La sfida della “decolonizzazione” e la necessità di una ridefinizione globale del neocolonialismo

Tradotto da Geopolitika.ru (Parte I e II). Pubblicato per la prima volta sulla rivista scientifica Vestnik Rudn – International Relations 2022 (Vol. 22, n. 4, p. 645-658) (Бовдунов А.Л. Вызов «деколонизации» и необходимость комплексного переопределения неоколониализма // Вестник Российского университета дружбы народов).

Le domande sulla necessità di una “decolonizzazione” del “secondo mondo” e dei Paesi della semiperiferia (secondo la terminologia dell’analisi dei sistemi mondiali) sono sempre più spesso sollevate nella politica pratica e nelle pubblicazioni accademiche. Tuttavia, la stessa questione della decolonizzazione applicata ai Paesi che sono stati oggetto dell’espansione coloniale europea è gravida di conseguenze negative nella pratica politica e di confusione teorica. Da un lato, il discorso della “decolonizzazione” incoraggia le tendenze separatiste e porta alla nascita di nuovi conflitti. D’altra parte, la nozione di “colonialismo” sta diventando sempre meno rigorosa: in questa prospettiva, qualsiasi espansione territoriale da parte di qualsiasi Stato in qualsiasi momento della storia può essere descritta come colonialismo. La nozione di “colonialismo” perde il suo specifico significato storico e si trasforma da termine scientifico a cliché propagandistico. Scompare così la possibilità di comprendere correttamente il fenomeno del colonialismo europeo come realtà storica concreta che ha determinato il destino dei popoli dell’Europa stessa e di altre parti del mondo in epoca moderna, l’unico “colonialismo” che i popoli della Terra hanno effettivamente affrontato negli ultimi 500 anni. Gli aspetti teorici e pratici, scientifici e politici del problema sono strettamente legati. Le ex potenze coloniali, inoltre, gli Stati che hanno ancora territori dipendenti ineguali, come gli Stati Uniti, nell’ambito di un’interpretazione espansiva del “colonialismo”, sono nella posizione di accusare i loro avversari geopolitici di “colonialismo”, poiché sono potenze multietniche, formatesi attraverso lunghi processi storici, in cui hanno avuto luogo diverse pratiche di interazione tra gruppi etnici. La possibilità stessa di interpretare le pratiche delle potenze non europee (Russia, Cina, Iran, Etiopia) come coloniali è legata al paradigma popolare del “colonialismo interno”. È emersa nell’ambito della teoria postcoloniale delle relazioni internazionali nei centri accademici europei e americani e, per sua stessa natura, è un esempio di approccio deliberatamente parziale che si concentra sui gruppi più emarginati – i “subalterni” – ma ignora le grandi comunità civili. L’autore evidenzia i pregiudizi e le carenze di questo approccio con esempi specifici, ne rivela le premesse filosofiche e suggerisce di utilizzare i risultati della geopolitica fondamentale, della teoria dei sistemi mondiali, della filosofia dello spazio e della filosofia della cultura per chiarire il concetto di “colonialismo”.

Introduzione

Il “colonialismo” come concetto teorico e problema pratico, nonostante il crollo degli imperi coloniali a metà del XX secolo, è ancora attuale. Da un lato, essa, o “colonialità”, è vista come quasi la causa di tutti i problemi contemporanei dei Paesi in via di sviluppo. D’altra parte, all’interno di una retorica simile, la tesi della decolonizzazione come vettore necessario di sviluppo comincia a essere applicata a spazi che in precedenza erano stati considerati vittime di politiche coloniali, o almeno non si consideravano potenze coloniali. Innanzitutto, stiamo parlando del “secondo mondo” condizionato (Russia, Paesi post-sovietici, Cina), oltre che dei principali Paesi del “terzo mondo”.

La “decolonizzazione” della Russia: la pratica del discorso e le origini dell’idea

Il 23 giugno 2022, la Commissione statunitense per la sicurezza e la cooperazione in Europa ha organizzato un evento al Congresso degli Stati Uniti intitolato “Decolonizzare la Russia: un imperativo morale e strategico”1. La Commissione stessa è un’agenzia governativa statunitense creata e controllata dal Congresso. Il suo co-presidente, il deputato Steve Cohen, aprendo la sessione, ha affermato che i russi “hanno essenzialmente colonizzato il loro stesso Paese”2. L’annuncio della conferenza ha sottolineato che “esiste un dibattito serio e controverso sulla necessità di riconoscere l’imperialismo di fondo della Russia e sulla necessità di “decolonizzare” la Russia affinché diventi un attore valido per la sicurezza e la stabilità europea”3.

Una cartina proposta dal “Forum free nation of postrussia”, finanziato direttamente dai vertici statunitensi

Il 17 marzo 2022, l’Istituto per la pace degli Stati Uniti, finanziato dal bilancio dello Stato americano, ha pubblicato delle raccomandazioni sulla copertura dell’operazione militare speciale della Russia in Ucraina per il pubblico africano. Il suggerimento è stato quello di tracciare “ovvi” parallelismi tra la lotta degli africani per la libertà dal “controllo coloniale” e la resistenza delle forze armate ucraine alle azioni russe4.

Le accuse di colonialismo e imperialismo rivolte alla Russia non sono nuove. Già nel 1959 una risoluzione del Congresso degli Stati Uniti sulla “Settimana delle nazioni schiavizzate”, che aveva acquisito lo status di legge, conteneva invettive contro l’”imperialismo” russo e sovietico e promesse di sostegno alle “nazioni schiavizzate”5. Qualche anno prima, su Foreign Affairs, pubblicato dall’autorevole Council on Foreign Relations statunitense, la tesi della Russia come “impero coloniale” era stata avvalorata dall’ex menscevico Solomon Schwarz (Schwarz, 1952), che aveva collaborato con il governo degli Stati Uniti (Liebich, 1995, p. 264).

Anche un altro sovietologo americano, Walter Kolartz, all’inizio della Guerra Fredda pubblicò un libro intitolato Russia and Its Colonies, in cui elencava tutti i “territori etnicamente non russi dell’URSS” come “colonie” (Kolartz, 1953, pp. v-vi). A differenza di Kolartz, Alexandre Bennigsen, orientalista e sovietologo francese, considerava colonie della Russia solo i territori asiatici e il Caucaso (Bennigsen, 1969). A. Bennigsen scrive di una “atmosfera coloniale” di superiorità rispetto agli stranieri, dell’insediamento dei russi (colonizzazione delle terre), della natura speciale del governo e persino della conservazione di diritti e costumi speciali dei popoli dell’Impero come segni di “colonialità” (Bennigsen, 1969, p. 145). Zbigniew Brzezinski, ne La grande scacchiera, si riferisce ai russi in Asia centrale come rappresentanti della “ex classe coloniale dominante”, discutendo dello status “coloniale” e “postcoloniale” della regione (Brzezinski, 1997, pp. 93, 129-130). Le opere dello storico americano Mikhail Khodarkovsky della fine degli anni Novanta e dei primi anni Duemila (Khodarkovsky, 1999; 2002) hanno promosso attivamente la tesi della natura coloniale dell’espansione continentale della Russia. Dopo aver giustamente obiettato che l’esperienza russa non rientra in quello che viene definito colonialismo, riferendosi alla relazione tra l’Occidente e il Terzo Mondo (LeDonne, 2002, p. 765), gli studiosi occidentali e russi, tuttavia, non hanno abbandonato l’uso dei concetti di “colonie” e “colonialismo”. I tentativi di comprimere l’esperienza russa nell’alveo procusteo del “colonialismo” sono sfociati nei concetti di “colonialismo inespresso” (Khodarkovsky, 2011, p. 168), “impero ibrido”6 e “autocolonizzazione” (Kagarlitsky, 2009; Etkind, 2013).

Il problema comune di tutte queste e di molte altre opere sulle “colonie” e sul “colonialismo” russo è che non spiegano in che modo una “colonia” differisca da qualsiasi altro territorio non etnico, conquistato o annesso pacificamente.

La colonizzazione interna: un concetto problematico

In particolare, questo difetto è insito nell’opera ormai classica di Alexander Etkind, Colonizzazione interna. L’esperienza imperiale della Russia”. La definizione che Atkind dà del colonialismo è molto controversa: un “sistema ideologico” di colonizzazione, dove la colonizzazione è intesa come “un processo di dominazione in cui i coloni migrano dal gruppo colonizzatore al territorio colonizzato” (Atkind, 2013, p. 17). Il professore dell’Università di Cambridge riprende la citazione di V.O. Kliuchevskii secondo cui “la storia della Russia è la storia di un Paese colonizzato” (nella fonte – esclusivamente nel senso dell’insediamento del popolo russo7), e avvicina questa “colonizzazione” al colonialismo europeo. Dalla “colonizzazione contadina” – l’insediamento nel territorio siberiano di russi e di rappresentanti di altri popoli della Russia, dalla problematica tesi della “Siberia come colonia” del separatista siberiano N.Yadrintsev e dalle disavventure dell’assessore collegiale Kovalev, tornato dal Caucaso e protagonista del romanzo Il naso di Gogol, deriva la tesi della colonizzazione della cultura russa e della presenza del “colonialismo” in Russia. Questo problematico “colonialismo” (in tal caso, perché l’insediamento dei popoli bantu in Africa non è colonialismo?) viene erroneamente equiparato al “colonialismo” tradizionalmente inteso delle politiche specifiche dei Paesi occidentali volte allo sfruttamento ineguale dei Paesi e dei popoli d’oltremare8. Il risultato pratico è un discorso di “decolonizzazione della Russia”.

Questa gestione approssimativa dei termini “colonialismo” e “colonia” porta alla conclusione che “la storia russa del colonialismo… inizia nell’undicesimo secolo”9. È quanto sostiene l’eminente studioso russo V. Inozemtsev. In un simile contesto, non sorprende che anche l’adesione del Principato di Ryazan allo Stato russo unificato rientri nella politica “coloniale” di Mosca.

Il fatto stesso che il dibattito sulla questione se l’Impero russo e l’Unione Sovietica fossero entità coloniali sia proseguito per tutta la seconda metà del XX secolo e continui ancora oggi, dimostra la mancanza di argomenti a sostegno della natura coloniale della Russia. In tutti i casi, si cerca di adattare l’esperienza storica russa alle categorie di colonizzazione basate sull’esperienza occidentale, trovando prevedibilmente molte eccezioni. La domanda sorge spontanea: l’esperienza dell’impero continentale deve essere inserita nelle categorie occidentali di “colonie” e “colonialismo”?

Tuttavia, negli studi post-coloniali contemporanei esiste un quadro teorico che permette di applicare il termine “colonialismo” a quasi tutti i Paesi del mondo. Si tratta del concetto di “colonialismo interno”, applicato attivamente nelle opere dei già citati B.Y. Kagarlitsky (Kagarlitsky, 2009), A. Etkind (Etkind, 2013) e V. Morozov (Morozov, 2015).

La genesi del concetto di “colonialismo interno” viene fatta risalire all’opera di Lenin “L’origine del capitalismo in Russia”, dove il teorico bolscevico paragona il disboscamento della provincia di Ufa alle pratiche del colonialismo tedesco in Africa e scrive della colonizzazione degli spazi della steppa russa tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo (Lenin, 1950, p. 212). Nel primo caso, però, il classicista si è permesso un’affermazione piuttosto emotiva, mentre nel secondo parla di colonizzazione contadina, di insediamento di terre libere, che non equivale al colonialismo come sistema di sfruttamento, simile al “colonialismo” delle colonie d’oltremare di Gran Bretagna, Francia o Germania.

Un’altra fonte di ispirazione per i sostenitori della teoria della “colonizzazione interna” è Antonio Gramsci. Nella sua opera del 1926 “Alcuni aspetti della questione meridionale”, Antonio Gramsci, descrivendo lo sviluppo distorto delle regioni del Paese, osserva che “la borghesia del nord ha assoggettato il sud d’Italia e le isole e le ha trasformate in colonie sfruttate” (Gramsci, 2005, p. 28). Tuttavia, la continuazione di questa frase solleva il dubbio che si tratti di qualcosa di più di una metafora propagandistica. La “decolonizzazione” è stata pensata come un modello di rivoluzione proletaria: “Liberandosi dalla schiavitù capitalistica, il proletariato del Nord libererà le masse contadine meridionali asservite dalle banche e dall’industria parassitaria del Nord” (Gramsci, 2005).

Il concetto di “colonialismo interno” è stato messo a punto negli anni ’60 e ’70, prima dal messicano Pablo González Casanova (Casanova, 1965) e poi dallo storico britannico Michael Hechter. Lo studio di quest’ultimo sul rapporto ineguale tra Galles e Inghilterra (Hechter, 1999) ha portato a un grande dibattito sull’applicazione del concetto a Paesi e regioni che non sono mai stati formalmente colonie.

Il concetto di “colonialismo interno”, pur nella sua ambiguità, ha contribuito a lavori sul “colonialismo interno in Cina” (Gladney, 1998), sulla “governance coloniale” nel “Kurdistan iraniano” (Hassaniyan & Sohrabi, 2022), sull’”amico coloniale interno” in Iran (Soleimani & Mohammadpour, 2019). Di conseguenza, le riviste accademiche e le pubblicazioni giornalistiche di prestigio si sono riempite di materiale non solo sul colonialismo russo, ma anche su quello iraniano10 o addirittura etiope11 o “abissino” (Birru, 1981).

L’esempio dell’Etiopia è esemplificativo, in quanto le accuse di “colonialismo” sono state utilizzate attivamente dai separatisti eritrei (mentre l’Eritrea stessa, in quanto Paese separato dall’Etiopia, può essere descritta come un prodotto del colonialismo italiano e britannico) (Negash, 1997, p. 144), dai gruppi separatisti dell’Ogaden e dagli attivisti del movimento nazionale Oromo (Holcomb & Ibssa, 1990). Dal punto di vista politico, questo discorso ha giustificato la frammentazione dell’unico Paese dell’Africa subsahariana i cui confini sono stati modellati dagli stessi africani, non dai colonizzatori. Da un punto di vista teorico, le accuse di colonialismo rivolte all’Etiopia tradizionale si basavano su un approccio semplicistico e politicizzato. Le strutture di potere tradizionali di un impero multietnico, in cui si intrecciavano identità etniche, tribali, di classe e religiose, sono state viste esclusivamente dalla prospettiva dei nascenti nazionalismi dei piccoli popoli etiopi, che hanno costruito la propria identità nazionale in opposizione al passato e al presente imperiale (Záhořík, 2014).

Da quando è emerso il concetto di “colonialismo interno”, chiunque può essere accusato di colonialismo, compresi Sudafrica, Thailandia, Sudan e Bangladesh (Gladney, 1998). La responsabilità del colonialismo, che prima ricadeva solo sulla parte occidentale dell’umanità, nel contesto degli studi postcoloniali è stata condivisa anche con i membri di altre civiltà. In seguito alle discussioni teoriche sul colonialismo non occidentale, non sorprende sentire il presidente francese Emmanuel Macron parlare di “colonialismo russo” durante la sua visita in Benin12 o che il dominio ottomano in Algeria sia stato una “colonizzazione” paragonabile a quella francese13.

Inoltre, l’Occidente potrebbe chiedere la “decolonizzazione” dei sistemi statali avversari, trasformando il “postcolonialismo” in uno strumento della sua politica estera. Non è un caso che in una conferenza sulla “decolonizzazione della Russia” al Congresso degli Stati Uniti si sia detto che i russi hanno “colonizzato il loro stesso Paese”. Questo è un riferimento diretto all’”autocolonizzazione” di Atkind e, in ultima analisi, al concetto di “colonialismo interno”.

Il postcolonialismo come paradigma teorico impegnato

Per comprendere le ragioni che hanno portato all’utilizzo del concetto di colonialismo interno contro le potenze non occidentali, comprese le vittime dell’espansione coloniale, è necessario rivolgersi alla genesi degli studi postcoloniali, all’interno dei quali il concetto è emerso.

Gli studi postcoloniali risalgono agli scritti di autori influenzati dalla filosofia sociale neomarxista. Tutti gli approcci post-positivisti alle relazioni internazionali, che includono il post-colonialismo, sono caratterizzati dal rifiuto della “neutralità”: L’”impegno” del ricercatore non è visto come una mancanza, ma come una componente inevitabile di qualsiasi teorizzazione.

Questo impegno può essere ricondotto direttamente ai concetti caratteristici della sinistra degli anni Sessanta, in particolare a M. Foucault e alla sua idea della funzione politica dell’intellettuale come persona coinvolta nella “produzione” di conoscenza e “verità” (Foucault, 1977), che a loro volta sono inseparabili dal potere e dalla politica. Genealogicamente, questo impegno risale ai concetti di egemonia, “blocco storico” e “intellettuale organico” di A. Gramsci (Gramsci, 1991, pp. 325-467) come rappresentante degli interessi degli oppressi (Cox & Sinclair, 1999).

Prendendo in prestito da A. Gramsci, il concetto di “subalterno” come rappresentante delle sezioni emarginate della società, private di una voce e di una rappresentanza politica, è diventato un concetto chiave per i postcolonialisti.  In particolare, Gayatri Spivak, una ricercatrice indiana-americana che è annoverata tra i rappresentanti di questo approccio, nel suo lavoro “Can the Oppressed Talk” (Spivak, 1988) ha classificato come subalterne le donne indiane dell’epoca del dominio coloniale britannico in India. Da un lato sono state emarginate dall’amministrazione coloniale e dall’altro dalle strutture sociali presumibilmente patriarcali della società tradizionale indiana. Nonostante la critica al colonialismo, questo approccio deriva dal sistema di valori generato dalla società occidentale New Age (moderna) e dalla sua concezione di un vettore universale di sviluppo umano verso una maggiore emancipazione e uguaglianza.

Mentre negli anni Novanta gli studiosi potevano mettere in dubbio la necessità di una convergenza tra la teoria delle relazioni internazionali e il postcolonialismo (Darby & Paolini, 1994), nel 2010 il postcolonialismo era diventato una delle aree di ricerca sulle relazioni internazionali accettate dalla comunità accademica (Grovogui, 2010). Ciò rifletteva, tra l’altro, un certo spostamento della coscienza pubblica nell’ambiente accademico occidentale, dove teorie precedentemente considerate radicali stavano diventando mainstream.

La strumentalizzazione del postcolonialismo: sfondo teorico

Il successivo sviluppo degli studi postcoloniali ha evidenziato un altro problema di questo approccio. Gli studi postcoloniali pretendono di liberarsi dall’”imperialismo culturale”, di esprimere la volontà del “Sud” in opposizione al “Nord”, di parlare del rapporto tra conoscenza e potere. Come altre teorie postpositiviste, anche il postcolonialismo pretende di decostruire i discorsi di potere. Tuttavia, non decostruiscono se stessi, i loro assiomi di base. Poiché la base ideologica e filosofica del postcolonialismo è costituita dalle teorie occidentali (di sinistra) generate dalla cultura occidentale dell’età moderna, dalla specificità del percorso storico dell’Occidente, dalla sua evoluzione intellettuale, dai suoi sistemi logici e filosofici, esse stesse possono essere viste come strumenti di potere e di egemonia globale dell’Occidente. Questo sospetto è rafforzato dal fatto che questo tipo di ricerca viene condotta nelle istituzioni mainstream occidentali a spese degli investitori pubblici e privati.

Di conseguenza, si assiste a una convergenza del discorso postcoloniale con il pensiero filosofico mainstream occidentale-centrico: femminismo, cosmopolitismo, relativismo, critica dell’onto-teo-fallo-flogocentrismo. Ad esempio, il teorico postcoloniale contemporaneo di origine indiana Homi Baba arriva all’idea cruciale di “ibridità” per il postcolonialismo (Bhabha, 1994, p. 38), in opposizione a una chiara articolazione dell’identità. I postcolonialisti non insistono sul ritorno alle identità precoloniali, né sull’autenticità delle culture (Grovogui, 2010, pp. 244-245) liberate dall’influenza delle ex potenze coloniali, ma vedono queste culture come amalgami temporanei che vengono costruiti e decostruiti nell’interazione di diversi gruppi etnici e sociali. Il mondo viene presentato come un “arcipelago” (Spivak, 2021, p. 29) di tali gruppi, il che avvicina il postcolonialismo alla moderna ideologia del multiculturalismo e al principio della “diversità” come presunta componente cruciale e necessaria di una moderna società liberale democratica. In generale, ciò corrisponde al concetto di “modernità liquida” di Bauman, dove “gli outsider incontrano gli outsider” (Bauman, 2000, p. 94).

Come nota il ricercatore filippino-americano Epifanio San Juan, tale esaltazione della “molteplicità, della differenza e del sincretismo” “avviene nel campo di un mercato globale pluralistico” 14 , dove l’impulso liberatorio della lotta anticoloniale degenera nel “cosmopolitismo eclettico della postcolonialità” (San Juan Jr., 1995, p. 92).

A sua volta, la studiosa americano-israeliana Ella Shohat della New York University ha sottolineato che “il postcoloniale può facilmente diventare una categoria universalizzante che neutralizza le differenze geopolitiche significative tra Francia e Algeria, Gran Bretagna e Iraq o Stati Uniti e Brasile” (Shohat, 1992, p. 103). E, cosa ancora più importante, entrambi stanno affrontando le stesse sfide delle società post-coloniali, ibride e miste del mondo globale.

Un orientamento vicino al postcolonialismo nell’ambiente accademico americano, la “teoria critica della razza”, è diventata un’ideologia de facto dell’ala sinistra del Partito Democratico al potere negli Stati Uniti. Come nota il filosofo politico americano contemporaneo Paul Gottfried, questa ideologia è “uno strumento di repressione usato da chi detiene il potere contro coloro che temono possano resistere”.15 Agendo per conto degli “oppressi” e delle minoranze “subalterne” (secondo la terminologia postcoloniale), ottengono il diritto morale di confrontarsi con la maggioranza conservatrice.

Allo stesso modo, nella geopolitica pratica, la protezione delle minoranze e il sostegno ai movimenti separatisti e radicali diventa uno strumento dei Paesi occidentali nella lotta contro i loro avversari geopolitici – grandi Stati non occidentali del “secondo mondo” o della “semiperiferia”: sostegno al separatismo in Cecenia, ai radicali marxisti curdi in Siria, ai separatisti in Iran. Anche a questi ultimi, o meglio alle presunte minoranze oppresse a nome delle quali cercano di parlare, viene riconosciuto lo status di subalterni (Gladney, 2004; Matin, 2022).

“Colonialismo”: un tentativo di chiarimento

Nel 1960, quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottò la “Dichiarazione sulla concessione dell’indipendenza ai Paesi e ai popoli coloniali” su impulso dell’Unione Sovietica, era chiaro a tutti i partecipanti ai processi internazionali quali fossero i territori in questione, ovvero le terre dell’Asia, dell’Africa, dell’America Latina e delle isole del Pacifico, sottomesse e sfruttate da europei e americani. Si trattava di territori d’oltremare, di norma stranieri ed etnicamente estranei alla metropoli, che venivano sfruttati come mercati o fonti di materie prime necessarie alla metropoli.

Oggi, su impulso degli studiosi occidentali, anche nell’ambito del discorso postcoloniale, la comprensione del colonialismo viene ingiustificatamente ampliata. Se il colonialismo è definito come “la conquista delle terre e delle ricchezze di altri popoli” (Loomba, 1998, p. 3), è logico concludere che il “colonialismo” è stato un qualsiasi episodio della storia umana in cui sono state create entità statali estese. “Quando la nozione si estende a tutto il mondo, perde il suo significato”, osserva il russofilo americano contemporaneo John LeDonne (LeDonne, 2002, p. 765).

In questo caso, o si dovrebbe interrompere qualsiasi discussione accademica sul colonialismo (cosa impossibile, e il termine stesso non scomparirà dalla sfera politica e pubblica), oppure si dovrebbe restringere il più possibile la nozione di colonialismo, cercando di renderla più precisa. Ovviamente, il discorso postcoloniale, così come è emerso, va esattamente nella direzione opposta.

Per rendere più significativa la comprensione del “colonialismo”, è necessario, innanzitutto, partire dalla realtà storica concreta di cosa sia stato esattamente il “colonialismo”. In secondo luogo, chiarire quali sono i processi storici di cui il “colonialismo” ha fatto parte, perché è avvenuto, quali sono stati i suoi presupposti economici, politici, giuridici e filosofici (visione del mondo) e quali sono i processi attuali dovuti agli stessi fattori, cioè qual è la continuazione del “colonialismo”. In terzo luogo, capire qual è il posto del “secondo mondo”, della “semiperiferia” e dei grandi Stati storicamente imperiali della periferia nel “colonialismo”: sono colonialisti o vittime del colonialismo?

Il colonialismo, nel senso della “Dichiarazione sulla concessione dell’indipendenza ai Paesi e ai popoli coloniali”, è un fenomeno New Age. È dubbio che possa essere applicato al Medioevo o all’Antichità, o ai sistemi statali che si sono sviluppati al di fuori dello Jus Publicum Europaeum. Questo aspetto è descritto in dettaglio da C. Schmitt in The Nomos of the Land (Schmitt, 2008, p. 616). Ciò che si associa al colonialismo: il razzismo, le idee di superiorità, il considerare il territorio di culture straniere come un libero campo di espansione delle potenze europee, è inestricabilmente legato alla specificità della concezione europea dello spazio in epoca moderna, a partire dall’epoca delle Grandi Scoperte Geografiche.

Il diritto internazionale westfaliano e la sovranità si applicavano solo agli europei (Schmitt, 2008, pp. 150, 236-264). Le colonie non erano soggette all’ordine che definiva la vita nelle metropoli. Inoltre, l’esistenza stessa delle colonie forniva questo ordine normativo europeo – le regole di guerra da osservare in Europa non si applicavano alle colonie. Un certo equilibrio in Europa fu mantenuto spostando le lotte delle potenze europee per le terre libere in territori disponibili per l’espansione coloniale (Schmitt, 2008, p. 199).

Una concezione simile del “colonialismo”, ma nel contesto dello spostamento delle contraddizioni del capitalismo dal centro alla periferia, è stata proposta alla fine degli anni Cinquanta dal filosofo francese di origine russa Alexander Kozhev. Egli definì il “colonialismo” come una forma moderna del “capitalismo” di Marx del XIX secolo – un sistema in cui “il plusvalore, come nel capitalismo, è investito dai privati piuttosto che dallo Stato, ma viene ritirato non all’interno dello stesso Paese, ma al di fuori di esso” (Kozhev, 2006, p. 394). Un’idea simile, ma in una direzione diversa, è stata sviluppata in precedenza da alcuni autori marxisti, che hanno interpretato il capitalismo come un sistema estensionale basato sullo sfruttamento delle colonie (Luxemburg, 1934, pp. 177-181). Questo approccio ha influenzato le teorie dell’analisi del sistema mondiale e dello sviluppo dipendente.

Storicamente, quindi, il fenomeno che viene chiamato “colonialismo” è l’espansione del sistema-mondo occidentale, sotto forma di economia mondiale basata sullo sfruttamento ineguale, su scala globale nell’epoca successiva alle Grandi Scoperte Geografiche. Si è passati da una moltitudine di economie e imperi mondiali a un’unica economia mondiale globale attraverso l’espansione economica, civile e culturale dell’Occidente. Il colonialismo è una forma di conquista di altre culture da parte dell’Occidente e la loro integrazione (“incorporazione”) nel suo sistema mondiale. I. Wallerstein ha giustamente osservato: “L’incorporazione nell’economia mondiale capitalista non è mai stata un’iniziativa di coloro che vi sono stati inclusi. Piuttosto, il processo è scaturito dalla necessità dell’economia mondiale di espandere le proprie frontiere – una necessità che a sua volta era il risultato di influenze interne all’economia mondiale” (Wallerstein, 2016, p. 159).

È interessante notare che il subcontinente indiano, l’Impero ottomano, l’Impero russo e l’Africa occidentale erano ugualmente candidati all’”incorporazione” all’inizio del “lungo XVI secolo” (Wallerstein, 2016, p. 159). Ciascuna di queste regioni ha affrontato la stessa minaccia da parte dell’”economia mondiale”, i cui egemoni hanno cercato di porre queste regioni in una posizione di dipendenza. Tuttavia, le reazioni a questa minaccia sono state diverse in ogni caso.

Alcuni Paesi non occidentali sono diventati colonie sotto pressione. Un’altra parte ha dovuto adattarsi, in parte occidentalizzarsi, per sopravvivere e contrastare l’Occidente stesso. Si tratta di Russia, Impero Ottomano, Persia, Giappone, Abissinia in Africa e in parte Cina. Di norma, questi Paesi sono stati in grado, nel migliore dei casi, di mantenere un punto d’appoggio nella semiperiferia del sistema mondiale occidentale, senza essere integrati nel nucleo centrale. L’eccezione è il Giappone dopo la Seconda Guerra Mondiale, ma il prezzo era la rinuncia alla sovranità. Secondo J. Wallerstein (Wallerstein, 2016, p. 231), nel XVIII secolo la Russia, dopo essere entrata a far parte del sistema mondiale, andò in una direzione diversa – sacrificò la possibilità di una più stretta integrazione economica nel suo nucleo per il bene del potere imperiale, facendo la scelta della semi-periferia: o il potere e la sovranità, o un (possibile) posto più alto nel sistema economico al costo della de-sovranità.

Non ha senso usare il termine “colonialismo” in relazione ai Paesi imperiali semiperiferici e periferici di cui fa parte il “secondo mondo” (Russia, spazio post-sovietico e Cina), se intendiamo il colonialismo come una politica volta a incorporare i Paesi non occidentali nel sistema mondiale dell’Occidente in ruoli subordinati.  Il sistema chiamato “impero subalterno” (Morozov, 2015), che si suppone sia oggetto di colonialismo per l’Europa e soggetto di colonialismo per i suoi sudditi, può anche essere descritto nei termini del rappresentante della teoria russa dei sistemi mondiali A.I. Fursov (Fursov, 1996) attraverso la contraddizione tra la componente funzionale (Stato di tipo moderno, burocrazia, sistema finanziario) del capitalismo, costretta ad essere assimilata dal potere della semiperiferia per preservare la propria indipendenza, e la sua componente sostanziale (società civile borghese capitalista). Qualsiasi potenza semiperiferica, se vuole mantenere la propria indipendenza politica, è destinata a essere un “impero subalterno”, adattando alle proprie esigenze la componente funzionale del capitalismo e le istituzioni dello Stato moderno, e ora adattandosi alle specificità del Postmoderno.

Tuttavia, una tale forma di fuga dalla diretta sottomissione coloniale dovrebbe essere chiamata “colonialismo” o si dovrebbe sostenere che un tale “impero peripatetico” è solo uno “Stato coloniale” (Kagarlitsky, 2009, p. 247), in cui le classi superiori europeizzate sfruttano le classi inferiori? Oppure, come scrive il pubblicista russo E.S. Kholmogorov, ha senso considerare questa esperienza di semiperiferia come “l’ingresso nell’economia mondiale capitalista, ma non come una periferia che cambia a piacimento la sua divisione del lavoro, la sua struttura economica, ecc. ma come un beneficiario consolidato, abbastanza resistente (soprattutto militarmente e politicamente) all’espansione europea”16. Tale resistenza non sarebbe un esempio non di colonialismo, ma di qualcosa di completamente opposto?

Il colonialismo è il globalismo occidentale, europeo e americano nella sua fase iniziale, finché il sistema globale moderno è ancora il sistema mondiale europeo della modernità e non un altro. È difficile non essere d’accordo con l’affermazione che “la colonizzazione è stata il modo principale per rifare il nuovo mondo secondo le linee europee” (Lieven, 2007, p. 500). Da questo punto di vista, gli sviluppi dell’approccio postcoloniale e i concetti di “colonialismo interno” sono adeguati, ma solo quando si cerca di criticare i meccanismi di occidentalizzazione e modernizzazione, che sono stati accompagnati dalla distruzione di sistemi alternativi di coordinate e modi di essere “non occidentali” (Fituni, Abramova, 2020, p. 32).

Da un punto di vista culturale, il colonialismo può essere inteso come un sottoprodotto della civiltà occidentale moderna che, come nota lo storico italiano contemporaneo Franco Cardini, è consumata da idee di costante trasgressione, di abolizione di tutti i confini, di costante espansione, che si concretizza sia nell’idea di storia come progresso infinito, sia nell’espansione territoriale, economica e culturale17.

Il colonialismo è la Modernità, il sistema socio-culturale della Nuova Era, o meglio, una delle forme di imposizione della Modernità occidentale al resto di noi come un destino inevitabile. Il colonialismo è inconcepibile senza lo “spirito faustiano” occidentale, l’”uomo predatore” di Spengler, la sua superiorità tecnica18.

Il colonialismo è anche inseparabile dal concetto di missione civilizzatrice. Una delle caratteristiche più importanti dello Jus Publicum Europaeum era l’idea che un popolo “incivile” non potesse diventare membro di questa comunità giuridica internazionale (Schmitt, 2008, p. 616). La percezione europea e americana della politica mondiale durante il periodo coloniale si basava sulla gerarchizzazione dei popoli e delle regioni del mondo (Hobson, 2012, pp. 8-9), la cui espressione formale era la tricotomia dell’americano Lewis Morgan (“barbarie – barbarie – civiltà”). Al livello più alto c’erano le nazioni europee “bianche” “civilizzate”, al di sotto – i “dispotismi” asiatici “barbari”, ancora al di sotto – i “neri” “selvaggi”. La Russia, anche se considerata un Paese civile “bianco”, era comunque più in basso nella gerarchia rispetto, ad esempio, alla Gran Bretagna, la Turchia era più in basso della Russia, ecc. Non è difficile notare la coincidenza dei “barbari” con quella che in futuro diventerà la “periferia” della teoria del sistema-mondo, in parte il “secondo mondo”.

Dal punto di vista dei colonialisti occidentali, gli illuminati e i civilizzati avevano il diritto di interferire negli affari dei “selvaggi” e dei “barbari”. Non è la stessa cosa che stiamo facendo ora? La “civiltà” ora si chiama “democrazia”. L’”ingerenza” negli affari delle “democrazie” è imperdonabile, mentre gli stessi Paesi occidentali hanno il diritto di intervenire a livello umanitario o di imporre sanzioni in nome della democrazia e di un “ordine mondiale basato sulle regole” accettato da una ristretta cerchia di “Paesi civilizzati” e “democratici”. Inoltre, il concetto stesso di “intervento umanitario” si è storicamente evoluto in Europa e negli Stati Uniti da idee razziste e colonialiste sulla giustificazione dell’interferenza negli affari dei Paesi “incivili” (Heraclides & Dialla, 2015, pp. 33-56).

Infine, è sorprendentemente scarsa l’attenzione dedicata all’aspetto geopolitico più evidente del colonialismo. Le colonie sono sempre possedimenti d’oltremare. Negli studi postcoloniali questo punto viene relegato in secondo piano, fino a descrivere le province degli imperi terrestri (o parti di metropoli) come colonie. In Edward Said, tuttavia, si può trovare l’intuizione che “l’idea di dominio d’oltremare, il salto oltre i territori vicini” è specifica delle culture di Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Questo li distingue dagli imperi russo e ottomano (Said, 2012, p. 27, 52). Per Dominique Lieven, la principale differenza tra la Russia e gli imperi coloniali marittimi è la “continentalità”. Continentalità significa lo sviluppo all’interno di un “sistema ecologico” di spazi simili, non paragonabile alla scoperta di veri e propri nuovi mondi d’oltremare. Si tratta di un’espansione in un “mondo che non era veramente nuovo”, e quindi le differenze che separavano gli abitanti delle colonie d’oltremare dalla metropoli non esistevano o erano meno pronunciate nell’impero continentale (Lieven, 2007, p. 365).

Il fondatore della geopolitica britannica, Halford John Mackinder, nella sua opera “Democratic Ideals and Reality” ha introdotto due concetti: “seaman’s point of view” e “landman’s point of view” (Mackinder, 1996, p. 38). “L’uomo del mare vede la terraferma come una catena di coste che cerca di sviluppare e controllare dall’esterno. È così che è avvenuta la colonizzazione europea di altri continenti. L’”uomo della terra” vede il continente dall’interno come una vasta massa continentale a cui egli stesso appartiene. In termini geopolitici, il colonialismo può essere inteso come parte della politica delle potenze marittime per il controllo delle terre emerse, compreso il controllo e l’opposizione agli imperi continentali. “La visione marittima, esterna alla terraferma, vede i territori costieri come potenziali colonie, come strisce di terra che possono essere strappate al resto della massa continentale e trasformate in una base, uno spazio strategico”, osserva il geopolitico russo Alexander Dugin (Dugin, 2000, p. 15).

In questo contesto, la decolonizzazione può essere vista come un rafforzamento delle formazioni continentali, un’integrazione a livello continentale che permette di superare la pressione politica, economica e militare delle potenze marittime. Può anche spiegare l’interesse per l’integrazione continentale tra i sostenitori dei movimenti anticoloniali e avvicinare le loro idee ai progetti di integrazione del “secondo mondo” (“One Belt, One Road”, Unione economica eurasiatica (UEE), progetti panafricani).

Conclusione

Gli studi postcoloniali offrono spunti di riflessione rivelando i meccanismi epistemologici del colonialismo, dell’egemonia e della dominazione occidentale dopo la dichiarazione formale di indipendenza delle ex colonie. Non si può fare a meno di riconoscere che essi sollevano domande acute sulla combinazione di modernizzazione e colonialismo, sulla modernizzazione come forma di colonizzazione, sul “lato sbagliato della modernità” (Vasiliev, Degterev & Shaw, 2021, p.11). La sfida più dolorosa è rappresentata dai tentativi di interpretare come “coloniali” le politiche dei Paesi semiperiferici nei confronti delle proprie periferie. La risposta a questa sfida dovrebbe essere un esame più approfondito del colonialismo e del neocolonialismo dalla prospettiva dell’economia politica (teoria dei sistemi mondiali), della filosofia, della geopolitica, degli studi di diritto internazionale, della storia e degli studi culturali. I Paesi del “secondo mondo” condizionato devono costruire una propria teoria postcoloniale contro-egemonica. La domanda a cui rispondere è fino a che punto l’esperienza del “secondo mondo” sia unica e legata a fattori geopolitici e storici, alla continentalità di Russia e Cina (Fursov, 2001) e alla specificità dei sistemi di potere in entrambi i Paesi, e fino a che punto sia universale come risposta alla pressione coloniale occidentale e, quindi, di interesse per il “terzo mondo”.

Il discorso anticoloniale può essere pienamente scientifico se si libera dalla malattia della sinistra – la percezione postcoloniale di ogni sistema solidale complesso come repressivo, di ogni espansione e violenza (inevitabile nel corso della storia) come “colonialismo”. Il colonialismo ha una genealogia distinta e aspetti di formazione e trasformazione nell’ordine internazionale moderno, il cui potenziale di studio non è esaurito.

Note
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