “reazionarie” ecc.
Non reputo Indipendenza un’associazione di sinistrati. Anzi. Sono tra i pochi schieramenti in Italia che, coerentemente, riconoscono le contraddizioni principali di questo periodo storico e pongono enfasi sulla questione nazionale – abbastanza da esser loro stessi etichettati come “rossobruni” da chi “più a sinistra”. Tuttavia, queste critiche che riporto di seguito non sembrano uscite da Indipendenza, ma appunto da “chi più a sinistra” di quanto non lo siano loro:
«Un concetto, quello di comunitarismo, politicamente inconsistente che, laddove sostanziato, si presta ad essere declinato in senso organicistico e razzista» (…)
«A prescindere quindi dall’area di provenienza (liberale, neo-fascista, marxista[!]) qualsiasi tentativo di elaborazione teorica del comunitarismo ha sempre palesato l’incapacità di concretare politicamente tale categoria, non riuscendo ad andare oltre generiche e vaghe critiche all’individualismo liberale, confinate essenzialmente alla sfera culturale. Mai invece il comunitarismo è stato in grado di dare una risposta e una prospettiva teorica riguardo i nodi di ordine economico, sociale, politico, geopolitico.»
Su questo basta vedere ciò che ha scritto Preve nel Manifesto filosofico del Comunitarismo e in Elogio del Comunitarismo. Il secondo ha un capitolo intero dedicato alla critica verso l’appropriazione estetica e retorica del comunitarismo da parte delle esperienze fasciste del ‘900, così come vengono criticati anche nel primo, già nell’Introduzione: «esiste un presunto “comunitarismo” che in realtà è una forma di localismo xenofobo e addirittura talvolta razzista”. Esistono anche altri due tipi di para-comunitarismo: “esiste un “comunitarismo” universitario anglosassone all’intero di una commedia accademica dell’arte che vede opposti i cosiddetti “comunitaristi” e i cosiddetti “liberali”. Si tratta di una simulazione largamente complementare, in quanto tutti i professori universitari dei due schieramenti sono in genere del tutto interni all’impero americano». Vengono così citati i “comunitaristi” criticati da Indipendenza, che ha esposto come esponenti principali di tale idea ignorando Preve: «Il “comunitarista” Richard Rorty difende il relativismo comunitario all’interno della visione USA-Liberal del mondo. Il “comunitarista” Michael Walzer ha entusiasticamente difeso la criminale invasione di Bush contro l’Iraq nel 2003. Questo “comunitarismo” è una simulazione accademico-universitaria del tutto interna alla tribù occidentalistica e alla legittimazione dell’impero americano. È del tutto evidente che noi non abbiamo assolutamente a che farci».
Indipendenza aggiunge: «In terzo luogo, infine, esiste un comunitarismo tradizionalistico e interclassistico che fa l’apologia delle cosiddette “società organiche”, in cui la divisione in classi sociali c’era, ed era addirittura a volte rigida e castalizzata, ma in cui questa divisione era consacrata attraverso una legittimazione religiosa e (spesso solo formalmente) solidaristica. Questi comunitaristi feudali restano l’equivalente di coloro che Marx ed Engels nel 1848 connotarono come socialisti “feudali”.»
A questo filone si potrebbero associare Dugin e diversi altri eurasiatisti, che Indipendenza tratterà nel capitolo successivo ai comunitaristi, tuttavia, è da soffermarsi, anche qui, con una citazione di Preve, sul perché il feudalesimo viene spesso visto (a volte esageratamente) positivamente da certi socialisti (compresi Marx ed Engels, come si nota nel Manifesto) e comunitaristi: “Laddove il legame sociale capitalistico è del tutto “astratto”, e per questo non ha bisogno di nessuna fondazione etico-politica, né filosofica né religiosa (e per questo promuove in filosofia forme di relativismo, di nichilismo e di positivismo scientistico, e limita la religione a culto privato domiciliare oppure ad agenzia caritativa per infermi, marginali e poveracci), il legame sociale feudale è “concreto”, e si basa sulla accettazione volontaria di legami sociali disegualitari, legittimati inevitabilmente da una fondazione religiosa. (…) Il feudalesimo, naturalmente, è ostile al mercatismo capitalistico non certo per ragioni egualitarie, comunitario-comunistiche, ma perché il primato dei suoi valori sociali è incompatibile con il primato dei valori mercantili e mercatistici” [Preve, “Il modo di produzione comunitario”]. Il lato positivo del medioevo è, dunque, il sistema valoriale e tradizionale (possiamo anche chiamarli riti, in termini confuciani). Una sovrastruttura che è servita per legittimare un regime diseguale (comunque mantenendo sotto molti aspetti la cooperazione e la comunità, negli spazi rurali), ma che, se presa a sé, non è intrinsecamente negativa, al contrario del nichilismo, relativismo e individualismo moderno e post-moderno.
Ma la critica forse più dura (forse più una calunnia), è quella che vuole etichettare il Comunitarismo, «laddove sostanziato», come «organicistico e razzista». Organicistico, dipende in che chiave lo si vuole interpretare, ma razzista, assolutamente no. Trovo le critiche di Losurdo al Comunitarismo nel suo La Comunità, la morte, l’Occidente, assai più costruttive. Pone, straordinariamente senza alcun tono polemico, una chiara critica al comunitarismo utilizzato in chiave imperialista durante la prima guerra mondiale in Germania, pur evidenziando come psicologicamente, in modo paradossale, la guerra abbia positivamente cambiato il modo di pensare della gente comune.
È tuttavia da distinguere, come già abbiamo visto, tra comunitarismo e “comunitarismo”. Losurdo, pur non affrontando la questione di petto, riporta brevemente in modo esplicito il senso e la chiave in e con cui il comunitarismo è stato interpretato dalle esperienze nazifasciste del secolo scorso, sintetizzabile in una parola: “(wahre) Volksgemeinschaft“. Non la Gemeinschaft generale, umana (o meglio, per noi marxisti dei lavoratori, comunque di tutta l’umanità), ma Volksgemeinschaft, cioè comunità del popolo (ovviamente tedesco, e nel senso interclassista del termine). Il comunitarismo portato in auge in seno al popolo durante la prima guerra mondiale – guerra giustamente considerata (inter)imperialista, ma che ai tempi era comprensibile, per il cittadino comune, esser considerata una guerra nazionale – è stato nel giro di poco tempo cooptato dalle forze di destra e reazionarie, borghesi (a volte retoricamente anche anti-borghesi, ma nei fatti poi mai propositivi per una visione alternativa al sistema classista vigente), mentre la sinistra marxista, in occidente, era associata, come riporta Losurdo, alla Gesellschaft, la società atomica. E già allora non a torto. Comprensibile dunque, anche sotto questa chiave di lettura, l’ascesa di certe ideologie reazionarie. Ideologie che, non scordiamoci, così come si sono appropriati del termine comunitarismo ponendovi l’aggettivo “popolo” (che in tedesco Volk prende una connotazione etnica-nazionale), si sono anche appropriati del socialismo ponendovi l’aggettivo “nazionale”. E così come non c’è nulla di socialista nel nazismo, non c’è neanche nulla di comunitarista in esso. È stato, semmai, individualismo collettivista spacciato per comunitarismo. Mariàtegui, come abbiamo citato più sopra, metteva a ragione in risalto la necessità di superare il comunitarismo in chiave corporativista, di categoria, campanilista o nazionale (senza negare il patriottismo, che, come diceva il profeta Mazzini, è solo una congiunzione tra la Famiglia (vero “atomo” della Comunità a differenza dell’individuo) e l’Umanità intera).
La cosa che veramente fa ridere della questione, è che Heidegger (e a seguire ripreso disgraziatamente da tutto il filone dei pensatori nazisti), come fa notare Losurdo, cerca di risalire alla “grecità” (compresa la questione comunitarista, sotto molti aspetti), cioè la culla della “Civiltà occidentale”, per poter ambire ad affermare che il nuovo «cuore sacro» dell’Europa è proprio la Germania, il mondo «germanico» paradossalmente contrapposto al mondo «anglosassone» (anch’esso ugualmente protestante e germanico). Tralasciando il fatto che storicamente sia proprio il mondo germanico ad aver posto fine al mondo greco-latino portando alla nascita del feudalesimo, colui che liquida questo delirio germanocentrico è, di nuovo, Mariàtegui, che in Antiriforma e fascismo (1927) critica la posizione dei fascisti italiani (Rocco in particolare) che cercano di rinnegare la riforma protestante pur essendo loro stessi, i fascisti, frutto della riforma. La critica è chiaramente applicabile anche ad Heidegger, che ragionando da tedesco protestante pensa, rinnegando il cristianesimo e riabbracciando la “grecità”, di esser diventato comunitarista.
Riprendendo la critica di Indipendenza: «Mai il comunitarismo è stato in grado di dare una risposta e una prospettiva teorica riguardo i nodi di ordine economico, sociale, politico, geopolitico.»
In parte tale critica può avere della ragione, ma è sbagliata porla di principio. Il Comunitarismo, è piuttosto chiaro, non è un “-ismo” al pari di Comunismo o Capitalismo. Mentre il Comunismo si pone come negativo del Capitalismo (in verità “negativo” due volte, dato che è una negazione del Socialismo), il Comunitarismo si pone come negazione dell’individualismo. L’individualismo come fenomeno storico è legato al capitalismo occidentale, come logico frutto di questo nel contesto appunto occidentale, ma non è inevitabile; così come il Comunitarismo in linea teorica non è scontato in un Paese (ideologicamente) comunista. Lo stesso vale per altre questioni, più o meno legate al Comunitarismo, ad esempio l’Arte popolare (come afferma William Morris ad esempio non è scontato che si passi “in tempo” al Socialismo prima che l’uomo si svilisca e l’Arte muoia, così da ritardare decenni il suo ritorno), la tutela delle religioni o della famiglia (si veda l’esperienza albanese o la breve parentesi trotskista e sinistrata in Urss e Cina), l’ambientalismo; sono tutte questioni che possono variare da Paese a Paese, anche con un sistema produttivo superiore a quello capitalista. E qui si ripresenta la multilinearità storica dell’Umanità; non tutto è riconducibile e strettamente legato all’economia e quindi il sistema produttivo. I Quechua erano di fatto un impero comunista ma avevano una classe burocratico-sacerdotale, gli africani erano fermi al comunismo primitivo ma paradossalmente avevano la schiavitù; sono classificazioni che si possono dialetticamente sovrapporre e sfumare, così come nel Contratto sociale di Rousseau viene in linea teorica ammesso che possa esistere una monarchia repubblicana (e non si intende nel senso di “monarchia parlamentare” come la corona inglese o olandese), o viene da Stalin (stando a quanto affermato da Losurdo) ammessa la possibilità di una monarchia britannica mantenuta sotto il socialismo.
Insomma, così come, citando Chico Mendes, «l’ambientalismo senza lotta di classe è giardinaggio», la lotta di classe senza comunitarismo è solo un gioco di potere, perché non cambierà davvero la vita della Collettività, ma anzi rischia di trasformarsi in quella che Fëdorov, già nel XIX secolo, chiamava profeticamente «pornocrazia», cioè la produzione illimitata di tutto ciò che può rendere “felici”, e, appunto i materiali pornografici sono tra le cose che più rilasciano dopamina. Lo stiamo vedendo tutti a cosa sta portando la tecnica, mezzo che è scambiato ora come fine, in questi ultimi anni dopo il salto qualitativo dovuto all’accesso illimitato ad internet, e ciò non è arginabile semplicemente dal Socialismo come astratto sistema produttivo, ma da politiche comunitariste ed una forte educazione in tale direzione, come sta avvenendo in Cina limitando i contenuti sul web e ponendo paletti concreti sul decoro in pubblico.
Preve lo nega, ma hanno ragione Guevara ed altri marxisti umanisti: serve un Uomo Nuovo. Il Comunitarismo di fatto porta a ciò.
Non è dunque compito del “Comunitarismo in sé” avere un programma politico, in quanto non è una ideologia quanto un aspetto della propria ideologia (nel nostro caso il Comunismo) che va sviluppato a seconda della realtà materiale in cui si vive e si fa politica. In occidente occorrerebbe arginare il fenomeno LGBT così come tentare di riformare il protestantesimo e il cattolicesimo in funzione comunitaria; in Africa invece l’applicazione sarebbe necessariamente diversa essendo una realtà diversa con contraddizioni diverse dalle nostre. Questo riguardo la nota critica di Indipendenza sulla mancanza di visione programmatica su «nodi di ordine economico, sociale, politico». Sul nodo «geopolitico», tra i comunitaristi che se ne sono occupati vi sono gli eurasiatisti, di cui parleremo ora.
Sull’Eurasiatismo
Anche sul vasto argomento dell’Eurasiatismo, Indipendenza, partendo da errori di interpretazione o ragionando forse “per sentito dire” senza affrontare direttamente le fonti del pensiero in questione, finisce con conclusioni sbagliate e direi anche ingiuste.
Ma partiamo con ordine, dalle inesattezze.
1. La geopolitica, il realismo, il possibilismo
Per comprendere l’Eurasiatismo occorre prima comprendere la scuola di pensiero realista. Indipendenza a ragione cita «Mackinder, Haushofer, Spykman», perché sono questi i padri della geopolitica realista (insieme ad altri come Schmitt, Mahan, Ratzel e Kjellen); erra poi nel citare «Lohausen, Thiriart», cioè due esponenti della “Nuova destra”, che sfociano in genere nella metafisica e nel razzialismo – soprattutto Thiriart (almeno per un certo periodo).
I primi tre sono stati strateghi geopolitici: Mackinder e Spykman per la talassocrazia anglo e americana (insieme a Mahan, come poi Brzezinski e Kissinger), mentre Haushofer è stato uno stratega per la potenziale tellurocrazia tedesca (i cui pensieri sono sotto certi aspetti simili a quelli di Schmitt). Tutti questi citati, tuttavia, non sono «accomunati dall’assunzione dell’idea che esistano costanti geopolitiche nella storia e in modo ancor più evidente nella modernità». Tutt’altro. L’unico che viene in genere considerato “determinista” è proprio Friedrich Ratzel (considerato esser il primo “padre della geopolitica”, insieme a Kjellen che poi ne conierà ufficialmente il termine), che stranamente manca proprio tra i (non)deterministi citati da Indipendenza.
Sin da Paul Vidal de la Blanche, coi suoi scritti del 1894 in particolare, la geopolitica si è delineata sul piano del cosiddetto “possibilismo”. Secondo Carlo Terracciano, la cui introduzione alla geopolitica e la sua storia è presa di riferimento da tutti gli eurasiatisti, tra cui Dugin stesso, il determinismo di Ratzel stesso (l’unico “determinista” tra virgolette non a caso) è relativo e aperto ad interpretazioni, soprattutto per via del suo passaggio sul Volk tedesco, che «iscrive il proprio spirito e il proprio destino, così come lo fa nelle sue città e case» [Die Deutsche Landschaft, in Deutsche Rundschau, luglio-settembre 1896].
Citando ancora Terracciano, «L’uomo, lungi dall’essere condizionato in assoluto dall’ambiente geografico, può scegliere tra varie soluzioni; scelta influenzata dal livello culturale [e/o religioso, come afferma Weber] e tecnologico [o modo di produzione come direbbe Marx] raggiunto».
Riguardo De la Blanche, che è il primo ad aver spiegato il “possibilismo” della geopolitica, «Non solo egli esclude la causalità territoriale assoluta, ma per lui di contro l’ambiente non è solamente (ed oggi lo è sempre di meno) il prodotto della natura, bensì sempre più dell’uomo, del suo intervento che muta la faccia della terra». «Seguendo questo ragionamento il geografo francese e i suoi successori dettero sempre più importanza nei loro studi geografici all’eredità storica, alle tradizioni, alle ricerca sui “generi di vita”. È questa la “geografia classica” che ha dominato l’inizio del nostro secolo [XX]».
E chiaramente la critica all’ambiguo determinismo di Ratzel non si ferma con De la Blanche. Vallaux, un altro geografo francese, in Le sol et l’État affronta il tema della differenziazione ambientale sulle statualità. Ciò che Ratzel reputava una scienza naturale, diviene sempre più una scienza politica. Lo svedese Kjellen, l’altro già citato padre della geopolitica, appunto aggiunge il termine “politica” a “geo”, volendola distinguere dalla geografia. La geopolitica con Kjellen diviene ufficialmente una scienza politica come le altre, con cui accompagnare e non sostituire l’economia politica, il giurismo, la sociologia ecc.
Un punto finale al fraintendimento sul “determinismo geografico” l’ha posto nel 1930 il russo (naturalizzato americano) Sorokin in Storia delle teoria sociologiche, nel quale delinea in che misura la geografia determini lo sviluppo sociale e statuale dei popoli.
Nel punto II si afferma: «Il ruolo condizionante degli agenti geografici non è egualmente rigido e diretto nei riguardi delle varie categorie di fenomeni sociali».
Nel punto III: «Nel campo delle varie categorie di fenomeni sociali in cui la correlazione è avvertibile, essa raramente ha un carattere rigido. Il determinismo degli agenti geografici, nella misura in cui è possibile coglierlo, si presenta quasi sempre relativo».
Si ragiona anche qui, usando termini dialettici, per “tendenze”. Lo stesso Spengler scrive: «Il mezzo per conoscere le forme morte è la legge matematica, il mezzo per intendere le forme viventi è l’analogia» [Il tramonto dell’occidente].
Un giovane studioso di geopolitica italiano, il realista Pietro Pinter, ha sintetizzato egregiamente la questione:
«L’importanza della geografia non significa “determinismo geografico”. La geografia non obbliga né conduce automaticamente ad un corso d’azione. Semplicemente, fornisce possibilità, mezzi, condiziona le opzioni tra cui la ragion di stato – che può assumere forme diverse a seconda del regime politico, delle credenze culturali, delle idee politiche, della tecnologia – è chiamata a scegliere: Tra le opzioni possibili vi è ad esempio anche il suicidio, la scelta sbagliata che porta alla scomparsa. Come scrive (…) Corrado Stefanachi: “Un’isola può essere trasformata in un eremo o in un porto“. L’essere circondati dal mare non significa dover vivere un’esistenza imperniata su di esso, come fa notare anche Carl Schmitt nel suo paragone tra Sicilia e Sardegna, due isole così simili per caratteristiche geografiche ma storicamente così diverse per il loro modo di vivere il mare.» [“L’Isola-mondo e la geopolitica anglosassone“]
Il fraintendimento della sinistra sul “determinismo geografico” nasce presumibilmente da due fattori:
Da un lato, in Unione Sovietica venne considerata una scienza borghese nata in occidente, basata sull’idea del determinismo geografico [Cfr “The marxist approach to the geographical environment“, di Ian M. Matley] (il che, come abbiamo visto, è falso), e dunque in opposizione col pensiero materialista dialettico.
Dall’altro lato, in Europa (sub)continentale (ad eccezione dunque degli anglosassoni), a seguito della seconda guerra mondiale e della liquidazione del nazifascismo, venne associata al totalitarismo e all’idea (anche qui errata) secondo cui il determinismo geografico sia strettamente correlato alla razzismo (in quanto, approssimando demenzialmente tale pensiero, si giunge alla logica conclusione che determinati spazi “producano” determinati esseri di più o meno valore, intelletto ecc.).
Sia gli europei liberali, che i russi comunisti, hanno liquidato una scienza politica per motivi ideologici per un secolo intero, lasciando l’impero americano e la corona inglese egemonizzare gli studi su tale materia assolutamente importante. Oggi l’ultima fortezza rimasta, isolata dallo studio della geopolitica, è ormai l’Europa. Mentre la Russia post-sovietica ha finalmente capito, come i vicini cinesi (su cui torneremo più avanti), che la geopolitica è una scienza fondamentale da capire e analizzare per potersi muovere in questo mondo materiale e geografico, in Europa, sia tra i liberali che i marxisti, riecheggia ancora quello spauracchio del secolo scorso secondo cui lo studio dell’influenza geografico-ambientale sulle società umane e la loro storia sia un’eresia, una bestemmia o verso la cosiddetta (usando il provocatorio termine di Preve) «religione olocaustica», o verso i sacri testi del marxismo.
Ma sarà veramente così? È ora di sdoganare la geopolitica tra i marxisti, finalmente anche in Europa.
2. Materialismo dialettico e condizionamento geografico-ambientale
a) Il condizionamento sul sistema sociale e sullo sviluppo economico
In Russia, così come, ai tempi, in Germania, Svezia, Inghilterra e Stati Uniti, la geopolitica stava piantando le sue radici già nel XIX secolo. Importanti figure intellettuali come Solov’ev, Klyuchevskij, Mechnikov (tra l’altro anticipando Wittofgel sul ruolo dei corsi d’acqua), pur non essendo oggi ricordate come geopolitici, parlavano già dell’influenza geografica sulla popolazione e la sua statualità.
Nel pensiero socialista, possiamo già notare una certa presenza dell’aspetto geografico negli scritti di Rousseau, dove viene ad esempio spiegato approssimativamente come un clima avverso o un clima temperato, un ambiente desertico (che possa esser sia freddo che caldo) o densamente abitato, possano influenzare enormemente lo sviluppo della popolazione sotto molti aspetti, sia politici e statuali, che sociali. La bassa densità abitativa dovuta in genere dai climi desertici o la geografia avversa, ad esempio, tendenzialmente porta a regimi autoritari, per via della scarsità di relazioni e comunicazione tra i cittadini. «Quanto più si estende la superficie occupata dallo stesso numero di abitanti, tanto più difficili diventano le rivolte, perché non ci si può accordare né rapidamente né in segreto, mentre per il governo è sempre facile sventare i progetti e tagliare le comunicazioni; ma, più un popolo numeroso è concentrato, meno il governo può usurpare i poteri sovrani; i capi deliberano tanto sicuramente nelle loro camere quanto il principe nel suo consiglio, e la folla si raduna nelle piazze tanto prontamente quanto i soldati nelle loro caserme. Il vantaggio del governo tirannico sta dunque nell’agire a grandi distanze. Coi punti di appoggio che si dà, la sua forza aumenta con la distanza come quella delle leve.» [Il Contratto sociale, Libro III, Cap. VIII]
Nello stesso capitolo, Rousseau, oltre ad analizzare il peso della spazialità a livello sociologico e statuale, parla brevemente anche del peso che può avere sull’economia, come ad esempio l’influenza della fertilità dovuta al clima (e ovviamente la presenza dell’acqua e di un terreno adatto, anche se ciò non viene detto).
Ma per parlare del primo marxista a dare finalmente una forte importanza ai fattori geografici dobbiamo tornare in Russia. È Georgij Plekhanov, il primo marxista russo, ad essere anche il primo geopolitico marxista. Plekhanov era un ammiratore del già accennato Mechnikov – intellettuale largamente ignorato in occidente, ha combattuto anche in Italia come garibaldino –, e nella recensione del suo Цивилизация и великие исторические riconobbe l’importanza di tale opera per il suo contenuto rivoluzionario. Se infatti fino ad allora molti, sin dall’antichità, avevano riconosciuto nella geografia e le condizioni ambientali un fattore sì preponderante nella differenziazione delle società umane, ma una differenziazione dovuta in particolar modo a condizionamenti ambientali sulla psicologia e la fisiologia degli uomini, Mechnikov (così come altri geopolitici realisti suoi contemporanei che forse Plekhanov non aveva approfondito) individua l’importanza del condizionamento ambientale in primis sulla vita sociale dei popoli. Scrive infatti Plekhanov: «Per valutare correttamente l’influenza dell’ambiente geografico sul destino storico dell’umanità è necessario rintracciare come l’ambiente naturale agisce sul tipo e sulla natura dell’ambiente sociale, che nel modo più decisivo determina il carattere e le inclinazioni dell’uomo».
Marx sosteneva che la base della vita sociale e dello sviluppo storico risiedeva nel modo di produzione. Questo modo di produzione comprendeva i rapporti produttivi e le forze produttive. Plekhanov, portando avanti questo argomento, affermò: «Con questa risposta di Marx, l’intera questione dello sviluppo dell’economia si riduce quindi alla domanda: in base a quale principio si spiega lo sviluppo delle forze produttive, che si trovano nella società ordinata. Nella sua forma finale è determinato soprattutto dalla natura dell’ambiente geografico». «Le peculiarità dell’ambiente geografico determinano lo sviluppo delle forze produttive, lo sviluppo delle forze produttive determina lo sviluppo delle forze economiche e direttamente dopo di esse anche tutte le altre relazioni sociali».
Sebbene sia stato attaccato da studiosi sovietici successivi per aver adottato questa teoria, la reputazione di Plekhanov come marxista rispettato da Lenin lo salvarono dalle aspre critiche che spettarono agli altri intellettuali che davano un peso storico alla geografia.
Se Stalin invece è salvabile dalle accuse di anti-comunitarismo espresse da Preve, non è altrettanto salvabile dall’eventuale nostra critica alle sue posizioni anti-geopolitiche.
Il dibattito teorico interno agli ambienti intellettuali del Partito venne infatti messo a tacere con la pubblicazione dello scritto Materialismo storico e dialettico di Stalin, dove si afferma6 che «l’ambiente geografico è indiscutibilmente una delle condizioni costanti e necessarie della società e, ovviamente, influenza lo sviluppo della società; accelera o ritarda la velocità di sviluppo della società. Tuttavia, la sua influenza non è determinante, in quanto i cambiamenti e lo sviluppo della società procedono in modo comparabilmente più veloce rispetto ai cambiamenti e allo sviluppo dell’ambiente geografico. L’ambiente geografico non può essere la causa principale dello sviluppo di ciò che subisce cambiamenti fondamentali nel corso di poche centinaia di anni».
A seguito dell’Opera di Stalin – che, al netto di questa liquidazione semplicistica della questione ambientale, e al netto della tesi dell’unilinearità storica eurocentrica ripresa goffamente dagli scritti di Marx, rimane un testo assolutamente valido e importante come introduzione al Materialismo storico e dialettico – si scatenarono ondate di attacchi contro i geografi e geopolitici russi ed occidentali. La più emblematica è forse quella di Voskanyan, che afferma, completamente in linea col pensiero liberale europeo, che «le dottrine anti-scientifiche e reazionarie, che seguono la linea dell’idolatria del ruolo dell’ambiente geografico, [sono] il fondamento del razzismo e della giustificazione di guerre d’aggressione» [Il ruolo dell’ambiente geografico nello sviluppo della società].
L’unico appiglio su cui Voskanyan cercava di reggere la legittimità del proprio pensiero (scimmiottando quello di Stalin), era a malapena una citazione di Engels che, in Dialettica della Natura, parla del potere dell’uomo nel modificare l’ambiente, usando come esempio storico la Germania. Il che chiaramente non prova nulla.
Il fatto buffo è che, mentre l’aspetto geografico era totalmente ignorato e anzi schifato da teorici politici, filosofi, sociologi e strateghi sovietici, gli economisti davano un peso non indifferente alla geografia. Lo stesso manuale sovietico sulla Geografia economica dell’URSS esprime con chiarezza la posizione “possibilista” dell’autore (e del Partito che ne ha approvata la pubblicazione), secondo cui l’ambiente influisce profondamente lo sviluppo stesso dei Paesi, compresi quelli socialisti. Viene infatti citato come esempio la parte meridionale, centroasiatica dell’Unione, dove sia l’agricoltura che le fonti energetiche (dall’idroelettrico alla torba) sono inevitabilmente diverse dal nord, sia per motivi geografici che climatici, influendo quindi anche sul ritmo, la velocità, oltre che sui metodi di sviluppo. Troppo spesso, afferma l’autore del manuale, Breyterman, «schemi sociologici generali» sono stati considerati (a torto) «ugualmente adatti per qualunque Paese e regione».
Siamo leninisti, e dobbiamo riconoscere che dobbiamo adattare il socialismo non solo in base allo stadio di sviluppo e alla cultura peculiare nazionale, ma anche in base alla peculiarità geografico-ambientale.
Ma dopo Plekhanov, il marxista che ha veramente assimilato l’importanza della geografia è Baranskij, suo allievo. In netto contrasto con Stalin, nel 1926 afferma (e si può notare la presenza di Plekhanov nel pensiero):
«L’influenza delle condizioni naturali sull’uomo è presa in considerazione nello schema marxista dello sviluppo sociale nella misura in cui queste condizioni naturali costituiscono una base naturale per le forze produttive materiali”, che determinano i “rapporti di produzione” e, attraverso di essi, la “sovrastruttura giuridica e politica” e, infine, le “forme di coscienza sociale”.» [“Antropogeografia” in Bolshaiya sovetskaya encyclopedia Vol. III, appendice di N. Baranskij]
A sostegno del suo punto di vista Baranskij citava inoltre uno dei passaggi più interessanti di Marx sul tema dell’ambiente geografico, che ha ripreso negli anni successivi. Nel Capitale Marx afferma che
«Dove la natura è troppo generosa, tiene l’uomo in pugno, come un bambino che viene guidato. Non gli impone alcuna necessità di svilupparsi. Non sono i tropici, con la loro vegetazione lussureggiante, ma la zona temperata a essere la madrepatria del capitale. Non è la mera fertilità del suolo, ma la differenziazione del suolo, la varietà dei suoi prodotti naturali che costituisce la vera base della divisione sociale del lavoro.» [Vol. I]
Marx ha seguito con esempi di necessità per l’uomo di controllare l’ambiente prima di sviluppare la produzione e ha citato i casi dell’Egitto, della Lombardia e dell’Olanda, in ognuno dei quali l’uomo ha dovuto controllare l’acqua per ottenere il terreno adatto per l’agricoltura. Baranskij ha affermato infatti che «è particolarmente caratteristico che Marx scelga proprio questi casi in cui l’influenza delle condizioni naturali influisce sull’accelerazione della formazione della stessa “materia economica” della società umana. Il punto di vista di Marx sul “fattore geografico” è tuttavia lontano dall’esagerazione della sua importanza, un difetto di molti geografi non marxisti, così come da una sua minimizzazione. Nello spiegare le differenze nello sviluppo storico dei vari Paesi, si deve ovviamente tenere conto in primo luogo della differenza delle condizioni naturali. Tuttavia, secondo Marx, l’ambiente geografico agisce sull’uomo non direttamente, ma attraverso l’ambiente sociale come agente; in questo né il grado né la direzione stessa di questa azione rimangono costanti, ma cambiano in base alla loro subordinazione ai cambiamenti dell’ambiente sociale stesso».
Ma il contributo più rivoluzionario del teorico russo è un altro, che va totalmente contro un’opinione ormai egemone tra i marxisti, e cioè che più l’uomo sviluppa la tecnica e “progredisce” coi mezzi di produzione, e più è “libero dalla Natura”. Un concetto che approssimativamente è stato detto anche da Engels più volte.
Eppure, Baranskij fa intelligentemente notare:
«1) che questa attività è tutt’altro che illimitata (non si può parlare di “fuga dalla natura” o di miracoli);
2) che con lo sviluppo della società umana, non solo il suo potere aumenta, ma anche le sue esigenze; e» soprattutto:
«3) che con lo sviluppo e la complicazione della tecnica e il “dominio dell’uomo sulla natura” questo legame con la natura non solo non diminuisce, ma al contrario diventa più intenso e complicato, poiché l’aumento del “dominio dell’uomo sulla natura” nel significato scientifico di questo processo non significa l’affrancamento dell’uomo dalla natura, ma solo un utilizzo più ampio, pieno e conveniente di questa natura. Così, ad esempio, quando l’uomo non utilizzava il carbone o il petrolio nella sua economia, la sua economia non poteva in alcun modo dipendere dai giacimenti di questi minerali. Ora, quando questi giacimenti hanno fatto la loro comparsa, la loro distribuzione ha iniziato a influenzare in maniera decisiva la distribuzione dell’industria e dei trasporti, e da qui anche la distribuzione dell’economia umana nel suo complesso».
Queste idee di Baranskij, secondo Matley in The marxist approach to the geographical environment, contengono un’eco di Ratzel e un rifiuto delle idee di Buckle, Chernyshevskij e Pokrovskij.
Anuchin, un altro studioso sovietico, nel ’57 sviluppa ulteriormente la teoria di Baranskij, affrontando le tesi staliniane, e riconoscendo come esista sempre una geografia da prendere in considerazione a seconda del periodo storico (chiamandolo “ambiente geografico” o “involucro paesaggistico”). Come ha detto Baranskij, la presenza di petrolio o carbone è diventata influente per lo sviluppo e le scelte dei Paesi raggiunto un determinato periodo storico; oggi d’altro canto si sono sommate le terre rare e il litio, e domani chissà; altre presenze fondamentali come il mare (anche se la scala è cambiata, dai fiumi, al mar Mediterraneo, agli oceani, come ha affermato il russo Mechnikov) e i monti d’altro canto, in quanto essenzialmente “geometrici”, “dimensionali”, hanno influenzato l’uomo sin dall’alba dei tempi, essendo noi esseri tridimensionali che si muovono su questo spazio, sulla superficie terrestre; così come è stato da sempre fondamentale la presenza di vegetazione e bestiame, ma inutile qui elencare le differenziazioni degli habitat e i conseguenti sviluppi diversificati dei popoli, dovuti alle colture diverse (dal grano, al riso, al mais; cibo ovviamente sacro per le rispettive Civiltà).
E mentre i “deterministi” accusati dai sovietici, dice Anachin, sono effettivamente (se veramente deterministi) considerabili in errore per il loro “meccanicismo” applicato alla Natura, allo stesso tempo sono criticabili i marxisti «indeterministi» (vuole attaccare in particolare quelli in occidente, ma l’attacco ai colleghi sovietici è implicito e infatti ottenne risposta), che Baranskij definiva «nichilisti geografici» e «sinistrati», e che Anachin reputa persino più pericolosi dei deterministi: «Nel nostro tempo, in molti Paesi capitalisti, gli indeterministi presentano teorie sulla volontà assoluta dell’uomo che può, come a sua discrezione, modificare il mondo materiale senza tenere conto di alcun fattore (“volontarismo”). Tentano di dimostrare teoricamente la necessità di un governo di potenti personali, “eroi”, capaci, come di propria volontà, di cambiare la natura e la società» [Problemi teorici della Geografia].
Ciò, afferma Anachin, è assolutamente idealista come pensiero, oltre che antiscientifico. E come dargli torto.
Come afferma Brunhes in Geografia umana, ci sono certi aspetti ambientali da cui l’uomo “non può scappare”, «lo puo modificare, ma non può sopprimerlo, e ne sarà per sempre condizionato». Forse un giorno l’uomo (come entità metafisica unitaria) si sveglierà con la luna storta e appiattirà tutti i monti del Pianeta, modificando tutte le coste della Terra dando a queste una forma regolare e geometrica, e unendo tutti i continenti e lasciando gli oceani dei meri pozzi quadrangolari. È possibile, ma non ha un senso. Perciò, la geografia rimarrà immutata, sia perché l’uomo non ha attualmente i mezzi per modificarla veramente e profondamente, e sia perché – almeno secondo un uomo medio del XXI secolo – non ha alcun senso né c’è necessità di modificare la Terra sotto questo aspetto. L’unica modifica futuristica che ha senso è la regolazione delle placche terrestri per evitare eruzioni di supervulcani e terremoti catastrofici, ma in nel piena area ipotetica. Ciò che voglio dire è che è dunque indiscutibile affermare che la geografia della Terra non cambierà con l’uomo. Rimarranno gli oceani come sono, così come le terre emerse (al netto del scioglimento dei ghiacciai, che comunquesia non cambieranno di molto la “forma” delle terre emerse); di conseguenza, la geografia condizionerà per sempre l’uomo.
b) Il condizionamento culturale e fisiologico
Indipendenza scrive: «Sul piano storico il principale ispiratore è Gumilev che fa rinascere la prospettiva eurasiatista nella cultura storica e specificamente nel quadro di una teoria organico-biologica dell’etnogenesi che assume la «disuguaglianza dinamica delle etnie» ed indica, presumendone l’esistenza, le leggi cicliche che governano l’esistenza storica e biologica di ciascuna etnia. Il concetto centrale della sua storiografia è la «passionarietà» intesa come «concentrazione di energia creativa, biologica e psicologica assieme», quale caratteristica sia di intere popolazioni che di singoli individui, come «capacità di trascendere l’istinto di sopravvivenza», come «oltrepassamento dell’entropia biologica», come «slancio creativo» (letto soprattutto in chiave di affer-mazione imperiale): turchi e russi sono popoli affini per il fatto di essere «giovani», «vitali», «passionali», agli antipodi quindi delle «etnie-chimere», così Gumilev definisce le «antichissime etnie degenerate», che hanno completamente perduto la loro «passionarietà». Da qui l’affermazione che la civiltà più normale e più sana che vede ai suoi tempi è una civiltà eurasiatica di tipo imperiale».
Sulla definizione di passionarietà, non ci sono state mal interpretazioni. Lo stesso Dugin, nel Glossario di Fondamenti di geopolitica, sintetizza il concetto come «L’energia interna di un ethnos, la forza motrice della creazione culturale, politica e geopolitica».
Potrebbe tuttavia stupire Indipendenza sapere che le idee di Gümilev sono apprezzate nella stessa Cina comunista, oltre al fatto che le prove scientifiche, materiali – che aumentano col passare del tempo –, dimostrano la veridicità delle tesi della “passionarietà” [Пассионарность] (poi poste spesso in chiave metafisica dall’autore).
Ma partiamo con ordine.
The Rise of the Civilizational State (titolo tradotto erroneamente in italiano in “Lo scontro degli Stati-Civiltà“) del liberale britannico Christopher Coker parla ampiamente della Civiltà cinese ed indiana, oltre a quella giapponese, russa, islamica ed occidentale-liberale.
Sono molto interessanti in particolare i passaggi in cui viene trattata la Cina. Viene infatti trattato il celebre romanzo cinese Il totem del lupo; «Ha venduto più copie di qualsiasi altra opera tranne il Libretto rosso di Mao ed è stato tradotto in diverse lingue occidentali. È stato persino trasformato in un film». «Il suo autore, Jiang Rong (uno pseudonimo), fu una vittima della Rivoluzione Culturale, (…) fu esiliato nella Mongolia interna, dove alla fine imparò ad apprezzare un modo di vivere ancora più antico della stessa Civiltà cinese. Per i popoli nomadi tra i quali visse, Mao non era un dio; il loro dio era il Cielo. E al posto del Libretto rosso di Mao, con il suo catechismo rivoluzionario, c’era il lupo, nel ruolo di totem e insegnante». «Nonostante la sua rappresentazione impietosa del danno che è stato inflitto all’ambiente nella spinta incessante della Cina verso la crescita economica», non ha subito alcuna misura di censura da parte del Partito. «Quando il narratore ritorna nelle praterie trent’anni dopo, non trova altro che un «dragone di sabbia gialla» che soffia dalle steppe verso le grandi città del paese». Secondo Coker, «Il probabile motivo per cui il romanzo ha passato la censura è che abbraccia contemporaneamente diversi livelli di realtà. A un certo livello, ovviamente, si tratta di un attacco alla disarmonia della vita politica che scaturisce quando un leader come Mao può far precipitare un intero paese nel caos per un semplice capriccio senile. A un altro livello, può essere letto come un utile trattato militare, se vi fidate dell’affermazione dell’autore secondo il quale la tattica del branco di lupi fu il segreto che nel XIII secolo permise ai mongoli di conquistare metà del mondo, inclusa la Cina stessa. Non è un caso che il libro si rivelò essere un regalo di capodanno molto popolare tra i generali dell’Esercito popolare di liberazione.»
Ma il successo del romanzo tra il pubblico (permesso, come detto, dal Partito), mentre in occidente è stato trainato dal fatto che sia stato considerato come «una sorta di manifesto ecologista», finendo addirittura per essere «uno dei libri preferiti dagli ambientalisti» – «che tendono a leggervi un unico, semplice messaggio: l’obiettivo della vita dovrebbe essere la ricerca di un equilibrio con la natura» –, è dovuto in Cina dal «suo messaggio quasi cultural-darwinista». «Non troveranno [tra chi lo apprezza in occidente] la bizzarra affermazione secondo cui la storia di un paese è determinata dal suo codice genetico, dal fatto che nel corso dei secoli varie tribù nomadi hanno attraversato la frontiera con la Cina: i Tangut, i Kitai e i Jurchen, solo per citarne alcune dell’epoca della dinastia Song. Nel tempo, queste tribù si sono mescolate con la popolazione locale. La Cina di oggi ospita cinquantasei nazionalità o etnie diverse.»
«Ciò che vuole comunicare ai suoi lettori cinesi è che la loro Civiltà è il prodotto di due diversi ceppi genetici: i suoi tratti “da lupo” sono ereditati dalle razze nomadi settentrionali, mentre i suoi tratti commerciali “da pecora” discendono dai primi popoli han. E il ritmo distintivo della storia cinese – l’ascesa e la caduta delle sue molte dinastie – può essere attribuito al fatto che, ogni volta che il paese è salito alla ribalta sul palcoscenico mondiale, sono venuti a galla i suoi geni più bellicosi»; e qua si può notare l’influenza dei cicli di Gümilev (che addirittura individua ben otto possibili fasi).
«L’autore sostiene il ritorno a una forma “più pura” di confucianesimo, a un tempo in cui i valori dominanti erano la forza e il coraggio. In effetti, il messaggio del suo libro si trova in un aforisma degli I Ching: un popolo dovrebbe sempre lottare per il proprio «auto-rafforzamento».»
Ma passiamo ai fatti materiali. Come ammette il liberale Coker, che è assolutamente contro l’eurasiatismo e il “nazionalismo cinese”, «sarebbe facile liquidare questi discorsi come farlocchi, ma la co-evoluzione genetico-culturale esiste».
Vengono allora, sempre nel suo interessante The Rise of the Civilizational State, citati numerosi esempi di come questa co-evoluzione genetico-culturale sia presente nel mondo materiale.
Partendo da un esempio semplice, come il deficit di lattasi, è facile affermare che «In quelle società in cui il latte di mucca è stato bevuto per oltre trecento generazioni, il 90% delle persone ha l’enzima, la lattasi, che consente l’assorbimento dello zucchero del latte, il lattosio. In quelle società che invece non hanno una lunga storia di produzione di latte, l’80% delle persone ha una versione diversa dell’enzima e ha difficoltà a bere latte». È la prova che in determinate regioni è possibile che una determinata cultura con abitudini alimentari condizionino l’evoluzione biologica, fisiologica dell’etnia.
«O prendete i tibetani, che sono in grado di vivere ad alte quote perché nel tempo hanno sviluppato livelli elevati di ossido nitrico che provoca la dilatazione dei loro vasi sanguigni, consentendo a una quantità maggiore di sangue di fluire a una velocità maggiore rispetto a quanto avviene in gran parte delle popolazioni». È la prova che l’ambiente, se mai servisse provarlo a chi pregno di idealismo pseudo-egualitario creda che non esistano differenze fisiologiche tra etnie (credo che Indipendenza non faccia parte di questa categoria), condiziona la fisiologia dei popoli a seconda della regione in cui questi si sviluppano. Chiaramente ciò non determina direttamente uno sviluppo sociale differente (a cui noi interessa), ma arriveremo piano piano al discorso.
Tornando a Coker, «La cultura influenza davvero la biologia. L’esempio più significativo è forse il sistema delle caste in India. Come ci ricorda Andrew Rutherford, se dovete fare un intervento chirurgico a Hyderabad, la prima domanda che vi verrà posta è se appartenete alla casta dei vaishya (i mercanti). Non si tratta di un pregiudizio sociale, ma di una realtà radicata nell’evoluzione del genoma indiano. Se siete un vaishya sarete particolarmente inclini al deficit di pseudocolinesterasi, il che significa che un’anestesia generale potrebbe lasciarvi incoscienti molto più a lungo del normale. Questo potrebbe essere il risultato della consanguineità o della dieta (i vaishya sono famosi per la loro predilezione per i cibi molto grassi). Poiché i matrimoni combinati storicamente erano la norma in India, la consanguineità è probabilmente il fattore decisivo». Ciò prova che a sua volta il sistema sociale presente presso un popolo determina, col passare delle generazioni, il cambiamento fisiologico della popolazione.
«A questo proposito, c’è un’altra teoria che riguarda i cinesi. Alcuni anni fa, due scrittori occidentali avanzarono un’ipotesi che immagino l’autore de Il totem del lupo avrebbe trovato meno congeniale della sua. Esiste davvero un determinante genetico del carattere cinese, dissero: ha tutto a che fare con uno specifico allele7. Nel caso della Cina, affermano i nostri due autori, esiste un deficit genetico interessante che, nelle società industriali, tendiamo ad associare a una particolare sindrome, il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD). Questo, a sua volta, è spesso ricondotto all’allele 7R del gene DRD4 (recettore D4 della dopamina). A detta degli psicologi infantili, i bambini occidentali sarebbero particolarmente afflitti dal disturbo. Molti di loro vengono sottoposti a terapie farmacologiche. Ciò che è interessante è che, mentre gli alleli derivati dalla 7R sono comuni in Cina come lo sono altrove, l’allele 7R è relativamente raro. È possibile che, storicamente, le persone con questi alleli siano state discriminate da una cultura così fortemente incentrata sulla conformità sociale? Che il pregiudizio culturale, in una fase molto precoce della storia della Cina, sia stato così forte da privilegiare quei geni maggiormente predisposti alla sottomissione all’autorità? In Giappone si dice che il chiodo che spunta non dura a lungo, ma forse in Cina il chiodo è stato semplicemente divelto e gettato via».
Al netto delle considerazioni del liberale Coker, che descrive quasi con disprezzo e terrore questa «sottomissione all’autorità» presente nella cultura cinese, è evidente che una correlazione tra il comunitarismo cinese – declinato nella forma del confucianesimo –, e l’assenza di soggetti con disturbi tendenzialmente associati al lato del globo notoriamente individualista, c’è.
Ciò fa pensare che, più che alla «sottomissione all’autorità», la mancanza (o quasi) di autistici nelle Civiltà comunitariste è dovuta alla “selezione” fatta dalla Comunità stessa dei membri più comunitari e collettivisti; coloro che si comportano individualisticamente – col loro edonismo, la loro vanità, l’egoismo e l’eccentricità – non hanno successo, e vengono verosimilmente emarginati. Un ragazzo o una ragazza che pensa in primis a se stesso, più difficilmente riesce a fare famiglia, perché il partner cerca un comunitarista disposto a sacrificare se stesso per la famiglia e il lavoro. In occidente essere diversi, manifestare la propria individualità e andare contro le norme sociali è invece non solo accettato ma, nella società borghese, promosso ed incentivato8.
«È uno dei numerosi esempi che si ritiene dimostrino come la civilizzazione abbia accelerato l’evoluzione umana», afferma Coker. Da questa mancanza di autistici, l’autore liberale, forse esso stesso neurodivergente e sentitosi chiamato in causa, conclude che i cinesi hanno «geni da pecora» – se ciò vuol dire esser pecore, oserei dire beati loro –, mentre Il totem del lupo è un testo nazionalistico che romanticizza il comunitarismo autoritario cinese.
Altro fattore chiave nello sviluppo di determinate culture ed etnie è la linguistica. «La cultura, come ci dice Charles Taylor in The Language Animal (L’animale linguistico), è dietro la formulazione di ogni pensiero. Una parola ha un significato solo all’interno di un contesto culturale. Non è possibile comprendere una parola o una frase separatamente da esso; o, per dirla in altro modo, il più delle volte dobbiamo sapere qual è il background culturale per poter dare un senso alla lingua. La lingua struttura il nostro modo di vedere il mondo e quindi trasforma profondamente la nostra esperienza di esso, in modi che spesso ci cambiano la vita. In altre parole, ci sono davvero modi molto diversi di comprendere la realtà. In un vero testo classico cinese non troverete le distinzioni aristoteliche tra “genere” e “specie” che sono così comuni in Occidente. E in passato agli scrittori cinesi piaceva davvero suddividere le specie applicando criteri estetici piuttosto che logici. Erano soliti distinguere gli animali “nobili”, come il leone, da quelli “ignobili”, come la volpe, o differenziare gli alberi più esteticamente gradevoli, come il pino, da quelli poco attraenti, come il cardo. C’è veramente qualcosa di borgesiano nei testi classici cinesi, dice David Hall; si potrebbe quasi giungere alla conclusione che gli antichi cinesi non sarebbero stati in grado di spiegare nessuna delle loro definizioni. Ma i cinesi non provengono da un altro pianeta. Ciò che abbiamo qui sono due stili culturali molto diversi: da un lato l’inclinazione greca per un modo di leggere la realtà basato sul ragionamento deduttivo (confluita poi nel pensiero europeo), dall’altro la preferenza cinese per il pensiero associativo. Sia in Cina che in Giappone l’ideale sociale è l’armonia: wa in giapponese, he in cinese (come in una composizione musicale atonale non sono consentite note discordanti). La ritroviamo nella letteratura cinese, che parla di relazioni o guanxi, che sta a significare una trama di rapporti sociali molto profondi. Il concetto ha persino un lessico tutto suo, con parole come jangqing (‘sentimento’), renging (‘sentimento umano’), mianzi (‘volto’) e bao (‘reciprocità’), che esprimono una concezione del mondo che non è né individuale né sociale ma basata sulle relazioni. Per questo non esiste un singolo romanzo classico cinese che abbia il nome del personaggio principale nel titolo; non esiste l’equivalente, ad esempio, di un Don Chisciotte, di un David Copperfield o di un Madame Bovary. Sebbene vi siano ovviamente dei personaggi principali, fanno sempre parte di una rete più vasta. In uno dei romanzi cinesi più famosi, Il sogno della camera rossa, vi sono ben 975 personaggi; a titolo di paragone, basti pensare che in tutta l’opera Charles Dickens (1812-1870), l’autore occidentale che probabilmente ha creato più personaggi di chiunque altro, ne compaiono circa 2.000, spalmati su 14 romanzi e 30 racconti [Aggiungo io che in occidente chi ha eguagliato in numeri di personaggi i cinesi in un solo romanzo, Il Silmarillion, è forse solo J.R.R. Tolkien, che è guardacaso un chiaro comunitarista e forte tradizionalista cattolico]. Ciò non significa che i cinesi non siano interessati agli individui, ma la storia del paese li ha chiaramente spinti in un’altra direzione». È chiaro come ciò si riconduca anche al capitolo in cui abbiamo trattato il Comunitarismo cinese.
Coker più avanti scrive: «È proprio quell’eredità storica [delle invasioni mongole] che oggi divide gli storici russi, con i liberali che insistono sul fatto che il loro paese dovrebbe continuare a vedere Pietro il Grande come un importante modernizzatore, come vuole la tradizione, e i conservatori che insistono sul fatto che la Russia potrà essere fedele a se stessa solo se recupererà le sue radici mongolo-asiatiche. Questi ultimi vi racconteranno che nelle grandi steppe euroasiatiche è stata ricodificata una variante dei geni tartari. Questo processo è stato descritto da uno dei primi euroasiatisti, Lev Gumilëv (il figlio della poetessa Anna Achmatova), come “passionarietà”. Non è una parola che la maggior parte dei russi riconoscerebbe anche se appare occasionalmente in alcuni discorsi di Putin. È il processo attraverso il quale gli organismi assorbono l’energia biochimica dalla natura, in questo caso dal suolo dell’Eurasia. Un altro scrittore, Pëtr Savitskij, ha sviluppato in seguito il concetto di topogenesi o “sviluppo di un luogo”, per spiegare il legame profondo tra geografia e cultura [in chiave più materiale e scientifica rispetto alla metafisica di Gümev]. Il darwinismo culturale non è appannaggio solo di romanzieri e poeti; in Russia è diventato un concetto familiare anche a molti scienziati politici. Idee come la mentalità di gruppo e l’esistenza di forme di organizzazione biosociale immutabili, scrivono Peter Katzenstein e Nicole Weygandt, che non trovano fondamento in nessun libro di storia o di etologia [occidentale], sono diventati argomenti di insegnamento e di ricerca legittimi e oggi sono noti ai principali politici del paese. E questo è uno dei motivi, aggiungono, per cui i russi stanno iniziando a identificarsi sempre più in termini di Civiltà. Non è detto, però, che l’idea sia del tutto campata in aria. Come dimostra la questione delle caste di Hyderabad e dell’imprinting genetico-culturale più in generale, alcuni paesi potrebbero veramente essere governati da un’impronta etologica. Secondo quanto suggerisce il professore di Harvard David Haig, così come il nostro DNA cambia in base al corredo genetico che ereditiamo dai nostri genitori, influenzando ciò che i nostri geni faranno nella prossima generazione, così gli input storici provenienti dall’ambiente circostante potrebbero ripercuotersi per diverse generazioni, influenzando l’espressione genetica di un Paese. Se la vostra bisnonna ha vissuto una carestia o una guerra, è possibile che questo abbia lasciato un’impronta sul genoma? Alcuni scienziati russi ne sono convinti: essi sostengono, per esempio, che i figli di coloro che hanno vissuto l’assedio di Leningrado sono generalmente caratterizzati da un alto senso civico. Nei campioni di sangue prelevati da 206 sopravvissuti hanno trovato delle varianti che aiutano a rallentare il metabolismo e consentono alle cellule di essere più efficienti nell’uso dell’energia. Il fortunato gruppo di superpatrioti include Putin, ovviamente, ma anche alcuni membri del suo regime, come il direttore del Servizio di intelligence internazionale e l’ex capo dello staff di Putin. È una scoperta conveniente, ma che viene contestata da molti genetisti, compresi alcuni figli dei sopravvissuti all’assedio. Se ci pensiamo, però, l’idea che la Civiltà sia un’entità organica è simile alla visione spengleriana della Civiltà come un organismo che attraversa diversi cicli dalla vita fino alla morte. Come Spengler, ci sono numerosi nazionalisti russi che pensano che la propria civiltà si possa misurare in base alle stagioni; e poi ci sono i più pessimisti, che sostengono che l’inverno sia già iniziato e sognano un ultimo gesto eroico»; concludendo Coker aggiunge che questo potrebbe portare ad uno scontro con l’occidente, visto come gesto eroico da parte dei russi. Ma su come la storia sia influenzata anche da ciò, oltre che da eventuali dogmi dovuti dal pensiero, dall’ideologia, ne parleremo più avanti, nel prossimo punto, analizzando Engels.
Vorrei tuttavia concludere il punto sul condizionamento culturale e fisiologico parlando di Trofim Lysenko. L’agronomo sovietico, a lungo osteggiato e deriso da tutti i biologi e scienziati in generale, dall’occidente al resto del mondo, ha recentemente avuto una sua riabilitazione parziale dovuta a nuove scoperte scientifiche nel campo della genetica e dell’evoluzionismo. Pur sbagliando enormemente nella pratica riprendendo certi aspetti della teoria lamarckiana antecedente a Darwin e finendo per degenerare proponendo azioni assurde (che sono follia se pensiamo al fatto che fosse agronomo) come piantare più semi nello stesso punto pensando che questi collaborino secondo un ideale socialista universale piuttosto che prevalere sugli altri semi vicini; Lysenko aveva ragione su un fatto fondamentale: l’evoluzione è dovuta sì alla selezione naturale, ma le mutazioni che portano a tale differenziazione di geni non sono dovute alla totale elatoriterà nel processo di eredità, ma ad un condizionamento ambientale (geografico-climatico e sociale), che avviene anche durante il corso della vita dell’essere vivente (a prescindere dalla specie).
Per comprendere la rivoluzione genetica di Lysenko occorre accennare prima su cosa si basa la genetica moderna, positivistica-meccanicistica e intesa come dogma negli ambienti scientifici (e marxisti) occidentali. La concezione moderna del gene è la seguente: esistono singole “unità ereditarie” distinte che si manifestano fenomenologicamente nella specie che le possiede. Tale teoria è stata avanzata per la prima volta da Mendel e adottata da vari razzialisti per strutturare una società e una teoria basata sulla razza. I seguaci di Mendel pensano che i geni contengano, in una sorta di codice scritto, l’intero modello di sviluppo dell’individuo e del suo funzionamento allo stato maturo.
Lysenko d’altro canto concepisce l’ereditarietà e lo sviluppo in un modo diverso: «L’organismo e le condizioni necessarie alla sua vita sono un’unità inseparabile. L’ereditarietà è la proprietà di un organismo vivente di richiedere condizioni definite per il suo sviluppo e di rispondere in modo definito alle condizioni».
Giunse a questa conclusione dopo aver osservato l’esperimento di V. I. Karapetian sulle piantagioni di grano. Nel 1949 è stata avviata una ricerca di chicchi di segale nelle spighe di grano nei campi dei distretti pedemontani, dove le colture di grano invernale sono spesso trovate adulterate con segale. È successo che, in condizioni ambientali nuove, il grano Durham (28 cromosomi) ha iniziato a trasformarsi in grano tenero (42 cromosomi).
Questo è impossibile da spiegare secondo i presupposti darwiniani classici, poiché i cambiamenti nella specie/fenologia possono avvenire solo nell’arco di centinaia di generazioni. Non si trattava di un semplice incidente (mutazione), ma di un effetto ricorrente. Questo fenomeno è stato osservato anche nella moderna ricerca biologica e denominato “epigenetica”.
I progressi della biologia hanno continuato a spazzare via le supposizioni mendeliane una dopo l’altra. Gli esperimenti hanno dimostrato come le forme viventi siano fiorite come “brodo molecolare” molto prima dell’esistenza dei geni. Si auto-organizzavano, sintetizzavano polimeri (come RNA e DNA), si adattavano e si riproducevano.
Seguivano “istruzioni” derivanti dalle relazioni tra i componenti, in base alle condizioni del momento, senza un controllore generale: “informazione compositiva”, come la chiama il genetista Doron Lancet. In questa prospettiva, i geni si sono evoluti molto più tardi [“Replace the Modern Synthesis (Neo-Darwinism)“].
Un’altra chiave di volta è stata la scoperta che un “prodotto genico” subisce tipicamente dei riarrangiamenti prima di essere utilizzato [paper di James A. Shapiro “How life changes itself: The Read–Write (RW) genome“]. Il DNA da solo non fa assolutamente nulla finché non viene attivato dal resto del sistema. Il DNA non è una causa in senso attivo. Questa è pura dialettica hegeliana.
Parlato ampiamente di biologia, passiamo finalmente alla storia.
c) Il condizionamento sui comportamenti degli Stati e sulla storia
Abbiamo visto che la geografia condiziona profondamente l’uomo sia dal punto di vista economico, sia dal punto di vista culturale e addirittura fisiologico.
Viene da sé dunque che condizionando la formazione e lo sviluppo di Nazioni e Civiltà, si condizioni anche il comportamento degli Stati, quindi la storia nella sua interezza.
Citando per l’ultima volta Coker, «L’armonia di gruppo è sempre stata più importante dello sviluppo di sé incoraggiato in Europa dai greci [su questo Preve dimostra il contrario; la radice individualista non risale ai greci], e la ragione potrebbe avere molto a che fare con la geografia. Il territorio cinese incoraggiò la creazione di enormi progetti di irrigazione e programmi agricoli per la coltivazione del riso, che a loro volta premiavano il lavoro di squadra e filosofie, come il confucianesimo, che sottolineavano l’interconnessione di tutte le cose. Il fatto che ancora oggi le note discordanti non siano incoraggiate dallo Stato non significa che lo Stato consideri tutte le “note” uguali. Ma una cosa è avere delle opinioni diverse, un’altra è dargli voce. Se ciò vi sembra oppressivo, va anche ricordato il rovescio della medaglia, ovvero lo scarso interesse degli imperatori cinesi per le opinioni della gente: in Cina non sono mai state messe al rogo le persone per le loro credenze religiose; non vi è mai stato l’equivalente dell’Inquisizione cattolica (l’unica eccezione per quello che riguarda l’Asia orientale fu la persecuzione dei cristiani all’inizio del XVII secolo in Giappone: il cristianesimo era considerato antigiapponese, così come il comunismo nei primi anni Cinquanta negli Stati Uniti era considerato antiamericano). Più che di ortodossia, sarebbe più corretto parlare di ortoprassi; ciò che contava era avere il comportamento giusto, non le idee giuste». E qui Coker, probabilmente riprendendo Wittfogel, evidenzia la particolarità della Civiltà cinese sviluppata partendo dall’irrigazione, come “Civiltà idraulica” – comune anche all’antico Egitto, Mesopotamia, Civiltà del fiume Indo, e persino i popoli del Rio grande: «Gli studi di Wittfogel sugli indiani Pueblo, Zuni e Hopi negli Stati Uniti rivelano come questi gruppi etnici amerindi abbiano subito la Volkswerdung (“il processo di diventare un popolo”) ottenendo il controllo dell’acqua nel loro territorio» [Robert Steuckers, “Karl Wittfogel e l’idropolitica dell’impero“]. Chiaramente di tutte queste Civiltà, quella che si è consolidata come Stato unitario (quasi totale) resistendo ai millenni è solo la Cina. Ulteriore prova di come il determinismo geografico non esista, ma esistano tendenze, dovute alla predisposizione e la condizione di più fattori (il più importante quello umano, attivo). Una cosa certa è che tali società idrauliche per necessità hanno mantenuto il comunitarismo del comunismo primitivo, sviluppando un modo di produzione definibile dispotico ma appunto comunitario (che Preve, riprendendo Melotti, distingue tra “asiatico” (Cina, India, Quechua) e “antico-orientale” (Mesopotamia, Egitto ed antica Cina, India, America) per via del carattere avanzato del primo rispetto al secondo). È chiara quindi l’importanza dei grandi fiumi nello sviluppo delle Civiltà e delle polarità.
Ma passiamo ad autori marxisti.
Engels nei suoi scritti bellici, in genere totalmente snobbati dai marxisti (e figuriamoci dai non-marxisti), pone un peso evidente alla morfologia del territorio nei campi di battaglia. E credo che siamo tutti d’accordo sul fatto che le battaglie determinano spesso le guerre, e le guerre determinano spesso l’esistenza, lo sviluppo, il ridimensionamento delle Nazioni, determinando a sua volta la psyche dei popoli (sia se vinti dando un senso di vulnerabilità, rabbia e complesso d’inferiorita, che se vincitori dando un senso di superiorità o tranquillità; la ferita aperta nel popolo russo è il più palpabile degli esempi), e la dirigenza di questi popoli è composta da umani condizionati dalla stessa psyche, oltre che condizionata, a seconda dei fattori culturali, dalla popolazione stessa.
Non è un caso se la geografia marca con decisione numerosi confini nazionali e di Civiltà. Le Alpi individuano i confini italiani; i Pirenei quelli tra Francia e Spagna; il fiume Indo tra Civiltà indiana (Bharat) e persiana-iraniana; la massiccia catena dell’Himalaya tra Bharat e Cina (con sfumature intermedie in quanto massiccia nella sua profondità di frontiera); il Caucaso è l’unico confine naturale che ha la Russia (e su questo importante aspetto torneremo più avanti); l’Amur divide Civiltà russa e cinese; e così via.
Questi Limes, questi limiti sono chiaramente geografici: l’uomo si è adattato ad essi.
Una Terra totalmente piatta, ma con le medesime coste attuali, non avrebbe assolutamente avuto la stessa storia e gli stessi confini (o le stesse Nazioni). La mancanza di questi confini citati (oltre ad una eventuale mancanza di corsi d’acqua, che è davvero determinante nello sviluppo delle civiltà) avrebbe portato a molti più conflitti bellici. Le catene montuose e gli ampi corsi d’acqua tendono a svilire ogni intento bellico offensivo verso il vicino, e conviene ad entrambi definire il proprio confine lungo questi limes naturali, in quanto la potenza logistica necessaria per potersi allargare a discapito del vicino rende la guerra assai dispendiosa in termini di vite umane ed economici.
Non fosse stato per il Reno e i territori boschivi della Germania, Roma non si sarebbe verosimilmente fermata dove si è fermata, e la storia sarebbe andata assai diversamente. Allo stesso modo, non fosse per la morfologia della piana dei Merli o dello stretto delle Termopili, la storia sarebbe andata assai diversamente. E come non pensare infine alle guerre d’offensiva occidentale contro la Russia, da Napoleone ad Hitler, abbattuti (anche) dal Generale inverno. Basta insomma la geografia a scala ridotta per ammettere che la storia è decisamente determinata da questa.
Prima di addentrarci alla geografia su scala continentale, voglio per conclusione citare due passaggi di Engels fondamentali per chiudere la questione della geografia come fattore materiale.
In una lettera a J. Bloch scritta il 21 settembre 1890, Friedrich Engels afferma che «secondo la concezione materialistica della storia la produzione e riproduzione della vita reale è nella storia il momento in ultima istanza determinante. Di più né io né Marx abbiamo mai affermato. Se ora qualcuno distorce quell’affermazione in modo che il momento economico risulti essere l’unico determinante, trasforma quel principio in una frase fatta insignificante, astratta e assurda. La situazione economica è la base, ma i diversi momenti della sovrastruttura – le forme politiche della lotta di classe e i risultati di questa (costituzioni stabilite dalla classe vittoriosa dopo una battaglia vinta, ecc.), le forme giuridiche, anzi persino i riflessi di tutte queste lotte reali nel cervello di coloro che vi prendono parte, le teorie politiche, giuridiche, filosofiche, le visioni religiose e il loro successivo sviluppo in sistemi dogmatici –, esercitano altresì la loro influenza sul decorso delle lotte storiche e in molti casi ne determinano in modo preponderante la forma. È un’azione reciproca di tutti questi momenti, in cui alla fine il movimento economico s’impone come fattore necessario attraverso un’enorme quantità di fatti casuali (cioè di cose e di eventi il cui interno nesso è così vago e così poco dimostrabile che noi possiamo fare come se non ci fosse e trascurarlo)».
Engels spiega il fraintendimento così: «Del fatto che da parte dei più giovani si attribuisca talvolta al lato economico più rilevanza di quanta convenga, siamo in parte responsabili anche Marx ed io. Di fronte agli avversari dovevamo accentuare il principio fondamentale, che essi negavano, e non sempre c’era il tempo, il luogo e l’occasione di riconoscere quel che spettava agli altri fattori che entrano nell’azione reciproca. Ma appena si arrivava alla descrizione di un periodo storico, e perciò a un’applicazione pratica, le cose cambiavano, e nessun errore era qui possibile. Ma purtroppo è fin troppo frequente che si creda di aver capito a fondo una nuova teoria e di poterne senz’altro fare uso non appena ci si sia impadroniti dei suoi principi fondamentali, e anche questo non sempre in modo corretto. E questo rimprovero non posso risparmiarlo neanche a qualcuno dei recenti “marxisti”, e ne è venuta fuori anche della roba incredibile».
Contro il rozzo “materialismo” (su cui si scaglia anche Mariàtegui definendolo «materialismo idealista») che ignora tutti i fattori materiali che non siano l’economia, vengono citate le «teorie politiche, giuridiche, filosofiche, le visioni religiose [ecco Weber] e il loro successivo sviluppo in sistemi dogmatici», ma anche, a seguito del passaggio che ho riportato, le relazioni internazionali (portando come esempio storico le contingenze che ci sono state nell’ascesa della Prussia da Brandeburgo); tutto questo, ma non la geografia. Ma è chiaro che possa rientrare nel discorso sotto molti aspetti, perché è ciò che storicamente, in modo passivo e a volte in modo attivo (dipende cosa si voglia intendere con tale termine su questa questione), condiziona le teorie filosofiche e quindi quelle giuridiche e politiche, le visioni religiose e di conseguenza i sistemi dogmatici, oltre che, ovviamente, l’economia stessa.
Citiamo dunque per la penultima volta un passaggio di Engels, stavolta dall’Antidühring [Sezione II, Cap. III], in cui si evidenzia nei fatti cosa si voglia dire con «momento economico» come «unico determinante».
«Il revolver ha la meglio sulla spada e questo fatto farà comprendere, malgrado tutto, anche al più puerile assertore di assiomi che la violenza non è un semplice atto di volontà, ma che esige per manifestarsi condizioni preliminari molto reali, soprattutto strumenti, di cui il più perfetto ha la meglio sul meno perfetto; che questi strumenti devono inoltre essere prodotti, il che dice ad un tempo che il produttore di più perfetti strumenti di violenza, vulgo armi, vince il produttore di strumenti meno perfetti e che, in una parola, la vittoria della violenza poggia sulla produzione di armi, e questa poggia a sua volta sulla produzione in generale, quindi sulla “potenza economica”, sull'”ordine economico”, sui mezzi materiali che stanno a disposizione della violenza. (…)
All’inizio del secolo XIV venne dagli arabi agli europei dell’occidente la polvere da sparo e, come ogni scolaretto sa, rivoluzionò tutta l’arte della guerra. L’introduzione della polvere da sparo e delle armi da fuoco non fu però in nessun modo un atto di violenza, ma un progresso industriale e quindi economico. L’industria rimane sempre industria, o che si indirizzi alla produzione o che si indirizzi alla distribuzione di oggetti. E l’introduzione delle armi da fuoco agì rivoluzionariamente non solo sulla stessa arte della guerra, ma anche sui rapporti politici di dominio e di servitù. Per ottenere polvere e armi da fuoco occorrevano industria e denaro e l’una e l’altro erano in possesso dei borghesi della città. Da principio le armi da fuoco furono perciò armi delle città e della monarchia che appoggiandosi alla città si levava contro la nobiltà feudale. Le mura di pietra dei castelli nobiliari, sino allora inespugnabili, soggiacquero ai cannoni dei borghesi, le palle degli archibugi dei borghesi attraversarono le corazze dei cavalieri. Assieme alle corazze dei cavalieri della nobiltà cadde anche il dominio della nobiltà; con lo sviluppo della borghesia, fanteria e cannone divennero sempre più le armi decisive; costretta dal cannone, l’arte militare dovette arricchirsi di una nuova specialità completamente industriale: il genio.»
Engels ha profondamente ragione, ma la lettura è parziale, e per quanto io apprezzi profondamente Engels e non sia di quello schieramento ridicolo che lo considera un rinnegato che ha deviato i contenuti originali di Marx, credo che quest’ultimo non avrebbe fatto lo stesso errore.
Innanzitutto, ma questo non è un errore di Engels ma una specifica che vorrei aggiungere, la geografia stessa, anche qui, fa la sua parte nella determinazione (specifico, non è mai una determinazione assoluta) della supremazia economica di una parte o l’altra in un conflitto. Engels cita le armi da fuoco superiori alle spade; ma i nativi americani potevano avere le armi da fuoco? E il motivo per cui non le avevano è anche geografico. Può far ridere nella sua banalità, ma non lo è. Questo è un esempio estremo, ma se pensiamo anche al mondo attuale, è ovvio che un Paese con più risorse naturali necessarie per la produzione di armi sia favorito in un conflitto bellico contro un Paese che di risorse non ne ha, o ne ha nettamente meno. Uso di nuovo un esempio estremo: può un’isola polinesiana produrre carrarmati ed aerei? Sarebbe totalmente dipendente da importazioni, come nel resto dei settori produttivi industriali. Ogni Paese, anche quelli continentali, può avere più o meno risorse per l’industria bellica. Un esempio col potenziale enorme è la Germania, che era “predestinata” a diventare una potenza industriale per via delle risorse naturali che ha, e tant’è che le altre potenze – in primis Francia e Regno unito – l’hanno sempre voluta tenere a testa bassa, tentando anche di strapparle territori per più volte.
Ma questo, come ripeto, non è un errore di Engels, ma una specifica che volevo aggiungere, sottolineando l’importanza della geografia sull’economia.
Lo stesso Marx, ricordiamo il passaggio del Capitale riportato precedentemente, sottolineava l’importanza del clima e delle risorse naturali: «Non sono i tropici, con la loro vegetazione lussureggiante, ma la zona temperata a essere la madrepatria del capitale. Non è la mera fertilità del suolo, ma la differenziazione del suolo, la varietà dei suoi prodotti naturali che costituisce la vera base della divisione sociale del lavoro».
Ma la geografia si ferma qua? È qui che sbaglia Engels. La storia successiva al XIX secolo, l’era dell’imperialismo e delle guerra imperialiste, ha chiaramente dimostrato come la geografia condizioni non solo l’economia (e la preparazione bellica), ma anche il campo di battaglia stesso su scala nazionale. Engels si limitava ai campi di battaglia locali, dati i tempi in cui è vissuto. A parità di armi, la geografia poteva determinare l’esito degli scontri, ma tra uno col fucile e uno con arco e frecce, è ovvio che vincesse quasi sempre il primo, a prescindere dalla geografia, anche in disparità numerica. Perciò si è riusciti a colonizzare il continente americano nella sua interezza – con luoghi geografici molto avversi che sono stati semplicemente ignorati dagli europei, ad esempio le Ande, l’interno dell’Amazzonia, o il freddo deserto a nord del Canada. Ma oggi? Oggi anche tribù come gli houthi o i pastori talebani hanno le armi da fuoco (e missili seppur più rudimentali). Le umilianti sconfitte dell’impero americano in Vietnam e Afghanistan sono dei chiari esempi di come possa vincere la superiorità tattica e strategica alla superiorità tecnologica. Nel 1800 (ma anche oggi resta stupefacente) sarebbe stato assurdo concepire come dei pastori avrebbero potuto vincere contro dei bombardieri (tralasciamo che ai tempi non esistevano gli aerei) dell’impero più potente al mondo. Le armi e la superiorità dal punto di vista economico determinano dunque solo in parte – sì importante ma non definitiva come diceva Engels – l’esito di un conflitto, anche di una guerra intera. Da quando le armi da fuoco sono diventate accessibili alle popolazioni del mondo intero, neanche la superiorità aerea è più determinante di quanto non lo sia la superiorità tattica e strategica. E su cosa si è basata la tattica e la strategia dei viet e dei talebani? Sulla loro geografia peculiare, che conoscevano ovviamente molto meglio degli americani. Lo stesso si può dire dei guerriglieri cubani, la cui strategia di liberazione basata sulla morfologia dell’isola caraibica era teorizzata sin dai tempi di Martí, come aveva detto il “Che”; o dei comunisti cinesi, con la guerra di lunga durata anch’essa basata sulle peculiarità geografiche delle varie regioni cinesi.
Dimostrata la determinazione della geografia locale e regionale sulla storia, possiamo parlare di come la geografia si imponga anche su piano continentale.
Sempre Matley nel suo The marxist approach to the geographical environment riporta vari passaggi interessanti di Friedrich Engels, in particolare sulla strategia in chiave bellica, ma già sfumato in ciò che potremmo definire geopolitica.
«Nell’opuscolo Po e Reno (1859) Engels parla delle battaglie combattute tra gli Stati tedeschi e la Francia di Luigi Napoleone per il possesso della Pianura Padana che attraversa l’Italia settentrionale. Engels sottolinea l’influenza delle caratteristiche del paesaggio come i fiumi, il terreno paludoso e i passi di montagna pieni di neve sulla strategia militare. Sottolinea che questi elementi terrestri sono diventati più importanti nel XIX secolo poiché la tecnologia ha consentito che la guerra potesse avvenire su scala continentale anziché essere confinata in un’area più piccola [corsivo mio]. Riconoscendo che lo Stato che occupa la Pianura Padana poteva dominare sull’Italia, Engels affermava: «Chiunque possedesse la Pianura Padana interromperebbe le comunicazioni terrestri della penisola con il resto del continente e potrebbe facilmente sottometterla se se ne presentasse l’occasione» (Engels, 1859: 218). La conquista del lato occidentale del Reno avrebbe un ruolo simile per la Francia poiché migliorerebbe le prospettive di difesa di Parigi (p. 244). Questo aspetto dell’opera di Engels è raramente menzionato nelle discussioni contemporanee – forse la strategia militare è lontana dalle menti della maggior parte della sinistra oggi – ma ai suoi tempi Engels era considerato un astuto commentatore di questi argomenti.»
A ragione Matley aggiunge che «i commenti di Engels sull’importanza della Pianura Padana per l’Italia evocano i famigerati commenti del geografo vittoriano Halford Mackinder sull’importanza strategica delle regioni dell’“Heartland” dell’Europa orientale, sebbene Engels sia antecedente all’“invenzione” geopolitica di Mackinder di diversi decenni».
Heartland ed Eurasia, in contrapposizione all’anglosfera associata alla talassocrazia. Parliamo ora di questo delicato argomento.
3. L’eurasiatismo come strategia tellurocratica anti-talassocratica
a) Realismo, terra e mare – dicotomia e storia
Indipendenza, come critica, afferma che «Per gli eurasiatisti ogni questione economica, culturale, militare, strategica e persino psicologica andava considerata prima di tutto – se non unicamente – entro una prospettiva geopolitica e, per l’area che imperialmente stava loro a cuore, continentale.»
Qui si cade nello stesso errore che s’è fatto quando si criticava il Comunitarismo in quanto ragiona in termini negativi rispetto all’individualismo, senza prospettiva economica (evito di dire anche politica perché credo che tutto sia politica; anche lottare per abolire il diametro della pizza oltre i 30 cm). L’Eurasiatismo non è di per sé un’ideologia, ma una strategia geopolitica. La geopolitica è una scienza politica. E la scuola di pensiero realista è, appunto, una scuola di pensiero, di analisi della realtà, come lo è il marxismo (e aggiungo non in contraddizione ad esso). Se possiamo sintetizzare il realismo, potremmo definirlo come «Una scuola di pensiero che crede che la politica estera di un Paese dovrebbe dare priorità agli interessi nazionali strettamente definiti (in particolare la sicurezza) (…). I realisti si concentrano sulla concorrenza tra Stati e generalmente non sono interessati a ciò che accade al loro interno» [The Economist, The A to Z of international relations]. Orsini sintetizza dicendo che «Il pericolo della guerra (…) è ineliminabile, non a causa della natura umana, come scriveva Hans Morgenthau, ma a causa dell’architettura del sistema internazionale. Questo scatena la competizione per la sicurezza, che spinge gli Stati, concepiti come attori razionali, a lottare per aumentare continuamente la propria quota di potere nel sistema internazionale.
Il dilemma della sicurezza chiarisce la logica di base del realismo» [Mutamento sociale e relazioni internazionali]. Lo stesso aggiunge che il realismo politico è «un metodo, una teoria, una concezione del mondo”, “Alcuni utilizzano il realismo politico per fare la guerra; altri, per evitarla.»
La differenza fondamentale tra realismo e marxismo è che il primo è uno strumento di analisi che si concentra sulle dinamiche di potere e di “volontà di potenza” degli Stati (cioè di chi li dirige in primis); non possiede dunque in sé una critica di classe né un aspetto propositivo. Inevitabilmente i realisti, che si credono neutrali da ogni ideologia (qui ricade il peccato originale dell’avalutatività weberiana), ignorando le dinamiche di classe, giungono alla conclusione scritta appunto da Orsini, e cioè che il problema di fondo sta nella struttura della sicurezza internazionale. Ciò è guardare al fenomeno e non alla radice, e cioè che il problema, attualmente, sta nelle dinamiche del sistema capitalista. Tuttavia, che la struttura internazionale sia un problema, è vero – unica nota è che sia appunto una risultante e non la fonte dei problemi in sé. Confondere causa ed effetto può portare a contraddizioni sulle valutazioni della natura delle statualità (ad esempio temere che la Cina abbia le stesse mire materiali degli Stati Uniti d’America, ignorando l’ideologia e il sistema produttivo dei rispettivi), ma non porta errori sull’analisi delle dinamiche tra Stati, specialmente se Stati che ancora non hanno raggiunto il socialismo (e anche qui, comunque, le contraddizioni del sistema internazionale si riversano ugualmente, costringendo i Paesi pacifici, socialisti, a ragionare in termini strategici speculari a quelli dei Paesi nemici, imperialisti, per via del dilemma della sicurezza ed altri fattori).
In quanto strumento di analisi scientifica, il realismo è dunque utile ai marxisti, usandolo chiaramente con fini propri. Così come i borghesi talassocratici usano la geopolitica realista, le flotte navali ed aeree, gli arsenali di armi convenzionali e non-convenzionali, la propaganda, i manager, ed altri strumenti, tra cui lo Stato nella sua interezza, così i marxisti dovrebbero fare altrettanto, non disdegnando un mezzo in quanto usato dalla borghesia.
L’Eurasiatismo è appunto una strategia realista basata su analisi realiste. Può assumere connotazioni più metafisiche a seconda dell’autore e del suo passato personale, ma di per sé rimane una strategia geopolitica materiale.
Ma per comprendere a fondo sul perché sia utile anche al marxismo, occorre parlare prima di tellurocrazia e talassocrazia.
Indipendenza scrive che gli eurasiatisti fanno propri «i riferimenti schmittiani alla distinzione tra popoli del mare talassocratici e popoli della terra tellurocratici rimandano a una concezione delle identità (fisse e derivanti da fattori sostanzialmente a-storici)».
Stupirà molti, forse anche Indipendenza, sapere che la dicotomia tra questi due Nomos9 (anche nominato “dualismo geopolitico”) sia stata sì proposta da Schmitt (sistematizzando comunque teorie a lui antecedenti, persino riconducibili a Platone), ma la parola “tellurocrazia” (Landmächt) non è stata usata da Schmitt né in Nomos delle terra, né in Terra e mare – che sono i due scritti più importanti sul tema –, mentre il termine “talassocrazia” (Seemächt), se si vuole essere pricisi, sta ad indicare un determinato impero: quello britannico.
Terminologicamente, Schmitt distingue tra popoli o Paesi talassici, e talassocrazie. Preferisco lasciare la spiegazione a Schmitt stesso, che in Terra e mare scrive:
«Questo differenzia gli inglesi del XVII secolo da tutti gli altri popoli navigatori, che sono rimasti nei mari interni, senza osare avventurarsi nell’oceano, per esempio gli antichi Greci – i quali, come dice Platone con una punta di malignità, se ne stavano sulla costa come tante rane – oppure i veneziani. Questi popoli rimasero talassici. Gli inglesi diventarono oceanici. A quel tempo, nell’epoca delle grandi scoperte europee, molti popoli di valore, e addirittura eccellenti, o non hanno affatto sentito la chiamata dell’oceano che si stava aprendo, o non l’hanno seguita, oppure l’hanno seguita ma alla fine sono rimasti per strada. Gli spagnoli conquistarono oltremare un intero continente, ma si sfiancarono in questa immane presa di possesso della terra; non diventarono un popolo di navigatori oceanici, restarono ancorati al suolo della loro tradizionale esistenza terranea. Altri popoli, come i portoghesi e in seguito gli olandesi, hanno seguito la chiamata degli oceani, ma la loro base era troppo angusta, e il distacco definitivo dal continente non è loro riuscito. Particolarmente tragica è poi la storia della Francia. Nessuno ha sentito meglio dei navigatori francesi la chiamata dei nuovi oceani, e nessuno l’ha seguita in modo più temerario. Tuttavia nel XVII secolo la Francia si è decisa per il cattolicesimo romano, cosa che a quel tempo significava: per il continente e la terraferma. Insomma, tutti gli scopritori europei si sono limitati ad appropriarsi di terra, mentre l’Inghilterra si è impadronita del mare. Solo l’Inghilterra ha osato il grande salto e compiuto il passaggio dalla terra al mare, dall’esistenza terranea a un’esistenza marittima.»
Vi è determinismo geografico dietro l’ascesa talassocratica dell’Inghilterra? Assolutamente no. Come già ampiamente detto fino ad ora.
«Ovviamente l’Inghilterra è un’isola. Ma con la constatazione di questo dato di fatto geografico non è ancor detto granché. Ci sono molte isole i cui destini politici sono molto diversi. Anche la Sicilia è un’isola, anche l’Irlanda, Cuba, il Madagascar e il Giappone. Quanti diversi e contrastanti sviluppi storico-mondiali si legano indubbiamente a questi pochi nomi che tutti contrassegnano un’isola! In un certo senso anche i più estesi continenti sono tutti solo isole e tutta la terra abitata è, come già sapevano i greci, circondata dall’oceano».
I lunghi passaggi che sono da citare purtroppo non si fermano qui. Schmitt spiega ampiamente le particolarità della talassocrazia, contraddistinta dalla tellurocrazia, e trovo dunque personalmente superfluo sintetizzare la sintesi scritta già dal giurista tedesco.
Partiamo con ordine. Come dice Indipendenza, vi sono sì «fattori a-storici» – in quanto la geografia, pressappoco immutabile, prescinde dalla storia –, ma innanzitutto va considerato il fatto che, come già spiegato citando il sovietico Anuchin e l’«involucro paesaggistico», la geografia può esser considerata immutabile ma i fattori geografici sono fattori storici (l’uomo viene condizionato dalla natura in misura diversa a seconda del proprio stadio di sviluppo); in secondo luogo, come afferma lo stesso Schmitt (d’altronde è allievo di Weber), vi sono molteplici fattori che influenzano la storia dei popoli, dalla cultura e la religione, al sistema politico-economico. L’isola britannica è appunto un’isola come il Giappone o la Sardegna e la Sicilia (seppur queste ultime due poste in un “mare chiuso”), eppure è andata diversamente per tutte le isole.
Scrive Schmitt riguardo i britannici: «Gli abitanti di quest’isola avevano anche la sensazione di una condizione insulare protetta. Ci sono tramandate dal medioevo belle poesie e versi nei quali l’Inghilterra viene cantata come una fortezza circondata dal mare, come da una trincea. Questa consapevolezza della propria condizione insulare ha trovato la sua espressione più famosa e più bella in Shakespeare: quest’altro Eden, semiparadiso, questa fortezza che si è costruita la natura / contro l’invasione e la guerra di sorpresa, questa viva matrice d’uomini, questo mondo in riassunto / questo raro gioiello incastonato in un mare d’argento che gli fa da cintura e come il fosso una casa la difende [Riccardo II, atto II, scena 1, v. 40 e sgg.]. Si capisce che gli Inglesi citino spesso questi versi e che in particolare l’espressione: «questo raro gioiello incastonato in un mare d’argento» sia diventata un detto proverbiale.»
Lo stesso si può dire del Giappone, che non a caso è stato salvato dalle orde mongole, grazie al “dio Raijin” e le sue tempeste (“kamikaze“) marittime che hanno spazzato via per ben due volte le flotte del grande Khan, sconfiggendo senza alcuna lama insanguinata o arco scoccato 4.000 navi da guerra con 140.000 uomini – tra l’altro il tentativo di sbarco navale più grande della storia se ignoriamo lo sbarco in Normandia.
La differenza tra potenza di terra e potenza di mare è fondamentale, specialmente se quest’ultima raggiunge uno stadio talassocratico.
«Per un modo di vedere puramente marittimo, la terraferma è semplicemente una costa, una spiaggia con un “retroterra”». La dicotomia mare-terra viene insomma ribaltata. Pur vivendo fisicamente fuori dall’acqua, il mondo viene capovolto, rigirato come un calzino, ponendo il mare al centro della propria esistenza (e lo stesso Platone parla di umanità che vive attorno a grandi stagni, come le rane). A questo punto è la terra ad esser posta attorno al mare: i confini sono il globo intero, le coste del mondo.
«Visto dall’alto del mare e da una esistenza marittima tutto un paese può essere perfino solamente semplice relitto e rifiuto del mare», come dice, anche qui, Platone, paragonando sotto molti aspetti città (poleis) e nave. «Un esempio per noi sorprendente, ma tipico di questo modo di vedere a partire dal mare, è un’affermazione di Edmund Burke che ha detto: la Spagna non è nient’altro che una balena arenatasi sulla costa d’Europa.»
Ma, come dicevamo, il primo Paese al mondo ad aver raggiunto a pieno una esistenza talassocratica è l’Inghilterra:
«Così l’Inghilterra divenne l’erede, l’erede universale di quel grande risveglio dei popoli europei. Come fu possibile? Ciò non può essere spiegato mediante raffronti generali con precedenti esempi storici di dominio marinaro, neppure tracciando paralleli con Atene o Cartagine, Roma, Bisanzio o Venezia. Qui siamo di fronte ad un caso nella sua natura unico. La sua specificità e incomparabilità consistono nel fatto che l’Inghilterra, in un momento storico e in un modo completamente diverso rispetto alle precedenti potenze marinare, ha compiuto una trasformazione elementare, ha veramente spostato la sua esistenza dalla terra all’elemento del mare. In tal modo non ha vinto solo molte battaglie sul mare e molte guerre ma qualcosa di completamente diverso e infinitamente superiore, e cioè ha compiuto una rivoluzione e, propriamente, una rivoluzione del tipo più grande, una planetaria rivoluzione spaziale.»
Compresa l’essenza della talassocrazia, passo successivo, ma non inevitabile, dello stadio talassico, occorre comprendere come tale differenza di Nomos si riversi nel (condizionare una) diversa psyche nel popolo, con quindi un diverso comportamento statuale e l’intraprendere di un corso storico particolare.
Una differenza fondamentale è dovuta, ovviamente, alla geografia materiale dei due elementi: terra e mare.
«La terra è detta nel linguaggio mitico la madre del diritto. Ciò allude a una triplice radice dei concetti di diritto e di giustizia. In primo luogo la terra fertile serba dentro di sé, nel proprio grembo fecondo, una misura interna. Infatti la fatica e il lavoro, la semina e la coltivazione che l’uomo dedica alla terra fertile vengono ricompensati con giustizia dalla terra mediante la crescita e il raccolto. Ogni contadino conosce l’intima proporzione di questa giustizia. In secondo luogo il terreno dissodato e coltivato dall’uomo mostra delle linee nette nelle quali si rendono evidenti determinate suddivisioni. Queste linee sono tracciate e scavate attraverso le delimitazioni dei campi, dei prati e dei boschi. (…) È in queste linee che si riconoscono le misure e le regole della coltivazione, in base alle quali si svolge il lavoro dell’uomo sulla terra. In terzo luogo, infine, la terra reca sul proprio saldo suolo recinzioni e delimitazioni, pietre di confine, mura, case e altri edifici [e, aggiungo io, a livello territoriale più ampio dai confini naturali, chiari e fissi, come i monti e i fiumi]. Qui divengono palesi gli ordinamenti e le localizzazioni della convivenza umana. Famiglia, stirpe, ceppo e ceto, tipi di proprietà e di vicinato, ma anche forme di potere e di dominio, si fanno qui pubblicamente visibili. Così la terra risulta legata al diritto in un triplice modo. Essa lo serba dentro di sé, come ricompensa del lavoro; lo mostra in sé, come confine netto; infine lo reca su di sé, quale contrassegno pubblico dell’ordinamento. Il diritto è terraneo e riferito alla terra. È quanto intende il poeta quando, parlando della terra universalmente giusta, la definisce justissima tellus.
Il mare invece non conosce un’unità così evidente di spazio e diritto, di ordinamento e localizzazione. È vero che anche le ricchezze del mare, pesci, perle e altro, vengono ricavate dall’uomo con un duro lavoro, ma non — come accade per i frutti della terra — secondo un’intima proporzione di semina e raccolto. Nel mare non è possibile seminare e neanche scavare linee nette. Le navi che solcano il mare non lasciano dietro di sé alcuna traccia. «Sulle onde tutto è onda». Il mare non ha carattere, nel significato originario del termine, che deriva dal greco charassein, scavare, incidere, imprimere. Il mare è libero. Questo significa, secondo il recente diritto internazionale, che il mare non costituisce un territorio statale e che esso deve restare aperto a tutti in modo eguale per tre ambiti tra loro molto diversi dell’attività umana, e cioè la pesca, la navigazione pacifica e la belligeranza. Così almeno si legge nei manuali di diritto internazionale. È facile immaginare cosa diventi in pratica questo eguale diritto alla libera utilizzazione del mare nel momento in cui si crea una collisione nello spazio, quando ad esempio il diritto alla libera pesca o il diritto di un neutrale alla navigazione pacifica si scontra con il diritto di una forte potenza marittima alla libera belligeranza. La medesima superficie di mare, egualmente libera per queste tre attività, dovrebbe allora diventare allo stesso tempo lo scenario e il campo d’azione sia di un lavoro pacifico, sia dell’attività bellica propria di una moderna guerra marittima. Allora il pacifico pescatore può pescare pacificamente proprio nel punto in cui la potenza marittima belligerante è libera di piazzare le sue mine, mentre il neutrale può navigare liberamente proprio là dove i belligeranti possono annientarsi reciprocamente con mine, sommergibili e aerei. Tutto ciò però riguarda già problemi tipici di una situazione moderna complessa. Originariamente, prima della fondazione di grandi imperi marittimi, il principio della libertà del mare sanciva qualcosa di molto semplice: cioè che il mare costituisce una zona libera, di libera preda. Qui il corsaro, il pirata, poteva svolgere il suo malvagio mestiere in buona coscienza. Se aveva fortuna, trovava in una ricca preda la ricompensa per la rischiosa impresa di essersi avventurato nel mare libero. Il termine pirata deriva dal greco peiran, che significa provare, tentare, osare. Nessuno degli eroi di Omero si sarebbe vergognato di essere figlio di un simile pirata che sfida con audacia la propria fortuna. In mare aperto non vi erano infatti né recinzioni né confini, né luoghi consacrati né localizzazione sacrale [sakrale Ortung], né diritto né proprietà. Molti popoli rimanevano sulle montagne, lontano dalle coste, senza perdere mai l’antico pio timore del mare. Virgilio profetizzò nella quarta egloga che nell’età felice che stava per giungere la navigazione non sarebbe più esistita. Anzi, in un testo sacro della nostra fede cristiana, l’Apocalisse di san Giovanni, leggiamo della nuova terra, purificata dal peccato, che su di essa non ci sarà più mare: ή θάλασσα ούκ έστιν ετι. Anche molti giuristi appartenenti a popoli di terra conoscono questo timore del mare. Esso si ritrova ancora in certi autori spagnoli e persino portoghesi del XVI secolo. Un famoso giurista e umanista italiano di questo periodo, Alciato, sostiene che la pirateria è un crimine con circostanze attenuanti. «Pirata minus delinquit, quia in mari delinquit». In mare non vale alcuna legge.»
In mare non ci si vive: in mare si commercia.
«In modo diverso, anche i concetti di mare libero, libero commercio e libera economia, con l’idea di uno spazio d’azione libero in quanto aperto alla libera concorrenza e alla libera preda, stanno a loro volta in una relazione storica e strutturale con tali concetti spaziali.»
E per il commercio, si fa guerra.
Un’altra differenza fondamentale è ad esempio il modo in cui si fa, appunto, la guerra, e ci si approccia con potenze straniere; e ciò si riversa inevitabilmente nel sistema giuridico, quindi nella filosofia.
«Guerra di terra e guerra di mare sono certo sempre state cose strategicamente e tatticamente diverse. Ma ora la loro opposizione diviene una espressione di mondi diversi e di opposte convinzioni giuridiche. Per la guerra di terra gli Stati del continente europeo svilupparono a partire dal XVI secolo determinate forme, alla base delle quali c’era l’idea che la guerra è una relazione tra Stati. Sui due fronti c’è la potenza militare statualmente organizzata e gli eserciti si scontrano in aperto campo di battaglia. Quali nemici si fronteggiano solo gli eserciti combattenti mentre la popolazione civile che non partecipa alla guerra, resta al di fuori delle ostilità. Essa non è un nemico e non viene trattata da nemico fintantoché non partecipa alla lotta». Questo per molteplici motivi: una guerra di terra viene fatta contro vicini con cui si dovrà convivere anche a guerra finita – salvo stermini di massa tellurici piuttosto rari nella storia, come quelli dei galli, dei pannoni o ovviamente l’olocausto nazista, fatta tuttavia con una “filosofia talassica” su cui c’è molto da dire –, oltre al fatto che una guerra di terra può esser motivata da diverse questioni: dal dilemma della sicurezza (temere il vicino, attaccandolo preventivamente per via di una corsa alle armi fatta a sua volta per timore dell’altro), all’ovvia necessità demografico-materiale per poter avere più risorse. E su ciò riparleremo quando si tratterà del Großraum.
Una potenza talassica, d’altro canto, attacca via mare esclusivamente per motivi economico-commerciali, e solo in secondo luogo eventualmente (anche) demografici – dovuti comunque sempre al privilegio economico in cui naviga la potenza.
«Alla base della guerra di mare sta invece l’idea che debbono essere colpiti il commercio e l’economia del nemico. Nemico è, in una guerra di questo tipo, non solo l’avversario combattente ma ogni cittadino dello Stato nemico e perfino anche quello neutrale che commercia col nemico e ha con lui relazioni economiche. La guerra di terra tende ad un aperto, decisivo, scontro campale. Nella guerra di mare si può naturalmente arrivare anche alla battaglia navale ma i suoi metodi e mezzi tipici sono il bombardamento e il blocco navale delle coste nemiche e la confisca, secondo il diritto di preda, del naviglio commerciale nemico e neutrale. Nell’essenza di questi tipici strumenti della guerra di mare c’è la spiegazione del fatto che essi sono rivolti tanto contro i combattenti quanto contro i non-combattenti. Un blocco degli approvvigionamenti, in particolare, colpisce indifferentemente gli abitanti di tutto il territorio sottoposto al blocco, soldati e popolazione civile, uomini e donne, vecchi e bambini. Dunque non si tratta solamente di due aspetti di un solo ordinamento giuridico internazionale, ma di due mondi molto diversi». Ricorda qualcosa?
«Ma come conseguenza della appropriazione inglese del mare tanto il popolo di questa nazione quanto quelli che sono nella scia delle sue idee ci hanno fatto l’abitudine. L’idea che una potenza di terra possa esercitare un potere mondiale che comprenda tutto il globo terrestre, è, secondo la loro visione del mondo, inaudita e insopportabile. Diverso è il caso di un potere mondiale costruito su una esistenza marittima separatasi dalla terra e abbracciarne tutti gli oceani del mondo. Una piccola isola al confine nord-occidentale d’Europa si era trasformata in centro di un impero mondiale distaccandosi dalla terraferma e decidendosi per il mare. In una esistenza completamente marittima essa trovò i mezzi di un dominio mondiale esteso su tutta la terra. Dopo che la separazione di terra e mare e il contrasto dei due elementi erano divenuti la legge fondamentale del pianeta, si levò su questa base una possente impalcatura di dottrine, princìpi dimostrativi e sistemi scientifici con i quali gli uomini si resero conto della saggezza e della ragionevolezza di questo stato di fatto senza tener d’occhio il dato originario dell’appropriazione inglese del mare e la sua determinatezza storica dell’economia politica. Famosi giuristi studiosi e filosofi elaborarono questi sistemi che alla maggior parte dei nostri bisavoli sembrarono molto convincenti. Essi non furono alla fine più in grado di concepire una diversa scienza economica e un altro diritto internazionale. In questo puoi intravvedere come il grande Leviatano abbia potere anche sullo spirito e l’animo umano. Questo è ciò che più sbalordisce del suo dominio.» [Terra e mare]
Ma ha ragione Indipendenza quando, approssimando la tesi del dualismo geopolitico, afferma che «La dicotomia della coppia Terra-Mare viene proiettata su una pluralità di fenomeni che spaziano a tutto campo dalla storia all’economia, dalla religione alla filosofia»?
In verità questa semplificazione di Schmitt la si può trovare solo in un passaggio particolare, che vuole verosimilmente ricalcare provocatoriamente la celebre massima di Marx ed Engels (a sua volta provocatoria) «La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi» [Manifesto], come per dire che la storia non è fatta solo di queste ma di tanti altri fattori, tra cui giustamente quelli geografici.
Il passaggio incriminato è il seguente, da Terra e Mare:
«La storia del mondo è una lotta continua tra potenze terrestri e potenze marinare [corsivo mio]. Pensi alla guerra trentennale tra Sparta e Atene che terminò con la vittoria della potenza terrestre di Sparta, o alla guerra ultracentenaria tra Roma e Cartagine, che ancora una volta finì con la vittoria di una potenza di terra Roma. O, infine, allo scontro che si protrasse per oltre 300 anni tra l’Inghilterra e gli Stati continentali d’Europa, in successione Spagna, Olanda, Francia e Germania, e che terminò con la vittoria della potenza marinara dell’Inghilterra. Così si presenta la storia del mondo. Un’importante opera storica dell’ammiraglio francese Castex è significativamente intitolata: II mare contro la terra, La mer contre la terre. — Questo è il libro di un ammiraglio. Così si presenta la storia del mondo agli ammiragli. Per gli ammiragli la storia del mondo è una storia di guerre di mare e di battaglie di mare. L’ammiraglio francese Castex, l’ammiraglio americano Mahan, l’ammiraglio tedesco Tirpitz.»
In Terra e mare, scritto dedicato e diretto a sua figlia Anna, Schmitt pone tutta l’opera in una forma di racconto, in particolare la seconda parte – il Dialogo sul nuovo spazio – in cui a dialogare sono principalmente Neumeyer ed Altmann, tesi ed antitesi, col primo che cerca appunto di convincere Altmann sul fatto che la dicotomia dialettica terra e mare abbia plasmato profondamente la storia dei conflitti e del progresso umano.
Viene da sé dunque l’estremizzazione della tesi che fa intendere che tutta la storia sia basata su questa dicotomia. Il Nomos della terra, scritto successivamente a Terra e mare, mette meglio in chiaro la questione.
Qui infatti scrive che «Tutti gli ordinamenti preglobali erano essenzialmente terranei, anche se comprendevano domini marittimi e talassocrazie. Il mondo originariamente terraneo venne trasformato nell’epoca delle scoperte geografiche, quando la terra fu per la prima volta compresa e misurata dalla coscienza globale dei popoli europei. Nacque con ciò il primo nomos della terra. Esso si fondava su un determinato rapporto tra l’ordinamento spaziale della terraferma e l’ordinamento spaziale del mare libero, e fu portatore, per quattrocento anni, di un diritto internazionale eurocentrico, lo jus publicum Europaeum. A quel tempo, nel XVI secolo, fu l’Inghilterra che osò muovere il primo passo da un’esistenza terranea a un’esistenza marittima. Un passo ulteriore venne compiuto con la Rivoluzione industriale, nel corso della quale la terra fu nuovamente compresa e misurata. È essenziale il fatto che la Rivoluzione industriale fosse partita dal paese che aveva portato a termine il passaggio a un’esistenza di tipo marittimo. È questo il punto che permette di avvicinarci al segreto del nuovo nomos della terra. Fino ad oggi un solo autore, Hegel, si era approssimato a questo arcanum; citiamo pertanto le sue parole al termine di questo corollario: «Come per il principio della vita familiare è condizione la terra e la salda proprietà fondiaria, così per l’industria è il mare l’elemento naturale che la vivifica e le dà impulso verso l’esterno». Questa citazione è estremamente significativa al fine di prognosi ulteriori. Ma prima di tutto dobbiamo prendere atto di una differenza elementare. Non è infatti la stessa cosa se la struttura di un mondo industrializzato e tecnicizzato, che l’uomo costruisce sulla terra con l’aiuto della tecnica, assuma quale propria base un’esistenza terranea o invece un’esistenza marittima. Oggi sembra d’altra parte già possibile pensare che l’aria divori il mare e forse persino la terra, e che gli uomini». Ma sull’aria torneremo poco più avanti, aprendo una parentesi che trovo necessaria.
Fin qui possiamo notare come secondo Schmitt la prima potenza assolutamente talassocratica, come già detto più volte, è stato l’impero britannico. Prima di essa e del colonialismo, tutte le potenze sono state essenzialmente telluriche10 ma – a seconda del periodo, del Paese ecc. – potevano avere più tendenze tellurocratiche (Egitto, Cina, India) o più tendenze talassiche (Cartagine, Russia di Pietro il grande).
Indipendenza scrive che «Nel merito perché tra i popoli del continente eurasiatico ve ne sono molti che storicamente hanno avuto una forte vocazione marinara e commerciale, basti pensare alla storia del Mediterraneo e all’epoca delle grandi scoperte, con buona pace del loro carattere presuntivamente «tellurocratico».»
Come vedremo l’Europa non è «tellurocratica», e come abbiamo visto, le potenze telluriche del passato potevano benissimo avere tendenze talassiche, ma non ancora definibili talassocratiche.
Oltre a ciò, tornando al passaggio di Schmitt; il Nomos, prima del colonialismo e l’egemonia marittima britannica, è stato sempre legato alla terra, e mai al mare. L’ordinamento giuridico è dunque stato sempre legato al suolo e le sue dinamiche, e non la liquidità e la “libertà” del mare. Ciò non vuol dire comunque che le potenze talassiche non tentassero, nel loro mare delimitato, di portare “ordine” (aleatorio) per poter commerciare:
«Solo con la nascita di grandi imperi marittimi o, secondo l’espressione greca, talassocrazie, anche in mare si stabilirono sicurezza e ordine. Coloro che turbavano l’ordine così stabilito decaddero allora al rango di comuni delinquenti. Il pirata venne dichiarato nemico del genere umano, hostis generis humani. Ciò significa che fu espulso e bandito dai sovrani degli imperi marittimi, privato di ogni diritto e proscritto senza tregua. Simili estensioni del diritto nello spazio del mare libero sono avvenimenti della storia universale di portata rivoluzionaria. Le definiremo occupazioni di mare. Gli Assiri, i Cretesi, i Greci, i Cartaginesi e i Romani nel Mediterraneo, gli Anseatici nel Mar Baltico, gli Inglesi su tutti i mari, hanno «occupato il mare» in questo modo. «The sea must be kept», il mare deve essere occupato, così si esprime un autore inglese [T.W. Fulton]. Ma le occupazioni di mare diventeranno possibili solo in uno stadio successivo dello sviluppo dei mezzi di potere a disposizione dell’uomo e della coscienza umana dello spazio. I grandi atti primordiali del diritto restano invece localizzazioni legate alla terra. Vale a dire: occupazioni di terra, fondazioni di città e fondazioni di colonie. In una definizione medioevale delle Etymologiae di Isidoro di Siviglia, ripresa nella prima parte del famoso Decretum Gratiani (attorno al 1150), è indicata con estrema concretezza l’essenza del diritto internazionale: «Jus gentium est sedium occupatio, aedificatio, munitio, bella, captivitates, servitutes, postliminia, foedera pacis, induciae, legatorum non violandorum religio, connubia inter alienigenas prohibita». Ciò significa letteralmente: il diritto internazionale è occupazione di terra, fondazione di città, fortificazione, guerre, prigionie, servitù, illibertà, ritorni dalla prigionia, alleanze e trattati di pace, armistizi, inviolabilità degli ambasciatori e divieti di contrarre matrimonio con stranieri. L’occupazione di terra compare al primo posto. Del mare non si fa menzione. Nel Corpus Juris Justiniani (ad esempio Dig., De verborum significatione, 118) si trovano definizioni simili, nelle quali si parla di guerre, di diversità tra popoli, di imperi e di confini, e soprattutto del commercio e del traffico (commercium) quale essenza del diritto internazionale».
Ma il passaggio più chiaro che smonta la semplificazione della dicotomia terra e mare (reputata come unica, universale e nata dall’antichità) è il seguente, preso sempre dal Nomos della terra:
«I grandi complessi di potere politico che sorsero in Oriente e in Occidente, nelle aree delle grandi Civiltà del mondo antico e del Medioevo, rappresentavano o una cultura puramente continentale, o fluviale (potamica), o, tutt’al più, la cultura di un mare interno (talassica). Quindi il nomos del loro ordinamento spaziale non era determinato dall’opposizione di terra e mare quali elementi relativi a due ordinamenti diversi, come nel diritto internazionale fino ad oggi vigente, e tanto meno dal superamento di tale opposizione. Il discorso vale sia per gli imperi est-asiatici e indiani, sia per quelli dell’Oriente fino alla loro nuova conformazione nell’IsIam; vale per l’impero di Alessandro Magno, per gli imperi romano e bizantino, per quello franco di Carlo Magno e per l’impero romano dei re germanici del Medioevo, come pure per tutte le relazioni intercorrenti tra questi imperi. Quanto poi al diritto feudale del Medioevo europeo, esso era diritto territoriale nel senso di un ordinamento puramente terraneo, che ignorava il mare. Le assegnazioni pontificie di nuovi territori di missione distribuivano gli spazi di terra e di mare in modo indifferentemente eguale. I papi avanzavano pretese su tutte le isole (Sicilia, Sardegna, Corsica, Inghilterra), ma nel far ciò si richiamavano alla presunta donazione di Costantino, e non già ad una ripartizione della terra [Erde] in terraferma [Land] e mare. L’opposizione tra terraferma e mare intesa come opposizione tra ordinamenti spaziali diversi è un fenomeno dell’età moderna. Essa domina la struttura del diritto internazionale europeo solo a partire dai secoli XVII e XVIII, cioè solo dopo che gli oceani si erano spalancati e si era formata la prima immagine globale della terra.»
Tornando alla profonda differenza tra potenza di mare e di terra. La filosofia di un popolo, come quello inglese, non viene chiaramente solo condizionata dall’inevitabile influenza giuridica marittima della guerra e della pace, ma anche dal mare stesso, nella sua essenza.
La terra è fissa, variegata nelle sue forme, limitata con i suoi limes naturali, e ricompensa – salvo dispetti della natura – circa proporzionatamente a come la si lavora. Banalmente l’allevatore e l’agricoltore crescono insieme al proprio bestiame e il proprio raccolto.
Il mare è l’opposto; liquido, piatto, con l’orizzonte sconfinato; occorre fatica per esser ricompensati, ma il guadagno è basato sulla fortuna. Banalmente il pescatore è completamente alienato da ciò che pesca.
E queste non sono sciocchezze che non cambiano nulla nella psyche umana.
Schmitt, allievo di Weber, ha sì individuato nella talassocrazia una tendenza bellicista e criminale a livello internazionale impossibile da ignorare, ma ha timidamente trovato, a livello sociologico, una correlazione (così come altri prima di lui, come Platone) tra “mare” e spirito liquido, corruzione e ciò che storicamente questo ha portato – ad esempio, il protestantesimo e le sue numerose degenerazioni.
Colui che ha davvero sistematizzato questa correlazione tra mare e nichilismo, relativismo e progressivo, e tra terra e tradizione, è stato il russo Aleksander Dugin, principale teorico del (neo-)eurasiatismo.
Savitskij ebbe sì l’accortezza di identificare nella Chiesa ortodossa un pilastro necessario della Civiltà russa, ma Dugin (che, tra parentesi, è un vecchio credente e non un ortodosso canonico) va oltre, allargando la prospettiva allo spirito della tradizione in sé, sia essa laica come il confucianesimo, o teologica come il cristianesimo e l’islam – pilastri spirituali e filosofici volti a stabilire – per usare termini confuciani – un rito per le rispettive Civiltà, telluriche e dunque storicamente e necessariamente comunitarie.
Ma prima di arrivare alla strategia eurasiatista occorre fare un ultimo chiarimento, e cioè parlare della contrapposizione tra Eurasia ed Europa e Atlantico.
Ciò, come detto più volte, si riversa sul lato bellico ed umano. Nel Nomos della terra, Schmitt scrive:
«Naturalmente, se noi osserviamo la terra dal nostro attuale orizzonte, essa ha sempre avuto una qualche suddivisione, anche se gli uomini non ne erano consapevoli. Ma ciò non era un ordinamento spaziale della terra nella sua totalità, un nomos della terra nel significato vero e proprio dei termini nomos e terra. Molteplici grandi complessi di potere – regni egizi, asiatici ed ellenistici, l’impero romano, forse anche regni negri dell’Africa e regni inca in America – non furono affatto entità irrelate e isolate; ma le loro relazioni reciproche mancavano di globalità. Ognuno di questi regni considerava se stesso come il mondo, o perlomeno come la terra abitata dall’uomo, il centro del mondo, il kosmos, la casa, e considerava la parte della terra situata al di fuori di questo mondo, quando non minacciosa, affatto priva di interesse o quale strana curiosità; quando invece minacciosa, come un caos malvagio, ma in ogni caso come uno spazio aperto, “libero” e senza padroni, disponibile per conquiste, acquisizioni di territorio e colonizzazioni. Ora, le cose non stanno certo come si sosteneva nei manuali del XIX secolo e, in riferimento ai Romani stessi, come è affermato dal celebre storico del mondo romano Theodor Mommsen, ovvero che i popoli antichi avessero vissuto in una «naturale» inimicizia gli uni con gli altri, che ogni straniero fosse un nemico, che ogni guerra fosse una guerra per l’annientamento reciproco, e che tutti i paesi stranieri non alleati fossero considerati nemici fino alla conclusione di un patto espresso d’amicizia, poiché a quel tempo non esisteva ancora un diritto internazionale nel senso moderno, umano e civile del termine. Queste affermazioni si spiegano tenendo conto della presunzione del XIX secolo e delle sue illusioni civilizzatrici, la cui inconsistenza ha trovato poi verifica con le guerre mondiali del XX secolo.»
Le potenze telluriche, insomma, tendono ad evitare «l’annientamento reciproco» e di conseguenza è difficile che si adotti una retorica fortemente ideologizzata ed incentrata sulla lotta al nemico – sia essa razziale o puramente ideologica come la lotta giusta umanitario-liberale –; anzi tendono ad avere una retorica unificatrice che vuole dipingere l’avversario come parte della propria sfera di Civiltà (e su questo punto torneremo).
Come avevo precedentemente accennato, vi è anche un dominio aereo nato nell’ultimo secolo, che modifica profondamente, di nuovo, i rapporti di forza geopolitici mondiali. Schmitt con lungimiranza scrive:
«Oggi non è più possibile mantenere le tradizionali rappresentazioni dello spazio e pensare lo spazio aereo come una semplice pertinenza o come un accessorio della terra o del mare. Ciò sarebbe, in modo veramente ingenuo, un pensare guardando dal basso verso l’alto. Sarebbe la prospettiva di un osservatore che dalla superficie della terra o del mare alzasse lo sguardo in aria e, a capo in su, guardasse fisso dal basso in alto, mentre il bombardiere, sorvolando velocemente lo spazio aereo, portasse a compimento — dall’alto verso il basso — la sua terribile azione. Malgrado le altre diversità esistenti tra la guerra terrestre e la guerra marittima, rimaneva comune ad entrambe il medesimo piano, e la lotta si svolgeva anche dal punto di vista spaziale nella stessa dimensione in cui, sulla medesima superficie, i combattenti si fronteggiavano. Invece lo spazio aereo diventa una dimensione propria, uno spazio proprio, che non si rapporta alle due superfici separate della terra e del mare, ma che trascura la loro separazione e già per questa ragione si differenzia essenzialmente in quanto tale, nella propria struttura, dagli spazi di superficie caratteristici degli altri due tipi di guerra. L’orizzonte della guerra aerea è diverso da quello della guerra terrestre o marittima; ci si deve addirittura domandare in quale misura si possa parlare ancora di orizzonte a proposito della guerra aerea. Il mutamento strutturale è tanto maggiore quanto più entrambe le superfici della terra e del mare soggiacciono indistintamente all’azione dall’alto verso il basso proveniente, nella guerra aerea, dallo spazio aereo. Ma l’uomo che si trova sulla superficie di terraferma sta in rapporto con gli aerei che agiscono su di lui dall’alto più come un mollusco in fondo al mare rispetto alle imbarcazioni che si muovono sulla superficie marina che non invece come rispetto a un suo simile.»
È l’oggettificazione, l’alienazione, la sistematizzazione più assoluta della guerra. Soprattutto ora che la guerra aerea, come sappiamo, è fatta soprattutto di missili e di droni.
«La guerra aerea autonoma elimina il nesso tra il potere che usa la forza e la popolazione che dalla forza è colpita in grado assai più alto di quanto avvenga nel caso di un blocco nel corso della guerra marittima. Nel bombardamento aereo la mancanza di relazioni tra il belligerante e il territorio, congiuntamente alla popolazione nemica che in esso si trova, diventa assoluta; qui non è rimasta nemmeno più l’ombra della connessione tra protezione e obbedienza. Nella guerra aerea autonoma manca, tanto per l’una quanto per l’altra parte, la possibilità di ristabilire questa connessione. L’aereo arriva volando e getta le sue bombe, oppure attacca scendendo a volo radente e quindi riprende quota: in entrambi i casi adempie alla sua funzione di annientamento e abbandona quindi immediatamente al suo destino (vale a dire: alle sue autorità statali) il territorio bombardato, con le persone e le cose che vi si trovano. La considerazione della connessione esistente tra protezione e obbedienza, esattamente come quella del rapporto tra tipo di guerra e preda, mostra l’assoluto disorientamento spaziale e il carattere di puro annientamento della moderna guerra aerea.»
Ciò non si ferma, come abbiamo visto già con le analisi belliche di Engels, sul plasmare le nuove dinamiche dei conflitti locali, particolari, ma anche sul Nomos, l’ordinamento giuridico internazionale e la psyche dei popoli. Schmitt infatti precisa: «Mi si obietterà che in questo tipo di guerra aerea è in gioco soltanto un problema di natura tecnica e precisamente quello delle armi a lunga gittata. È esatto. Ma proprio questo suggerimento conduce ad un’importante connessione ulteriore con il problema giuridico-internazionale della guerra. Infatti la limitazione dei mezzi di annientamento e la limitazione della guerra riguardano in terzo luogo — oltre che il diritto di preda e il rapporto con la popolazione colpita dalla guerra — anche la questione della guerra giusta. Tale questione presenta due diversi aspetti: quello del nemico giuridicamente riconosciuto, distinto dal criminale e dal bruto, cioè dello justus hostis, e quello della giusta causa, la justa causa. Entrambi gli aspetti della questione sono in collegamento specifico con il tipo delle armi. Se le armi sono in modo evidente impari, allora cade il concetto di guerra reciproca, le cui parti si situano sullo stesso piano. È infatti proprio di tale tipo di guerra il fatto che si dia una certa determinata chance, un minimo di possibilità di vittoria. Se questa viene meno, l’avversario diventa soltanto oggetto di coazione. Si acuisce allora in misura corrispondente il contrasto tra le parti in lotta. Chi è in stato di inferiorità sposterà la distinzione tra potere e diritto negli spazi del bellum intestinum. Chi è superiore vedrà invece nella propria superiorità sul piano delle armi una prova della sua justa causa e dichiarerà il nemico criminale, dal momento che il concetto di justus hostis non è più realizzabile. La discriminazione del nemico quale criminale e la contemporanea implicazione della justa causa vanno di pari passo con il potenziamento dei mezzi di annientamento e con lo sradicamento spaziale del teatro di guerra. Il potenziamento dei mezzi tecnici di annientamento spalanca l’abisso di una discriminazione giuridica e morale altrettanto distruttiva. Il giurista americano di diritto internazionale James Brown Scott voleva vedere nella moderna svolta verso il concetto di guerra discriminante un ritorno alle dottrine teologiche cristiane della guerra giusta. Ma le tendenze moderne non portano in sé alcuna resurrezione di dottrine cristiane, bensì sono un fenomeno ideologico concomitante nato con lo sviluppo tecnicoindustriale dei mezzi di annientamento moderni.»
Se già la talassocrazia, la guerra marittima è distaccata dall’umanità, con le sue meschine pratiche di sanzione e guerre di sterminio, la guerra aerea macabramente la supera.
«Nella misura in cui oggi la guerra viene trasformata in azione di polizia contro turbatori della pace, criminali ed elementi nocivi, deve anche essere potenziata la giustificazione dei metodi di questo police bombing. Si è così costretti a spingere la discriminazione dell’avversario in dimensioni abissali. Per un solo aspetto le tesi medioevali della guerra giusta possono essere ancor oggi considerate d’attualità immediata. Abbiamo già parlato del divieto medioevale delle armi a distanza che il secondo Concilio Lateranense pronunciò nel 1139 per le guerre tra principi e popoli cristiani. Il fatto che il divieto fosse limitato alle guerre tra cristiani mostrava che le armi a distanza continuavano a essere ammesse nella lotta contro il nemico ingiusto, nella quale erano ovviamente usate, poiché la guerra contro un simile tipo di nemico era di per se stessa una guerra giusta. Ma anche nella lotta tra cristiani si affermò ben presto il nesso tra armi a distanza e guerra giusta. Infatti la Glossa interpretò il divieto della Chiesa anche in riferimento alla lotta tra cristiani nel senso che esso valeva solo per la parte ingiusta, mentre non si poteva vietare a chi era dalla parte del diritto di servirsi — nella sua lotta contro il torto — di qualsiasi mezzo efficace. Ciò sembra di fatto inconfutabile e fa riconoscere un nesso essenziale: un nesso che giustifica la nostra decisione di riproporre in chiusura questo esempio tratto dal Medioevo, cui avevamo già rinviato (pp. 164 sg.).»
Ma andiamo ora sul lato materiale, applicando le categorie ideali di terra e mare sul mondo reale.
b) Atlantico ed Europa contro Eurasia – Oceano e Rimland contro Heartland
Indipendenza scrive erroneamente che «L’Europa e/o l’Eurasia sarebbero associate al cosiddetto «nomos della Terra», nell’ambito della distinzione introdotta da Schmitt tra i cosiddetti popoli della Terra («tellurocratici»: es. Roma, potenza continentale) ed i cosiddetti popoli del Mare («talassocratici»: es. Cartagine, Inghilterra, USA, potenze marittime). La dicotomia della coppia Terra-Mare viene quindi proiettata su una pluralità di fenomeni che spaziano a tutto campo dalla storia all’economia, dalla religione alla filosofia. Riallacciandosi alla dottrina dei «grandi spazi» [Großraum] di Schmitt, l’idea di partenza e di fondo spesso richiamata è quella dell’antitesi, «culturale» e «psichica» prima ancora che «(geo)politica», tra Behemot, il titano della Terra, e Leviathan, il gigante del Mare.
Tra tutte è la metafora della Roma tellurocratica contro la Cartagine marittima a prevalere: fonti del diritto e portatori dell’ordine i primi, fonti della dissoluzione e dell’individualismo capitalista i secondi; guerrieri i primi, mercanti i secondi.»
Una iper-semplificazione del dualismo geopolitico – tra l’altro etichettando erroneamente certe entità storico-geografiche come tellurocratiche o talassocratiche –, che continua:
«Metafora discutibile, peraltro: entrambe [Roma e Cartagine] sul mare, entrambe proiettate all’egemonia nel Mediterraneo. Roma estenderà il suo Impero a partire dal controllo del Mediterraneo e di tutta la cintura terrestre dello stesso». Indipendenza rincara la dose affermando addirittura che «Non sfugge il carattere intimamente razzista di queste teorie, basate sull’idea che le identità culturali dei popoli siano non un fenomeno storico, bensì un carattere fisso e geneticamente ereditario. Una distinzione che, come facile intuire, è criticabile sia nel metodo che nel merito. Nel metodo perché attribuisce caratteri fissi, immutabili e a-storici alle identità e alle culture dei popoli, le quali sono invece il risultato di processi storici e il frutto di continui mutamenti, scambi, contaminazioni, integrazioni, stratificazioni. Nel merito perché tra i popoli del continente eurasiatico ve ne sono molti che storicamente hanno avuto una forte vocazione marinara e commerciale, basti pensare alla storia del Mediterraneo e all’epoca delle grandi scoperte, con buona pace del loro carattere presuntivamente «tellurocratico».»
Partendo con ordine, il subcontinente europeo non è associato al «cosiddetto Nomos della terra», soprattutto se parliamo delle tesi eurasiatiste. L’Eurasia d’altro canto – se intesa in senso stretto, come dice Savitskij – è per sua natura geografica tendente al “tellurico”.
Smentendo di nuovo la tesi di Indipendenza (e condivisa dalla maggioranza assoluta dei marxisti occidentali) secondo cui il dualismo geopolitico porti a ragionamenti «a-storici», «fissi» e determinati, dunque «intimamente razzisti», basti pensare che nella storia delineata da Carl Schmitt, l’Europa e i suoi vari popoli hanno avuto varie tendenze e periodi in cui il pendolo è oscillato, portando certe potenze a tendenze telluriche, ed altre a tendenze talassiche. La stessa Indipendenza cita Cartagine – non è forse parte del continente asiatico (e con le sue colonie, africano e persino europeo)?
L’Europa, come ricorda Schmitt, ha sì avuto, oltre un primo periodo tellurico essendo noi esseri di terra ferma, un periodo di pace tellurica interna – lo “jus publicum europaeum” – che va sostanzialmente dall’inizio delle avventure coloniali e formalmente dalla pace di Westfalia, alle sostanziali guerre napoleoniche o il formale Congresso di Vienna, che porterà tale parentesi di “pace” a scemare fino al predominio degli Stati uniti d’America a seguito dei grandi conflitti del ‘900.
Affinché una potenza possa fiondarsi in avventure marittime, è preferibile infatti che non vi siano conflitti tellurici in corso; che vi sia dunque un’alleanza – formale o informale che sia – che porti pace interna, al netto poi dei conflitti e la resa dei conti all’esterno (e la Nato, insieme all’UE, è un esempio moderno di tale prassi). Per questo le isole, che sono naturalmente difese da tutti i lati e che in genere hanno dimensioni che tendono al nazionale, sono facilitate a questo slancio; e per questo il subcontinente europeo, per potersi fiondare nell’avventurismo oceanico, ha dovuto formare una struttura internazionale (o meglio subcontinentale) volta alla pace interna, sfogando i conflitti nei territori coloniali evitando la distruzione reciproca in Europa. Date le dimensioni oceaniche delle acque di questo pianeta, inoltre, le potenze che raggiungono per prime il mare sono fortemente avvantaggiate nella proiezione di potenza esterna. Gli inglesi, così come gli iberici o i francesi, potevano tranquillamente invadere e occupare terre d’oltremare senza temere che irochesi, aztechi o indiani attaccassero specularmente i loro territori – cosa diversa sarebbe per la Cina attaccare via terra Lisbona (come?). È chiaro lo svantaggio dovuto dalle capacità marittime dei Paesi occidentali. È chiaro inoltre che per avere tali capacità marittime, occorre avere esperienze marittime e la necessità, il pensiero di dover navigare, oltre ad avere una capacità di misura (μέτρον) che comprenda il mare.
Perché l’Europa ha un’indole predisposta al bellicismo e favorita al dominio dei mari? (A differenza di ciò che dice Indipendenza individuando erroneamente nel subcontinente europeo una potenza tellurica).
Savitskij, padre dell’eurasiatismo, lo spiega nel migliore dei modi, nei Fondamenti. Tutte le guerre europee sono dovute (in parte) proprio al fatto di essere appunto europee. Si pensi che delle 12.703 battaglie degli ultimi 4.500 anni approssimativamente (sottolineo, approssimativamente) categorizzate da Wikipedia, quasi la metà sono riconducibili agli europei [NodeGoat, Georgaphy of violence]. L’Europa è la penisola talassocratica per eccellenza. Ci sono Paesi più tendenti, o potenzialmente tali, al mondo tellurico di altri, come appunto la Germania, ma per il resto Spagna, Portogallo, Francia, Olanda e Impero britannico sono state le maggiori potenze marittime della storia, e difficilmente sarebbe potuto essere altrimenti. I Paesi che possono facilmente oscillare tra le due tendenze, dovute alla loro geografia connessa al continente e slanciata verso il mare, sono definibili anche come “bicefali”.
Come scrisse Savitskij, «In Occidente, in termini di contorni geografici, si trova il più ricco sviluppo di coste, l’assottigliamento del continente in una penisola, un’isola; mentre in Oriente c’è una massa solida, continentale, il cui unico scollamento si trova verso le coste marine. Dal punto di vista orografico, l’Occidente è costituito da una disposizione molto complessa di montagne, colline e pianure, mentre l’Oriente ospita enormi pianure la cui sola periferia è delimitata da montagne. Dal punto di vista climatico, l’Occidente ha un clima marittimo con una differenza relativamente piccola tra inverno ed estate. A est, questa differenza è nettamente pronunciata con estati calde, inverni rigidi e così via.» E qui si rileva una certa somiglianza con ciò che ha scritto di sfuggita Marx nel Capitale, secondo cui era quasi “scontato” che il capitale si formasse nella temperata e ricca di risorse Europa, rispetto a Paesi con climi tropicali – ma questa prosperità porta allo stesso tempo conflitti, in quanto una costa frastagliata e favorevole allo sviluppo porta rapidamente a numerose comunità con la necessità di espandersi a costo appunto delle altre comunità.
E per costa frastagliata, intendiamo seriamente frastagliata. Parlando di dati concreti, la costa dell’Europa, tralasciando le isole britanniche, l’Islanda e “la Russia europea”, è di 97.300 km circa. La Russia intera ammonta a 37.653 km. L’Asia continentale intera, comprendendo la Russia al di là degli Urali, è di 62.800 km. L’Africa, 30.500 km. Eppure l’Europa è il (sub)continente più piccolo dell’Isola-mondo.
D’altro canto, scrive Savitskij, «La natura del mondo eurasiatico è minimamente favorevole a qualsiasi tipo di “separatismo”, sia esso politico, culturale o economico. La specifica struttura “a mosaico-frazionario” dell’Europa e dell’Asia facilita l’apparizione di mondi piccoli, confinati e isolati, che offrono i presupposti materiali per l’esistenza di piccoli Stati, di modalità culturali specifiche di una città o di una provincia e di regioni economiche che possiedono una grande diversità economica in uno spazio ristretto.»
Il processo di unificazione (quella che Thiriart chiama positivisticamente “legge della progressione spaziale”, «dalle città-Stato attraverso i territori-Stato fino ai continenti-Stato» – che è chiaramente una tendenza; lasciamo le “leggi” alla fisica) in questi territori che favoriscono il bellicismo è molto più limitato spazialmente, rispetto ai territori continentali prettamente tellurici. Non a caso gli Stati-Nazione, dalle dimensioni tra l’altro così ridotte (ma molto popolati e densi in rapporto alla loro spazialità) sono una particolarità europea presente in certi limiti nel sud-est asiatico – altro subcontinente piuttosto frastagliato e dall’alta densità abitativa. L’Asia continentale ha attualmente un maggior numero di statualità para-nazionali solo per via dell’intervento bolscevico – in particolare di Lenin, che aveva sulla questione una visione occidentalista come Trotsky –, che ha frammentato forzatamente il Turkestan (o Turan) e la Russia stessa, disegnando confini di “nazioni” che non si consideravano tali, ma che agli occhi della perversa categorizzazione europea lo sono.
L’Asia, come detto, è poco simile al contesto europeo giusto lungo il cosiddetto Rimland – ad esempio il già citato sud-est asiatico dove i Paesi sono “più piccoli” (comunque sproporzionatamente grandi rispetto ai Paesi europei) rispetto alle Civiltà vicine (Cina, India Persia, Turan), o le zone frastagliate più a nord, da dove sono sorte Corea e Giappone.
L’Eurasia per via della sua geografia ha costretto interi popoli a unirsi per sopravvivere. Le invasioni mongole sono viste dai russi (a parte gli occidentalisti) come unificatrici, e non come invasioni barbariche – come sono invece percepite da “noi europei”. Ciò avviene per ogni espansione tellurica che si slancia sull’orizzontalità eurasiatica, già a partire da Alessandro Magno (la cui statualità non sopravvisse i suoi tempi biologici, non essendo riuscito a consolidare la struttura culturale e spirituale di una Civiltà macedone-indoariana).
Ma sulla differenza fondamentale tra Civiltà e Nazione, l’una unificatrice e l’altra inevitabilmente eccezionalista, torneremo di seguito.
Riprendiamo Indipendenza, che scrive che «Tra tutte è la metafora della Roma tellurocratica contro la Cartagine marittima a prevalere: fonti del diritto e portatori dell’ordine i primi, fonti della dissoluzione e dell’individualismo capitalista i secondi; guerrieri i primi, mercanti i secondi».
Aggiungendo: «Metafora discutibile, peraltro: entrambe [Roma e Cartagine] sul mare, entrambe proiettate all’egemonia nel Mediterraneo. Roma estenderà il suo Impero a partire dal controllo del Mediterraneo e di tutta la cintura terrestre dello stesso».
Schmitt d’altro canto non scrive proprio così.
«Il mondo dell’antichità greca nacque da viaggi e da guerre di popoli marinari. Non a caso li allevò il dio del mare. Una potenza marinara che dominava sull’isola di Creta scacciò i pirati dal settore orientale del Mediterraneo e diede vita ad una civiltà il cui inspiegabile fascino ci è apparso grazie agli scavi di Cnosso. Un millennio più tardi, la libera città di Atene si difese nella battaglia sul mare presso Salamina (480 a.C.) dal suo nemico, il persiano che molto domina, dietro le mura di legno, cioè sulle navi e, grazie a questa battaglia sul mare, si salvò. La sua potenza venne sconfitta nella guerra del Peloponneso dalla potenza terrestre di Sparta che, però, in quanto potenza terrestre non fu in grado di unificare le città e le stirpi elleniche e di guidare un impero greco. Roma, invece, che in origine era una repubblica italica di contadini e una pura potenza terrestre, nella lotta contro la potenza marinara e commerciale di Cartagine si elevò ad impero. La storia romana, tanto in generale quanto in particolare, anche in questo capitolo della lunga lotta contro Cartagine, è stata spesso comparata con altre situazioni e conflitti storico-mondiali. Simili raffronti e paralleli possono essere molto istruttivi ma spesso portano anche a curiose contraddizioni. L’impero mondiale inglese, ad esempio, viene paragonato ora con Cartagine ora invece con Roma. Simili raffronti sono il più delle volte come un bastone con due estremità che può essere afferrato da entrambi i lati e capovolto.» [Nomos della terra]
Su Roma e Cartagine han scritto in diversi, tra cui anche Carlo Terracciano, che nei suoi scritti di geopolitica ha spiegato bene le dinamiche dei mari chiusi, come lo è il Mediterraneo. Identificare Roma con la tellurocrazia e Cartagine con la talassocrazia è una semplificazione che schematicamente può esser accettata, ma che nei fatti nessuno ha osato metterla su un tale piano se non retoricamenre e metaforicamente, in modo da riecheggiare parallelismi storici risalenti all’antichità11 – che in genere alla popolazione piace. Roma, per via della natura peninsulare dell’Italia, è stata geopoliticamente bicefala. Nata in un contesto tellurico (come tutti d’altronde), ha avuto una parentesi tendente al talassico, al marittimo, nel periodo in cui si espanse, compreso il periodo delle guerre puniche. La flotta romana fu anche capace di sconfiggere la storica potenza dei greci. Roma diviene totalmente tellurica dal momento in cui il Mediterraneo diviene un mare chiuso nella propria prospettiva, cioè dal momento in cui non vi era più alcun Paese confinante lungo le coste. A tal punto il mare diviene, di fatto, un lago interno (o uno stagno, per dirla con Platone).
Nel pieno del passaggio da quel passato tellurico, rurale, alla nuova era marittima e mercantile della Grecia – che corrisponde anche a quello smembramento della Comunità e l’alba della schiavitù di cui parla Preve – Platone scrive Repubblica e Politico. Giovanni Casertano riassume egregiamente come «il rapporto di Platone col mare è molto complesso. (…) Si potrebbe parlare di un atteggiamento “retrogrado”, di chiusura verso le novità e i cambiamenti che necessariamente seguono al commercio marittimo e all’incontro quindi tra usi e costumi diversi dal proprio, un atteggiamento misto a una certa “nostalgia” per il mondo antico, agricolo, semplice e non corrotto [corsivo mio]». «D’altra parte», seguendo un pensiero dialettico, «c’è il riconoscimento della necessità, dovuta all’aumento della popolazione nella città, con il conseguente aumento dei bisogni, primari e secondari, del commercio via mare. E questa necessità ne comporta un’altra, la formazione di tecnici della navigazione in grado di svolgere bene questa nuova attività.» [“Platone e il mare“]
Saltiamo di diversi secoli la storia, ma analizziamo rapidamente sul lato geostrategico.
Perché l’Heartland eurasiatico è fondamentale per le talassocrazie, ed altrettanto fondamentale unirlo per sconfiggere le stesse talassocrazie?
Fino a Mackinder, le potenze europee hanno sempre agito seguendo una strategia basata sulle contingenze del tempo. La tendenza è stata chiara: espandersi verso est; e la motivazione è altrettanto chiara: lì si sviluppa la steppa e la pianura eurasiatica, enorme ma con bassa densità abitativa (e col tempo, si è scoperto, piena di risorse), ed è dunque ovvio che regni, imperi e statualità come quella svedese, polacco-lituana e poi tedesca abbiano preferito puntare la propria proiezione di potenza e conquista verso i territori apparentemente più facili da conquistare per via della loro natura desertica, ancora vergini da uno sviluppo caratteristico europeo.
Il punto di svolta è con Mackinder, con cui nasce la geostrategia, dunque a lungo termine e dalle dimensioni continentali, della talassocrazia britannica – testimone poi preso dall’impero nordamericano, che ne ha ereditato acriticamente gli obiettivi.
Lo stratega britannico Mackinder individua infatti un Heartland, un’immensa fortezza naturale il cui controllo è indispensabile per controllare ed evitare che si unisca il continente eurasiatico. Così come la pianura padana secondo Engels serviva per controllare l’Italia, così la grande pianura dell’Heartland è necessaria per isolare reciprocamente Europa ed Asia. Il continente eurasiatico assieme all’Africa, a sua volta, è denominato «Isola-mondo»: è l'”isola” principale del nostro pianeta per via della sua massa continentale maggiore a tutti gli altri continenti. Tutti questi sono infatti posti attorno all’isola-mondo, come tanti arcipelaghi in relazione ad essa.
Gerry Kearns in Geopolitics and Empire riassume:
«Mackinder suggerì che l'”Heartland” per un’emergente potenza terrestre globale poteva essere ancorato all’enorme collezione di risorse naturali nella Russia occidentale e nei suoi dintorni, da dove si sarebbe potuta stabilire la sovranità su vaste regioni che si estendevano verso est attraverso le steppe e le foreste dell’Eurasia. Da questo Heartland si sarebbe potuto dominare l’intera “Isola del Mondo” (Europa continentale, Asia e Africa) e realizzare l’Impero Mondiale. Egli aveva il coraggio di dare al cuore della sua dottrina una chiarezza urgente: «Chi governa l’Europa orientale comanda l’Heartland: chi governa l’Heartland comanda l’Isola-Mondo: chi governa l’Isola-Mondo comanda il Mondo» [frase pronunciata da Mackinder in Ideali democratici e realtà].»
Nonostante gran parte dei geopolitici identifichino Ratzel e/o Kjéllen come padri della geopolitica, Dugin riconosce che il padre effettivo sia Mackinder – più giovane di Ratzel e contemporaneo di Kjéllen – in quanto è con Mackinder che nasce la geostrategia. Da Ratzel a Mackinder, la geopolitica si è sempre limitata all’analisi del passato e del presente, studiando popoli e statualità. Da Mackinder in poi, la geografia viene usata per disegnare le strategie globali di ogni superpotenza. Dugin infatti scrive: «il padre della geopolitica rimane Mackinder, il cui modello fondamentale è stato alla base di tutti gli studi geopolitici successivi» [Fondamenti di geopolitica] .
Chiaramente Mackinder è stato più un “patrigno” che un “padre”. La sua strategia si basava sull’occupazione dell’Heartland in modo diretto o indiretto da parte britannica, dovendo necessariamente smembrare la statualità che la occupa – cioè la Russia – per via del suo enorme potenziale dovuto alla vastità geografica, che funge anche da fortezza, e soprattutto delle ricche e numerose risorse nascoste nel sottosuolo. La guerra civile russa fu un occasione in cui la corona britannica tentò di applicare le strategie di Mackinder, ma andò chiaramente male.
Ma Mackinder non è morto con il fallimento della guerra civile nel 1923, né è morto quando si spense nel 1947. La sua geostrategia è rimasta e rimane nella mente degli anglo-americani. Mi limiterò a portare particolari passaggi ed evidenze della continua presenza della strategia di Mackinder nei documenti ed intenti dei nordamericani, ma c’è molto di più – ne uscirebbe un libro intero, e infatti avrei intenzione di scriverlo per il futuro; il materiale abbonda e personalmente ne trovo sempre più col passare del tempo, soprattutto per via del fatto che in Italia siano totalmente ignorati se ne parla in ambienti accademici americani e russi, spesso lasciando le affermazioni esplicite dietro i cancelli del Pentagono.
Le sue idee hanno avuto particolare risonanza in quattro momenti storici – che alla fine evidenziano praticamente una continuità ininterrotta: nella Gran Bretagna di fine Ottocento e inizio Novecento, nella Germania nazista, negli Stati Uniti durante la Guerra fredda e ora tra gli strateghi russi e statunitensi. Storicamente, le idee di Mackinder sono emerse in risposta alla minaccia percepita dell’impero britannico marittimo da parte di un impero terrestre emergente, ed esprimono una profonda ansia per lo stato e il futuro dell’Inghilterra. Il desiderio britannico di prevalere sulle altre potenze imperiali acuì le attuali preoccupazioni per il socialismo (erano in corso i vari moti rivoluzionari, in primis in Russia), l’indebolimento del dinamismo economico nazionale, la necessità di riforme abitative e sociali e, infine, l’ascesa di rivali militari in Germania, Stati Uniti, Giappone e Russia. La geopolitica era una visione del mondo strutturata da realtà geografiche che, secondo Mackinder, minavano qualsiasi tentativo di costruire un ordine globale sulla base del legalismo e del pacifismo (necessario per il traffico mercantile marittimo).
La forza era inevitabile per soggiogare l’Heartland. Negli anni Trenta, le sue idee furono riprese dai pianificatori militari nazisti, ansiosi di dare corpo agli avvertimenti di Mackinder sulla prospettiva di un impero globale basato sulla terraferma. Qui va aperta una parentesi. Viene infatti spesso associato il geopolitico tedesco Haushofer al regime nazista. È profondamente sbagliato. Haushofer, teorico pseudo-eurasiatista, aveva delineato per la Germania una strategia continentale anti-britannica che avrebbe compreso un’alleanza tra Berlino, Mosca e Pechino. Haushofer inizialmente aderì al regime nazista, visto nei suoi occhi da realista come un mezzo con cui la Germania avrebbe raggiunto i suoi obiettivi geopolitici nazionali e continentali. Haushofer tuttavia ebbe presa su certi gerarchi e strateghi come Rudolf Hess – che fu suo allievo personale –, ma non su Hitler, che preferì isolare tutti gli esponenti nazisti o filo-nazisti che volevano collaborare con i bolscevichi (tanto da ucciderne in buona parte durante la notte dei lunghi coltelli), così da poter ragionare seguendo un pensiero puramente talassocratico12, pur agendo telluricamente: non unire il continente ma cercare di soggiogarlo per poter controllare l’Heartland e l’isola-mondo, portando la Germania ad attaccare la Russia e l’impero marittimo del Giappone ad occuparsi del continente ad oriente. Nei discorsi di Hitler riecheggiavano chiaramente le parole imperialiste di Mackinder: «Se avessi i Monti Urali con il loro incalcolabile tesoro di materie prime, la Siberia con le sue vaste foreste e l’Ucraina con i suoi immensi campi di grano, la Germania e la leadership nazionalsocialista nuoterebbero nell’abbondanza» [1936].
Così come le talassocrazie, la Germania agì con stermini di massa volti alla sostituzione etnica. Il reich ragionava da Nazione – razzialmente e con spirito eccezionalista, come fecero regno unito e nordamerica – e non da Impero – da Civiltà multinazionale e con spirito di unificazione, come fecero ad esempio Napoleone e l’impero austro-ungarico.
Chiaramente gli Stati Uniti avevano già nel mirino l’Unione Sovietica, soprattutto con Truman, che cinicamente pronunciò frasi agghiaccianti come «Se vediamo che la Germania sta vincendo dovremmo aiutare la Russia, e se la Russia sta vincendo dovremmo aiutare la Germania, e in questo modo lasciare che uccidano il maggior numero possibile di persone, anche se non voglio vedere Hitler vittorioso in nessuna circostanza» (e non si fermò con le parole, come dimostrano documenti sovietici desecretati da Putin negli ultimi anni). Ma la strategia divenne chiaramente anti-russa (nel contesto storico anti-sovietica) dal momento in cui l’impero nordamericano riuscì ad occupare il Rimland europeo. Da qui Mackinder torna marittimo, e da qui nasce la strategia di Nicholas John Spykman: piegare l’Heartland circondandolo ed isolandolo dal Rimland. L’Heartland rimane dunque il centro del mondo necessario per poterlo controllare, ma se non riesci ad occuparlo militarmente, occorre (prima) isolarlo, e far sprecare le sue forze. Ciò non va assolutamente in contraddizione con la strategia di Mackinder, ma è invece un’applicazione di questa al contesto storico della guerra fredda.
L’influenza esplicita di Mackinder è molto evidente. Negli anni ’70, Colin Gray, uno stratega statunitense, iniziò a riferirsi alla minaccia militare rappresentata dall’Unione Sovietica come a quella di una potenza «Heartland» che si muoveva per controllare i confini dell’Isola del Mondo (Rimland) [Gray, Geopolitics of the Nuclear Era; Brown, End to Grand Strategy]. Per Gray, la teoria di Mackinder rimane «di gran lunga superiore alle concezioni rivali, per la comprensione dei principali problemi di sicurezza internazionale», e Mackinder è «il primo e… il più grande dei teorici geopolitici» [Geopolitics of Super Power,4], così come affermato dal suo collega Francis Sempa, secondo cui «statisti e strateghi operano ancora nel mondo di Mackinder» [Geopolitics].
Ma non c’è solo l’inglese Mackinder. Il più grande teorico talassocratico, nel senso puro del termine, è Alfred Thayer Mahan. Lo stratega americano parte, in parallelo, dalle stesse basi di Mackinder: «Indipendentemente da Mackinder, Mahan giunse alle stesse conclusioni riguardo al principale pericolo per la «civiltà marittima». Questo pericolo è rappresentato dagli Stati continentali dell’Eurasia, in primo luogo Russia e Cina, e in secondo luogo la Germania. Combattere la Russia, quella «massa continentale continua dell’impero russo che si estende dall’Asia Minore occidentale al meridiano giapponese a est», era un obiettivo strategico di lungo termine per la Forza Marittima.» [Dugin, Fondamenti di geopolitica]
L’ammiraglio Mahan è stato, afferma giustamente Dugin, il «padre dell’Atlantismo», per via della geostrategia a lungo termine delinata già dalla fine del 1800.
«In The American Interest in Sea Power, Mahan sosteneva che per diventare una potenza mondiale, l’America doveva soddisfare i seguenti punti: 1) cooperare attivamente con la potenza marittima britannica; 2) contrastare le rivendicazioni marittime tedesche; 3) vigilare e contrastare l’espansione giapponese nel Pacifico; 4) coordinarsi con gli europei in azioni congiunte contro i popoli dell’Asia [si intende Russia compresa].»
Mahan, che «non fu solo un teorico della strategia militare, ma fu anche attivo in politica», «esercitò una forte influenza su politici come Henry Cabot Lodge e Theodore Roosevelt».
«Mahan portò a livello planetario il principio dell'”anaconda”, applicato dal generale americano McClellan nella guerra civile nordamericana del 1861-1865. Questo principio consiste nel bloccare i territori nemici dal mare e lungo le coste, portando gradualmente all’esaurimento strategico del nemico. Poiché Mahan riteneva che la potenza di uno Stato fosse determinata dalla sua capacità di diventare una potenza marittima, in caso di scontro l’obiettivo strategico numero uno è quello di impedire che questo diventi un campo nemico. Pertanto, il compito del confronto storico dell’America è quello di rafforzare la propria posizione sui 6 punti principali (…) e di indebolire il nemico sugli stessi punti. Le proprie distese costiere devono essere controllate, mentre le rispettive zone del nemico devono essere tentate con tutti i mezzi per tagliarle fuori dalla massa continentale. E ancora: poiché la Dottrina Monroe (nella sua parte di integrazione territoriale) rafforza il potere dello Stato, non si deve permettere la creazione di formazioni di integrazione simili nell’avversario. Al contrario, l’avversario o il rivale nel caso di Mahan, le potenze eurasiatiche (Russia, Cina, Germania) dovrebbero essere strangolate negli anelli “anaconda” della massa continentale, stringendola a spese delle zone costiere sottratte al suo controllo e bloccando, se possibile, gli accessi agli spazi marittimi».
Si delinea dunque la teoria della strategia atlantista, che ebbe successo a un secolo di distanza. Ha dunque ragione Dugin se definisce Mahan il «padre dell’Atlantismo» e il suo successore, Spykman, «l’architetto della vittoria mondiale liberal-democratica» sull’Eurasia:
«Se questa strategia [dell’anaconda] non aveva portato sufficienti successi agli Stati Uniti nella Prima guerra mondiale, nella Seconda guerra mondiale aveva avuto un effetto significativo e la vittoria contro l’URSS nella Guerra fredda aveva sancito il successo della strategia del “Sea Power”.»
Quella di Spykman basata sull’occupazione del Rimland è infatti «lo sviluppo definitivo della “tattica dell’anaconda” già giustificata da Mahan. Spykman diede all’intero concetto una forma compiuta. La vittoria degli Stati Uniti come “Sea Power” nella Guerra Fredda ha dimostrato l’assoluta correttezza geopolitica di Spykman, che può essere definito “l’architetto della vittoria mondiale liberal-democratica” sull’Eurasia.» [Fondamenti]
Pietro Pinter di Inimicizie riassume perfettamente la storia della guerra fredda e del collasso dell’Urss sotto il punto di vista geopolitico. Perché il crollo, ormai è chiaro, è stato dovuto a vari fattori. Sono il primo a identificare le ragioni del crollo principalmente in contraddizioni e fattori distanti dalla geopolitica, come 1) la struttura troppo aperta del Partito, 2) la mancanza di formazione e disciplina all’interno dello stesso, di cui parlò anche Stalin13 (due problemi che la Cina pare abbia, almeno per ora, risolto), 3) la distruzione e la ricostruzione necessaria a seguito della grande guerra patriottica (questo chiaramente non era colpa della dirigenza sovietica), e due problemi che derivano dai primi due punti: 4) l’apertura progressiva (e fatta male, ma non ci dilunghiamo) al mercato e allo sviluppo della borghesia avviato da Kruscev (che come problemi vennero comunque parzialmente arginati da Brezhnev, che non ha portato ad alcuna “stagnazione” a differenza di ciò che dice la propaganda gorbaceviana-liberale occidentale), e 5) la disfatta ideologica del Partito nella lotta egemonica tra le masse, con infiltrazioni fatte da CIA ed MI6 (ad es. il piano Dulles [articolo TopWar a riguardo]), con la conseguente degenerazione occidentalista e il nichilismo storico [“L’evoluzione del nichilismo storico nell’URSS” secondo Su Yang e Xi Jinping], resi possibili appunto dalle contraddizioni che già vi erano. Tuttavia, lasciar fuori l’aspetto geopolitico è miope. Il crollo dell’Urss è dovuto anche alla mancanza di geostrategia da parte della dirigenza sovietica, che tacciava, come abbiamo già visto, la geopolitica di “scienza borghese”. I cinesi, anche qua, non hanno sbagliato, ma parleremo di loro più avanti.
Come si scriveva, Pinter ha sintetizzato molto bene le dinamiche geopolitiche che portarono al collasso dell’Unione Sovietica, nel suo articolo introduttivo “L’isola mondo e la geopolitica anglosassone“:
Nonostante i timori e le ansie di geopolitici statunitensi riguardo un’espansione nel Rimland da parte dell’Unione Sovietica, nella realtà «Durante la guerra fredda – per 45 anni – l’Unione Sovietica controlla l’Est Europa, ma non riesce a controllare l’intero Heartland né – pur controllandone gran parte – riesce a controllare l’Isola Mondo , proiettarsi negli oceani ed uscire dominante dallo scontro tra superpotenze».
Il Rimland, «Grazie alla sua costa e al drenaggio oceanico dei suoi fiumi», «ha facile accesso agli oceani, è la zona in cui si concentrano la maggior parte della popolazione e della ricchezza dell’Eurasia e del Mondo: Europa Occidentale, Cina costiera, Subcontinente Indiano, Levante, Africa Settentrionale.»
La strategia americana è stata dunque chiara:
«Se vogliamo riassumere la guerra fredda dal punto di vista geopolitico, appare chiaro come si sia vinta nel Rimland, con un impegno americano in un arco da ovest a est: Iniziamo dopo la seconda guerra mondiale con entrambi i campi concentrati sulla ricostruzione interna ed una supremazia americana in campo nucleare come assicurazione per l’Europa Occidentale.
Con Truman gli USA si impegnano a mantenere il controllo di Grecia e Turchia e rallentare l’avanzata sovietica nel sud-est asiatico, inizialmente tramite il sostegno economico alla controguerriglia coloniale di Francia, Olanda e Regno Unito.
Con Eisenhower si blindano Mediterraneo ed Oceano indiano tramite il triangolo Israele-Iran-Arabia Saudita nel Vicino Oriente e l’alleanza col Pakistan, atta ad impedire il collegamento terrestre tra Unione Sovietica e India.
Il capolavoro si consuma con Kissinger-Nixon, quando finalmente l’Unione Sovietica raggiunge la parità nucleare alla fine degli anni ’60: Gli USA blindano il Pacifico tramite l’alleanza con la Cina comunista, a questo punto è possibile ritirarsi dall’Indocina – dove la Cina si occuperà di contenere i sovietici – e, messo al sicuro Suez e richiamato all’ordine il fronte interno europeo con la guerra “gestita” del Kippur, congelare il confine di Yalta tramite gli Accordi di Helsinki. La dirigenza sovietica pensa di aver conquistato una posizione di forza (e un grande filone accademico concentrato sul “declino” americano sembra essere d’accordo) con il riconoscimento formale del suo status di superpotenza, ma nulla è più lontano dalla realtà.
I tentativi sovietici precedenti di raggiungere l’oceano o mettere sotto scacco gli USA (Cuba, conflitto arabo-israeliano, guerra indo-pakistana, guerra civile cinese, guerra di Corea, sostegno ad Allende) sono stati tutti frustrati; con Carter-Brzezinski e poi con Raegan diventa possibile passare all’offensiva, sulla base della strategia britannica contro Napoleone: Imporre un embargo (grano + tecnologia) sostenere attività partigiana interna all’impero sovietico (in Afghanistan, in Polonia… cosa che in Ungheria non fu fatta 25 anni prima) per poi mandarlo in bancarotta con corsa agli armamenti ed aumento della tensione militare, fino alla sua definitiva implosione.»
Pinter conclude:
«Ritornando alla teoria di Mackinder, appare chiaro che – se dominare l’Heartland è sicuramente una condizione necessaria per dominare l’Eurasia, vista la continua minaccia che può portare verso la costa – l’Heartland, senza accesso agli oceani, abbia una potenza limitata. La sua fortuna – ovvero la sua difendibilità – è anche la sua maledizione, ovvero il suo isolamento, la dispersione delle sue risorse e la sua inospitabilità.»
Mentre l’Urss ragionava per ideologia e con una strategia approssimativa volta a liberare (cosa nobile indubbiamente) i popoli colonizzati, gli Usa ragionavano con puro pragmatismo realista, con una geostrategia chiara, pluridecennale. L’Urss ragionava ancora come una potenza pre-geopolitica (che ha avuto tanti strateghi importanti come Napoleone o Cesare o Alessandro, ma erano fortemente limitati), per “inerzia” dice Dugin, seguendo l’intuito geopolitico, così come oggi gli Usa ragionano da potenza economica del secolo scorso (o secoli scorsi; dato che nel XX secolo hanno avuto una certa strategia di pianificazione economica; si pensi alla corsa spaziale). Vivere nella scacchiera globale delle superporenze senza geostrategia è come pensare di poter essere ancora a lungo la prima potenza economica mondiale… senza pianificazione economica. Da leninisti dovremmo sapere che la pianificazione, l’organizzazione, la strategia siano virtù fondamentali per ogni realtà.
Ma, tornando a noi; col crollo dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti fanno tutt’altro che abbandonare Mackinder. Accaddero diverse spaccature all’interno dei vertici dei strateghi americani, così come a sua volta tra le schiere dei statisti europei. Da una parte i “neo-con”(servatori) vollero continuare a focalizzare la propria lotta contro ciò che rimaneva della Russia, considerando il suo Heartland ancora un obiettivo geostrategico primario, e così facendo ci si sarebbe potuti successivamente focalizzare sulla Cina, cioè il nuovo nemico economico-ideologico dell’impero americano; dall’altro canto, una schiera di strateghi ed oligarchi, reputando la Russia ora (anni ’90) un Paese abbastanza debole, volevano integrare la Federazione nella Nato insieme a tutto l’ex-blocco sovietico, per poi poter circondare la Cina. Lo stesso Clinton, a quanto detto da Putin, sembrava propenso a far entrare la Russia all’interno dell’alleanza atlantica, per poi dover smentire il giorno stesso, dopo aver consultato “i superiori”. Il motivo è semplice: la Nato è sì fondata su una struttura tale da render gli Usa il Paese leader (ad esempio il supremo comandante europeo deve esser obbligatoriamente statunitense), ma il meccanismo decisionale basato sul potere di veto (che non poteva esser altrimenti date le Costituzioni dei rispettivi Paesi che non permetterebbero di agire in un’alleanza internazionale contro la particolare decisione stessa del Paese) porterebbe troppo potere a Paesi che sono ricchi di risorse materiali o militari. La Turchia, seconda potenza militare dell’alleanza, ne è un esempio perfetto, specialmente negli ultimi tempi. Fu fatta entrare nella Nato per evitare un conflitto nel Mediterraneo con la Grecia, essendo stato come ovvio che sia l’Urss il principale focus di quei tempi. Oggi le contraddizioni di quella più o meno inevitabile decisione sono piuttosto evidenti. L’integrazione della Russia avrebbe portato gli americani alle porte telluriche della Cina, ma ha prevalso la linea che ha voluto evitare una potenza quasi alla pari degli Usa all’interno di una alleanza americanocentrica.
La strategia di balcanizzazione (e no, non si tratta di contenimento) della Russia è continuata dall’indomani del crollo dell’Unione. Sappiamo tutti la storia, dato che Indipendenza chiaramente conosce le radici del conflitto ucraino e ceceno a differenza di molte altre sigle socialiste in Italia. Tuttavia, oltre all’espansione della Nato (andando non solo contro gli accordi scritti con Gorbacev ed Eltsin, ma anche contro gli avvisi espliciti di Eltsin stesso, che poteva esser ubriacone, stupido, ingenuo ed edonista, ma non voleva smembrare la Russia14), gli Stati Uniti seguirono una strategia che ricalcava precisamente gli scritti di Mackinder del 1919 durante la sua spedizione militare per conto della corona britannica. Qui scrisse che per frammentare la Russia occorre partire dal Mar Nero, chiudendolo al Paese dunque insieme al Mediterraneo: spingere il radicalismo islamico dei ceceni ed altre popolazioni del Caucaso, e la componente più vicina alla Polonia e lo spirito europeo degli ucraini. Ciò avrebbe scatenato concatenamente il separatismo di altre regioni islamiche del Caucaso e vicine alla Civiltà turanica in giro per gli immensi territori russi (dagli Urali alla Siberia), e delle altre regioni vicine all’Europa come la Bielorussia.
All’inizio del 1992, in qualità di sottosegretario alle politiche del Pentagono, Wolfowitz preparò una politica destinata a guidare il Dipartimento della Difesa dopo la fine della Guerra Fredda. Secondo quanto trapelato dal New York Times, questa bozza del 18 febbraio 1992 «illustrava la necessità di un mondo dominato da una sola superpotenza, la cui posizione può essere perpetuata da un comportamento costruttivo e da una potenza militare sufficiente a dissuadere qualsiasi nazione o gruppo di nazioni dal contestare la supremazia americana» [Tyler, US Strategy]. La minaccia dell’Heartland è evidente nel primo obiettivo strategico raccomandato per gli Stati Uniti: «Il nostro primo obiettivo è quello di impedire il riemergere di un nuovo rivale, sul territorio dell’ex Unione Sovietica o altrove, che rappresenti una minaccia dell’ordine di quella rappresentata in passato dall’Unione Sovietica. Questa è una considerazione dominante alla base della nuova strategia di difesa regionale e richiede che ci sforziamo di impedire a qualsiasi potenza ostile di dominare una regione le cui risorse, sotto un controllo consolidato, sarebbero sufficienti a generare una potenza globale» [Excerpts From Pentagon’s Plan].
C’era solo una potenza eurasiatica che Wolfowitz immaginava potesse stabilire una tale egemonia regionale e di conseguenza mise in guardia dal pericolo di permettere alla Federazione Russa di «reincorporare (…) le repubbliche recentemente indipendenti dell’Ucraina, della Bielorussia e forse di altre» [Clash of Globalizations]. Tant’è vero che la stessa U.S. Army War College Guide to National Security and Policy (2004) afferma che «l’analisi geopolitica è meglio conosciuta in Occidente come rifratta dal concetto di heartland di Halford Mackinder», e prosegue osservando che una «sorprendente illustrazione contemporanea del continuo impatto delle prospettive geopolitiche è fornita dalla potenza Heartland per eccellenza, la Federazione Russa».
Nel 1994 Wolfowitz criticò l’amministrazione del presidente Clinton per la sua «riluttanza a sfidare le azioni russe nel suo cosiddetto ”vicino estero”.» [Clinton’s First Year].
La preoccupazione per l’emergere di un egemone regionale in Eurasia è una preoccupazione ricorrente tra l’élite strategica degli Stati Uniti, così come l’associazione di questa dottrina con Mackinder. Zbigniew Brzezinski, ex consigliere per la sicurezza nazionale del Presidente Carter (che già ai tempi scrisse di utilizzare Ucraina e Caucaso come fece Mackinder), nel suo The Premature Partnership ha fatto eco agli avvertimenti di Wolfowitz sulla Russia nel 1994. Brzezinski ha esposto molto chiaramente la sua visione geopolitica nel 1997, quando ha scritto dell’Eurasia come «lo scacchiere geopolitico decisivo»: «L’Eurasia è il supercontinente assiale del mondo [termine mackinderiano]. Una potenza che dominasse l’Eurasia eserciterebbe un’influenza decisiva su due delle tre regioni economicamente più produttive del mondo, l’Europa occidentale e l’Asia orientale». «Un’occhiata alla mappa suggerisce anche che un Paese dominante in Eurasia controllerebbe quasi automaticamente il Medio Oriente e l’Africa» [Geostrategy for Eurasia]. Brzezinski citò in The Grand Chessboard la massima di Mackinder secondo cui il controllo dell’Heartland avrebbe dato il controllo dell’Isola del Mondo (Eurasia e Africa) e quindi, in ultima analisi, del mondo stesso.
Henry Kissinger avvertì in modo simile, nel 1994, che «la Russia, indipendentemente da chi la governa, siede a cavallo di quello che Halford Mackinder chiamava l’heartland geopolitico, ed è l’erede di una delle più potenti tradizioni imperiali» [Diplomacy].
Qualche anno dopo, in una testimonianza davanti al Senato degli Stati Uniti, la politologa ed esperta di Asia Centrale, Martha Brill Olcott, ha nuovamente rafforzato queste connessioni tra geopolitica e risorse, suggerendo che «mentre i responsabili politici statunitensi non vogliono certamente vedere una Russia egemonica per ragioni geopolitiche generali, i costi potenziali di tale egemonia diventano molto più grandi se la Russia è in grado di dettare le condizioni e limitare l’accesso occidentale alle ultime vaste riserve di petrolio e gas conosciute al mondo» [The Central Asian States: An Overview of Five Years of Independence; Testimony before the United States Senate Committee on Foreign Relations, 22 July 1997].
c) La strategia eurasiatica contro l’atlantismo
La geostrategia degli eurasiatisti è dunque una risposta – inevitabilmente nata in Russia, Paese che si sente chiaramente chiamato in causa – alle mire imperialiste di impero britannico prima e impero nordamericano-atlantico poi. Per gli eurasiatisti russi è altrettanto chiaramente fondamentale che la statualità russa si mantenga più compattamente possibile, evitando di cedere ogni centimetro di terra al nemico – e non solo dal punto di vista materiale. Dugin, pur partendo da una gioventù di fatto vicina al neofascismo, nel momento del crollo dell’Unione Sovietica – ideologicamente a lui opposta –, vedendo con i propri occhi il suo risultato, e cioè lo smembramento della statualità russa e la svendita della Patria al capitale occidentale, cambia radicalmente idea sul passato, rivalutandolo e avvicinandosi a figure come Zjuganov, con cui ha contatti infatti sin dagli anni ’90 (tanto da poterli vedere spesso in fotografie insieme). La «nuova politica eurasiatica» di Vladimir Putin porta gradualmente alla ribalta la situazione russa, con dichiarazioni esplicite del presidente russo sin dal 2000, come «la Russia si è sempre vista come una nazione euroasiatica»15, che hanno sicuramente portato, insieme alle azioni politiche ed economiche a vantaggio della sovranità russa, la simpatia personale di Dugin e degli eurasiatisti; soprattutto dal 2015, da quando la Russia si è distaccata nettamente dall’Europa, definendosi una entità a sé (per non parlare poi del 2022).
Ma su cosa si basa in sostanza l’Eurasiatismo? Così come la talassocrazia anglo-americana punta a smembrare la Russia per poter controllare direttamente o indirettamente le sue risorse e il sul territorio, la tellurocrazia eurasiatica, secondo gli eurasiatisti, dovrebbe agire specularmente estendendosi lì dove Spykman ed altri strateghi del secolo scorso temevano che l’Urss si sarebbe espansa: nel Rimland, comprendendo così il continente eurasiatico intero.
Ma per “estensione” non si intende la banale espansione statuale della Russia, che Indipendenza pare aver frainteso. Ma ormai vi sarete abituati al mio “andiamo con ordine”.
Per affrontare il tema dell’integrazione continentale e dell’Impero, in cui consiste sostanzialmente il pensiero eurasiatista, occorre comprendere il ruolo geopolitico e storico-spirituale dell’Eurasia. Perché lì dove un impero talassocratico vede un Heartland da occupare per dividere il continente e il mondo (dividi et impera su scala globale), gli eurasiatisti vedono un territorio che connette naturalmente i numerosi popoli e culture del mondo.
L’importanza geopolitica, dunque storica del continente eurasiatico e della sua orizzontalità è indiscutibile. Il suo sviluppo delle coste, del Rimland, è dovuto infatti alle vie di comunicazione attraverso gli antichi imperi, regni, Civiltà, grazie ad esempio alla Via della Seta, che giustamente la nuova Cina ripropone in termini moderni.
Coker, nel suo Rise of the Civilizational-State, scrive: «La famosa Via della Seta, nelle parole di Peter Frankopan [in Le vie della seta], fu «l’arteria principale», l’autostrada internazionale che per migliaia di anni mise l’Occidente in contatto con la Cina. Gli eserciti di Alessandro marciarono verso est lungo di essa, portando con sé la propria civiltà: l’ellenismo. Lo storico Felipe Fernández Armesto sostiene che i risultati intellettuali di Platone e Aristotele, le cento scuole di pensiero in Cina e la scuola Nyaya in India devono tutto agli scambi culturali a lungo raggio aperti dalla Via della Seta. L’Eurasia è davvero la più grande autostrada del mondo [Millennium: A history of our last thousand years]. Fu sempre la Via della Seta a condurre i mongoli alle porte dell’Europa nel XIII secolo e la peste nera poco dopo. Quest’ultima, a posteriori, è stata forse l’esportazione più significativa di tutte: riducendo la popolazione di due terzi, infatti, incoraggiò la migrazione di massa verso le città e portò alla creazione di un moderno mercato del lavoro che spianò la strada allo stadio successivo dello sviluppo economico dell’Europa. In altre parole, se non facevi parte del mondo eurasiatico, in un modo o nell’altro eri inevitabilmente marginalizzato. Senza contatti né con l’Asia né con l’Europa, l’America Latina e l’Africa sono partite svantaggiate nella storia».
E se vi è una via di comunicazione non indifferente che passa per la Civiltà persiana e turanica, la Russia rimane comunque il cuore che unisce tutto il Rimland dall’entroterra. Spesso è servito questo collegamento persino per connettere Civiltà del Rimland apparentemente vicine fisicamente, come Persia e Cina.
Savitskij scrive:
«La Russia-Eurasia è il centro del Vecchio Mondo. Se si elimina questo centro, allora tutte le altre parti del Vecchio Mondo, questo intero sistema di margini continentali (Europa, Asia occidentale, Iran, India, Indocina, Cina e Giappone) diventa un semplice “tempio sparso”. Questo mondo che si trova a est dei confini europei e a nord dell’Asia “classica” è l’anello che lega l’unità di tutti questi pezzi. Questo è evidente nel presente e diventerà sempre più chiaro in futuro.
Il ruolo di collegamento e di unificazione di questo “mondo di mezzo” [secondo Savitskij merita la Russia più che la Cina il termine Zhongguo, appunto “terra di mezzo”] si è fatto sentire nel corso della storia. Per diversi millenni, il dominio politico del mondo eurasiatico è appartenuto ai nomadi. Occupando lo spazio che si estendeva dall’Europa alla Cina, spingendosi contemporaneamente verso l’Asia occidentale, l’Iran e l’India, i nomadi hanno fatto da intermediari tra i mondi disparati delle culture stanziali nei loro Stati di origine. Ricordiamo che l’interazione storica tra Iran e Cina non è mai stata così stretta come all’epoca della dominazione mongola (dal XIII al XIV secolo). E tredici-quattordici secoli prima, solo attraverso il mondo nomade eurasiatico si incrociavano le strade della cultura ellenica e di quella cinese, come dimostrano gli ultimi scavi in Mongolia. È un fatto inamovibile che il mondo russo sia stato chiamato a svolgere un ruolo unificante entro i confini del Vecchio Mondo.»
Ciò porta dunque al pensiero eurasiatista secondo cui la Russia ha un ruolo geografico, spirituale nell’integrare il continente, quindi il mondo:
«Solo nella misura in cui la Russia-Eurasia adempirà a questa vocazione, potrà trasformarsi in un insieme organico che riunisca tutte le diverse culture del Vecchio Continente ed eliminare il confronto tra Oriente e Occidente. Questo fatto non è ancora sufficientemente riconosciuto nel nostro tempo, ma le correlazioni che esso esprime sono nella natura stessa delle cose. I compiti dell’unificazione si riducono innanzitutto a compiti di creatività culturale. Una forza storica nuova e indipendente, la cultura russa, è emersa al centro del Vecchio Mondo per svolgere un ruolo unificante e conciliante. La cultura russa può svolgere questo compito solo cooperando con le culture di tutti i popoli circostanti. In questo senso, le culture dell’Est sono altrettanto importanti per la Russia-Eurasia quanto le culture dell’Ovest. La particolarità della cultura e della geopolitica russa risiede proprio in questo approccio simultaneo e paritario con l’Oriente e l’Occidente. Per la Russia esistono due fronti uguali: quello occidentale e quello sudorientale. Il campo visivo russo può e deve diventare un campo che copre innanzitutto l’intero Vecchio Mondo in misura uguale e completa.» [I fondamenti geografici e geopolitici dell’Eurasiatismo]
Le Civiltà sono nate indirettamente grazie all’Heartland, e, nel caso della Russia, grazie ad esso direttamente, nascendo come Civiltà sintesi di tutte le altre attorno a sé.
Dugin, riassumendo Savitskij, in Fondamenti scrive: «Savitskij presenta la Russia e l’Eurasia sotto la stessa luce del Raum di Ratzel e, ancora più accuratamente, del Grossraum di Schmitt. Se Mackinder ritiene che dai deserti dell’heartland emani una spinta meccanica, che costringe le aree costiere (“mezzaluna interna”) a creare cultura e storia, Savitskij sostiene che la Russia-Eurasia (= heartland di Mackinder) è una sintesi della cultura e della storia mondiale, che si dispiega nello spazio e nel tempo. Allo stesso tempo, la natura della Russia è complice della sua cultura. Savitskij intende la Russia dal punto di vista geopolitico, non come uno Stato nazionale, ma come un tipo speciale di Civiltà formata sulla base di diverse componenti della cultura ariana-slava [si vedano gli Sciti], del nomadismo turcico e della tradizione ortodossa. Tutti insieme formano una formazione unica, “di mezzo”, che rappresenta una sintesi della storia mondiale.
Savitskij giustificava indirettamente il giogo mongolo-tataro, grazie al quale «la Russia ottenne la sua indipendenza geopolitica e conservò la sua indipendenza spirituale dall’aggressivo mondo romano-germanico». Questo atteggiamento nei confronti del mondo turcico era volto a separare nettamente la Russia-Eurasia dall’Europa e dal suo destino e a giustificare l’unicità etnica dei russi. «Senza i tatari non ci sarebbe la Russia»: questa tesi, tratta dall’articolo di Savitskij Steppa e sedentarizzazione, era la formula chiave dell’eurasiatismo. Da qui si passa direttamente a un’affermazione puramente geopolitica: «Diciamolo senza mezzi termini: nello spazio della storia mondiale, al senso europeo occidentale del mare, uguale, anche se polare, si oppone il senso solo mongolo del continente; intanto negli “apripista” russi, nell’ambito delle conquiste e delle esplorazioni russe lo stesso spirito, lo stesso senso del continente».
E così via: «La Russia è l’erede dei Grandi Khan, il successore della causa di Gengis e Timur, l’unificatore dell’Asia. (…) Essa combina contemporaneamente gli elementi storici “sedentari” e “steppici”».
Sempre in Fondamenti, parlando della natura sincretica della Russia, Dugin scrive chiaramente che «A livello politico, ciò significava riconoscere il ruolo guida della Russia in senso strategico».
Scrive Mackinder: «La Russia occupa una posizione strategica centrale nel mondo intero come la Germania nei confronti dell’Europa. Può sferrare attacchi in tutte le direzioni ed è esposta ad essi da tutti i lati, tranne che dal nord. È solo una questione di tempo prima che le sue capacità ferroviarie siano pienamente sviluppate.» [L’asse geografico della storia]
Indipendenza a ragione accenna al fatto che non vi è garanzia che un «impero eurasiatico» continentale, dal momento che si unisce e diventa di fatto un’isola (Indipendenza senza volerlo fa un ragionamento geopolitico), inizi a proiettare verso i mari la propria potenza, diventando talassocraticamente un nuovo blocco imperialista anche peggiore o comunque più forte della talassocrazia statunitense16. Ciò lo dice Mackinder stesso, nel timore che una potenza marittima emergente si sviluppi proprio in Eurasia:
«Uno spostamento dell’equilibrio di potere a favore dello “Stato asse” [la Russia, che per Mackinder è l'”Asse geografico della storia”], accompagnato dalla sua espansione negli spazi periferici dell’Eurasia, consentirebbe di utilizzare le enormi risorse continentali per creare una potente flotta navale: non sarebbe lontano dal diventare un impero mondiale. Ciò sarà possibile se la Russia si unirà alla Germania. La minaccia di un tale sviluppo costringerebbe la Francia a un’alleanza con le potenze d’oltremare, e Francia, Italia, Egitto, India e Corea diventerebbero basi costiere alle quali attraccherebbero le flottiglie delle potenze esterne per disperdere le forze dell’Asse in tutte le direzioni e impedire loro di concentrare tutti gli sforzi nella costruzione di una potente forza navale.» [L’asse geografico della storia]
Nel 1919, nel suo libro Ideali democratici e realtà, scrisse: «Che ne sarebbe delle forze del mare se un giorno un grande continente si unisse politicamente per diventare la base di un’invincibile armata?»
E non si trattano di idee astratte ed ucronie partorite da una mente paranoica. O meglio, potrà esser paranoia quella dei strateghi talassocratici angloamericani, ma appunto sono strateghi, e la storia, purtroppo, la disegnano loro. Dugin ricorda che «Mackinder partecipò alla preparazione del Trattato di Versailles, la cui principale idea geopolitica riflette l’essenza della sua visione. Questo trattato era stato concepito per sancire l’Europa occidentale come base costiera per le forze navali (pace anglosassone). Allo stesso tempo, prevedeva la creazione di Stati Limitrofi che avrebbero separato i tedeschi e gli slavi, impedendo loro di entrare nell’alleanza strategica continentale così pericolosa per le “potenze insulari” e quindi per la “democrazia”.»
La strategia che più impaurisce le talassocrazie è dunque il continentalismo, che in chiave russa – cioè quell’Heartland strategico che più ha potenzialità secondo gli angloamericani – si traduce nell’eurasiatismo. Parliamo finalmente di cosa sia nella sostanza programmatica.
Citerò dunque Dugin, che nel suo Fondamenti della geopolitica, scritto nel 1997 (e torneremo poco più avanti sulla rilevanza di questa data), delinea l’essenza del neo-Eurasiatismo: l’Eurasiatismo nato dalle ceneri dell’impero sovietico, che ha fallito la sua missione continentale.
«Questo neo-eurasianismo si basa sulle idee di P. Savitskij, G. Vernadskij, del principe N. Trubetskoij e dell’ideologo del nazional-bolscevismo russo, Nikolai Ustryalov. L’analisi degli eurasiatici storici è considerata molto pertinente e applicabile alla situazione attuale. La tesi di un’ideocrazia nazionale su scala continentale imperiale si contrappone sia all’occidentalismo liberale sia al ristretto nazionalismo etnico. La Russia è vista come l’asse del “grande spazio” geopolitico e la sua missione etnica è inequivocabilmente identificata con la costruzione dell’impero [torneremo in seguito su questo punto; come già detto, non va mai letto Dugin decontestualizzato e limitato a certi termini, dato la sua indole provocatoria e tagliente]. A livello socio-politico, questa tendenza gravita chiaramente verso il socialismo eurasiatico, considerando l’economia liberale come una caratteristica del campo atlantista. Il periodo sovietico della storia russa è visto nella prospettiva smoeverechiana come una forma modernista della tradizionale aspirazione nazionale russa all’espansionismo planetario e all'”universalismo eurasiatico anti-atlantista”. Da qui le tendenze “filocomuniste” di questa versione del neo-eurasianesimo.
L’eredità di Gümilev è accettata, ma la teoria della passionalità è abbinata alla dottrina della “circolazione delle élite” del sociologo italiano Wilfred Pareto, mentre le opinioni religiose di Gümilev sono corrette sulla base della scuola europea dei tradizionalisti (Guénon, Evola, ecc.). Le idee tradizionaliste della “crisi del mondo moderno”, “degrado dell’Occidente”, “desacralizzazione della civiltà”, ecc. costituiscono una componente importante del neo-eurasiatismo, completando e sviluppando quei punti che erano stati presentati dagli autori russi solo in modo intuitivo e frammentario. Inoltre, vengono esaminati a fondo i progetti continentalisti europei (Haushofer, Schmitt, Nikisch, la Nuova Destra, ecc.), estendendo così l’orizzonte della dottrina eurasiatica all’Europa, intesa come potenza potenzialmente continentale. Questo motivo è del tutto estraneo agli eurasiatisti storici, che scrissero le loro opere principali in un’epoca in cui gli Stati Uniti non avevano ancora una valenza geopolitica autonoma e la tesi della differenza tra Europa e Occidente non era ancora stata adeguatamente sviluppata.
Il neo-eurasianismo, prestando attenzione ai continentali europei, riconosce l’importanza strategica dell’Europa per la completezza e l’interezza geopolitica del “Grande Spazio” eurasiatico, soprattutto perché è stata l’instabile divisione della mappa geopolitica dell’Europa a portare alla sconfitta dell’URSS nella Guerra Fredda. Un’altra caratteristica del neo-eurasianesimo è la scelta dei Paesi islamici (in particolare dell’Iran continentale) come alleato strategico cruciale.
L’idea di un’alleanza continentale russo-islamica è alla base della strategia anti-atlantica sulla costa sud-occidentale del continente eurasiatico. A livello dottrinale, questa alleanza è giustificata dal carattere tradizionale delle Civiltà russa e islamica, che le accomuna nell’opporsi all’Occidente anti-tradizionale e laico-pragmatico. Il progetto neo-eurasiatico è l’opposto più completo, coerente e storicamente fondato di tutte le varianti dei progetti geopolitici occidentali (sia atlantisti che mondialisti) (…). L’europeismo e il continentalismo moderato dei geopolitici europei rappresentano una realtà intermedia. Infine, il neo-eurasianismo (…) esprime un punto di vista radicalmente anti-occidentale, convergente con tutti gli altri progetti geopolitici alternativi, dal bolscevismo nazionale europeo al radicalismo islamico (o “socialismo” islamico) fino ai movimenti di liberazione nazionale in tutti gli angoli del Terzo Mondo. Altre varietà di neo-eurasianismo sono meno coerenti e rappresentano un adattamento dell’intero complesso delle idee sopra citate alla mutata realtà politica: si tratta solo di un “eurasianismo” economico pragmatico volto a ricreare l’interazione economica delle ex Repubbliche sovietiche (il progetto del presidente kazakho Nazarbayev), oppure della giustificazione di tesi espansionistiche (il progetto di “grande potenza” di Zhirinovskij).
Il “Commonwealth eurasiatico” è un appello puramente retorico per preservare l’unità dei russi e delle minoranze nazionali (soprattutto turcichi e musulmani) all’interno della Federazione Russa (il progetto di alcuni rappresentanti del governo Eltsin), oppure un interesse puramente storico per l’eredità di Savitskij, Trubetskoij, Suvchinskij, Karsavin, ecc. (…). Ma tutte queste versioni sono necessariamente artificiali, frammentarie, incoerenti e non possono rivendicare un’ideologia e una metodologia geopolitica indipendente e seria. Pertanto, non ha molto senso soffermarsi su di esse in dettaglio.»
Schematicamente si può dunque affermare che il neo-eurasiatismo (vorrei comunque sottolineare pre-multipolare) segue questi punti:
1) Si basa sulla sintesi delle idee degli eurasiatisti storici (Savitskij, Vernadskij, Trubetskoij) e del nazional-bolscevismo russo (Ustryalov).
2) Punta ad «un’ideocrazia nazionale su scala continentale imperiale», in contrapposizione «sia all’occidentalismo liberale sia al ristretto nazionalismo etnico»
3) «La Russia è vista come l’asse del “grande spazio” geopolitico e la sua missione etnica è inequivocabilmente identificata con la costruzione dell’impero». (Questi tre punti sono chiaramente in linea con l’Eurasiatismo storico)
4) «A livello socio-politico» si «gravita chiaramente verso il socialismo eurasiatico» [torneremo più avanti su questo parlando dei comunisti americani], considerando il liberismo, il capitalismo «come una caratteristica del campo atlantista». (Mentre gli Eurasiatisti storici erano tendenzialmente più monarchici o comunque anti-socialisti, anche per via del disdegno che il Partito aveva, come abbiamo visto, per la geopolitica)
5) Si considera il passato sovietico come «forma modernista della tradizionale aspirazione nazionale russa all’espansionismo planetario e all'”universalismo eurasiatico anti-atlantista”» (dai sovietici interpretato in chiave chiaramente ideologica socialista, universalistica, dunque già ideocratica, ed ora per gli eurasiatisti “da rifare”).
6) Le tesi della passionarità di Gümilev sono «accettate», ma «è abbinata alla dottrina della “circolazione delle élite” del sociologo italiano Wilfred Pareto, mentre le opinioni religiose di Gümilev sono corrette sulla base della scuola europea dei tradizionalisti (Guénon, Evola)»
7) Le idee spengleriane del tramonto dell’Occidente «costituiscono una componente importante del neo-eurasiatismo, completando e sviluppando quei punti che erano stati presentati dagli autori russi solo in modo intuitivo e frammentario».
8) Si integra il pensiero dei continentalisti e tradizionalisti europei (Haushofer, Schmitt, Nikisch, la Nuova Destra), «estendendo così l’orizzonte della dottrina eurasiatica all’Europa, intesa come potenza potenzialmente continentale». Ciò porta dunque a «riconosce[re] l’importanza strategica dell’Europa per la completezza e l’interezza geopolitica del “Grande Spazio” eurasiatico». (Per l’Eurasiatismo storico l’Europa è tendenzialmente talassocratica, mentre per il Neo-eurasiatismo pre-multipolare ha potenzialità continentali)
9) Collaborazione con gli islamici, sia per il punto di vista tradizionalista, sia per il punto di vista geopolitico anti-occidentale, fino alla collaborazione con i «movimenti di liberazione nazionale in tutti gli angoli del Terzo Mondo». (Per l’Eurasiatismo storico l’Eurasia russa è assolutamente ortodossa, mentre per il Neo-eurasiatismo tutte le religioni anti-individualiste sono rispettabili, ed anzi possono esser pilastri della Civiltà russa).
Come vedremo più avanti, parte dei principi 3 e 8 saranno adattati di nuovo ai tempi del XXI secolo, con lo spostamento di Dugin (e di conseguenza dei suoi seguaci) verso l’oriente. Si potrebbe quasi parlare di neo-neo-eurasiatismo, ma preferisco, come si è visto, distinguere tra neo-eurasiatismo pre-multipolare e multipolare.
Fondamenti di geopolitica, come accennato, è stato scritto nel 1997. Sommariamente – ma non voglio spacciarmi per biografo certificato di Dugin, quindi mi limito ad una mia limitata interpretazione personale fatta dall’esterno – si può dire che ci sia stato un primo, un secondo ed un terzo Aleksander Dugin: 1) il periodo pre-91, che corrisponde ad un Dugin vicino alle posizioni monarchiche e nazional-bolsceviche, e i cui pensieri non sono ancora rilevanti; 2) un periodo che va dal crollo dell’Urss, con conseguente rivalutazione del passato, e che finisce con l’inizio del 2000, in cui Dugin, ancora con rilevanti retaggi del passato di destra, sogna una riscossa russa che istituisca un impero eurasiatico, con una visione strategica fortemente influenzata dal pensiero di Haushofer e di altri europei, credendo dunque nella necessità di una Germania forte (leader dell’Europa, soggiogando la nostra stessa Italia) ed allineata con la Russia, con la Cina tirata praticamente fuori dai piani di Haushofer ed anzi in parte balcanizzata; 3) nonostante l’importanza delle analisi geopolitiche e delle tesi sulla Civiltà sviluppate nel “secondo Dugin” (in cui tra l’altro rinasce l’eurasiatismo), da inizio 2000, con la effettiva riscossa della Russia grazie a Putin, Dugin riallinea il suo pensiero e nel corso degli anni si sposta “più ad est”. Se già il secondo Dugin, seppur sinofobo, rivalutava il marxismo-leninismo sovietico, oggi ammira profondamente l’esempio cinese e lo desidera vedere adattato al contesto russo. Prima di analizzare il terzo Dugin, citiamo i passaggi del secondo Dugin, quello che scrisse il monolitico Fondamenti di geopolitica, che influenzerà per almeno un decennio tutti i neo-eurasiatisti:
«La vittoria dell’Occidente nella Guerra Fredda significa concettualmente la fine di un mondo bipolare e l’inizio di un mondo unipolare. Tuttavia, mentre gli atlantisti puri (Huntington) ipotizzano che questo unipolarismo sarà relativo, e che l’Occidente (The West) vincente dovrà costantemente risolvere i crescenti conflitti intercivili con “il resto del mondo” (The Rest), i mondialisti (Fukuyama, Attali) vedono il dominio incontrastato dell’Occidente sull’intero pianeta come qualcosa di già avvenuto. Anche la versione più conflittuale del professor Santoro suggerisce, alla fine, l’istituzione di un governo mondiale. Questi sono i progetti dei vincitori geopolitici, che oggi godono di vantaggi indiscussi e di un’iniziativa strategica di altissimo livello. Tutti concordano su una cosa: l’universalismo di tipo occidentale deve prima o poi prevalere sul pianeta, cioè il sistema di valori atlantista e talassocratico deve diventare dominante ovunque. Il mondo bipolare della guerra fredda è considerato completamente superato. L’Eurasia e l’eurasiatismo non trovano posto in questo quadro. Tutto ciò è logico e deriva direttamente dall’opera dei primi geopolitici anglosassoni, che hanno cercato di indebolire in tutti i modi le forze terrestri, minando il loro potere e frenando il loro sviluppo con vari metodi strategici, in particolare con la strategia dell'”anaconda”, cioè il controllo stretto su settori sempre più ampi del rimland. Il neo-eurasiatismo non può, pur rimanendo se stesso, accettare la legittimità di un tale stato di cose ed è condannato a cercare opportunità per invertire tutti questi processi. E comincia dalla questione più centrale, quella dell’unipolarismo. L’unipolarismo (il dominio dell’atlantismo in qualsiasi forma, sia nella sua forma pura che attraverso il mondialismo) condanna l’Eurasia come Paese all’inesistenza storica. Il neo-eurasianismo insiste sulla necessità di opporsi a questo unipolarismo. Ciò può essere realizzato solo attraverso un nuovo bipolarismo.»
È chiara l’impronta che ha avuto la fine del bipolarismo novecentesco sul pensiero pre-multipolare di Dugin e dei neo-eurasiatisti. Si vuole a tutti i costi tornare al passato, ad una nuova forma dell’Urss, riproponendo un blocco monolitico ed ideologico contro la monolitica talassocrazia atlantista. Parla già allora di multipolarismo (d’altronde in Russia già se ne parlava), ma ne liquida la previsione:
«Ciò richiede un chiarimento. Si ritiene che dopo la fine del confronto degli Stati Uniti con l’URSS il mondo stesso passerà a un ordine multipolare, con l’ascesa della Cina, i processi demografici che renderanno i Paesi islamici geopoliticamente centrali, la regione del Pacifico che affermerà la sua competitività con l’Europa e l’America, ecc. Tutto questo è possibile, ma non tiene conto del fatto che questo nuovo multipolarismo avverrà sotto il segno del “sistema di valori atlantista”, cioè rappresenterà solo variazioni territoriali del sistema talassocratico, e in nessun modo una vera alternativa geopolitica. La sfida dell’Occidente, del mercato e della democrazia liberale è universale. Dopo la vittoria, tutti i tentativi di nazioni e Stati di seguire una strada diversa da quella occidentale hanno perso il loro principale sostegno. Sia i regimi filo-sovietici sia tutti i Paesi “non allineati” che insistevano su una “terza via” esistevano solo a spese del bipolarismo, a spese del divario che esisteva tra Occidente e Oriente nella loro lotta geopolitica posizionale. Il moderno Occidente vittorioso detterà d’ora in poi le condizioni ideologiche ed economiche a tutti coloro che pretenderanno di essere una regione sviluppata. Pertanto, qualsiasi multipolarità, mantenendo lo status quo, sarebbe fittizia e mondialista.»
Partendo da questo preconcetto (che si rivelerà sbagliato e Dugin lo ammetterà facendo dietrofront) secondo cui il multipolarismo è sì una via possibile, ma solo in chiave di scenario egemonico talassocratico, in cui tutti i Paesi del mondo potranno svilupparsi economicamente ma rimanendo ancorati al sistema internazionale americanocentrico (e con una cultura plasmata da questo), Dugin auspica un ritorno del bipolarismo:
«Il neo-eurasianismo, basato sugli interessi dell'”asse geografico della storia”, afferma l’esatto contrario dell’Occidente. L’unica via d’uscita da questa situazione non può che essere un nuovo bipolarismo, poiché solo in questa direzione l’Eurasia potrebbe ottenere una prospettiva di autentica sovranità geopolitica. Solo un nuovo bipolarismo potrebbe poi aprire la strada a un multipolarismo che andrebbe oltre il sistema talassocratico liberal-democratico, cioè un vero multipolarismo del mondo, in cui ogni nazione e ogni blocco geopolitico potrebbe scegliere il proprio sistema di valori, ha la possibilità di concretizzarsi solo dopo la liberazione dal dominio globale atlantista attraverso un nuovo confronto planetario.»
Dugin afferma, come si vede, che il (nuovo) bipolarismo sia una fase geopolitica necessaria per poi sviluppare il multipolarismo. Ha avuto torto? Forse sì; dipende come lo si interpreta. Se ci pensiamo, l’attuale sistema che chiamiamo già multipolarismo è sostanzialmente un bipolarismo sotto nuova forma. Mentre il bipolarismo della guerra fredda era fondato su un’ideologia (ideocrazia) monolitica (o quasi) che contraddistingueva i due blocchi (tra l’altro imperiali), oggi abbiamo un bipolarismo costituito da uno dei precedenti blocchi monolitici contrapposto a molteplici polarità che comunque hanno una comunione di intenti anti-egemonici. Se Dugin può aver sbagliato nell’interpretare la forma del bipolarismo (per lui auspicabilmente monoliticamente ideocratico ed imperiale) necessario per raggiungere il multipolarismo, non ha sbagliato nella sostanza (molteplici ideologie unite contro l’egemone). È infatti chiaro (spero) che ciò che stiamo attualmente vivendo è una fase bipolare del multipolarismo. Sconfitto definitivamente l’egemone, ci sarà un multipolarismo effettivo in cui la comunione d’intenti anti-egemonici crollerà con l’egemone stesso. A quel punto (o nel frattempo) si istituirà una struttura di sicurezza internazionale che garantisca una pace vera e speriamo duratura (o eterna, che si limiti a conflitti tellurici di frontiera, finché in transizione dal capitalismo al socialismo).
Ma continuiamo con Dugin: «Tuttavia, è importante che il blocco continentale eurasiatico non diventi una semplice ri-creazione del Patto di Varsavia. Il crollo della precedente struttura geopolitica continentale è irreversibile e radicato nella sua stessa struttura. La nuova alleanza continentale deve includere tutta l’Europa fino all’Atlantico e alcuni settori cruciali della costa meridionale eurasiatica, India, Iran, Indocina, ecc. oppure garantire la neutralità amichevole di questi stessi spazi, cioè sottrarli al controllo dell’atlantismo. Un ritorno al vecchio bipolarismo è impossibile per molte ragioni, anche ideologiche. Il nuovo bipolarismo eurasiatico dovrebbe basarsi su premesse e metodi ideologici completamente diversi. Questa teoria del “nuovo bipolarismo” è sufficientemente sviluppata nei progetti neo-eurasiatici, essendo la giustificazione teorica di tutte le teorie geopolitiche anticonformiste dell’Europa e del Terzo Mondo. Come l’heartland è oggettivamente l’unico punto capace di essere un trampolino di lancio per un’alternativa planetaria alla talassocrazia, così il neoeurasianesimo è l’unica piattaforma teorica sulla base della quale si può sviluppare un’intera serie di strategie planetarie che negano il dominio globale dell’atlantismo e del suo sistema di valori civili: mercato, democrazia liberale, cultura secolare, filosofia individualista, ecc.»
È dunque chiaro come questo bipolarismo (al netto della natura imperiale) di cui parla Dugin è questa fase multipolare che stiamo vivendo. Pur scrivendo in questo passaggio che «un ritorno al vecchio bipolarismo» sia impossibile per motivi ideologici, nel resto dell’Opera si lascia intendere che occorra raggiungere una certa universalità dell’ideocrazia nata in Russia (in quanto sintesi delle altre Civiltà)17.
Questo seguente passaggio è il più facile da incriminare. È evidente come nel ’97 Dugin auspicasse ad un bipolarismo che afferma non esser uguale a quello vecchio, ma in verità diverso solo ideologicamente. Dopo aver letto, cercate di ricordarvi soprattutto il passaggio sul fatto che vi sia attualmente (’97) solo una “civiltà”:
«I germi del multipolarismo si formeranno solo con l’attuazione del modello imperiale differenziato, che affermerà lo status di soggetto politico per alcune categorie organiche, culturali e spirituali di persone, ethnos, religione, nazione, contrariamente all’attuale sistema dominante, in cui si tratta solo dello status giuridico di Stati e individui (“diritti umani”). Lo “scontro di civiltà” (per citare Huntington) in un mondo multipolare sarà una realtà solo se queste civiltà riusciranno a stabilire e ad affermare il loro diritto di esistere nel contesto di un’alleanza strategica antiatlantica. Attualmente esiste una sola “civiltà”, quella atlantista, occidentale, liberale e di mercato, che si oppone a tutti gli altri modelli culturali storici organici. Il crollo dell’atlantismo porrebbe i popoli del Nuovo Impero, e i suoi singoli settori, di fronte a un serio problema: se continuare a mantenere l’unità geopolitica o consolidare grandi blocchi di civiltà all’interno dell’Impero come realtà geopolitica indipendente? Ma in ogni caso, le differenze nazionali di popoli e confessioni verranno alla ribalta. In tal caso, l’opzione migliore sarebbe quella di conservare la struttura imperiale come sistema più armonioso per risolvere tutte le contraddizioni interne. Per analogia con la precedente dottrina dello Jus Publicum Europeum, cioè del “diritto civile europeo”, comune a tutti i popoli europei, l’Impero eurasiatico nell’era post-atlantica potrebbe basarsi su una dottrina simile, ma ampliata, dello Jus Publicum Euroasiaticum. Avendo perso il suo significato strategico-militare, il complesso imperiale continentale potrebbe fungere da suprema autorità giuridica, che allenterebbe le tensioni tra le nazioni eurasiatiche, il cui legame si indebolirebbe inevitabilmente dopo la vittoria sul “nemico comune”. Un’uscita del genere sarebbe ideale. Ma possiamo anche ipotizzare il crollo dell’unità continentale e la formazione di diversi blocchi di civiltà nello spazio eurasiatico: russo-slavo (più ampiamente ortodosso), europeo, estremo-orientale, centroasiatico, islamico, ecc. La correlazione di ciascuno di essi con gli altri, e persino i loro confini e le loro strutture, è ovviamente impossibile da prevedere. Tuttavia, in una simile prospettiva ipotetica, la struttura progettuale della nazione russa odierna dovrebbe già includere un modello che tenga conto, in un futuro lontano (e solo dopo la fine dell’atlantismo), della partecipazione indipendente dei russi alla storia mondiale, che è tornata al suo corso organico e naturale dopo un lungo periodo di anomalia atlantista. In questo caso, la nazione russa dovrebbe anche essere pronta a creare la propria statualità, o a formare una più ampia formazione etno-statale naturale, tenuta insieme dall’unità di tradizione, cultura, religione e destino. La questione dello Stato russo può sorgere in tutta la sua forza, ma questo vale esclusivamente per il periodo post-eurasiatico, che di per sé è problematico e ipotetico.»
L’ascesa reale del multipolarismo porterà Dugin a rivedere le sue idee e identificare nelle Civiltà, siano esse millenarie o giovani, le corrispondenti polarità future, con frontiere che fanno da “sfumatura” e sintesi.
Accenno allora qualche suo scritto più recente.
«Quali sono i confini del Mondo russo? Dopo averli definiti, diventa chiaro che questi confini non possono essere né etnici, né statali, né confessionali. Sono i confini della Civiltà, e non sono lineari e rigidamente fissi. Come possiamo collocare lo Spirito, la cultura, la coscienza entro rigidi confini fisici? Ma allo stesso tempo, quando ci allontaniamo troppo dal nucleo del mondo russo, non possiamo fare a meno di notare che a un certo punto ci troviamo in un territorio straniero, nello spazio di un’altra civiltà. Per esempio, dell’Europa occidentale, dell’Islam o della Cina e qui non sono importanti solo la lingua, il fenotipo e i costumi della popolazione locale. Siamo usciti dai confini del mondo russo; la civiltà si è accartocciata, siamo in un nuovo circolo culturale diverso dal nostro» [“Il mondo russo e la sua cattedrale“].
Già qui una distinzione netta con l’eurasiatismo passato e il Dugin passato: la Russia, secondo il vecchio pensiero, non avrebbe dovuto avere un ruolo unificatore per il continente intero, mentre ora questo ruolo da Civiltà-sintesi viene declinato in un compito di conciliazione tra più Civiltà, un ruolo riappacificatore:
«Il Mondo russo è uno dei poli del mondo multipolare. Può essere unito in uno Stato (come la Cina o l’India), oppure rappresentare diversi Stati indipendenti, uniti da storia, cultura e valori (come i Paesi del mondo islamico). In ogni caso, si tratta di uno Stato-Civiltà con una propria identità originale e distintiva. L’ordine mondiale multipolare è costruito sul dialogo di tali “mondi”, Stati-Civiltà. In questo contesto, l’Occidente non deve più essere percepito come portatore di valori e norme universali, universalmente vincolanti per tutti i popoli e gli Stati del mondo. L’Occidente, i Paesi della NATO sono uno dei mondi insieme ad altri, uno Stato-Civiltà tra gli altri: Russia, Cina, India, blocco islamico, Africa e America Latina. Il mondo universale è costituito da un insieme di poli separati – grandi spazi, Civiltà e frontiere – che li separano e li collegano contemporaneamente.
Questo mondo multipolare è costituito dalle seguenti Civiltà:
1) L’Occidente (USA+UE e i loro vassalli, tra cui, ahimè, il Giappone, un tempo fiero e sovrano, ora degradato a fantoccio passivo dei conquistatori occidentali);
2) La Cina (+Taiwan) con i suoi satelliti;
3) Russia (come integratore dell’intero spazio eurasiatico);
4) L’India e la sua zona di influenza;
5) America Latina (con il nucleo di Brasile+Argentina);
6) Africa (Sudafrica+Etiopia, con Mali, Burkina Faso, Niger, ecc. liberati dall’influenza coloniale francese).
7) Mondo islamico (in entrambe le versioni – Iran sciita, Arabia Saudita sunnita ed Emirati Arabi Uniti).» [“Escatologia del mondo multipolare“]
O ancora:
«Oltre all’Occidente collettivo, tre Civiltà si sono raggruppate in quelle che possono già essere definite Civiltà-Stato. Si tratta di Russia, Cina e India. Sono i poli già pronti di un mondo multipolare. Oggi è emerso un triangolo strategico di fondamentale importanza tra Mosca, Pechino e Delhi.
Dobbiamo rendere omaggio a Evgenij Primakov, che ne parlava già negli anni ’90, quando era tutt’altro che ovvio18. Ora si tratta di dare una descrizione “densa” di queste tre civiltà-Stato, che si sono già dichiarate poli, ma che sono solo al primo stadio di una piena realizzazione di ciò che è e di ciò che ne consegue.
La Civiltà degli Stati non è solo quella dei rispettivi Stati “nazionali”. È la Grande Russia, la Russia come Eurasia. È la Cina come Tiansya [o Tianxia]. Questa è l’India di Akhand Bharat. Sì, sono in fase di formazione, ma fondamentalmente ci sono già. Solo dopo una corretta e approfondita descrizione teorica, il contenuto delle loro relazioni – comprese le differenze e le contraddizioni – diventerà chiaro. Il formato RIC (Russia, India, Cina) ha preceduto i BRICS + ma è sopravvissuto. Potrebbe valere la pena di resuscitarla, perché qui ci sono poli già pronti.
Naturalmente si delineano [anche] altri poli: islamico, africano e latinoamericano. Ci sono centri di sovranità di Civiltà, ma il livello di integrazione è ancora insufficiente per parlare di un polo. Il BRICS+ riunisce tutte e sei le Civiltà non occidentali, ma tra queste le RIC hanno fatto più progressi di altre.» [“Oltre all’occidente collettivo“]
Ricordate quando aveva parlato di unica Civiltà presente, parlando dell’occidente? Ora ne sono addirittura sette, seppur solo tre di questi sono Stati-Civiltà (integri o quasi) – ha anche scritto infatti che ormai l’occidente collettivo corrisponde a «non uno dei due, ma uno dei pochi poli», messo al suo giusto posto come «solo una parte, non il tutto, dell’umanità», neanche «un settimo».
Non solo. Il multipolarismo anti-atlantista è effettivamente reale e non vi è stata alcuna necessità di impero:
«L’agosto 2023 può essere considerato il compleanno del mondo multipolare.
Il multipolarismo è stabilito e in qualche modo istituzionalizzato. È ora di guardare più da vicino a come gli stessi poli civili interpretano la situazione in cui si trovano. E qui dobbiamo tenere conto del fatto che praticamente ogni Civiltà sovrana ha una propria idea della struttura della storia, della natura del tempo storico, della sua direzione, della meta e del fine.» [“Escatologia del mondo multipolare“]
E sulla Cina? Su questo è stato anche intervistato dai cinesi stessi.
Alla seguente domanda dell’intervistatore:
«Negli anni ’90 pensavate che la Cina sarebbe cambiata a causa della globalizzazione e che forse si sarebbe unita all’Occidente per diventare una minaccia per la Russia. Ma poi ha cambiato opinione perché anche la Cina è cambiata, e il cambiamento della Cina l’ha sorpresa, perché non se l’aspettava, e quindi è diventato amichevole con la Cina e sostiene di nuovo l’amicizia tra Cina e Russia. È corretto?»
Dugin, con sincerità, rispose senza peli sulla lingua, facendo mea culpa: «Assolutamente sì! Assolutamente! Il fatto è che il cambiamento sia avvenuto circa 25 anni fa, quindi non è stato un cambiamento nuovo.
Le mie opinioni sono cambiate perché la Cina è cambiata, il mondo è cambiato, la Russia è cambiata, la geopolitica è cambiata. E non è corretto usare le mie opinioni estrapolate dal contesto per attaccarmi.
Alla fine ho cambiato opinione dopo aver visitato la Cina negli anni 2000. Ho incontrato molti intellettuali cinesi e abbiamo avuto discussioni serie e molto proficue. Attualmente ho un’opinione completamente diversa, non solo dal punto di vista teorico, ma sono fortemente coinvolto nel lavoro per risollevare la vita della società accademica cinese. Più conosco la Cina, più la ammiro.» [Dall’intervista al Global Times]
Così come il marxismo è cambiato con i contributi del leninismo adeguati all’era dell’imperialismo, i contributi dell’esperienza sovietico-cinese adeguati all’era dell’iper-imperialismo [Cfr “Hyper-imperialism: a dangerous decadent new stage“] e il multipolarismo [“Il pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per la nuova era è il marxismo del XXI secolo“], l’eurasiatismo è cambiato con i contributi duginiani adeguati all’era post-sovietica prima e multipolare poi.
Chiaramente l’essenza dell’eurasiatismo è rimasta e rimane, e cioè:
1) Sintesi dei contributi dei geopolitici realisti, dai continentalisti Schmitt e Haushofer ai talassici Mackinder e Spykman.
2) Russia = gran parte dell’Eurasia = approssimativamente l’Heartland.
3) La posizione geografica russa la predilige nel suo ruolo di unificatore continentale (non per forza imperiale), per via della sua Civiltà-sintesi, in contrapposizione con la talassocrazia atlantista.
4) Occorre un’unione continentale – è indifferente la forma statuale (se federazione, confederazione, alleanza, o numerosi rapporti bilaterali, o “partenariati strategici” come direbbero Putin e Xi) – che comprenda non necessariamente tutto il continente ma buona parte delle sue Civiltà. Da ciò la necessità di collaborare con altre Civiltà con altri punti di vista e valori, la sovranità culturale, ecc.
5) Occorre esser ideocratici, socialisti e comunitaristi, in totale opposizione alla struttura talassocratica occidentale.
Una chiara critica ai limiti di Dugin l’ha esposta Haz Al-Din, principale esponente e teorico del think tank comunista statunitense “Infrared” [Intervista di Leonardo Sinigaglia ad Haz per L’AntiDiplomatico] (aggiungo a titolo informativo che mentre sto finendo di scrivere questo saggio, hanno fondato il Partito Comunista Americano scindendosi dal PCUSA).
Dugin viene più volte citato e analizzato da Infrared nei loro video divulgativi su internet, oltre ad averlo recentemente intervistato durante la visita dei delegati di Infrared a Mosca (con i comunisti cinesi che hanno fatto da intermediari a quanto pare) [Video YouTube dell’intervista]. La critica di Haz, che riconosce anche i grandi pregi del pensatore russo, sono la critica marxista più corretta al lato mistico-metafisico dell’eurasiatismo, che Haz individua come forma di reazione al crollo dell’Urss. In risposta ai revisionisti sinistri all’interno del Partito Comunista degli USA, in particolare Taryn, Haz scrive:
«Gli imbecilli pseudo-marxisti come Taryn, per i quali il marxismo non è altro che un’enciclopedia di virtuosismi e di scalate di carriera, interpretano tutto il linguaggio che esula dalla rigidità della “scienza” anglosassone come “idealista”, ma per una persona minimamente istruita sulla storia dell’idealismo e del materialismo, non si tratta di idealismo, ma di un materialismo unilaterale di cui Dugin è colpevole. Come già sottolineato da pensatori come Georges Bataille e dai loro predecessori (Nietzsche), non occorre un grande sforzo per riconoscere che il materialismo modernista è in realtà idealista. Il materialismo moderno (l’empirismo inglese e il sostanzialismo francese) cerca di incatenare la realtà materiale a forme ideali definite, tentando di fatto di condizionare qualsiasi relazione con il mondo materiale in base a un ideale rigido (quello della forma di misurazione, o di una nozione predefinita di materialità; sostanza). Sebbene questa relazione abbia prodotto dei risultati, non dà una reale precedenza al contenuto materiale rispetto alla forma (qui sta la chiave di tutta la crisi della scienza moderna, in particolare nel campo della fisica e della biologia). Un filisteo non potrebbe mai essere un materialista: solo attraverso l’acculturazione, l’assorbimento dei tesori dell’umanità e il possesso di un senso letterario completo, si può dare vera espressione all’essere materiale, che non si conforma agli angusti parametri stabiliti dalla scienza e dalla logica moderne.
Le carenze di Dugin sono parallele alle carenze dello stesso marxismo-leninismo tardo-sovietico: solo che non è altro che il suo rovescio scandaloso e occulto. Il marxismo-leninismo sovietico si limitava a un’ideologia ufficiale; gli scritti di Dugin si limitano alle loro reali premesse materiali (cioè, sotto forma di geopolitica, realtà inconsce della Civiltà russa, ecc.). Il principale scandalo di Dugin per il marxismo-leninismo è sempre stato solo l’insistenza sulla precedenza di una realtà materiale non condizionata da una particolare ideologia.»
Sulle accuse di fascismo o neo-fascismo rivolte a Dugin e gli eurasiatisti legati alla Quarta teoria politica (cioè la presunta ideologia vera e propria che cerca di fare da sovrastruttura all’eurasiatismo), Haz scrive:
«È comune considerare la Quarta Teoria Politica di Dugin come una riedizione della Terza Posizione fascista (come ci si può aspettare da un ignorante filisteo, Taryn tenta proprio di trarre questa conclusione, fallendo pateticamente). Ma la terza posizione era semplicemente un rifiuto del capitalismo e del “comunismo”. La Quarta Teoria Politica non si definisce principalmente con il semplice rifiuto delle altre, ma con l’apertura di un’indagine sulle reali origini della politica del XX secolo, liberata dai pregiudizi ideologici ad essa inerenti. La chiave non sta nel rifiuto, ma nella relativizzazione di tutte e tre le “teorie politiche”: c’è una realtà più fondamentale di quella che può essere descritta nei loro termini.
Un certo agnosticismo è insito nella “quarta teoria politica”. Tutte le teorie precedenti sono definite, determinate e particolari: Liberalismo, Comunismo e Fascismo. Il nome della Quarta rimane ambiguo e lasciato a ulteriori indagini. Il punto è che ci sia una quarta teoria; scoprire il suo contenuto è l’intero scopo del progetto. E se questa “quarta teoria politica” non fosse altro che il marxismo-leninismo stesso? E se fosse proprio e solo il marxismo-leninismo19, e il suo materialismo specificamente dialettico, a consentire la possibilità di conciliare la propria ideologia con le sue reali premesse materiali? Dugin ha conosciuto esclusivamente il marxismo-leninismo nella sua forma ufficiosa e stagnante del periodo tardo-sovietico, ma non ha mai assorbito – come altri pensatori russi del periodo tardo-sovietico – la genialità del contributo del pensiero di Mao Zedong al marxismo-leninismo, la stessa genialità a cui si deve la vitalità e il successo del comunismo cinese», che guardacaso Dugin ammira vedendone i frutti.
«La stragrande maggioranza dei pensatori sovietici ha ignorato completamente il rilancio del marxismo-leninismo da parte di Mao, insistendo sul fatto che la scelta era solo tra il marxismo-leninismo sovietico ufficiale e stagnante e il liberalismo occidentale. Tuttavia, dato il modo in cui la Cina è riuscita a evitare il destino dell’Unione Sovietica, il pensiero di Mao Zedong è evidentemente degno di essere esaminato.
Parafrasando Alain Badiou, il principale contributo di Mao è stato l’introduzione della nozione di infinito nel marxismo. Non solo l’adozione di una quarta, ma anche di una quinta, sesta, settima, ecc. teoria politica sono già parte integrante della natura costantemente auto-rivoluzionaria, auto-riformatrice e auto-ristrutturante del comunismo cinese. Il contesto che ha dato origine a Mao, che si colloca tra i più grandi leader politici della storia dell’umanità, non risiedeva nell’impegno verso un’ideologia, ma nell’impegno verso un popolo, una cultura e una civiltà. Il contesto materiale primario che ha definito la vita politica di Mao non è mai stato basato sull’ideologia, ma sulle aspirazioni del popolo cinese e sul ringiovanimento della sua civiltà che dura da 5.000 anni. In un certo senso, Mao era un “duginista” prima ancora che Dugin nascesse. Mao conosceva già bene ed era profondamente immerso nelle realtà geopolitiche, letterarie, civilizzatrici, tradizionali, inconsce, demotiche, nazionali, persino mistiche, ecc. che dovevano essere scandalosamente riesumate da Dugin. La stragrande maggioranza della formazione letteraria di Mao, ad esempio, non proveniva dall’Occidente moderno, ma dai classici della letteratura cinese.
Costringere l’ideologia del marxismo-leninismo a confrontarsi, sopravvivere e riadattarsi alle sue reali premesse materiali nel popolo cinese ha definito l’intera vita politica di Mao e la vita del Partito Comunista Cinese fino ad oggi. In Sulla contraddizione Mao esprime già una visione materialista sulla contingenza dell’ideologia e della politica di fronte alla realtà materiale: Questo è chiaro nella distinzione tra contraddizioni primarie e secondarie. Per Mao, nel bel mezzo dell’invasione giapponese della Cina, le differenze ideologiche e persino quelle politiche interne sono relegate a un significato secondario (più o meno come lo erano state all’indomani del crollo sovietico e della cosiddetta alleanza “rosso-bruna”!), mentre l’unità del Paese contro l’aggressione giapponese diventa la contraddizione primaria. Non si tratta di un’unità di idee o ideali condivisi, ma di un’unità basata sul conflitto materiale e geopolitico tra la nazione cinese e il Giappone. Per Mao, questo conflitto è oggettivo, mentre le diverse ideologie politiche sono articolazioni soggettive di questo conflitto oggettivo. Mao riteneva che il marxismo-leninismo si sarebbe dimostrato l’interfaccia meglio equipaggiata con le condizioni oggettive, ma ciò doveva essere dimostrato nel deserto della realtà materiale (la guerra), non presunto.»
Sono senza dubbio dichiarazioni forti. Ma Haz continua:
«L’errore di Dugin sta nel rifiutare che la contraddizione – tra gli ideali ufficiali e le verità esoteriche più profonde e oscure della realtà – prenda essa stessa forma determinata e si riproduca nell’intero tessuto dell’essere. Sì, l’ideologia marxista-leninista non può condizionare le sue premesse reali – ma non si può nemmeno dare espressione a queste premesse senza riconoscere ciò che esse presuppongono. Dugin rimane agnostico su questo punto, ed è per questo che il suo pensiero, nonostante la sua genialità, creatività e intuizione, non si trasforma mai in una scienza, cioè in una forma di pensiero che produce conoscenza reale (al contrario di un senso ambiguo) e intuizioni pratiche. Per Mao, che il marxismo-leninismo non possa condizionare le proprie premesse è già un’intuizione superflua, un’intuizione che è già contenuta nell’essenza del marxismo-leninismo stesso. La dialettica materialista serve proprio a riconciliare la contraddizione tra contenuto e forma, il cui contenuto non è altro che l’essenza stessa della contraddizione. L’intero corpo di conoscenze e intuizioni proprie del marxismo-leninismo non consiste in dogmi officiati, ma in un deposito di saggezza accumulata di fronte a queste precise contraddizioni.
Il marxismo-leninismo non è solo un’ideologia, è un indice di un’esperienza concreta e storica definita. È un deposito di intuizioni pratiche e operative di natura pragmatica, che non si prestano necessariamente a un determinato orientamento ideologico. Le intuizioni della scienza marxista-leninista sono pragmatiche e oggettive, e ciò che se ne fa è di competenza di una moltitudine di orientamenti ideologici in competizione tra loro. Pertanto, in qualsiasi fase della storia del Partito Comunista Cinese, rimangono orientamenti di destra, sinistra e centro, con la sopravvivenza del partito che dipende dalla vittoria dell’orientamento di sinistra (da non confondere con l’ultra-sinistra). Xi, ad esempio, ha avviato questo orientamento ideologico sotto forma di rivoluzione spirituale e morale nella cultura, nella letteratura, nelle arti e nei media. Quello che Dugin non capisce è che, nonostante la moltitudine di ideologie politiche a cui la realtà materiale dà origine, l’ideologia ha un ruolo nell’influenzare la forma determinata dell’essere materiale. Lo dimostra il fatto che, nonostante il marxismo-leninismo sia stato ufficialmente abbandonato, la Russia e gli altri Stati ex sovietici ne sono ancora inconsciamente influenzati, dalla cultura ai modi di pensare intuitivi.
Questo non significa che il marxismo-leninismo possa sostituire o condizionare le realtà geopolitiche, di civiltà, nazionali, culturali, eccetera, ma solo che il comunismo (guidato dai partiti marxisti-leninisti) ha influito in modo irreversibile ed è diventato parte di queste realtà geopolitiche, civilizzative, nazionali e culturali – anche ben dopo essere stato abbandonato ideologicamente. È proprio questo che manca a Dugin nella sua critica della modernità: Sì, la modernità è stata la più grande apocalisse vissuta dall’umanità, ma l’unica strada per la rinascita dei grandi imperi tellurici asiatici non consiste nel rifiutarla o nel resisterle, ma nel renderla superflua e solo un singolo capitolo di una storia molto più antica – impresa che l’Unione Sovietica e la Cina hanno effettivamente compiuto.»
E sorge da qui come conseguenza uno dei punti più caratteristici di Dugin, o dei russi in generale: l’onnipresenza dell’escatologia:
«Dugin non pensa oltre la soglia dell’apocalisse – e forse questo non è necessariamente un difetto. È una caratteristica intrinseca della letteratura russa quella di rimanere perennemente innamorata di un’apocalisse sempre all’orizzonte, scongiurata solo dal Katéchon. Questa prospettiva ha prodotto alcune delle opere più brillanti, belle e penetranti della storia dell’umanità. Tuttavia, per quanto riguarda il marxismo-leninismo, esso non poteva limitarsi alla ristretta prospettiva sovietica, ma questo non significa che sia ormai superato.»
Ma Haz non si ferma qui. La critica va avanti e attacca il rigido marxismo-leninismo, o almeno quello che ancora non riesce a smobilitarsi ed accettare nell’inconscio il crollo dell’Urss, ancorandosi di conseguenza, volontariamente o meno, a schemi ancora novecenteschi:
«Il marxismo-leninismo non ha alcun significato nel XXI secolo, nella misura in cui non ha integrato i contributi del pensiero di Mao Zedong. E al di fuori della Cina nessun partito marxista-leninista è riuscito a integrare questi contributi. Le perversioni psicotiche del pensiero di Mao, che si possono trovare nel maoismo occidentale, ignorano la ricca profondità del contesto della Civiltà cinese che ha formato il pensiero di Mao. Per quanto riguarda i partiti comunisti ufficiali sopravvissuti, non si sono mai umiliati di fronte alla lezione del crollo dell’Unione Sovietica. Il Partito Comunista degli Stati Uniti, di cui il filisteo Taryn scrive a nome, non ha ancora riconosciuto i contributi del pensiero di Mao Zedong oltre trent’anni dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica! Nella sua arrogante inerzia, sembra che il Partito Comunista preferisca dissolversi piuttosto che accettare che la parte cinese sia stata vendicata dopo la scissione sino-sovietica. Si aggrappa a una forma corrotta e liberalizzata del marxismo-leninismo sovietico che è stato completamente deframmentato dalle sue occulte tendenze cosmo-apocalittiche.»
E conclude:
«Questa stessa decadenza, corruzione e inerzia è anche responsabile dell’errata concezione del Fronte Popolare e dell’antifascismo del Partito Comunista, che è alla base dell’intero appello di Taryn ai pigmei mentali, ai deboli e ai traditori del partito contro i “socialisti patriottici”, gli “infiltrati rossobruni”, i “duginisti” e i “fascisti”.
La patologia “antifascista” dei liberali di oggi ha sigillato in modo permanente le critiche fondamentali al capitalismo liberale moderno da cui è nato il marxismo stesso. Invece di considerare fascisti pensatori ambigui come Dugin e altri, perché non riconoscerli per quello che sono? Appartengono all’ampio canone dei socialisti e comunisti spontanei e non marxisti. Il manifesto comunista descrive quasi una mezza dozzina di diverse tendenze socialiste del suo tempo, le più diffuse delle quali sono quelle reazionarie, feudali e piccolo-borghesi. Il comunismo o il socialismo – nelle sue manifestazioni spontanee, non elaborate e non scientifiche – rappresentano rifiuti vaghi, incoerenti, dissipati e persino oscurantisti dell’ordine e dell’establishment prevalente. Ciò non significa che possano essere liquidate come “fasciste”, poiché il fascismo è stato lo strumento di una borghesia industriale, imperialista e finanziaria internazionale radicata. Non fu un fenomeno autenticamente spontaneo o popolare.» [“The Brahmins of Democracy“]
Aggiungo io che mentre Marx ed Engels individuarono ai tempi del Manifesto tre forme di socialismo – reazionario (che può essere feudale, piccolo-borghese o “vero socialismo” e cioè tedesco), conservatore, o borghese –, la manualistica cinese distingue addirittura 25 tipologie di socialismo, in particolare nel manuale A history of schools of socialism [社会主义流派史].
È stato piuttosto chiaro Dugin nella posizione sociale che devono avere gli eurasiatisti, e cioè che occorra esser socialisti, in contrapposizione al liberalismo talassocratico-occidentale. La caratteristica del socialismo di Dugin e dei suoi seguaci è chiaramente il retaggio metafisico ed occultistico della nuova destra europea, un socialismo quasi feudale, tant’è che più volte è stata espressa l’idea di un “Nuovo medioevo” [“Avanti verso il nuovo medioevo!“].
Ma questo fa parte della Quarta teoria politica, di cui Haz ha parlato esponendone le contraddizioni e i pregi, azzardando ad ipotizzare in questa una continuità col marxismo-leninismo del XXI secolo.
Noi continuiamo a parlare di eurasiatismo.
Prima di parlare di Civiltà ed Impero però vorrei aprire una parentesi su due questioni che sono meglio poste in questo momento piuttosto che in seguito, dato che stiamo parlando della strategia eurasiatista e della sua essenza. Non facciamoci scappare nulla, in modo tale da avere un quadro completo.
Parliamo dunque dell'”ideocrazia” e della “geografia sacra” citati di sfuggita da Indipendenza.
La rivista scrive: «Trubetskoij pone, elaborando la teoria dell’«ideocrazia», l’élite eurasiatista – tradizionale, intellettuale e religiosa – vista come una sorta di Ordine».
Le parole hanno un peso, ed «élite» e «Ordine» vogliono far chiaramente intendere che l’ideocrazia consista in una sorta di autocrazia in cui una stretta aristocrazia (nel senso greco del termine, “i migliori”) intellettuale – un po’ come nella Repubblica di Platone, ma in questo caso necessariamente eurasiatisti – comandino una sorta di impero continentale. La realtà del concetto di “ideocrazia”, usato da Savitskij e Trubetskoij, è molto più semplice, e viene sintetizzata da Dugin in Fondamenti:
«Un aspetto molto importante della teoria di Savitskij è il principio di “ideocrazia”. Savitskij riteneva che lo Stato eurasiatico dovesse essere costruito a partire dall’impulso spirituale originario, dall’alto verso il basso. Di conseguenza, la sua intera struttura dovrebbe essere costruita in accordo con un’Idea a priori, e questa struttura dovrebbe essere guidata da una classe speciale di “leader spirituali”. Questa posizione è molto vicina alle teorie di Schmitt sull’impulso “volitivo” e “spirituale” all’origine del Grossraum.»
Se ci fermiamo con la lettura su queste righe, la sintesi di Indipendenza sembrerebbe giusta. Ma andiamo avanti, perché il modo in cui scrive Dugin senza usare mezzi termini, se decontestualizzato porta a conclusioni approssimative.
«Ideocrazia è un termine che accomuna tutte le forme di governo non democratiche e illiberali basate su motivazioni non materialistiche e non utilitaristiche. Inoltre, Savitskij evita deliberatamente di specificare questo concetto, che può essere incarnato dalla Sobornost teocratica, dalla monarchia popolare, dalla dittatura nazionale e dallo Stato di Partito di tipo sovietico. Questa ampiezza del termine corrisponde agli orizzonti puramente geopolitici dell’eurasiatismo, che abbracciano vasti volumi storici e geografici. È un tentativo di esprimere nel modo più preciso la volontà intuitiva del continente.
Il punto di vista di Savitskij sull’ideocrazia risuona con le idee del sociologo ed economista tedesco Werner Sombart, che divideva tutti i modelli e le tipologie sociali in due classi generali: “eroi” e “mercanti”. A livello geopolitico, il termine “eroe”, “eroismo” perde il suo significato metaforico e patetico e diventa un termine tecnico per la specificità giuridica ed etica del governo ideocratico.»
Si stupirà dunque Indipendenza, e sicuramente molti altri lettori, nel scoprire che quando Savitskij e Trubetskoij parlavano di ideocrazia (e i neo-eurasiatisti ne parlano ancora), comprendevano assolutamente anche l’Unione Sovietica, guidata da un Partito che seguiva un’ideologia, un ideale e dei valori, a differenza delle talassocrazie col loro liberalismo, che è una negazione del Totale, di qualunque valore ed ideale, incentrando il tutto sull’interesse materiale (economico) fine a se stesso. È questo il mercante, contrapposto all’eroe, il virtuoso (e rieccoci Confucio e Rousseau).
Per la teoria eurasiatista, le Civiltà telluriche hanno una caratteristica particolare, e cioè che, nella loro essenza tradizionale e comunitaria, sono anche ideocratiche, in quanto per una statualità che regge su tradizione e comunitarismo occorre seguire una prassi di governo che non segua gli interessi materialistici (nel senso di accumulazione fine a se stessa) ma gli interessi della massa e delle sue tradizioni. Abbiamo dunque la forte impronta religiosa nella Russia imperiale (non voglio ora negare le contraddizioni economico-sociali che i Romanov ebbero nel XIX-XX secolo), nell’Iran e negli altri Paesi islamici – occasionalmente sostituiti dal panarabismo secolare –; il confucianesimo nella Cina imperiale; il pensiero del Dharma nei vari regni del Bharat; chiaramente il socialismo nella nuova Cina e nell’Urss; e il patriottismo dei vecchi siloviki nella nuova Russia, che si sta implicitamente trasformando in un informale eurasiatismo, nonostante le spinte di Dugin e dei suoi ambienti che lanciano appelli continui per una formale ideologia di Stato. Chiaramente quando gli interessi personali-elitari di una determinata statualità tellurica prevalgono, l’ideologia che regge l’ordine della comunità viene mantenuta di facciata – ad esempio l’ipocrisia degli zar, specialmente gli ultimi, svenduti alle potenze estere, o l’ipocrisia degli stessi gerarchi tardo-sovietici, ormai alienati dalle masse e non più veramente socialisti –, ma la differenza con la tipica talassocrazia sta proprio qui. La borghesia occidentale, salvo la parentesi nazi-fascista (andata malissimo), non usa assolutamente maschere, ed anzi cerca di interiorizzare il modo di pensare e fare borghese al popolo stesso, con (non-)pensieri come l’individualismo, il nichilismo, il relativismo, e cioè la corsa al denaro, alla liquidità sociale. La maschera che l’occidente usa è al massimo terminologica: chiamare la guerra “pace” e l’oligarchia “democrazia”, ma a parte ciò, non vi sono più valori e virtù nella talassocrazia occidentale, dal momento che il relativismo annulla ogni confine tra bene e male e l’individualismo, il male assoluto, è ormai ciò che viene ritenuta come unica verità, nel senso positivista del termine.
Ma come abbiamo visto, un’ideologia che regge una Civiltà può anche non essere “politica” nel senso stretto della parola: può anche essere una religione (anche qui, nel senso stretto della parola, in quanto in senso lato anche il socialismo o il patriottismo può esser definito “religione”, seguendo l’etimologia, cioè “relegare”, unire molti con dei riti comuni).
E da qui la “geografia sacra”. Ma cos’è?
Indipendenza scrive:
«Attorno a questa convinzione di fondo e collegandola con i diversi modelli di visione ciclica della storia, vengono espressi richiami e riferimenti culturali a figure come Danilevskij, Spengler, Toynbee, Gumilev. Tale presa di posizione “di principio” si condensa e si sublima in una concezione filosofica “tradi-zionalista”, che nega radicalmente l’idea di evoluzione e progresso, fonda questa negazione su esoteriche e metafisiche concezioni ed assume la teoria tradizionale dei cicli, dei «cicli cosmici», dei «molteplici stati dell’essere», della «geografia sacra» e così via. Il richiamo principale è in tal senso a Evola nonché a Guénon e ai suoi seguaci.»
Sul mito della «ciclicità della storia» e la «negazione del progresso e dell’evoluzione», credo che abbiamo già sfatato abbastanza, ed anzi ne parleremo indirettamente ancora nel prossimo capitolo. Ma proseguiamo:
«Questa dimensione onirica, a-storica, non dialettica, irrazionale, è centrale e decisiva nell’immaginario fideistico eurasiatista e si connette, a sua volta, al tentativo di fondare monumenti linguistici, epigrafici (runologia), mitologici, folkloristici, rituali che sostanzino l’idea non solo di una «geografia sacra», ma appunto di una «concezione sacra del mondo» comune a tutti i popoli d’Eurasia, nella convinzione di cementare così le coscienze di questo spazio geopolitico ed imperiale per eccellenza. Il concetto di «società tradizionale» si viene così a porre fuori dallo scorrimento storico per realizzarsi deterministicamente, al di là delle volontà umane stesse, secondo riti e miti dell’«eterno ritorno».»
Indipendenza pone un certo groviglio di concetti paragonandoli e cercando di metterli nello stesso discorso, ma la geografia sacra non c’entra in verità con la ciclicità della storia o l'”eterno ritorno” nicciano. Non necessariamente.
Lo studioso Aleksander Markovics, eurasiatista austriaco legato a De Benoist, riassume bene il concetto nel suo articolo sull’escatologia della questione palestinese: «Il termine geografia sacra implica che un paesaggio abbia un significato sacro intrinseco derivato da Dio o dagli Dei, a seconda del tipo di religione. È un tipo di spazialità piena di divino. Pertanto la Geografia sacra è un modo di percepire il mondo in relazione al mito e alla fede. Dà vita anche a luoghi santi che vengono continuamente consacrati da riti. Mentre, ad esempio, gli antichi egizi credevano che le terre a ovest delle colonne d’Eracle (l’attuale Gibilterra) costituissero il regno della morte, gli europei nel Medioevo credevano che la moderna Scandinavia e l’Europa orientale fossero terre abitate da stregoni e popoli selvaggi.» [“Geografia sacra ed escatologia geopolitica postmoderna: a proposito del caso palestinese“]
Da ciò, Markovics parla di come la Palestina sia sacra per le tre principali religioni abramitiche – nonostante tutte con la stessa radice teologica, interpretano quella terra sacra con visioni totalmente diverse. Ciò influisce assolutamente sul corso della storia. Lanciare missili sulla Mecca o su Riyad avrebbe implicazioni assolutamente diverse, così come il progetto escatologico degli ebrei revisionisti e con indole apocalittico-messianica, che vuole distruggere Al Aqsa per ricostruire il Tempio – questione che qui in occidente viene in ignorata, ma altrove no, e sono gli altri quelli che contano – spinge una fetta non indifferente dei musulmani ad imbracciare le armi e scacciare non solo l’invasore, ma il blasfemo Dajjal occidentale. La geografia palestinese è sacra per la Civiltà islamica, e la guerra di liberazione palestinese non ha chiaramente le stesse connotazioni della lotta di liberazione algerina anche per questo. Ogni Civiltà ha sue geografie sacre, che corrispondono a luoghi simbolici, di origine, siano essi religiosi, spirituali o patriottici. Putin ha evidenziato più volte come la grande capitale Kiev, il fiume Dnepro in cui si è battezzata la Rus’, l’Ucraina in generale, sia la linea rossa per la Russia non solo per la sua vicinanza geografica a Mosca, ma anche per la sua storia, il suo logos ed ethnos intrinsicamente legato al Russkij Mir. Si è permesso (anche per via della debolezza del Paese ai tempi) ai Baltici di entrare nella Nato, così come ora è entrata la Finlandia, eppure queste sono assai più vicine a San Pietroburgo di quanto non lo sia l’Ucraina a Mosca. In molti circoli gira la voce da diversi anni che occorra un’operazione speciale anche nei Baltici, dato la loro nazistizzazione – inutile parlarne ora; credo che siamo tutti informati a riguardo –; eppure, la linea rossa è l’Ucraina. Per molti motivi, lo sappiamo bene. Dal genocidio in Donbass alle minacce missilistiche, ai piani imperialisti-geostrategici mackinderiani piuttosto chiari, volti ad avanzare ad est lungo la vasta pianura eurasiatica. Ma uno dei punti centrali è l’essenza ucraina, che non si può accettare venga tramutata, usando le parole di Putin, in una «anti-Russia».
Lo stesso si può dire del Kosovo per la Serbia. Si può dire che la nazionalità serba sia nata proprio lì, nella piana dei Merli, in cui si registrò la più grande vittoria nazionale contro l’impero ottomano. Lì vi sono i monasteri ortodossi tra i più antichi dei Balcani, e sicuramente i più antichi della Jugoslavia. E lo stesso vale per i monti Altaici – che fanno attualmente parte della Russia ma sono parte inalienabile del popolo turcico e mongolo –, o il fiume Indo per il Bharat, il monte Changbai per la Corea, l’Ararat per l’Armenia,
Tutte le grandi Civiltà individuano in luoghi particolare nella propria geografia in generale un certo Spirito, una sacralità indissolubilmente legata al popolo stesso che ne calpesta il suolo. Ciò prende metafisicamente varie forme, dal religioso al laico, andando praticamente a sfumare i confini tra il terreno e l’ultraterreno in varie culture. Per la spiritualità persiana esiste il “Mondus immaginalis” (Henry Corbin), per i cinesi c’è il concetto di Tianxia [天下], tutto sotto al cielo (che varia dai confini tradizionali della Civiltà del Grande impero cinese che comprende buona parte dell’oriente, all’interpretazione moderna dei globalisti cinesi come Zhao Tingyang), o il Akhand Bharat, la grande India, eccetera.
Dopo aver citato Civiltà per forse un centinaio di volte, sarebbe ora di passare a parlare finalmente di Civiltà nella loro essenza.
4. Nazione, Civiltà, Impero
La teoria marxista e leninista si è sempre ancorata ad una prassi e un’analisi del mondo basata sul modello di Stato-Nazione, almeno fino a Mao, che non ha mai definito l’entità della Civiltà, ma ha timidamente trovato differenze strutturali e culturali tra occidente e Cina. È servito l’eurasiatismo e i contributi di vari geopolitici realisti per elaborare una prima bozza teorica sulla natura della Civiltà e dello Stato-Civiltà.
Come abbiamo già esposto precedentemente, lì dove l’eurocentrismo ha potuto portare ad errori, il marxismo, basandosi su un’analisi del mondo prendendo l’Europa come “campione”, ha commesso errori. Il problema non sta tanto in questo, dato i limiti materiali e storici che ebbero Marx ed Engels nel XIX secolo, ma nel perpetuare tale errore a distanza di due secoli di contributi extra-europei. Sull’imperialismo e sulla liberazione nazionale-coloniale ci hanno fortunatamente pensato Lenin e Stalin, e gli occidentale hanno, almeno in parte, recepito tale rivoluzione del marxismo tanto da aggiungerci il suffisso “-leninismo”; tuttavia, sulla multilinearità dialettica della storia a cui hanno posto rimedio Mariàtegui, Mao, Jaffe, Nkrumah e, a casa nostra, Melotti e Preve, si recepisce un nulla cosmico in occidente; così come vi è nulla cosmico sui contributi storico-sociologici di Weber, i contributi storico-geopolitici di Schmitt ed altri realisti (e figuriamoci i contributi eurasiatisti di Savitskij e Dugin). Chi è che sta a passo coi tempi su assolutamente tutti i campi citati, assorbendo i contributi senza farsi problemi tra la dicotomia arbitraria “destra-sinistra”? I cinesi.
Se si sta sistematizzando una teoria sullo Stato-Civiltà e sulle Civiltà in sé è infatti grazie ai marxisti cinesi, che sono realisti ed evidentemente anche comunitaristi e tellurici, continentalisti, se non eurasiatisti.
Cos’è una Nazione? Banalmente Stalin la definì, ne Il marxismo e la questione nazionale e coloniale (cap. I), come «una comunità stabile, storicamente formatasi, che ha la sua origine nella comunità di lingua, di territorio, di vita economica e di conformazione psichica che si manifesta nella comune cultura». Sulla «vita economica» si potrebbe obiettare che determina più che altro uno Stato-Nazione e non una Nazione in sé. Comunque ce lo facciamo andare bene.
Nello stesso scritto, nel capitolo seguente, Stalin tuttavia evidenzia come «La Nazione non è soltanto una categoria storica, ma una categoria storica di un’epoca determinata, l’epoca del capitalismo ascendente.
Il processo di liquidazione del feudalesimo e di sviluppo del capitalismo è al tempo stesso un processo di unificazione delle popolazioni in Nazione. Così, per esempio, sono andate le cose nell’Europa occidentale.»
Anche qui, sembra che più di Nazione si parli di Stati-Nazione, tant’è che subito dopo sottolinea come «L’Irlanda, rimasta fuori di questo processo, non cambia il quadro generale», chiaramente riferendosi al fatto che l’Irlanda come nazione non si sia riuscita a costituire in Stato.
Stalin riconosce tuttavia una realtà, che quasi “contraddice” con la tesi leniniana fortemente eurocentrica (come quella di Marx ed Engels) secondo cui ogni Nazione (ovviamente dipende dal contesto “globale”, in senso politico) ha diritto ad una Repubblica indipendente o perlomeno autonoma (tant’è che Stalin fu fortemente contro la volontà di Lenin e dei trotskisti di costituire l’URSS come appunto Unione di Repubbliche autonome):
«In maniera piuttosto diversa sono andate le cose nell’Europa orientale. Mentre in Occidente le Nazioni si sviluppavano in Stati, in Oriente si formavano Stati plurinazionali, Stati composti di parecchie nazionalità. Tali l’Austria-Ungheria e la Russia. In Austria i tedeschi, più progrediti dal punto di vista politico, si assunsero il compito di unificare le varie nazionalità in un solo Stato. In Ungheria si dimostrarono più adatti a organizzare lo Stato i magiari, nucleo delle nazionalità ungheresi ed unificatori dell’Ungheria. In Russia, il compito di unificare le nazionalità fu assunto dai grandirussi [velikorussi], che avevano alla loro testa una burocrazia militare aristocratica, forte e organizzata, formatasi storicamente.»
Stalin si ferma qui, nell’individuare una forma statuale diversa: lo Stato plurinazionale, caratteristico in Oriente. Uno Stato plurinazionale tuttavia non porta inevitabilmente allo sviluppo di una Civiltà o uno Stato-Civiltà. Si pensi alla Bolivia, che si auto-proclama ufficialmente Stato plurinazionale, ma che indubbiamente fa parte di una Civiltà andina o latinoamericana.
Possiamo comunque dire per certo che il fenomeno della formazione di Stati-Nazione sia caratteristica, come dice Stalin, del passaggio dal feudalesimo al capitalismo, e ciò è avvenuto infatti solo in occidente. Questo modello è stato applicato in giro per il mondo (imposto dall’alto e senza un movimento storico nazionale partito dal basso come invece è avvenuto qua) attraverso il colonialismo e l’imperialismo, andando a istituire Stati strutturati eurocentricamente lì dove vi erano tribù o imperi plurinazionali, o Civiltà già formate (ma non nella loro statualità) – spesso andando anche a frammentare Nazioni in divenire (si pensi alla Jugoslavia).
Gli eurasiatisti intravedevano già una differenza tra Civiltà russa e “Civiltà europea” o “occidentale”20, ma il concetto di Stato-Civiltà è stato introdotto proprio dagli intellettuali della Cina comunista, poi adottato da pensatori e statisti russi, indiani ed altri.
Ed è qui che l’uscita spiacevole di Indipendenza va ricordata:
«A giustificare le supposte radici comuni dei popoli eurasiatici vengono addotte motivazioni di ordine razziale e ‘spirituale’, la cui legittimazione culturale è offerta dalle concezioni di Lev Gümilev (1912-1992) e da quelle del politologo Carl Schmitt (1888-1985), noto esponente della Konservative Revolution e vicino al nazismo.»
L’accenno, per come è stato posto, marca chiaramente la volontà di liquidare prima Gümilev – su cui abbiamo ampiamente parlato – e poi Schmitt perché «vicino al nazismo». Questo mito va decostruito (per la centesima e speriamo ultima volta).
Schmitt fu un giurista. Contribuì indirettamente all’ascesa del nazismo in quanto egemone tra i giuristi che criticarono e abbatterono le fondamenta della repubblica di Weimar. Profondamente influenzato da Haushofer, auspicava in un’alleanza tellurica tra Germania e Unione Sovietica, e non erano molto nascoste le sue simpatie per i contributi dati dal marxismo, pur non essendo lui stesso marxista. Ciò gli costò non poco. Da giurista, per via del suo ruolo istituzionale, fu costretto a tesserarsi, ma fu comunque emarginato per le sue idee, e non fu ucciso nella notte dei lunghi coltelli o nelle purghe successive per via della sua vicinanza personale a Göring, che lo risparmiò dalla volontà di Hitler ed altri dirigenti nel farlo fuori. Ad Haushofer andò purtroppo molto peggio; nonostante la sua vicinanza personale col suo allievo Rudolf Hess, suo figlio fu fucilato. Come scrive Dugin in Fondamenti, «Rispetto ai geopolitici “talassocratici”, il loro destino è tragico; le loro carriere procedono a zig zag (…).
Il ruolo delle personalità geopolitiche in termini di influenza sul potere è fortemente ridotto lungo l’asse Ovest-Est. Alla venerazione per Mahan e Spykman si contrappongono le costanti minacce a Schmitt da parte delle SS e la persecuzione di Haushofer (il figlio fu fucilato) e, in misura ancora maggiore, del campo di Savitskij e Karsavin. È sorprendente che, alla fine, siano stati i Paesi che hanno ascoltato e valorizzato di più i loro geopolitici a ottenere risultati sorprendenti e a sfiorare il dominio esclusivo del mondo. Al contrario, la Germania ha pagato il prezzo della sua disattenzione alla tesi del “blocco continentale” di Haushofer uscendo dalla storia per mezzo secolo, subendo una mostruosa sconfitta e cadendo nell’inesistenza politica. L’URSS, che non ha prestato attenzione agli scritti dei patrioti russi più responsabili, profondi e perspicaci, si è trovata quasi nella stessa situazione della Germania del dopoguerra, senza lottare né resistere L’influenza mondiale è scemata, gli spazi si sono ridotti drasticamente, l’economia e la sfera sociale sono andate in rovina.»
Si potrà quindi condannare Schmitt per vigliaccheria, cioè per non aver fatto nulla di attivo nell’ostacolare il regime, né aver provato a rifugiarsi altrove, ma è fortemente sbagliato banalizzare la sua personalità e il suo pensiero associandolo al nazismo.
Forse ad Indipendenza farà effetto sapere che i “marxisti” (i cosiddetti maoisti) indiani hanno fatto una critica parallela ai cinesi, proprio perché «studiano il nazista Schmitt» [“Xi Jinping’s communism inspired by Adolf Hitler’s national socialism“], anch’essi revisionando la storia personale di Schmitt e spacciandolo per «giurista di Hitler».
Ebbene, tornando al tema di questo capitolo, il ricercatore cinese Liu Xiaofeng, influenzato profondamente proprio da Schmitt, evidenzia nella sua raccolta di saggi intitolata Sino-Theology and the Philosophy of History le differenze tra il concetto europeo di Stato-Nazione e il contesto storico-ideologico che ha dato origine all’attuale Stato-Civiltà cinese. Secondo Liu, i più illustri pensatori politici cinesi hanno compreso chiaramente che il moderno imperialismo europeo si discosta notevolmente dall’antica concezione di “Impero”, più affine a quella persiana, russa o cinese. Inoltre, hanno riconosciuto che, nel periodo moderno, non esiste un’unica forma di imperialismo, ma piuttosto diverse forme in conflitto tra loro, ciascuna legata a un diverso Stato-Nazione, e ciò proprio per via della loro proiezione marittima, in contrapposizione con l’Impero delle grandi Civiltà telluriche, che si espandevano ed assimilavano popoli per motivi totalmente diversi da quelli dell’imperialismo europeo e poi americano-atlantista.
A questo punto riporto l’incipit dell’articolo di Daniele Perra L’influenza di Carl Schmitt in Cina, che riassume come nel pieno di questo contesto di dominio imperialista, «secondo lo storico e politico Liang Qichao, vissuto a cavallo tra XIX e XX secolo nel momento dell’inesorabile declino e di spartizione imperialistica dello spazio cinese, la soluzione non poteva che essere la creazione di una forma di nazionalismo cinese. Tuttavia, ciò che Qichao considerava come nazionalismo era sì una forma di coscienza e consapevolezza politica e culturale nazionale, ma non un nazionalismo nel senso europeo del termine [Liu Xiaofeng, New China and the end of the international american law]. Questo, infatti, rimaneva un concetto del tutto estraneo ad una forma imperiale tradizionale che ancora oggi, nella sua espressione modernizzata ed influenzata dal marxismo-leninismo, risulta maggiormente simile al modello achemenide piuttosto che all’idea europea di Stato-nazione ed ai suoi slanci imperialistici. E, in quanto tale, si poneva sin dalla sua origine come superamento in nuce di questa idea.» Indipendenza, d’altro canto, ironizza sul concetto di Impero («senza imperialismo (sic!)») e sui «eurasiatici buoni» contro talassocrazia cattiva. Ma continuiamo sugli studi cinesi:
«La storiografia occidentale, attraverso la cosiddetta global history, ha cercato di superare il sistema eurocentrico basato sullo Stato-Nazione sostituendo ad esso un’idea di storia incentrata sul cambiamento delle strutture sociali. Liu Xiaofeng, a differenza di alcuni suoi colleghi e connazionali, ha avuto il merito di intuire che questa global history non è nata con il saggio di William H. McNeill del 1963, The rise of the West. A history of the human community. Egli ha anche capito che la volontà di superare l’eurocentrismo si è semplicemente risolta in una forma abbastanza paradossale di cosmopolitismo che nasconde un naturale imperialismo di matrice angloamericana (quello uscito vincitore dallo scontro con le altre forme di imperialismo europeo). Questo cosmopolitismo, infatti, continua a considerare il canone “occidentale”, ispirato ai valori del liberal-capitalismo, come il modello migliore in assoluto. Tuttavia, esso guarda agli altri modelli con la benevolenza dovuta al buon selvaggio da studiare antropologicamente e, magari, da educare (anche per mezzo di “bombardamenti umanitari”) per emanciparlo da se stesso.
Dunque, la global history non è stata altro che la sovrastruttura storiografica del liberalismo occidentale nel periodo della Guerra fredda e nell’istante unipolare.
Ben prima del saggio di McNeill, come ricorda ancora una volta Xiaofeng, Carl Schmitt pubblicò Il Nomos della terra, un’opera che, più che sovvertire l’ormai defunto eurocentrismo, si rendeva perfettamente conto che questo era già stato sostituito da un sistema americanocentrico. Ma Schmitt, al contrario dei profeti della global history, utilizzava ancora un modello storiografico incentrato sulle entità statali. L’intuizione fondamentale di Schmitt era costituita dalla comprensione del fatto che lo scontro tra Stati sarebbe rimasto comunque frequente ed intenso a prescindere dal mito cosmopolita della cittadinanza globale e che questo si sarebbe addirittura estremizzato.
Schmitt, infatti, comprende che la creazione e la crescita/sviluppo degli Stati Uniti avvenne in un contesto in cui lo jus publicum europaeum (quello che regolava la guerra fra le monarchie cristiane europee sul suolo del Vecchio Continente) non aveva alcun valore.
Gli Stati Uniti nascono in uno “spazio libero” dove vige la legge del più forte dello stato di natura e sullo sfondo ideologico-religioso del tema biblico dell’Esodo e della convinzione messianica di costruzione della “Nuova Israele” e della “Gerusalemme in terra”: principi che sono alla base della puritana idea di superiorità morale e predestinazione e rappresentano i fondamenti esistenziali dell’americanismo. Gli Stati Uniti nascono in totale opposizione al modello europeo. Il loro ingresso nel Vecchio Continente segna il passaggio dalla guerra “legale” alla guerra “ideologica”: il nemico non deve essere solamente sconfitto, ma demonizzato, criminalizzato e dunque annichilito. Ciò che hanno fatto gli Stati Uniti è stato riportare in Europa la legge del più forte, considerandola, al pari di quanto fecero gli Europei con l’emisfero occidentale in età moderna, uno “spazio libero” da sottoporre a mera conquista.»
«Xiaofeng applica queste idee schmittiane all’attualità geopolitica dell’Estremo Oriente e della Cina in particolare. La Cina, in un momento in cui la suddetta “lotta interiore” non aveva ancora portato alla formazione di uno Stato forte e pienamente sovrano che le consentisse piena (ed in condizione di equità) partecipazione al consesso internazionale, dovette optare per un accesso nel sistema di tipo “tecnico”, attraverso l’ingresso nelle istituzioni internazionali. Metodo che si opponeva a quello dell’impero nipponico politico-militare».
«Tuttavia, l’errore fondamentale della classe politica cinese nella prima metà del XX secolo è stato quello di credere che il diritto internazionale si applicasse con equità a tutti i membri della comunità che ne accettavano le norme. Ricorda Xiaofeng che Chiang Kai-shek rimase fermamente convinto, nonostante l’avviso del consigliere militare tedesco Alexander von Falkenhausen, che le potenze europee (Francia e Gran Bretagna) e gli Stati Uniti sarebbero giunti in soccorso della Cina di fronte all’aggressione nipponica alla fine degli anni ’30. Ovviamente, non avvenne nulla di ciò e solo con l’inizio della Seconda Guerra Mondiale e l’ingresso degli Stati Uniti nel conflitto la situazione iniziò a cambiare.
La reale natura del diritto internazionale venne ben descritta al delegato in URSS dell’allora Repubblica di Cina, Chiang Ching-kuo, da losif Stalin. Il Vozd’ in modo abbastanza franco, gli disse: “tutti i trattati sono carta straccia, ciò che conta è la forza”.
Di fatto, il metodo “tecnico” descritto da Xiaofeng, attraverso il quale la Cina ha cercato di garantirsi inizialmente una partecipazione al sistema delle relazioni internazionali, non le ha consentito una piena realizzazione del bilanciamento di potere.»
Ma Liu Xiaofeng – che qui viene riportato nell’articolo riassuntivo di Perra e che ricompare più volte in un suo libro molto rilevante, forse tra i più interessanti pubblicati negli ultimi anni in Italia, Stato e Impero da Berlino e Pechino – non è uno studioso qualsiasi. Liu Xiaofeng oltre ad essere docente presso l’Università di Renmin è tra i principali ideologi e filosofi del Partito Comunista Cinese, e schmittiani come lui, anche più incentrati sulla geopolitica, abbiamo Jiang Shigong, vicepresidente della Università di Minzu ed altro importante ideologo del PCC, e addirittura Wang Huning, che oltre ad essere docente presso l’Università normale della Cina orientale e l’Università di Fudan, è in carica di ben tre ruoli oltre ad averne occupato uno piuttosto importante, come primo segretario alla segreteria del PCC: direttore della commissione centrale per le riforme, presidente della conferenza politica consultiva del popolo cinese, e, si noti il termine, “presidente della commissione centrale per la civilizzazione”. Oltre a questi marxisti marcatamente e dichiaratamente seguaci di Carl Schmitt, abbiamo altri grandi intellettuali che hanno contribuito alla sistematizzazione del concetto di Civiltà: lo studioso Wang Wen e il famoso Zhang Weiwei, docente di relazioni internazionali presso l’Università di Fudan e direttore del China Institute, autore del celebre The China wave: Rise of a Civilizational-State.
È infatti in particolare grazie a questo libro uscito nel 2012 che statisti come il già citato Putin hanno iniziato a riferirsi alla Russia come Stato-Civiltà. Questo perché, così come gli Stati-Nazione sono stati il modello esportato durante il periodo di egemonia occidentale, lo Stato-Civiltà è il modello statuale del futuro, perché si schioda dalle contingenze economiche e si fonda su presupposti puramente umani e naturali: la cultura, la storia e la geografia dei biomi e dei grandi spazi. A differenza dello Stato-Nazione, non avrà necessità di essere esportato ed imposto con la forza, così come il socialismo non viene esportato, a differenza del capitalismo (che si auto-esporta sotto forma di colonialismo o imperialismo).
Per avere una teoria completa ed assoluta sulla Civiltà occorrerà dunque ancora tempo, in quanto l’era degli Stati-Nazione è ormai consolidata, ma quella degli Stati-Civiltà è ancora agli albori.
L’egemonia europea ed americana ha posto un grosso freno all’avanzamento e lo sviluppo delle grandi Civiltà umane. Imperi come quello dei Quechua, che aveva “appena” integrato gli Aymara diventando per la prima volta un Impero plurinazionale; l’impero del Mali, che stava integrando i popoli del Sahel, stroncato dal colonialismo ed ora riemergente nel suo Grande spazio con la nuova federazione del Sahel nata spontaneamente dopo la liberazione dal giogo coloniale franco-americano; la Civiltà siriana rimpianta dal SSNP, che stava per sorgere dopo la prima guerra mondiale in una statualità unita come lo è stata Ur, l’Assiria o la Babilonia, dopo millenni di frammentazione dovuti ad invasioni continue da tutti i fronti essendo posti nel crocevia dei tre grandi subcontinenti, stroncata in ultimo dal Sykes-Picot; la Civiltà azteca e maya, che stavano compiendo il loro corso storico fino all’arrivo dei spagnoli, poi risorti sotto nuove spoglie con gli Stati uniti del Messico (il termine stesso “Messico” viene dal nome che gli aztechi davano al proprio impero, ed inutile spiegare quanto il simbolismo, oltre che la cultura messicana sia erede di quella Civiltà).
Come scrive infatti anche Zhang Weiwei nel suo già citato scritto:
«Se le antiche Civiltà dell’Egitto, della Mesopotamia, della Valle dell’Indo e della Grecia fossero continuate fino ai giorni nostri e avessero funzionato all’interno di Stati moderni unificati, sarebbero state descritte come Stati-Civiltà. Ma questa opportunità è andata perduta. Se l’antico Impero romano fosse rimasto unito fino ad oggi e si fosse trasformato in uno Stato moderno, anche l’Europa sarebbe potuta essere uno Stato-Civiltà di medie dimensioni. Ma questa è solo un’ipotesi. Se le decine di Paesi del mondo islamico di oggi riuscissero a integrarsi in uno Stato moderno unificato, nonostante tutte le loro diverse tradizioni, sarebbe uno Stato-Civiltà con oltre 1 miliardo di persone. Ma questa sembra una prospettiva improbabile. In effetti, la Cina è oggi l’unico Paese al mondo che ha unito la più lunga Civiltà ininterrotta del mondo con un grande Stato moderno.» [Introduction]
Altre Civiltà hanno retto al cataclisma coloniale, seppur perdendo pezzi non indifferenti: Etiopia, India, e ovviamente, appunto, Cina e Russia. Ma il fardello del capitalismo europeo si sta ormai togliendo di dosso da gran parte del mondo. Il processo di civilizzazione che è stato ostacolato per secoli è ora inevitabile.
Inutili sono i tentativi occidentalisti di balcanizzare Russia, Cina ed altre Civiltà.
Rinfrescando la memoria di nuovo su Mackinder; già allora gli inglesi delineavano nei loro progetti – poi ripresi dai nordamericani – una frammentazione della Russia, partendo da una base ideologica che puntava a reputare buona parte dei territori come coloniali (ovviamente ai talassocratici è permesso), “non sapendo” distinguere tra Stato-Nazione e Stato-Civiltà. Nasce qui il “colonialismo interno”. Riassume Dugin in Fondamenti:
«È molto importante tracciare l’evoluzione dei limiti geografici dell’heartland negli scritti di Mackinder. Se nel 1904 e nel 1919 (rispettivamente nell’articolo L’asse geografico della storia e nel libro Ideali democratici e realtà) i contorni dell’heartland coincidevano in termini generali con i confini dell’Impero russo e, successivamente, dell’URSS, nel 1943, nel testo Il pianeta rotondo e la conquista del mondo, Mackinder rivede le sue opinioni precedenti e rimuove dall’heartland il territorio sovietico della Siberia orientale, situato oltre lo Yenisei.
Egli chiamò questo territorio sovietico scarsamente popolato «Russia Lenaland», dal nome del fiume Lena. «La Russia Lenaland ha 9 milioni di abitanti, 5 dei quali vivono lungo la ferrovia transcontinentale da Irkutsk a Vladivostok. Il resto del territorio conta meno di un abitante ogni 8 chilometri quadrati. Le ricchezze naturali di questa terra di legname, minerali, ecc. sono praticamente intatte». (Il pianeta rotondo e la conquista del mondo)»
Da qui l’obiettivo utilitaristico-materialistico degli anglosassoni e poi dei nordamericani, che vogliono prender controllo delle vaste risorse russe “perché incapaci di gestirle” (ciò è stato detto più volte).
«La rimozione della cosiddetta Lenaland dai confini geografici dell’heartland significava che questo territorio poteva essere visto come una zona di “mezzaluna interna”, cioè come uno spazio costiero che poteva essere utilizzato dalle potenze “insulari” per combattere contro l'”asse geografico della storia”. Mackinder, che partecipò attivamente all’organizzazione dell’intervento dell’Intesa e del “Movimento bianco” [durante la guerra civile], pare considerasse il precedente storico della resistenza di Kolchak al centro eurasiatico come un motivo sufficiente per considerare i territori sotto il suo controllo come una potenziale “zona costiera”.»
Sul fenomeno teorico del “colonialismo interno” però ha scritto in particolare lo studioso russo Alexander Bovdunov, che nel breve saggio La sfida della “decolonizzazione” e la necessità di una redifinizione globale del neocolonialismo, scrive come «Da un lato, il discorso della “decolonizzazione” incoraggia le tendenze separatiste e porta alla nascita di nuovi conflitti. D’altra parte, la nozione di “colonialismo” sta diventando sempre meno rigorosa: in questa prospettiva, qualsiasi espansione territoriale da parte di qualsiasi Stato in qualsiasi momento della storia può essere descritta come colonialismo. La nozione di “colonialismo” perde il suo specifico significato storico e si trasforma da termine scientifico a cliché propagandistico. Scompare così la possibilità di comprendere correttamente il fenomeno del colonialismo europeo come realtà storica concreta che ha determinato il destino dei popoli dell’Europa stessa e di altre parti del mondo in epoca moderna, l’unico “colonialismo” che i popoli della Terra hanno effettivamente affrontato negli ultimi 500 anni. Gli aspetti teorici e pratici, scientifici e politici del problema sono strettamente legati. Le ex potenze coloniali, inoltre, gli Stati che hanno ancora territori dipendenti ineguali, come gli Stati Uniti, nell’ambito di un’interpretazione espansiva del “colonialismo”, sono nella posizione di accusare i loro avversari geopolitici di “colonialismo”, poiché sono potenze multietniche, formatesi attraverso lunghi processi storici, in cui hanno avuto luogo diverse pratiche di interazione tra gruppi etnici. La possibilità stessa di interpretare le pratiche delle potenze non europee (Russia, Cina, Iran, Etiopia) come coloniali è legata al paradigma popolare del “colonialismo interno”. È emersa nell’ambito della teoria postcoloniale delle relazioni internazionali nei centri accademici europei e americani e, per sua stessa natura, è un esempio di approccio deliberatamente parziale che si concentra sui gruppi più emarginati – i “subalterni” – ma ignora le grandi comunità civili.»
Questa teoria postcoloniale che generalizza il tutto confondendo Nazione e Civiltà, storia europea e storia mondiale (frutto del pensiero unilaterale), porta a chiare manifestazioni surreali, in cui Paesi africani millenari vengono accusati di colonialismo:
«L’esempio dell’Etiopia è esemplificativo, in quanto le accuse di “colonialismo” sono state utilizzate attivamente dai separatisti eritrei (mentre l’Eritrea stessa, in quanto Paese separato dall’Etiopia, può essere descritta come un prodotto del colonialismo italiano e britannico) (Negash, 1997, p. 144), dai gruppi separatisti dell’Ogaden e dagli attivisti del movimento nazionale Oromo (Holcomb & Ibssa, 1990). Dal punto di vista politico, questo discorso ha giustificato la frammentazione dell’unico Paese dell’Africa subsahariana i cui confini sono stati modellati dagli stessi africani, non dai colonizzatori. Da un punto di vista teorico, le accuse di colonialismo rivolte all’Etiopia tradizionale si basavano su un approccio semplicistico e politicizzato. Le strutture di potere tradizionali di un impero multietnico, in cui si intrecciavano identità etniche, tribali, di classe e religiose, sono state viste esclusivamente dalla prospettiva dei nascenti nazionalismi dei piccoli popoli etiopi, che hanno costruito la propria identità nazionale in opposizione al passato e al presente imperiale (Záhořík, 2014).
Da quando è emerso il concetto di “colonialismo interno”, chiunque può essere accusato di colonialismo, compresi Sudafrica, Thailandia, Sudan e Bangladesh (Gladney, 1998). La responsabilità del colonialismo, che prima ricadeva solo sulla parte occidentale dell’umanità, nel contesto degli studi postcoloniali è stata condivisa anche con i membri di altre civiltà. In seguito alle discussioni teoriche sul colonialismo non occidentale, non sorprende sentire il presidente francese Emmanuel Macron parlare di “colonialismo russo” durante la sua visita in Benin o che il dominio ottomano in Algeria sia stato una “colonizzazione” paragonabile a quella francese.»
Cos’è dunque ciò che caratterizza il fenomeno storico coloniale europeo, dall’espansionismo delle potenze telluriche? Esatto, la geografia (se avete sbagliato a rispondere vi chiederei di rileggere tutto il saggio dall’inizio).
«Infine, è sorprendentemente scarsa l’attenzione dedicata all’aspetto geopolitico più evidente del colonialismo. Le colonie sono sempre possedimenti d’oltremare. Negli studi postcoloniali questo punto viene relegato in secondo piano, fino a descrivere le province degli imperi terrestri (o parti di metropoli) come colonie. In Edward Said, tuttavia, si può trovare l’intuizione che “l’idea di dominio d’oltremare, il salto oltre i territori vicini” è specifica delle culture di Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Questo li distingue dagli imperi russo e ottomano (Said, 2012, p. 27, 52). Per Dominique Lieven, la principale differenza tra la Russia e gli imperi coloniali marittimi è la “continentalità”. Continentalità significa lo sviluppo all’interno di un “sistema ecologico” di spazi simili, non paragonabile alla scoperta di veri e propri nuovi mondi d’oltremare. Si tratta di un’espansione in un “mondo che non era veramente nuovo”, e quindi le differenze che separavano gli abitanti delle colonie d’oltremare dalla metropoli non esistevano o erano meno pronunciate nell’impero continentale (Lieven, 2007, p. 365).»
E anche qui occorre citare di nuovo Mackinder, e Bovdunov giustamente lo fa:
«Il fondatore della geopolitica britannica, Halford John Mackinder, nella sua opera Democratic Ideals and Reality ha introdotto due concetti: “seaman’s point of view” e “landman’s point of view”. «L’uomo del mare vede la terraferma come una catena di coste che cerca di sviluppare e controllare dall’esterno. È così che è avvenuta la colonizzazione europea di altri continenti. L’”uomo della terra” vede il continente dall’interno come una vasta massa continentale a cui egli stesso appartiene. In termini geopolitici, il colonialismo può essere inteso come parte della politica delle potenze marittime per il controllo delle terre emerse, compreso il controllo e l’opposizione agli imperi continentali» (Mackinder). «La visione marittima, esterna alla terraferma, vede i territori costieri come potenziali colonie, come strisce di terra che possono essere strappate al resto della massa continentale e trasformate in una base, uno spazio strategico», osserva il geopolitico russo Alexander Dugin (Dugin, 2000, p. 15).»
Ed ecco come «In questo contesto, la [vera] decolonizzazione può essere vista come un rafforzamento delle formazioni continentali, un’integrazione a livello continentale che permette di superare la pressione politica, economica e militare delle potenze marittime. Può anche spiegare l’interesse per l’integrazione continentale tra i sostenitori dei movimenti anticoloniali e avvicinare le loro idee ai progetti di integrazione del “secondo mondo” (“One Belt, One Road”, Unione economica eurasiatica (UEE), progetti panafricani).»
Come dicevamo, dunque, l’integrazione progressiva degli spazi tellurici, dei Grandi spazi, fino al continentalismo, è inevitabile (sottolineo comunque che nulla è inevitabile nella storia, ma è altrettanto chiaro che la tendenza sia quella; si sta procedendo verso questa direzione e solo un conflitto bellico su grande scala verosimilmente potrebbe porne il freno, o porre il freno alla nostra stessa esistenza biologica).
Ma perché avviene ciò? Perché si formano Civiltà plurinazionali? Un marxista, non trovandovi spiegazione nell’economia in sé – perché non ne ha, dato che come tutti sappiamo il capitalismo predilige statualità con una linea di comunicazione unica, quindi una sola lingua, una sola cultura, ecc. – risponderebbe banalmente che sia “la storia”. Ma la storia non è un fattore di sé stesso, se non in determinate condizioni che sono legate alla psyche, piuttosto che la statualità in sé. Se una statualità sente la necessità di comprendere più Nazioni è per via della necessità materiale di incorporare in sé un territorio con una determinata natura affine a quella della statualità in capacità di espansione, e non per semplici motivi espansionistici fini a se stessi ed “economici” in senso astratto e capitalistico. La geografia è il grande fattore in questione. Dal momento che una statualità, dapprima tribale-federale e poi nazionale (come schematizza Engels ne L’Origine) ha formato in sé uno Spirito universalistico che vede nella Comunità umana e/o nel proprio suolo (“geografia sacra”) l’essenza della propria esistenza statuale, non individua più confini netti alla propria esistenza, siano essi artificiali o naturali-geografici, se non quelli legati al “Grosso spazio” [Großraum]. Un Grosso spazio può essere la catena delle Ande, può essere il deserto o le montagne rocciose del Nordamerica, può essere il bacino Mediterraneo, il deserto del Gobi, l’Himalaya, la pianura eurasiatica, la tundra. La tecnica è legata per forza di cose al territorio in cui essa viene sviluppata; la stessa capacità logistica di un popolo o Impero è dovuta allo sviluppo tecnico presso un luogo. Per fare un esempio storico e concreto, riprendendo l’emblematico Impero Quechua, possiamo concludere con molta semplicità che avendo adattato le proprie capacità materiali al proprio luogo, il proprio bioma, la propria geografia e morfologia territoriale (in pratica la geografia ha una sua partecipazione nel plasmare la tecnica di un popolo), non avrebbero potuto espandersi verso oriente, occupando la foresta Amazzonica con i propri lama; mentre verso nord, verso i territori in piena continuità col proprio bioma iniziale, avevano già i mezzi materiali per farlo. Insomma, così come abbiamo detto che i confini geografico-naturali hanno plasmato i confini dei popoli e delle Civiltà (si pensi ancora alle orde cavalleresche dei mongoli che hanno occupato tutto ciò che era simile alla propria steppa, e che non potevano allo stesso modo espandersi espandersi oltre i confini geografici dei Carpazi, e non ne trovavano dunque la necessità), possiamo ugualmente dire che gli stessi Grandi spazi circoscrivono nel loro bioma un determinato popolo o Civiltà. Ciò non preclude che una Civiltà riesca ad espandersi oltre il proprio Grande spazio: la Cina, partendo dai grandi fiumi fertili ed irrigati, ha trovato la necessità di espandersi esternamente nei territori più rigidi ed avversi, così come gli stessi territori rigidi ed avversi dell’Eurasia hanno costretto i popoli ad unirsi l’un l’altro (Savitskij).
Tutte le grandi Civiltà, come detto, hanno tendenzialmente cercato di occupare il proprio Grande spazio. L’ha fatto la Cina, inglobando quattro grandi spazi: il bacino costiero che si allarga fino all’entroterra, composto da numerosi fiumi – e da qui infatti è nata come Civiltà comunitarista ed idraulica (Wittfogel) –, la grande steppa mongolica che comprende anche il deserto del Gobi (con la Mongolia esterna ormai indipendente per via degli accordi sino-sovietici), la catena dell’Himalaya interna, e il Taklamakan, che corrisponde praticamente al Xinjang o Uyghurstan. La Russia, nonostante le sue dimensioni, comprende sostanzialmente tre grandi spazi, che corrispondono ai biomi distribuiti orizzontalmente e che comprendono tutto il vasto territorio, dalla steppa alla tundra. Come afferma Savitskij, tale condizione estremamente regolare è unica al mondo e rende i confini dei grandi spazi russi assai più sbiaditi per via della loro gradualità, che va ad evidenziarsi in termini qualitativi solo nelle frontiere con le altre Civiltà: questa unione di grandi spazi determina un unico Grande spazio effettivo. È questo affievolirsi dell’orizzontalità dei biomi, e non gli Urali, come afferma Savitskij, a marcare i confini continentali. Gli Urali, come il Yanisei, sono importanti per gli europei nella loro ottica geostratetica offensiva; per i russi, gli Urali sono una mera eccezione geografica: una unica catena montuosa nel mezzo della pianura più vasta che ci sia.
Sul come si sono necessariamente uniti i popoli dell’Eurasia, Savitskij scrive:
«Nell’Eurasia settentrionale ci sono centinaia di migliaia di chilometri di foreste tra le quali non c’è un solo ettaro di terra coltivabile. Come possono gli abitanti di questo spazio sopravvivere senza contatti con le regioni più meridionali? Nel Sud, in steppe non meno estese e adatte all’allevamento e in parte all’agricoltura, non c’è un solo albero per molte migliaia di chilometri. Come può la popolazione di queste regioni vivere senza interazioni economiche con il Nord? La natura dell’Eurasia spinge le persone alla necessità di associazione politica, culturale ed economica in misura significativamente maggiore rispetto a quanto si osserva in Europa e in Asia. Non c’è quindi da stupirsi che quello che per molti aspetti era uno stile di vita “unificato”, come quello dei nomadi, sia esistito in tutto lo spazio delle steppe eurasiatiche, dall’Ungheria alla Manciuria, e nel corso della storia dagli Sciti ai moderni Mongoli. Non c’è quindi da stupirsi che sulle distese dell’Eurasia siano nati grandi tentativi di unificazione politica, come quelli degli Sciti, degli Unni, dei Mongoli (nei secoli XIII-XIV) e altri ancora. Questi tentativi comprendevano non solo le steppe e il deserto, ma anche la zona forestale settentrionale e l’”orlo montuoso” più meridionale dell’Eurasia. Non è un caso che sull’Eurasia soffi lo spirito di una sorta di “fratellanza di popoli”, che affonda le sue radici nel contatto e nella fusione culturale secolare di popoli delle razze più diverse, da quelli germanici (i Goti di Crimea) e slavi ai Tungus-Manchuri con legami attraverso i popoli finlandesi, turchi e mongoli. Questa “fratellanza di popoli” si riflette nel fatto che non esiste un’opposizione tra razze “superiori” e “inferiori”, ma piuttosto un’attrazione reciproca, molto più forte di qualsiasi repulsione, che risveglia facilmente la “volontà di una causa comune”. La storia dell’Eurasia, dai suoi primi capitoli agli ultimi, ne è una solida prova. Queste tradizioni sono state abbracciate dalla Russia nella sua causa storica e fondante. Nel XIX e XX secolo, esse sono state talvolta offuscate da un deliberato “occidentalismo”, che esigeva che i russi si sentissero “europei” (cosa che in realtà non erano) e trattassero gli altri popoli eurasiatici come “asiatici” o una “razza inferiore”. Una simile interpretazione non ha portato la Russia ad altro che al disastro (come l’avventura russa in Estremo Oriente all’inizio del XX secolo). Si dovrebbe sperare che questo concetto sia stato ormai completamente superato nella coscienza russa e che i resti dell’”europeismo” russo che ancora si nascondono nell’emigrazione siano privi di qualsiasi significato storico. Solo superando il deliberato “occidentalismo” si potrà aprire la strada a una vera fratellanza tra i popoli eurasiatici – slavi, finnici, turchi, mongoli e altri.»
Concludiamo dunque definitivamente la questione sull'”Impero” eurasiatico, su cui si fonda l’Eurasiatismo, con questo forte passaggio dello stesso Savitskij:
«L’Eurasia ha svolto in passato un ruolo unificatore nel Vecchio Mondo. La Russia contemporanea, assorbendo questa tradizione, deve abbandonare risolutamente e irrevocabilmente i vecchi metodi di unificazione appartenenti a un’epoca superata e superabile, come quelli della violenza e della guerra. Nel periodo moderno, la causa è quella della creatività culturale, dell’ispirazione, dell’intuizione e della cooperazione. Questo è ciò che dicono gli eurasiatici. Nonostante tutti i moderni mezzi di comunicazione, i popoli dell’Europa e dell’Asia sono ancora, in larga misura, seduti nei propri alloggi, vivendo nell’interesse dei propri campanili. Lo “sviluppo dei luoghi” eurasiatici spinge questa causa comune in virtù delle sue qualità fondamentali. I popoli eurasiatici sono stati incaricati di attirare gli altri popoli del mondo su queste strade con l’esempio. E allora le relazioni di parentela etnografica con cui alcuni popoli eurasiatici sono legati a varie nazioni non eurasiatiche, come i legami indoeuropei dei russi, le relazioni vicino-asiatiche e iraniane dei turchi eurasiatici e i punti di contatto che esistono tra i mongoli eurasiatici e i popoli dell’Asia orientale, diventeranno utili per la causa ecumenica. Tutte queste relazioni possono essere utili alla costruzione di una nuova cultura organica per il “Vecchio” Mondo, che è (crediamo) ancora giovane e porta in grembo un grande futuro.» [I Fondamenti geografici e geopolitici dell’Eurasiatismo]
Anche in Europa abbiamo storicamente, in periodo moderno, avuto parentesi eccezionali, come l’impero austro-ungarico infatti citato da Stalin, che si è espanso nel Großraum danubiano.
Vi è poi lo spiacevole esempio dello “spazio vitale” [Lebensraum] tedesco. C’è infatti una confusione enorme nella comparazione di questi due concetti, il primo legato ad Haushofer (e come abbiamo visto, assolutamente non associabile ad Hitler) e alle Civiltà di tutto il mondo, mentre il secondo a Ratzel e poi Hitler.
Mentre il Großraum è infatti basato sulla geografia e necessita nella sua unificazione tellurica di essere appunto sviluppato da uno Spirito di Civiltà unificatrice, tendenzialmente (più) pacifica, il Lebensraum è basato sul “popolo”, il Volk. Il Großraum è basato sulla spazialità, la superficie della statualità che tendenzialmente combacia con una superficie geografica definita; il Lebensraum, e la sua etimologia tedesca lo dimostra quando parla di “leben” “vitale”, qualcosa di “organico”, è basato sulla popolazione particolare e il suo spazio. Ratzel non lo intendeva chiaramente nel modo in cui lo interpretò la degenerazione nazista, ma aveva comunque in sé il seme di quella possibile degenerazione, in quanto con Lebensraum si intende quello spazio geografico necessario a un popolo, intesa evidentemente come Nazione, per svilupparsi. È tutt’altro che un concetto tellurico, come abbiamo già visto, dato la sua ottica sterminatrice tipica del pensiero marittimo-mercantile, che basandosi sul presente, ignorando passato e futuro – un orizzonte piatto come il mare –, stermina qualunque popolazione si ostacoli ai piani economici dell’impero. Tanto il mare li separa. Proprio quel mare, quell’oceano senza confini. È quello il Großraum talassico: il globo intero.
Nonostante i limiti attuali dovuti al già citato contesto storico prematuro, Zhang Weiwei ha cercato di definire cosa caratterizza una Civiltà in termini materiali, partendo dal contesto cinese:
«Almeno otto caratteristiche possono essere distillate dallo Stato-Civiltà della Cina, e queste caratteristiche sono: 1) una popolazione super-grande, 2) un territorio super-vasto, 3) tradizioni super-antiche, 4) una cultura super-ricca, 5) una lingua originale [che fa da lingua comune per la pluralità di culture interne], 6) una politica originale, 7) una società originale e 8) un’economia originale, o semplicemente i “quattro super” e i “quattro originali”, ognuno dei quali combina gli elementi dell’antica Civiltà cinese e del nuovo Stato moderno.
Nel corso degli ultimi millenni, sono emerse anche idee cinesi prevalenti come sheji weijia (“sacrificarsi per la propria famiglia”) e baojia weiguo (“difendere la propria famiglia e salvaguardare la propria nazione”) [riecco il comunitarismo], che hanno dato forma a quello che viene chiamato jiaguo tonggou o “Famiglia e Nazione in uno”, come implicano i caratteri cinesi per la parola “Nazione” che è composta dai due caratteri “Stato” (国) e “Famiglia” (家). Questo legame tra il perseguimento di un obiettivo individuale e un impegno sociale più ampio e più elevato è un’idea centrale del confucianesimo.
Lo Stato-Civiltà è allo stesso tempo uno Stato e “centinaia di Stati in uno”. In quanto Stato unico, è caratterizzato da una forza coesiva e da una competenza di macrogoverno senza pari; in quanto “centinaia di Stati in uno”, è caratterizzato dalla massima diversità interna, [e nell’esempio cinese millenario] questa diversità funziona bene secondo l’idea confuciana di “unità nella diversità”.» [Cap. 3.2]
Ciò, afferma Weiwei, è dovuto alla natura territoriale della Cina. Ricordate il capitolo 2 in cui si parlava del condizionamento della geografia sullo sviluppo dell’economia e della storia di un popolo e una statualità?
«Il suo vasto territorio conferisce alla Cina alcuni vantaggi geopolitici e geoeconomici che pochi altri Paesi hanno. La Cina ha creato uno Stato forte e una potente capacità di difesa, e sono finiti i giorni in cui le potenze straniere potevano intimidire e invadere la Cina a piacimento, come è avvenuto nel secolo delle umiliazioni della Cina dalla metà del XIX alla metà del XX secolo. Inoltre, consente alla Cina di realizzare progetti su larga scala, rari nella storia dell’umanità, come la fornitura di gas naturale dalle regioni occidentali a quelle orientali e le reti autostradali e ferroviarie ad alta velocità su scala nazionale. Per la maggior parte dei Paesi, qualsiasi spostamento verso l’alto della catena del valore spesso significa che le industrie ad alta intensità di manodopera saranno esternalizzate, ma nel vasto territorio cinese, la maggior parte di queste industrie acquistano una nuova vita quando vengono trasferite in altre parti della Cina. Nel processo di modernizzazione della Cina, i governi locali e centrali svolgono entrambi un ruolo importante, che il presidente Mao chiamava “camminare su due gambe”, e ciò è determinato anche dalle dimensioni del Paese e dalla sua popolazione.»
Giungiamo al dunque: Indipendenza scrive che «La necessità di un’integrazione anche militare, unita a una politica di potenza, risulta poi in contraddizione con l’idea di “Impero non imperialista”, di blocco continentale autonomo senza mire egemoniche al di fuori della propria sfera di influenza. Andrebbe poi messo in evidenza come un blocco eurasiatico eserciterebbe naturalmente un’egemonia globale indiscussa, per il suo peso territoriale, demografico ed economico, con buona pace dei proclami “multipolari”.»
«È una discriminante riguardo la natura di questi processi, e si tratta proprio della sovranità nazionale, il cui mantenimento garantisce al paese più piccolo margini di autonomia e un certo potere contrattuale nei confronti della potenza di turno. Inoltre, il perseguimento degli interessi nazionali attraverso un esercizio effettivo della sovranità risulta essere spesso incompatibile con una logica di blocchi, in quanto una nazione sovrana tenderà a sviluppare una pluralità di relazioni e rapporti di interesse. Condizione questa assai più in grado di scongiurare che un conflitto tra potenze possa degenerare in uno scontro campale tra i rispettivi blocchi, a differenza degli scenari sin qui evocati.»
«Come per ogni “macro-aggregato” geopolitico il problema, se non il nemico, è sempre principalmente la sovranità nazionale. Pertanto, il fondamento ideologico e prescrittivo di legittimazione del potere si presenta sempre come suppostamente comunitario, per dare una parvenza di collante che si vorrebbe percepito comune dalle nazionalità inglobate. Si mira insomma a depotenziare le nazionalità prefigurando una dimensione più grande e piramidale, una sorta di fittizia ed immaginifica comunità delle comunità. Non a caso il comunitarismo ritorna come approssimativa idea politica per surrogare le nazionalità (componenti oggettivamente insopprimibili anche per l’élite eurasiatista iperborea) che, fintantoché accettino la funzione organica che si attribuirà loro, potranno ben contentarsi di essere una nota multiculturale dell’Impero tellurocratico».
Innanzitutto, come abbiamo visto fino ad ora, porre sullo stesso piano entità, siano esse intese statualmente o culturalmente e storicamente, come Stati Uniti o Regno unito e Italia e Russia, o ancora Cina, India, è un’astrazione. Non sono Stati astratti ed ideali che hanno solo interessi e capacità economiche e agiscono di conseguenza.
La superpotenza cinese e la superpotenza russa non possono e non potranno essere paragonati alla superpotenza talassocratica anglo-statunitense.
Sorge spontanea una domanda: se Indipendenza critica il modello imperiale in sé in quanto «mina la sovranità nazionale», forse critica ugualmente lo Stato cinese, russo o altri in quanto “gabbie di popoli”? Tibet, Mongolia, Uyghurstan e le altre decine di nazionalità o etnie non sono forse nel loro ambito nazionale sovrane?
Per Impero Dugin, sintetizzando in Fondamenti, intende «un’entità super-statale che unisce diversi popoli e Paesi sotto l’ombrello di un’idea universale di natura religiosa, etica o ideologica. L’integrazione in geopolitica si riferisce a varie forme di unificazione di diversi settori spaziali. L’integrazione può avvenire sia attraverso l’espansione militare sia con mezzi pacifici. Esistono diversi modi di integrazione geopolitica: economica, culturale, linguistica, strategica, politica, religiosa, ecc. Tutte possono portare allo stesso risultato finale: aumentare il volume strategico e spaziale del blocco». Ciò corrisponde a quello che Liu Xiaofeng ed altri studiosi cinesi individuano come Impero tellurico (o antico, pre-talassocratico); la Cina è un impero, così come lo fu l’Unione sovietica, nonostante ambedue abbiano abbattuto o siano sorti dalle ceneri degli imperi monarchici antecedenti. Il legittimo timore di Indipendenza verso la sovranità nazionale è dunque, appunto, legittimo se si parla di impero europeo fatto su caratteristiche europee, imperialiste verso l’esterno e l’interno (l’abbiamo visto con l’Unione europea, che speriamo verrà ricordata come breve parentesi storica, pur avendoci fatto soffrire nelle nostre vite personali con “lacrime e sangue” per almeno tre decenni); ma un Impero in sé non è assolutamente negativo per la nazionalità, neanche quella italiana, storicamente costituita come Stato-Nazione. Col socialismo, come scritto da Engels in termini quasi globalisti ed anti-patriottici nella bozza del Manifesto (I Principi, punto 22), le Nazioni andranno inevitabilmente ad aggregarsi, in quanto la statualità particolare diverrà superflua e ci saranno pianificazioni, progetti, interessi comuni. Ciò, come abbiamo visto con i Grandi spazi, avverrà molto probabilmente gradualmente, in quanto i primi Paesi con cui avremo intenti politici comuni saranno quelli più simili culturalmente e geograficamente a noi. Tale processo non sarà assolutamente violento, almeno non necessariamente; sarà un processo dialettico che magari si svilupperà neanche in decenni, ma secoli. Inoltre, ciò non vuol dire assolutamente dissoluzione della nazionalità assieme alla sua statualità, come erroneamente lasciava intendere Engels. La presenza di nazionalità millenarie in Cina, India, Siria e Russia (addirittura antecedenti ai velikorussi che li hanno uniti) dimostra come con statualità unitarie, siano esse continue o interrotte da parentesi frammentarie, tutte le nazionalità si siano mantenute nelle loro peculiarità culturali e linguistiche, ed hanno addirittura mantenuto, per la gran parte in misura quasi totale, i propri territori originali.
Nell’Eurasiatismo, come si è visto, c’è stata una parentesi para-imperiale a seguito del crollo sovietico, ma che anche nell’apice della sua forma non è mai sfociato nel pensiero imperialista della conquista o della soggiogazione, del dominio diretto o indiretto del continente. Obiettivo dell’Eurasiatismo è integrare, a partire dalla Russia – Heartland del continente – tutte le entità dello stesso, tutte le Civiltà attorno appunto alla Russia. L’integrazione sta avvenendo, ed è proprio quella che a ragione Indipendenza sostiene: il consolidamento del continente attraverso iniziative russo-cinesi come l’Unione eurasiatica, la SCO, o la Via della seta moderna “Belt and Road“, oltre ovviamente all’ascesa dei B(RIC)S+ e del multipolarismo, cioè letteralmente dei “più poli”. Da statisti come Evgenij Primakov, Sergei Glaxyev, Vladislav Surkov e Alexey Drobinin, a intellettuali di circoli e think tank importanti come quello di Russia in foreign affairs e Valdai club – che influenzano i statisti e presidenti stessi – come Evgenij Tipailov, Fyodor Lukyanov, Timofei Bordačev, la dirigenza russa ha chiaro in mente la strategia continentale da seguire. Primakov delineò la necessità di allearsi con i grandi poli cinese e indiano con lungimiranza a seguito di “semplici” analisi geopolitiche.
L’Eurasiatismo è dunque imperante, piaccia o no. È la realtà di questa fase storica post-unipolare, che sta diventando post-talassocratica. La struttura del sistema internazionale, sia sul piano giuridico che economico che di sicurezza, verrà totalmente sconvolto grazie al Nomos della terra. I marxisti di tutto il mondo, dalla Cina alla Russia, dall’Africa all’Asia e la sfera islamica, se ne sono resi conto. Persino parte dei comunisti nordamericani. Coloro che rimangono fortemente indietro sono innanzitutto gli europei – che compongono la maggioranza dei marxisti occidentali –, e in secondo luogo gli indiani egemonizzati dai neo-maoisti, insieme ai latinoamericani – che sono divisi tra chi dipinti ormai in salsa rosa (facciamo un minuto di silenzio per Chàvez e Fidel) e chi ha una robusta formazione storico-politica ma si limita al contesto della Civiltà latinoamericana, pur simpatizzando fortemente per il multipolarismo.
Parliamo ora però, per concludere, dei vari “eurasiatismi” e di come Indipendenza abbia in parte ragione su questi.
5. Eurasiatismo, “eurasiatismo”, realismo occidentale e applicazione alla realtà
La confusione di Indipendenza nel muoversi tra “eurasiatismo” europeo ed eurasiatismo russo può esser giustificata. Indipendenza scrive che «l’eurasiatismo viene tarato a seconda di chi lo formula. Quello di matrice europea occidentale, per così dire, non ha ovviamente riferimenti al bizantinismo o al ruolo di ponte eurasiatico della Russia, ma punta ad un’idea geopolitica imperialmente astratta di sedicente riunificazione dei popoli d’Europa fino alla Russia (parte asiatica inclusa) e alla liberazione del Continente da ogni presenza esterna, vale a dire britannica e «americana».»
Ciò è indubbiamente vero, ma così come vi è differenza tra “comunitarismo” (accademico-liberale o nazionalista; ambedue individualismi collettivisti) e comunitarismo, vi è differenza tra “eurasiatismo” (europeo-occidentale) ed eurasiatismo.
Abbiamo già parlato di Savitskij, Mackinder e concetto di Eurasia (nel termine geopolitico ed eurasiatista del termine) o Heartland. La stessa Indipendenza scrive chiaramente che «contrariamente a quanto il nome di riferimento (Eurasia) potrebbe far pensare, il movimento eurasiatista storico assume come idea centrale che la Russia sia altra cosa rispetto all’Europa e all’Asia, che non ne faccia e non ne abbia mai fatto parte. Secondo lo storico Vernadskij, la Russia coincide con l’Eurasia e questa «non [è] una combinazione di Europa ed Asia, bensì il centro del continente, inteso come specifica area geografica e storica. Un’area che deve essere distinta tanto dall’Europa quanto dall’Asia» (G. Vernadskij, A History of Russia, Yale, 1929, p. 4). Pochi anni prima e ad appena tre anni dalla Rivoluzione d’Ottobre, N. Trubeckoj aveva anticipato e argomentato questa linea di pensiero in un suo saggio – Evropa i chelovechestvo (L’Europa e l’umanità), Sofia, 1920, ripubblicato a Torino, 1982 – dimostrando l’estraneità della Russia [e degli slavi orientali] al mondo «romano-germanico», al suo «sciovinismo» e all’«egocentrismo» della cultura occidentale con le sue pretese di universalità.»
L’Europa, insomma, non fa parte dell’Eurasia (inteso come Heartland, nel linguaggio della geopolitica angloamericana), in quanto subcontinente a sé, pur facente parte del continente euro-asiatico. Indubbiamente il termine Eurasia, così come l’anglicismo Heartland, confonde e può portare a ragionamenti sbagliati (appunto gli europei che associano il proprio subcontinente con l’Eurasia), ma, per ora, non sono stati pensati nuovi termini alternativi ed autoctoni. Certi ambienti eurasiatisti – decisamente metafisici – hanno provato a ridefinirla “Grande Scizia”, con ovvi rimandi all’antichità, rivendicando legami (spesso evidentemente forzati)21 con le popolazioni nomadi ed iraniche che calpestavano un tempo la steppa russa.
Fatto sta che la regione dell’Eurasia di Savitskij, Bitsilli ecc. corrisponde pressappoco all’Heartland di Mackinder, Spykman ecc.
Paesi come Italia, Francia, isole britanniche, Spagna, ecc. non fanno assolutamente parte dell’Heartland, che a malapena comprende – in ampi termini – la Scandinavia e la Germania orientale, da dove viene considerata iniziare la pianura eurasiatica.
L’Heartland della geopolitica angloamericana, come riassunto da Pietro Pinter, «è la regione dell’Eurasia [inteso come continente intero] i cui fiumi scaricano o in laghi, o nel difficile (soprattutto ai tempi di Mackinder) Oceano Artico. Inoltre, fanno parte dell’Heartland le catene montuose – anche quelle a drenaggio oceanico – che la circondano, e i bacini di drenaggio di Mar Baltico e Mar Nero, due mari che facilmente possono essere chiusi dalla terraferma.»
«Partendo da Nord-Ovest, il confine dell’Heartland inizia in Scandinavia [nello specifico la Svezia], prosegue per le regioni a drenaggio baltico di Danimarca e Germania, include pienamente Slovacchia, Polonia, Austria, costeggia le Alpi Dinariche lungo l’Adriatico, segue poi il bacino del Mar Nero e il Tauro (su questo la cartina è lievemente imprecisa) per poi congiungersi con il lungo arco montuoso che – da sopra la Mesopotamia – costeggia il Golfo Persico, racchiude Afghanistan e Pakistan e si unisce con l’Altopiano Tibetano. Il “confine” dell’Heartland poi corre lungo il limite montuoso e a drenaggio continentale della Cina fino al Mare di Okhotsk, e lungo tutta la costica artica russa (in teoria, la Kamchatka non farebbe parte dell’Heartland secondo questi criteri, ma le caratteristiche impervie del suo territorio e il congelamento periodico del mare che la circonda la rendono di fatto passibile di inclusione)». [“L’isola mondo e la geopolitica anglosassone“]
La definizione angloamericana, geografica, si basa, come si è visto, sui bacini idrici (altro rimando all’ovvia psicologia di chi ragione in termini marittimi). La definizione di Savitskij è invece basata sulla morfologia tellurica del continente e la sua conseguente differenziazione climatico-ambientale.
«Si può affermare a ragione che la pianura dell’Europa orientale, o come la chiamano gli eurasiatici, la pianura del “Mar Bianco-Caucaso” è, per sua natura geografica, molto più vicina alle pianure dell’Ovest-Siberia e del Turkestan che si trovano a est, di quanto non lo sia all’Europa occidentale. Queste tre pianure, insieme ai rilievi che le separano l’una dall’altra (gli Urali e il cosiddetto spartiacque “Aralo-Irtysh”) e che le delimitano a est, sud-est e sud (le montagne dell’Estremo Oriente russo, della Siberia orientale, dell’Asia centrale, della Persia, del Caucaso, dell’Asia minore), rappresentano un mondo speciale, unito in sé e geograficamente distinto dai Paesi che si trovano a ovest, a est e a sud di esso. Se si applica il nome “Europa” al primo e il nome “Asia” al secondo, allora il mondo appena nominato, come mondo intermedio e mediatore, porterà il nome di “Eurasia”.» [Eurasiatismo]
«Rispetto al “busto” russo, Europa e Asia rappresentano entrambe la periferia del Vecchio Mondo. Inoltre, dal punto di vista russo-eurasiatico, l’Europa è, come si è detto, tutto ciò che si trova a ovest del confine russo, mentre l’Asia è tutto ciò che si trova a sud e a sud-est di esso. La Russia stessa non è né Asia né Europa. Questa è la tesi geopolitica fondamentale degli eurasiatici. Secondo questa visione, non esiste una Russia “europea” o “asiatica”, ma solo parti della Russia che si trovano a ovest o a est degli Urali, così come ci sono parti della Russia che si trovano a ovest e a est del fiume Yenisei, e così via. Gli eurasiatisti continuano: la Russia non è né Asia né Europa, ma rappresenta un mondo geografico particolare. In cosa si differenzia questo mondo dall’Europa e dall’Asia? Le periferie occidentali, meridionali e sudorientali del continente si differenziano in modo significativo per le loro coste e la loro diversità topografica. Questo non si può dire del “tronco” principale che costituisce la Russia-Eurasia. Questo tronco è costituito innanzitutto da tre pianure (la Pianura del Mar Bianco, la Pianura della Siberia Occidentale e la Pianura del Turkestan) e dalle regioni che si trovano a est di esse (compresi i paesi bassi e montuosi a est del fiume Yenisei). La composizione zonale delle periferie occidentali e meridionali del continente è caratterizzata da contorni “a mosaico” e tutt’altro che semplici. Le aree forestali, allo stato naturale, sono sostituite in una bizzarra sequenza, da un lato, da regioni steppose e desertiche e, dall’altro, da aree di tundra (le alte montagne). A questo “mosaico” si contrappone, nelle pianure centrali del Vecchio Mondo, una distribuzione delle zone relativamente semplice e “segnalata”. Con quest’ultima denominazione indichiamo il fatto che, applicata a una carta geografica, questa distribuzione assomiglia ai contorni delle strisce orizzontali di una bandiera. Andando da Sud a Nord, si susseguono deserti, steppe, foreste e tundre. Ognuna di queste zone forma una fascia latitudinale continua. L’ampia divisione latitudinale del mondo russo è ulteriormente enfatizzata dal tratto latitudinale delle catene montuose che incorniciano le pianure da sud: la dorsale della Crimea, il Caucaso, il Kopet Dag, il Parapamiz, l’Hindu Kush, le principali catene montuose del Tien Shan, le catene montuose del nord del Tibet e lo Ying Shan nella zona della Grande Muraglia cinese. Quest’ultima catena si trova sulla stessa linea che delimita la pianura meridionale ed elevata occupata dal deserto del Gobi. Quest’ultimo è collegato alla pianura del Turkestan attraverso le porte Dzhungariane.
Nella struttura zonale della terraferma del Vecchio Mondo si possono notare anche caratteristiche di una peculiare simmetria Est-Ovest, che rendono il carattere dei fenomeni nella sua periferia orientale analogo a quello dei suoi margini occidentali e che differiscono dal carattere dei fenomeni nella parte centrale del continente. Entrambi i margini orientali e occidentali del continente (l’Estremo Oriente e l’Europa) si trovano a latitudini comprese tra i 35 e i 60 gradi Nord, naturalmente coperte da regioni boschive. Qui le foreste boreali toccano direttamente e si trasformano gradualmente in foreste della flora meridionale. Nulla di simile si può osservare nel mondo di mezzo [la Russia], dove le foreste della flora meridionale esistono solo nelle regioni delle sue periferie montuose (Crimea, Caucaso e Turkestan) e non incontrano mai le foreste della flora settentrionale o boreale, essendo separate da queste da un continuum di strisce steppose-desertiche. Il mondo di mezzo del Vecchio Mondo può quindi essere identificato come la regione della fascia steppica e desertica che si estende in linea continua dai Carpazi al Khingan, insieme alla sua cornice montuosa (a sud) e alle regioni che si trovano a nord di essa (zone di foresta e tundra). È questo mondo che gli eurasiatici chiamano Eurasia nel senso esatto del termine (Eurasia sensu stricto). Questa va distinta dalla vecchia “Eurasia” di Alexander von Humboldt che comprendeva tutto il Vecchio Continente (Eurasia sensu latiore).
Il confine occidentale dell’Eurasia corre lungo il ponte Mar Nero-Baltico, cioè la regione in cui il continente si restringe tra il Mar Baltico e il Mar Nero. Lungo questo ponte e in generale nella direzione da nord-ovest a sud-est corrono una serie di confini botanico-geografici indicativi come, ad esempio, i confini orientali del tasso, del faggio e dell’edera. Partendo dalle rive del Mar Baltico, ciascuno di questi tipi di alberi si estende fino al Mar Nero. A ovest di questi confini, cioè dove crescono ancora le specie citate, il tratto della zona forestale è continuo per tutta la lunghezza da nord a sud. A est inizia la divisione in zona forestale a nord e zona stepposa a sud. Questo confine può essere considerato il confine occidentale dell’Eurasia. Il confine dell’Eurasia con l’Asia in Estremo Oriente corre lungo le longitudini in cui la striscia continua di steppa si abbassa in prossimità dell’Oceano Pacifico, cioè alla longitudine del Khingan.» [“I fondamenti geografici e geopolitici dell’Eurasiatismo“]
Mi perdonerete per il lungo passaggio citato (ormai vi sarete abituati), ma Savitskij è molto schematico e descrittivo, e questa è di fatto la definizione più esatta che si possa trovare della parola Eurasia (nel senso eurasiatista del termine).
È dunque assurdo pensare che possa esistere un “eurasiatismo” in chiave europea; innanzitutto perché la cosiddetta “Europa” non fa parte dell’Eurasia; non ha dunque quella funzione geopolitica che è associabile alla Russia nell’unire o comunque far comunicare il continente, in quanto “intermedio”, «vera terra di mezzo» del Vecchio mondo; infine perché la storia e la cultura europea dalla natura esclusivista (spacciata come universalista), oltre che, come detto, il suo stato di periferia geopolitica del continente, non la permettono di avere una funzione riconciliatrice sul resto del continente – e non a caso gli eurasiatisti russi pongono molta enfasi su come gli ortodossi siano diversi dai protestanti e dai cattolici, e su come il mondo slavo (a parte magari quelli occidentali) sia diverso dal mondo latino-germanico (su cui invece gli “eurasiatisti” europei pongono spesso molta enfasi, in genere mistica, a volte finendo su posizioni filo- o neo-pagane).
Perché gli eurasiatisti russi, come Dugin, danno dunque voce agli “eurasiatisti” europei? La motivazione più ovvia che viene in mente è il semplice “collaboriamo con essi e accettiamoli purché simpatizzino con la nostra causa”. Dugin indubbiamente stima personaggi come Thiriart ed altri intellettuali metafisici europei legati al pensiero continentale, eppure nei suoi scritti il pensatore russo è evidentemente in linea con l’Eurasiatismo classico, che esclude il ruolo attivo dell’Europa nell’unificazione del continente. Concetti come “Europa-Nazione”, “Civiltà latino-germanica” e altre sciocchezze simili non hanno alcun senso. L’Europa non è una Nazione ma, al massimo, se accettiamo la sua esistenza, un insieme di Nazioni. Non esiste inoltre alcuna “Civiltà latino-germanica”, e su ciò ci sarebbe molto da scrivere.
Indipendenza a ragione scrive che «La fantasmagorica idea di Europa quale “grande spazio geopolitico” declinato in diversi modi a nostro avviso tutti rigettabili (euroatlantismo, eurocentrismo, eurasiatismo) si riferisce ad un’entità geopolitica discutibile geograficamente e culturalmente indefinibile. Gli stessi precedenti storici – Roma, Sacrum Romanum Imperium di Carlo Magno, Federico II, eccetera – richiamati per provare a sostanziarla, non a caso si rifanno a politiche espansioniste, di conquista, di affermazione imperiale di Stati o case regnanti». Sui motivi per cui l’Europa è tendente al bellicismo abbiamo già scritto, ed eviterei di tornarci. Il punto su cui voglio soffermarmi è quello della concezione stessa di Europa, e il suo futuro.
Preve considera l’Europa una realtà, così come tanti altri pensatori rispettabili, anche patrioti, come lo stesso Giuseppe Mazzini – comunque contestualizzabile in quel periodo dati i movimenti di liberazione e insurrezione che stavano prosperando nel subcontinente europeo; inevitabilmente intrecciati e legati da una causa nazionale comune, che li portava a vedere il continente come un insieme di Nazioni in lotta.
L’Europa (che considero approssimativamente tutto ciò ad ovest dei Carpazi ad esclusione dei popoli ortodossi, ad eccezione forse della Grecia), è da ammettere, ha una storia in comune. Si pensi al medioevo, l’età dei comuni, il rinascimento, il colonialismo, l’illuminismo, ed esperienze tragiche condivise come quella napoleonica e quella nazifascista. Nonostante tutto ciò, ci sono molte più differenze tra italiani e tedeschi di quanto non ce ne siano tra italiani e tunisini (come ha detto giustamente Indipendenza) o tra tedeschi e nordamericani. Le motivazioni sono molteplici e molteplici sono i fattori – come abbiamo già evidenziato più volte in questo scritto. Principalmente, in questo caso, vi è un fattore evidentemente geografico e un fattore religioso-filosofico.
È più facile individuare una Civiltà mediterranea o una Civiltà latina, e una Civiltà nordeuropea o germanica, una Civiltà balcanica-bizantina, piuttosto che trovare una radice comune in una presunta “Civiltà latino-germanica” o “europea”. I confini di tali Civiltà, se ammettiamo che esistano, sono piuttosto sfumati, ed è inevitabile data la geografia – come già detto – particolare dell’Europa.
La Civiltà nordeuropea è ad esempio prevalentemente germanica, ma comprende anche i celti delle isole britanniche e sotto certi aspetti può “contendere” Polonia, Mitteleuropa, Baltici e Finlandia/Estonia. La religione protestante e la cultura germanica hanno influenzato profondamente tali Paesi, anche quelli cattolici come la Polonia; e molti aspetti culturali ed estetici sono infatti indiscutibilmente comuni, come l’architettura.
La Civiltà latina potrebbe comprende i Paesi neolatini europei-occidentali (escludendo quindi Romania e Latino-America), cioè Italia, Spagna, Portogallo, Francia e Belgio meridionale. Inutile dire quanto in comune ci sia tra questi popoli. Eppure allo stesso tempo vi è molto in comune tra Italia, Spagna, Grecia, Maghreb, Egitto e Levante, essendo vecchie Civiltà del Mediterraneo (un evidente Großraum che comprende il bacino di questo Mare chiuso). Tuttavia Maghreb ed Egitto sono anche Paesi africani, islamici ed arabi.
La Grecia d’altro canto ha una cultura strettamente legata al resto dei Paesi ortodossi, in particolare quelli dei cosiddetti balcani, che ricoprono lo spazio bizantino. Così come la Serbia ha probabilmente più in comune con la Russia che con la Grecia – con cui ha in comune religione e geografia. D’altronde Russia e Serbia sono entrambi Paesi (a maggioranza) slavi ed ortodossi.
Come si vede, se è difficile delineare un confine per la Civiltà russa, lo è altrettanto per le Civiltà europee. Ciò non vuol dire che non esistano, ma che innanzitutto la formazione non è completa, e in secondo luogo esisteranno sempre “frontiere” – come le chiamava Daria Dugina, in contraddizione coi confini. «Non si tratta di un confine lineare, ma di una striscia intermedia, un territorio neutrale o di nessuno che separa una Civiltà da un’altra. La proprietà della frontiera è quella di cambiare costantemente, spostandosi in una direzione o nell’altra. Inoltre, la frontiera ha una vita propria; il suo territorio è un luogo di intenso scambio di codici culturali, dove due o più identità convergono, confliggono, divergono ed entrano nuovamente in dialogo», sintetizza il padre, Aleksander Dugin, in “Il mondo russo e la sua cattedrale“.
In un subcontinente come quello europeo, dove, riprendendo Savitskij, vi è un clima temperato ed una costa estremamente frastagliata, con numerose catene montuose e habitat relativamente variegati, è inevitabile che si formino numerosi Paesi che possono esser accomunati da un lato dalla geografia, dall’altro dalla religione, o dalla cultura, dall’ethnos, dalla linguistica ecc. Lo stesso infatti lo si nota nel già citato Sud-est asiatico, dove, seppur in misura minore rispetto l’Europa, vi sono numerose Nazioni che sono reciprocamente influenzate e influenzati dalle grandi Civiltà vicine. Le più “autonome” sono probabilmente la Thailandia e il cosiddetto “Nusantara” (letteralmente “isole”) che comprende Indonesia e Malesia (a volte vengono comprese anche le Filippine); il Vietnam è influenzato da questi, ma anche dalla Cina; così come il Laos e la Cambogia, più tendenti alla Thailandia; o il Myanmar, tra India, Cina e Thailandia. Per questo un eventuale processo di unificazione europea e di “civilizzazione” (nel senso di istituzione di Civiltà contraddistinte) sarà verosimilmente traumatico, o comunque, se fatto pacificamente, sarà complesso e lungo. Non può essere esclusa categoricamente la nascita di una Civiltà europea in un futuro lontano (o anche prossimo, se il multipolarismo e le condizioni per il prosperare delle Civiltà irromperà nel nostro subcontinente), ma mi sembra personalmente molto più tortuoso come percorso di quanto non lo sia la nascita o il consolidamento di una Civiltà latina, bizantina, ecc.
Chiusa questa parentesi di speculazioni (in parte sicuramente personali, ma è inevitabile quando si parla di futuro), che era necessaria per parlare di “Europa”, voglio far notare come anche all’interno degli eurasiatisti europei vi siano esponenti lontani dal pensiero dell'”Europa-Nazione”. Lorenzo Maria Pacini – vicino a Dugin e principale traduttore italiano sul sito degli eurasiatisti Geopolitika – ad esempio ha parlato di Civiltà mediterranea, considerando il Mare nostrum tra l’altro l’antico Heartland del continente [“Mediterraneo multipolare, ovvero la sfida di un futuro migliore“]. E parlando di nuovo di eurasiatisti non-russi che vengono promossi dai russi, basti pensare ai panafricanisti che hanno persino scritto – erroneamente parlando dal punto di vista di geopolitica teorica – che l’Africa può esser considerato Heartland [“L’impero nero che verrà“]. Si capisce chiaramente come venga accolta dagli eurasiatisti (russi) ogni opinione, anche in contraddizione con l’eurasiatismo stesso, purché si parli di geopolitica teorica, realismo, tradizionalismo, in chiave anti-angloamericana ed anti-occidentale – ciò soprattutto perché, come abbiamo spiegato precedentemente, l’eurasiatismo si è adattato al contesto multipolare, che fino ad inizio XXI secolo trovava inverosimile come scenario.
Ma andiamo avanti.
Seppur vi sia una profonda differenza filosofica tra “eurasiatismo” europeo ed eurasiatismo vero (russo), sono chiaramente accomunati dalla strategia tellurica (dal lato europeo almeno, certi, retoricamente) contro l’impero talassocratico, oltre che la filosofia, profondamente tradizionalista e spesso metafisica, anche se sotto diversi punti di vista. Eppure vi sono paradossalmente (o neanche tanto paradossalmente) più similiarità tra “eurasiatismo” europeo e realismo occidentale, che con l’eurasiatismo russo.
Entrambi infatti hanno in mente un’Europa compatta, in linea con i desideri dell’anglosfera (purché non si vada contro la stessa), ed entrambi, soprattutto, hanno fini imperiali e ragionano fortemente in chiave occidentale (termine che gli “eurasiatisti” europei tendenzialmente disprezzano). Realisti occidentali quali il nostro Alessandro Orsini o l’americano John Mearsheimer ragionano infatti in termini imperiali, anche se non lo riconoscono. In questa fase in cui “ci facciamo andar bene” ogni schieramento anti-americano in funzione anti-imperialista potremmo chiudere un occhio, ma è evidente come, pur andando contro i crimini e il sovvertimento dell’ordine mondiale da parte dell’impero statunitense, sia Mearsheimer che Orsini puntano tutto il proprio lavoro sulla salvaguardia e le potenzialità dello Stato per cui servono, con cui evidentemente si legano spiritualmente. Mearsheimer ed Orsini – seppure quest’ultimo riconosca una individualità europea distinta da quella nordamericana – riconoscono chiaramente l’esistenza di un certo “Occidente”, e seppur in chiave diversa ed evidentemente più progressista rispetto ai tradizionalisti “eurasiatisti”, desiderano una capacità di proiezione globale da parte dell’Occidente che possa far valere i propri interessi, posti al di sopra di quelli altrui (pur non ammettendolo e pur non volendo, pare, imporli con la violenza che l’Occidente ha usato e sta usando fino ad ora). Sono insomma chiaramente contro la “Sovranità culturale” cara agli eurasiatisti e che sempre più citano i governi russo [Report del 2022 sui Valori tradizionali], cinese [Daniele Perra, “Wang Huning e la sovranità culturale“] ed indiano (hindutva).
In sintesi, la definizione di “impero” che hanno ancora in mente gli “eurasiatisti” europei e i realisti occidentali (anche se questi ultimi evitano di usare tali terminologie legate alla tradizione e l’ancient regime) non è assolutamente quella di Impero che abbiamo già argomentato nel capitolo precedente. Ciò perché ambedue gli schieramenti apparentemente contrapposti (sull’asse tradizione-progresso) sono fortemente limitati dalla propria ottica eurocentrica, coscientemente o meno. Non si riesce a superare lo schema dello Stato-Nazione, così come non si riesce a superare lo schema dell’impero inteso in senso occidentale; in tal modo lo Stato-Nazione viene semplicemente espanso su dimensioni subcontinentali, identificando nell’Europa una potenziale Nazione – inevitabilmente in chiave imperiale. Vi sono poi degenerazioni più spinte, come quella di Thiriart, con una visione eurocentrica universalista, e posizioni più comprensibili seppur basate erroneamente sul concetto di “Europa”, come De Benoist, che riconosce una pluralità di Civiltà con proprie culture e valori spirituali particolari.
È chiaro che il realismo, se non viene accompagnato da un’ideologia socialista e/o veramente comunitarista, porta inevitabilmente alla valorizzazione del proprio Stato e della sua “volontà di potenza”, qualunque sia la sua maschera politica. Un Orsini sosterrebbe un’Italia liberale quanto sosterrebbe un’Italia socialista, e forse (ma non voglio lanciare calunnie e immaginare scenari da secolo scorso in quanto apprezzo la sua persona) farebbe lo stesso con un’Italia fascista, purché questa sia indipendente e segua appunto i propri interessi. Così come infatti ha fatto il già più volte citato Schmitt, pur distanziandosi dagli aspetti chiaramente ed inequivocabilmente negativi, macabri e terribili del nazifascismo. Mai comunque avrebbe potuto desiderare la sconfitta della statualità tedesca durante la seconda guerra mondiale, in quanto il focus primario dei realisti (se questo realismo, come già detto, non è accompagnato da un’ideologia che superi la semplice dicotomia superficiale tradizionalismo-progressismo) è, appunto, la statualità presa a sé.
Lo stesso vale per l’eurasiatismo. Come già spiegato, se analizziamo il mondo geopoliticamente, è inevitabile auspicare per un Nomos della terra che ponga fine a questa terribile parentesi di predominio talassocratico – citando la celebre chiusura di Schmitt, «È agli spiriti pacifici che è promesso il regno della terra. Anche l’idea di un nuovo nomos della terra si dischiuderà solo a loro».
Tuttavia, non esiste alcuna «ideologia eurasiatista». Dugin la ha più volte definita “ideologia”, ma solo nel senso ampio del termine, inteso come sistematizzazione e partigianeria di un’idea. Come già detto, il realismo è uno strumento d’analisi delle dinamiche statuali – utile anche per noi marxisti –; l’eurasiatismo è invece un’applicazione geopolitica risultato delle analisi realiste. Non porta con sé connotazioni ideologiche; tuttavia è fortemente legato a tradizionalismo e comunitarismo. Da ciò nasce infatti la “Quarta teoria politica” di Dugin, che personalmente trovo superflua in quanto difficilmente paragonabile ad ideologie come il comunismo o il liberal-liberismo (e il fascismo che di quest’ultima ne fa da appendice, anche se Dugin lo distingue come “terzo paradigma”). Come affermato da Haz, i valori che incarna la Quarta teoria dovrebbero già esser presenti nel marxismo-leninismo. La Quarta teoria politica – che non vorrei goffamente semplificare data la sua complessità, ma tale è – è un socialismo eurasiatista marcatamente metafisico – riprendendo certi aspetti dalla “terza teoria politica” (il fascismo), seppure difficilmente possiamo paragonare una Civiltà come quella russa con un episodio storico legato strettamente all’identità occidentale –, con enfasi sul tradizionalismo e il comunitarismo. Non è inevitabile la correlazione tra eurasiatismo e metafisica. Tocca ai marxisti utilizzare l’eurasiatismo con fini politici, socialisti, come infatti sta facendo la Cina.
Conclusione
Spero di esser stato esaustivo su tutte e due le questioni principali che ho affrontato, Comunitarismo ed Eurasiatismo. Questa che è stata una risposta ad Indipendenza – e credo che si possa facilmente ricavarne qualcosa di più di un saggio ristretto ad una struttura da risposta critica, rendendolo qualcosa di propositivo e programmatico per tutti i marxisti; il lavoro è ancora lungo, ma bisogna iniziare da qualche parte –, anche per chi non avesse letto il loro libro, vuole essere una sorta di introduzione ai due rispettivi temi a tutti coloro che hanno sete di conoscenza e vogliono applicare la scienza del marxismo-leninismo (o filosofia della prassi o come lo si voglia chiamare) alla realtà materiale attuale.
Perché sarebbe ora di svegliarsi in questo bellissimo XXI secolo che sta sorgendo.
- Forse il più grande pensatore che ha cercato di riportarci al nostro Confucio: Licurgo. Come Confucio, Licurgo cercò di dare alla sua Sparta leggi non scritte, ma riti, che avrebbero coeso la Comunità. Con la sua struttura politica e con questi rigidi riti passati di generazione in generazione con metodi ferrei, la grandezza di Sparta ha retto per cinque secoli, stroncata solo dalla concomitanza di eventi, tra rivolta degli schiavi (contraddizione interna) e invasioni. Rousseau voleva creare un Uomo nuovo fondato sui riti così come fece Licurgo.
Sono numerosi i passaggi di Rousseau che evidenziano il pensiero comunitario del Contratto sociale.
«Spesso c’è una gran differenza fra la volontà di tutti e la volontà generale; questa guarda soltanto all’interesse comune, quella all’interessa privato e non è che una somma di volontà particolari; ma eliminate queste medesime volontà il più e il meno che si elidono e come somma delle differenze resta la volontà generale.» [C.S., L.II, C.III]
Serve un Uomo nuovo, che si annulla per la Comunità:
«Chi affronta l’impresa di dare istituzioni a un Popolo deve, per così dire, sentirsi in grado di cambiare la natura umana, di trasformare l’individuo, che per se stesso è un tutto perfetto e solitario, in una parte di un tutto più grande da cui l’individuo riceve, in qualche modo, la vita e l’essere; di alterare la costituzione dell’uomo per rafforzarla; di sostituire un’esistenza parziale e morale all’esistenza fisica e indipendente che tutti abbiamo ricevuto dalla natura. Bisogna, in una parola, che tolga all’uomo le forze che gli sono proprie per dargliene di estranee a lui, di cui non possa fare uso se non col sussidio di altri. Quanto più queste forze naturali sono morte e annientate, quanto più le forze acquisite sono grandi e durevoli, tanto più solida e perfetta anche l’istituzione. Dimodoché, se ciascun cittadino non è nulla, non può nulla se non attraverso tutti gli altri, e se la forza acquisita dal tutto è uguale o superiore alla somma delle forze naturali di tutti gl’individui, si può dire che la legislazione è al vertice della perfezione che può raggiungere.» [C.S., L.II, C.VII]
Persino quando si vota democraticamente, non si deve votare ciò che si crede esser migliore per se stessi e per i propri interessi. Vi è qui la differenza tra volontà totale – composta da una società con più interessi in conflitto e che trovano una quadra nel calcolo aritmetico di maggioranza-minoranza – e volontà generale – composta da una Comunità che decide per la Comunità stessa:
«Quando nell’assemblea del Popolo si propone una legge ciò che si chiede loro non è precisamente se approvano o no la proposta, ma se questa è, o no, conforme alla volontà generale che è la loro volontà; ciascuno, votando, dice il suo parere in proposito, e dal computo dei voti si ricava la dichiarazione della volontà generale. Quando dunque prevale l’opinione contraria alla mia, ciò prova solo che mi ero sbagliato, e che credevo volontà generale ciò che non lo era. Se la mia opinione particolare si fosse imposta, avrei fatto cosa diversa da ciò che volevo: e allora non sarei stato libero.» [C.S., L.IV, C.II]
Questo il Rousseau teorico, pensatore, autore. Ma la personalità di Rousseau era tutt’altro che un esempio di comunitarismo.
«È curioso che in proposito [del matrimonio] lo schizofrenico Rousseau, dopo aver fatto l’elogio della autosufficienza della passione e del sentimento, abbia abbandonato alla carità pubblica i quattro figli avuti da una lavandaia analfabeta, che ebbe la disgrazia di essere la sua convivente “informale”.» [Costanzo Preve, Marx lettore di Hegel e… Hegel lettore di Marx]
Ma Rousseau, con le sue (indiscutibilmente da gigante) capacità di scrittura, si giustificò nel modo più elegante possibile anche contro le accuse di Voltaire e degli altri illuministi, affermando che i suoi principi sono più solidi della sua condotta. Sulla visione politica rivoluzionaria di Rousseau invito a leggere un mio vecchio saggio, Rousseau e il pensiero marxista https://www.katechon.org/rousseau-e-il-pensiero-marxista/[↩] - «Da questo gigantesco sovraprofitto – così chiamato perché si realizza all’infuori e al di sopra del profitto che i capitalisti estorcono agli operai del ‘proprio’ paese – un pugno di Stati particolarmente ricchi e potenti che saccheggiano tutto il mondo [traggono] quanto basta per corrompere i capi operai e lo strato superiore dell’aristocrazia operaia.» [Lenin, Imperialismo fase suprema del capitalismo]
«Un’eccedenza di profitti rispetto ai profitti capitalistici che sono normali e consueti in tutto il mondo. I capitalisti possono destinare una parte (e non piccola!) di questi superprofitti per corrompere i propri lavoratori, per creare qualcosa di simile a un’alleanza ([come] le celebri “alleanze” descritte dai Webb dei sindacati e dei datori di lavoro inglesi) tra i lavoratori di una data nazione e i loro capitalisti contro gli altri Paesi.» [Vladimir Lenin, L’imperialismo e la scissione del Socialismo]
«Il proletariato inglese sta diventando sempre più borghese, cosicché la più borghese di tutte le nazioni tende in ultima analisi ad avere un’aristocrazia borghese e un proletariato borghese ‘oltre’ a una borghesia. Per una nazione che sfrutta tutto il mondo ciò è naturalmente in una certa misura giustificabile.» [Friedrich Engels, L’aristocrazia operaia nella Gran Bretagna del XIX secolo, in Studi di storia del movimento operaio][↩] - «Il termine individuo (in-dividuo) è il calco neolatino del termine latino individuum, che significa indivisibile, o meglio non ulteriormente divisibile. A sua volta, il latino individuum è semplicemente la traduzione letterale del greco atomon (o meglio, a-tomon, non ulteriormente divisibile). Si tratta, come è noto, dell’unità minima del mondo della scuola atomistica antica (Democrito, Epicuro, Lucrezio, eccetera). E tuttavia gli antichi greci non usavano questo termine riferendosi all’uomo (ciò avviene soltanto – e non a caso – a partire da Hobbes), ma usavano invece il termine di “anima” (psyché). E questo non a caso, perché l’anima è una unità concreta e differenziata (non c’è infatti un’anima eguale ad un’altra, ogni anima è un mondo unico ed irripetibile), mentre l’individuo è una unità astratta ed omogenea, il supporto astratto ed omogeneo di una astrazione reale (direbbe Marx), l’astrazione reale del modo di produzione capitalistico, che trova nella rete della circolazione delle merci la sua unica e vera “sostanza”. (…) Mentre il latino nel tempo ha dato luogo a diverse lingue neolatine, ed ha così perduto la sua unitarietà, il greco è rimasto sostanzialmente unitario in circa tremila anni di storia (non nella sintassi, ma nel lessico espressivo). Ora tutta la terminologia filosofica “moderna” dell’attuale greco moderno risulta da ritraduzioni dal francese compiute nell’ottocento, mentre per quanto riguarda il lessico ereditato dal greco antico non ci sono praticamente stati cambiamenti (personalmente, con accorgimenti sintattici, potrei tranquillamente parlare di filosofia con Platone ed Aristotele). Attraverso la mediazione del greco moderno, è possibile verificare – ancora meglio che in tutte le altre lingue indoeuropee – la rottura storica e concettuale verificatasi a partire del seicento inglese (Hobbes e Locke) e dal settecento francese (Voltaire) e tedesco (Kant). (…) Ed il dettaglio, che poi non è ovviamente per nulla un dettaglio, sta nel fatto che l’individuo (a-tomon) non ha nulla a che fare con l’anima (psyché). Nel primo caso si tratta di una entità materiale inanimata, unità di calcolo sociale astratto, nel secondo caso si tratta invece di una realtà spirituale differenziata ed inimitabile, ed in quanto tale letteralmente “incalcolabile”, perché non sottoponibile alla quantificazione matematizzante di tipo galileiano. L’individuo è oggetto di scienza (sia pure soltanto largamente probabilistica), l’anima è oggetto di filosofia. Per questo la modernità (e cioè il capitalismo in abito di cerimonia) ama la scienza e disprezza la filosofia, e la tollera soltanto in “abiti da lavoro” (o meglio da livrea) come moralismo, epistemologia e teoria della conoscenza.» [Costanzo Preve, Il modo di produzione comunitario][↩]
- La stessa parola proprietà privata vuole dire privata dalla Comunità. Scrive Preve: «Che l’impostazione storico-sociale sia migliore dell’impostazione robinsoniano di Locke lo dimostra un fatto filologico indiscutibile, per cui in latino il termine privatus non connota affatto una condizione originaria di possesso privato, ma significa invece “essere stato privato di un godimento collettivo precedente”. Il privatus, infatti, è prima di tutto colui che è “privato” dell’accesso al godimento dell’ager publicus. Il fatto che l’ager publicus non fosse una sorta di comunismo egualitario, ma una terra dominata da caste patrizie è certo indiscutibile, ma non cambia le cose nell’essenziale. La proprietà nasce da una espropriazione violenta, non da un diritto individuale originario. E mentre il commerciante di schiavi Locke non capisce l’essenziale (trascuro se a causa della tipica stupidità degli empiristi o di una malafede specifica), Hegel nella Fenomenologia dello Spirito lo capisce perfettamente, e fa iniziare la cosiddetta “civiltà” con lo scontro a morte fra il primo padrone vincitore e il primo schiavo sottomesso.»[↩]
- Da notare che Lenin usa questo termine quando parla di “cartelli” in Stato e Rivoluzione, evidenziando dunque come la condizione di associazione comunitaria andrà a raggiungere dimensioni universali[↩]
- Nel testo, come si noterà, non si parla esplicitamente di “geopolitica”, ma tanto è bastato per aver posto un punto definito (col timbro del Partito) sulla questione. Ciò nonostante, a quanto dice Dugin in Fondamenti di geopolitica, esser stato influenzato, «per molti versi, [da]gli Shmenovekhovtsij e i Nazionalbolscevichi, in particolare Nikolaij Ustryalov, che erano vicini agli eurasiatici, [che] influenzarono chiaramente i bolscevichi e soprattutto Stalin».[↩]
- Coker sintetizza: «Che cos’è un allele? Adam Rutherford lo definisce come una variante di un gene, paragonabile per certi versi alla differenza tra la parola “affetto” ed “effetto”. Una singola lettera può cambiare completamente il significato di una parola.»[↩]
- Svariati articoli trattano la questione autismo-individualismo [“Autism is the new individualism“]. Studi scientifici dimostrano come i soggetti che si isolano dalla società con i loro atteggiamenti asociali [paper “The brains of high functioning autistic individuals do not synchronize with those of others“] e spesso edonistici appartengono allo spettro dell’autismo [paper di Mark Brosnan e Jeff Gavin “The impact of higher levels of autistic traits on risk of hikikomori (pathological social withdrawal) in young adults“], così come tendenzialmente gli stessi sono predisposti all’omosessualità [studio riportato da SparkForAutism]. Infine, numerosi centri specializzati sulla sensibilizzazione e la tutela dei soggetti neurodivergenti evidenziano essi stessi come è più facile trovare soggetti autistici nelle società individualiste per via della loro struttura sociale tendente ad accettare ogni diversità asociale ed atipica [Autism.org]. E chiaramente più l’individualismo impera, e più gli autistici aumentano [“The rising prevalence of autism“] (guardacaso in particolare nei Paesi dell’anglosfera e germanici in generale) [Autism rates by Country, WorldPopulationReview][↩]
- «Nomos è la misura che distribuisce il terreno e il suolo della terra collocandolo in un determinato ordinamento, e la forma con ciò data dell’ordinamento politico, sociale e religioso. Misura, ordinamento e forma costituiscono qui una concreta unità spaziale. Nell’occupazione di terra, nella fondazione di una città o di una colonia si rende visibile il nomos con cui una tribù o un seguito o un popolo si fa stanziale, vale a dire si colloca storicamente e innalza una parte della terra a campo di forza di un ordinamento.» [Nomos della terra][↩]
- «I territori delle grandi civiltà dell’emisfero orientale e di quello occidentale erano, per la loro posizione, essenzialmente continentali, o tutt’al più talassici. Nel mondo antico essi si distribuivano, ad eccezione dell’estremo Nord e dei Tropici sempre umidi, su tutte le zone climatiche del blocco terrestre nordafricano-europeo. I due grandi pilastri meridionali del mondo antico, l’Africa nera e l’Australia, non possedevano proprie civiltà progredite autonome. Restavano inoltre in gran parte al di fuori dell’area di espansione della formazione antica dei grandi spazi. Tuttavia, dal punto di vista geografico, climatico e della flora, i territori centrali della maggior parte delle grandi civiltà possedevano un fattore in comune: si estendevano dalle zone umide, dove risultava possibile una coltivazione su vasta scala, da originari terreni boschivi delle zone temperate, subtropicali e delle aree monsoniche tropicali ed extratropicali fino ai margini delle grandi fasce delle steppe e dei deserti. Il mondo della civiltà orientale era tuttavia insediato nella parte occidentale della zona secca del mondo antico, oltrepassandone i confini solo nelle sue espansioni coloniali. Le antiche civiltà americane, ad eccezione di quella maya, sembrano essere anch’esse legate, nei loro nuclei più antichi, alle zone secche, ma, contrariamente a quanto accadeva in Oriente, anche alla posizione degli altipiani più freschi.» Scrisse Heinrich Schmitthenner, citato da Schmitt stesso in Nomos.[↩]
- Lo stesso Terracciano scrive, ad esempio, «[All’impero americano] manca inoltre di quel senso di responsabilità che fece la potenza di Roma dopo la distruzione di Cartagine. Gli americani sono i cartaginesi del XX secolo e il loro destino è segnato.» È piuttosto chiaro l’utilizzo retorico del parallelismo Roma-Cartagine in questa citazione, basando sul fatto che Cartagine come gli Usa era marittima, e che ha comunque perso. O ancora dallo stesso autore: «A differenza della Cartagine d’oltre Atlantico, la Russia, più “europea” e più “romana” in ciò, considera “potenza” il controllo di uomini e di paesi [mentre gli Usa economia, finanza, materie prime e mercati internazionali]. Mosca non fu detta forse la “Terza Roma”?»[↩]
- Dugin, in Fondamenti, scrive: «Confrontando le idee degli eurasiatici russi con le teorie dei continentali geopolitici tedeschi (Haushofer, Schmitt, ecc.), che pure hanno cercato di costruire una propria teoria geopolitica come antitesi della strategia della “Forza del mare”, si evince che con i tedeschi in questa direzione si è arrivati solo a metà, mentre con i russi (in primis Savitskij) abbiamo a che fare con un quadro completo e coerente, completo del mondo. In questo senso, possiamo dedurre una certa legge: “Più le opinioni dei continentali tedeschi si avvicinano all’eurasiatismo russo, più accettano pienamente la Ostorientierung, più coerenti e logiche sono le loro dottrine, più efficaci sono i loro progetti politici, creati su base geopolitica”. In questo senso, i più vicini a Savitskij furono i nazional-bolscevichi tedeschi, in particolare Ernst Nikisch, che erano ben consapevoli della dualità della posizione geopolitica della Germania, la cui “medietà” era relativa e secondaria rispetto all’assoluta “medietà” culturale e continentale dei russi. Per questo concludevano che la Germania non poteva pretendere di essere una sintesi geopolitica, che doveva scegliere tra una Germania sud-occidentale, slavofoba, cattolica e, per certi aspetti, “talassocratica” (borghese) (insieme all’Austria) e una Prussia nord-orientale, slavo-tedesca, socialista, russofila, protestante e spartana. La famosa tesi geopolitica di Nikisch L’Europa da Vladivostok a Flessin è sua e solo un tale approccio da parte tedesca si inserisce armoniosamente in un eurasiatismo continentale coerente. Naturalmente, la linea dell’austriaco cattolico, anticomunista e slavofobo Hitler, per quanto i rivoluzionari conservatori e i geopolitici storicamente più responsabili abbiano cercato di correggerla, non poteva che portare alla perdita a lungo termine dell’esistenza storica della Germania in una sconfitta da incubo, inflitta proprio da quelle forze con cui un'”eterna alleanza” avrebbe potuto solo garantire la complicità tedesca nel dominio mondiale della Tellurocrazia.»[↩]
- «Occorre che i nostri professionisti abbiano una solida formazione sulla teoria economica marxista.
La prima, la più vecchia generazione dei bolscevichi padroneggiava bene la teoria; leggevamo Il Capitale, prendevamo appunti e ne discutevamo insieme scambiandoci pensieri. Quella era la nostra forza. Ci ha aiutato molto.
La seconda generazione è meno preparata; la popolazione era occupata sul lavoro pratico e la costruzione del Paese. Hanno studiato il marxismo da dei riassunti.
La terza generazione è cresciuta con fouilletons [racconti scritti su più numeri di giornali] e articoli di giornale. Non hanno una profonda conoscenza. Hanno bisogno di esser imboccati con cibo digeribile. La maggior parte di loro è stata educata studiando Marx e Lenin non attraverso i loro scritti, ma da citazioni.
Se le cose andranno avanti così, la popolazione può degenerare. In America la gente ragiona così: “il dollaro è la chiave di tutto, perché avremmo bisogno di teoria, perché avremmo bisogno di scienza”? Questo è come potrebbero ragionare qui: “perché dovremmo leggere il Capitale quando stiamo costruendo il socialismo?”. Questa è la minaccia della degenerazione; questa è morte.
Per evitare questo anche nelle piccole cose, abbiamo bisogno di innalzare il livello delle conoscenze economiche…»[↩] - Si pensi ai documenti declassificati nel 2018, in cui si dimostra come Eltsin si scontrò con Clinton opponendosi alla guerra in Kosovo, affermando che tutto il lavoro che ha fatto per far amare l’occidente ai russi sarà vano, e che l’amicizia sarà indubbiamente finita. Il 9 maggio fa una parata militare pomposa, con simboli anti-Nato, e pronuncia un discorso dove di fatto dice che “certi” rivogliono la guerra fredda e non hanno imparato la lezione; poco dopo dà il via alla seconda guerra cecena.[↩]
- Putin, seguendo gli intellettuali russi e a sua volta il libro China wave (2012) di cui parleremo più avanti, inizierà a definire la Russia una Civiltà e non più una Nazione dal 2018, in occasione del Consiglio per le relazioni inter-etniche, parlando già di rapporti inter-Civiltà dal 2014[↩]
- Indipendenza infatti scrive: «Lo scenario caratterizzato dai grandi blocchi continentali non farebbe altro però che riproporre quel labile equilibrio di potenze sempre pronto a venir meno e a degenerare in un conflitto inter-imperialistico. Muterebbe soltanto la forma: se tra il XIX e il XX secolo si trattava di Imperi formati da una metropoli europea (lo Stato nazionale) e una periferia extra-europea (le colonie) o –come nel caso tedesco– da uno Stato che, per i limitati possedimenti coloniali, ambiva a crearsi un proprio Impero nel cuore del Vecchio Continente, in questo caso ci si troverebbe invece di fronte a grandi blocchi continentali che, magicamente, dovrebbero coesistere pacificamente senza che nessuno di essi avanzi pretese egemoniche.»
Da dire che comunque tale argomentazione è anche usata dai critici della teoria del multipolarismo come progresso dialettico storico.[↩] - Dugin, in Fondamenti, scrive senza mezzi termini: «L’universalismo russo, fondamento della civiltà russa, è radicalmente diverso dall’Occidente sotto tutti i principali aspetti. In un certo senso, si tratta di due modelli in competizione, che si escludono a vicenda, di poli opposti. Di conseguenza, gli interessi strategici del popolo russo dovrebbero essere orientati in direzione anti-occidentale (il che deriva dall’imperativo di preservare l’identità civilizzatrice russa), e l’espansione civilizzatrice è possibile anche in futuro. In terzo luogo, il popolo russo (= la Russia) non si è mai prefisso di creare uno Stato monoetnico e razzialmente omogeneo. La missione dei russi era universale, ed è per questo che il popolo russo è andato sistematicamente nella storia a creare un impero, i cui confini si espandevano costantemente, coprendo sempre più conglomerati di popoli, culture, religioni, territori, regioni. È assurdo considerare l'”espansionismo” sistematico e pronunciato dei russi un incidente storico. Questo “espansionismo” è parte integrante dell’esistenza storica del popolo russo ed è strettamente associato alla qualità della sua missione civilizzatrice. Questa missione porta con sé un certo “denominatore comune”, che permette ai russi di integrare nel loro Impero le realtà culturali più diverse. Tuttavia, il “denominatore comune” ha le sue caratteristiche ed è applicabile solo a quei popoli che hanno una certa specificità storica e un certo contenuto culturale, mentre altri popoli (in particolare, alcune nazioni dell’Occidente) rimangono profondamente estranei all’universalismo russo (che storicamente si è manifestato nell’instabilità e persino nell’incoerenza dell’influenza politica russa in Europa)».[↩]
- Ricordiamo che gli americani, Biden compreso, ai tempi ridevano di fronte all’idea di un riavvicinamento tra Russia e Cina. Biden disse espressamente «good luck… also try with Iran», quando gli chiesero che ne pensa di un’eventuale riavvicino sino-russo come conseguenza dell’allargamento della Nato nel ’97. È dunque evidente come la dirigenza americana abbia in questi ultimi decenni sottovalutato le potenzialità continentali del multipolarismo.[↩]
- Sulla questione della rivoluzione interna al marxismo-leninismo (scienza che come sappiamo, ha detto Lenin esser la sintesi di tutte le teorie e le filosofie antecedenti; apice del pensiero umano realizzato), ha scritto anche Guevara, sul come il termine “marxismo” debba esser scontato, e usato come base per la sintesi con i pensieri successivi. Nelle sue Note per lo studio dell’ideologia scrive, come Lenin, che «I progressi nelle scienze sociali e politiche, come in altri campi, appartengono a un lungo processo storico i cui legami sono costantemente interconnessi, aggiunti, aggregati e perfezionati. All’inizio tra i popoli esisteva una matematica cinese, araba o indù; oggi la matematica non ha confini. Nella sua storia c’è un Pitagora greco, un Galileo italiano, un Newton inglese, un Gauss tedesco, un Lovachevki russo, un Einstein, ecc. Così nel campo delle scienze sociali e politiche, da Democrito a Marx, una lunga serie di pensatori ha aggiunto le proprie ricerche originali e ha accumulato un corpo di esperienze e dottrine.»
«A partire dal rivoluzionario Marx, si costituisce un gruppo politico con idee concrete che, basandosi sui giganti, Marx ed Engels, e sviluppandosi attraverso fasi successive, con personalità come Lenin, Stalin, Mao Tse-tung e i nuovi governanti sovietici e cinesi, stabilisce un corpo di dottrina e, diciamo, di esempi da seguire.
La Rivoluzione cubana porta Marx dove ha lasciato la scienza per brandire il suo fucile rivoluzionario; e lo porta lì, non per spirito di revisione, di lotta contro ciò che segue Marx, di rinascita del Marx “puro”, ma semplicemente perché fino a lì Marx, lo scienziato, si è posto fuori dalla storia, ha studiato e previsto.»
Ciò porta alla seguenze considerazione:
«Per inciso, è necessario introdurre una posizione generale su uno dei termini più controversi del mondo di oggi: il marxismo. La nostra posizione, quando ci viene chiesto se siamo marxisti o meno, è quella di un fisico a cui viene chiesto se è un “newtoniano”, o di un biologo se è un “pasteuriano”.
Ci sono verità così evidenti, così incorporate nella conoscenza della gente, che è inutile discuterne. Si dovrebbe essere “marxisti” con la stessa naturalezza con cui si è “newtoniani” in fisica, o “pasteuriani” in biologia, considerando che se nuovi fatti determinano nuovi concetti, questi non toglieranno mai la loro parte di verità a quelli passati. È il caso, ad esempio, della relatività “einsteiniana” o della teoria dei “quanti” di Planck rispetto alle scoperte di Newton; tuttavia, ciò non toglie nulla alla grandezza dell’inglese. È grazie a Newton che la fisica ha potuto progredire verso i nuovi concetti di spazio.»
Viene da sé allora che lo stesso Marx può esser superato nella stessa scienza che lui ha rivoluzionario, o, se vogliamo dirla con più diplomaticità, viene applicato e rinnovato al contesto attuale. Lo stesso Guevara scrive citando due esempi a cuore ai latinoamericani: «Marx, come pensatore, come studioso delle dottrine sociali e del sistema capitalistico in cui viveva, può ovviamente essere accusato di alcune imprecisioni. Noi latinoamericani possiamo, ad esempio, non essere d’accordo con la sua interpretazione di Bolivar o con l’analisi sua e di Engels sui messicani».[↩] - Indipendenza riassume bene i contributi degli slavofili sulla questione; non mi soffermerò sull’esistenza e l’essenza in sé della Civiltà russa, su cui ho intenzione di scrive molto ma in altra sede. Mi limito comunque a riportare che l’opinione dei russi stessi è chiara: nel 2021 ben il 64% russi non si considerava europeo; di contro il 29% degli intervistati dal Levada center si consideravano europei. Interessante è la distribuzione demografica; al contrario di come si possa pensare (almeno io lo pensavo), la percentuale di chi non considera la Russia europea è maggiore tra i giovani: 71% dei 18-24enni contro il 58% degli over 55. Nella totalità, si è passati da un 52% nel 2008 ad, appunto, 64% nel 2021. Dopo il 24 febbraio 2022 suppongo che la percentuale sia ulteriormente aumentata – purtroppo non ci sono sondaggi di Levada più recenti, sul tema –, con le tesi slavofile ed eurasiatiste che ormai sono praticamente egemoni presso la popolazione comune, oltre agli intellettuali e i politici. [Levada center, Russia and Europe][↩]
- Si leggano gli interventi (certi interessanti ed altri deliranti) tenuti durante il forum della Grande Scizia, gennaio di quest’anno: parte I e parte II.[↩]