Platone e il mare

Da Archai, 29 (in pdf)

Come si pone Platone di fronte al mare? Dalla lettura dei suoi dialoghi emerge una visione complessa, e che tocca vari campi delle sue riflessioni. Platone ne sente il fascino e allo stesso tempo ne avverte i pericoli, non solo quelli connessi alla navigazione, ma anche quelli morali, che derivano dalla presenza nei porti di uomini di varie provenienze, per lo più con atteggiamenti volgari e sboccati; e poi quelli legati alla ricchezza dei beni in essi accumulati, con la necessaria e conseguente corruzione dei costumi. E sembra che ci sia in Platone, da un lato, una nostalgia del passato, di quando la città era piccola, e la vita era semplice, legata fondamentalmente all’agricoltura, con pochi bisogni. Ma, dall’altro lato, e allo stesso tempo, è ben cosciente che il commercio marittimo è ormai strettamente legato alla crescita e all’evoluzione della città, ed escogita una serie di provvedimenti miranti al contenimento di quei pericoli. Platone parla di tutto questo, e di altro ancora, nel suo “stile” unico ed inimitabile, mescolando ragionamenti logici con metafore, analogie, immagini (alcune delle quali bellissime e poetiche). Una delle metafore più belle, e sviluppata in una serie di originali considerazioni, è quella tra il mare ed il discorso: il mare è come il discorso, o, se si vuole, il discorso è come il mare, pieno di pericoli ma assolutamente indispensabile per la vita in comune tra gli uomini.

Il mare per Platone, oltre ad essere quello reale che bagna l’Attica, le isole greche, la Sicilia, l’Africa, è innanzi tutto un’immagine e una metafora, poi la fonte di pericoli i più vari, poi un luogo mitico, ed infine anche fonte di ispirazione per un sano allevamento della prole. Il rapporto di Platone col mare, quindi, è molto complesso e apre a prospettive inaspettate. In questo studio tento di tracciarne alcune linee interpretative, inseguendo alcuni termini significativi, oltre ovviamente a θάλασσα (mare, in genere quello calmo) e πέλαγος (in genere l’alto mare, l’oceano con i suoi abissi). E quindi una serie di termini collegati al mare, come κλύδων (onda, ondata, tempesta), χειμών (che, oltre a inverno, indica anche la tempesta) e κῦμα (onda, ondata), πλοῖον (nave), πλοῦν (da πλοῦς = πλόος: navigazione, viaggio per mare, condizione favorevole per navigare) e διαπλεῦσαι (da διά, πλέω: navigare attraverso), e naturalmente κυβερνήτης (timoniere, pilota) con i termini a questo collegati.

1. Immagini e metafore. I mari del discorso

Come è noto, il testo platonico fa largo uso di metafore e di immagini, che appaiono anche in luoghi nei quali si sta conducendo un serrato discorso dimostrativo, come accade nella Repubblica, nel Sofista, e anche nelle Leggi; ad alcune di queste faremo riferimentonel corso di questo studio. Immagini legate al mondo marino, termini che si riferiscono alla navigazione, legami inaspettati che uniscono termini e immagini a esperienze della vita quotidiana, privata e pubblica, spesso intrecciati – come anche accade in Platone – al mito. Così il dio che, nel mito del Politico, regola, con il suo intervento diretto o con il suo ritiro, il movimento del cosmo, è chiamato appunto il pilota dell’universo (τοῦ παντὸς ὁ κυβερνήτης). La narrazione che segue l’esposizione del mito sui due moti contrari dell’universo (Pol. 269c sgg.) ci dice infatti che, «quando giunse a compimento il tempo di tutte queste cose ed era necessario (Pol. 272e) che avvenisse il mutamento» (per Platone, come per molti Presocratici – uno per tutti: Parmenide – anche la volontà del dio è sottomessa alla legge eterna della necessità), «quando tutta la razza

sorta dalla terra era scomparsa, e ciascuno aveva pagato il proprio debito di nascite, allora il «pilota dell’universo (τοῦ παντὸς ὁ κυβερνήτης)», abbandonando la barra del timone, per così dire, si ritirò nel proprio posto di osservazione». E come c’è un pilota dell’universo, c’è anche, in ogni uomo, un pilota dell’anima (Phaedr. 247c7: ψυχῆς κυβερνήτης), che naturalmente è l’intelletto, che è l’unico che può contemplare, nel mito dell’iperuranio, la sostanza delle cose, non percepibile sensibilmente. È interessante notare che ambedue i piloti sono “personaggi” preposti per la loro eccellenza alla guida, dell’universo o dell’uomo, ma non sono onnipotenti: il pilota dell’universo deve fare i conti con una necessità alla quale non può sfuggire completamente, e il pilota dell’anima deve fare i conti con le passioni, insopprimibili, delle altre due parti dell’anima.

Alle metafore marine si riferiscono anche altri due luoghi, della Repubblica, nei quali appare la centralità dei discorsi per superare ledifficoltà della ricerca e per difendere i risultati con questa ottenuti dalle critiche della maggioranza dei “benpensanti”. Il primo si trova in Resp. IV 441c4: dopo aver esaminato la guerra che c’è nell’anima, dovuta al conflitto tra le sue tre parti, ora che a stento abbiamo superato queste difficoltà (μόγις διανενεύκαμεν: lett. attraversare a nuoto), ci siamo resi conto che le parti che costituiscono la città sonole stesse di quelle che costituiscono l’anima di ciascuno. Il secondo si snoda tra i libri V e VII, ed è la famosa metafora delle tre ondate (κῦμα, κύματα) che bisogna affrontare e alle quali bisogna saper scampare: bisogna quindi saper nuotare (fuor di metafora: saper usare il metodo, i discorsi corretti) e andare contro tutte le opinioni e i pregiudizi. Come è noto, le tre ondate sono quelle che si rovesciano contro le tre condizioni che per Platone sono indispensabili per poter uscire dalla crisi della città e quindi realizzare la “città bella”, la kallipolis: l’identità di compiti e di educazione tra uomini e donne(451d-457b); la comunanza dei beni (457b-473a); i filosofi al potere (473b-541b).

Ma il termine che, forse, più degli altri è collegato al mare è il logos, il discorso. Sono molti i luoghi platonici che richiamano questaimmagine/analogia. Nel Protagora (338a6), Ippia invita Socrate, che non fa discorsi lunghi, e Protagora, che invece è propenso a farli, a trovare una misura nei loro discorsi per rendere possibile un loro dialogo: «tu, Socrate, allenta le briglie dei tuoi discorsi… e tu, Protagora, non spiegare tutte le vele, non abbandonarti al vento per fuggire nell’oceano dei discorsi (φεύγειν εἰς τὸ πέλαγος τῶν λόγων)». Oltre che come il mare, il discorso è anche come un fiume, e prima di atttraversarlo deve essere saggiato da chi è esperto di molte correnti d’acqua (Leg. X 892d6; cfr. 900c5: aiutare a passare il fiume). Naturalmente occorre un metodo per attraversare il fiume e il mare dei discorsi, e Platone, nella Repubblica (V 453d6), a questo proposito cita un proverbio: si cada in una piccola piscina o nel mare più profondo, nondimeno si nuota lo stesso… Perciò anche noi dobbiamo nuotare e tentare di salvarci da questo discorso [cioè da un discorso scorretto]. Trovare un metodo significa innalzarsi alla filosofia, che costringe l’anima a guardare in alto, dove l’alto non è un luogo fisico: nessun’altra disciplina fa «volgere in su lo sguardo dell’anima se non quella dell’essere e dell’invisibile (529b5: περὶ τὸ ὄν τε καὶ τὸ ἀόρατον)», e «se uno cerca di apprendere una cosa sensibile, guardando in su a bocca aperta o in giù a bocca chiusa, io sostengo che non potrà mai veramente apprendere, perché nessuna di queste cose può dare luogo a scienza, e che l’anima sua non guarda in alto, ma in basso, anche se egli apprende stando supino, disteso a terra o nuotando in mare» (Resp. VII 529c3). E infine, nel Parmenide (137a5-6), il filosofo eleata, invitato a compiere l’esercizio difficile e lungo, la grande impresa (πολὺ ἔργον) che dovrebbe dimostrare l’esistenza delle idee e la necessità di ammetterle per poter continuare a fare filosofia (cfr. 135c5: «Che farai allora della filosofia?»), esprime la sua preoccupazione di imbarcarsi in un discorso così lungo: «Mi sembra di avere una gran paura al pensiero di come alla mia età occorra attraversare a nuoto un tale e così ampio oceano di discorsi (διανεῦσαι τοιοῦτόν τε καὶ τοσοῦτον πέλαγος λόγων).Tuttavia devo farvi questo favore». È interessante notare come questo esitare di Parmenide di fronte a una “traversata” così lunga e faticosa, di fronte all’oceano di discorsi, è anche di Platone stesso, questa volta di fronte a un reale lungo viaggio per mare, e quindi come in certo modo Platone faccia un parallelo tra Parmenide e se stesso. Quando Dione invita Platone a Siracusa, ritenendo che lì ci siano le condizioni di attuare le riforme della città che egli auspicava, Platone considera che il lungo viaggio e la grande fatica della traversata non possono giustificare la fama di viltà che verrebbe dal non andare a Siracusa (Epist. VII 329a4). L’Eleata aveva timore di affrontare il gran mare di discorsi dell’esercizio difficile che aveva egli stesso proposto; l’Ateniese aveva timore di affrontare il mare che separava Atene da Siracusa per tentare di realizzare il sogno che egli stesso aveva costruito. Ma, nonostante il timore, ambedue i filosofi alla fine affrontarono la sfida delle loro traversate.

Il discorso è dunque come un fiume, un mare, addirittura un oceano, che bisogna correre il rischio di attraversare, che bisogna imparare ad attraversare. Non come fa Lisia, che nel suo discorso su Eros, per esempio, procede disordinatamente, non comincia dal principio, ma dalla fine, e tenta di «risalire a ritroso il discorso, nuotando sul dorso (Phaedr. 264a5: ἀπὸ τελευτῆς ἐξ ὑπτίας ἀνάπαλιν διανεῖν ἐπιχειρεῖ τὸν λόγον)». Ma come fa invece Diotima, nel discorso riportato da Socrate nel Simposio. Il dialogo, com’è noto, è un encomio di Eros, e i vari personaggi fanno a turno il loro elogio. Prima di Socrate aveva parlato Agatone, nella cui casa si svolge il dialogo, e nel suo discorso già ci sono, collegati a Eros, due accenni al mare: amore produce “pace tra gli uomini e calma sul mare / assenza di venti e riposo e sonno senza pena” (Symp. 197c5); e nel mare dei discorsi Eros è appunto il timoniere (Symp. 197e1: Eros «nel discorso timoniere, ἐν λόγῳ κυβερνήτης). Ed è appunto nel discorsodi Diotima che si trova la più bella immagine del mare; Diotima parla dell’ascesa verso il bello, che si può compiere solo con l’aiuto di Eros, che guida gradualmente chi lo accoglie a elevarsi dalla contemplazione delle tante cose belle fino all’idea del bello, che è appunto la condizione indispensabile per poter vedere il bello nelle cose. Ed è solo l’acquisizione di quest’idea che lega insieme Eros, il bello, il mare e i discorsi: colui che, «fissando lo sguardo verso il bello ormai così ampio e non affezionandosi più, come un servo, alla bellezza che è in un unico oggetto… non sia più, servendo, un uomo da poco e meschino (σμικρολόγος), ma rivolto all’ampio mare del bello e contemplandolo (ἐπὶ τὸ πολὺ πέλαγος τετραμμνος τοῦ καλοῦ καὶ θεωρῶν), partorisce molti magnifici e bei ragionamenti e pensieri in uno sconfinato amore del sapere privo d’invidia (ἐν φιλοσοφίᾳ ἀφθόνῳ)» (Symp. 210c-d). Chi è capace di rivolgersi all’ampio mare del bello avendo acquisito la visione dell’idea stessa del bello, non si acquieta in una contemplazione estatica di quell’idea, ma al contrario viene stimolato a produrre bei discorsi e ragionamenti, spaziando in una filosofia non meschina, “priva d’invidia”, libera.

I discorsi degli uomini costituiscono quindi come un oceano, ed è necessario naturalmente sapersi ben orientare in essi per non “naufragare” in quell’oceano. È necessario in altri termini trovare ed impadronirsi di un metodo per poter ben navigare attraverso i discorsi. Nel Fedone è delineata questa necessità, prima in un importante intervento di Simmia (il pitagorico che, insieme a Cebete, sostiene il dialogo con Socrate nell’ultimo giorno della sua vita), e poi nel discorso di Socrate con la famosa immagine/metafora della “seconda navigazione”. Dopo che Socrate ha parlato delle idee e delle sensazioni, e della necessità di liberare l’anima dai “chiodi che l’inchiodano al corpo”, cioè piaceri e dolori che impediscono la ricerca della verità, Simmia fa il suo intervento: «A me sembra… che su cose di tal genere [si sta discutendo della possibilità che l’anima sia immortale] sapere qualcosa di certo nella vita presente o è impossibile o è estremamente difficile (85c3-4: τὸ μὲν σαφὲς εἰδέναι ἐν τῷ νῦν βίῳ ἢ ἀδύνατον ἢ παγκάλεπόν τι). E tuttavia non sottoporre a confutazione in ogni modo (85c5: παντὶ τρόπῳ ἐλέγχειν) le cose dette su questi argomenti e desistere, prima di essersi stancato esaminando da tutti i punti di vista, è proprio di un uomo troppo debole. In questo campo, infatti, bisogna fare una di queste due cose: o apprendere da altri come stanno le cose, o scoprirlo da soli. E, se queste due cose sono impossibili, assumendo almeno il migliore e il meno confutabile dei discorsi umani, imbarcandosi su di esso come su di una zattera (σχεδίας), correre il rischio di fare la traversata della vita (85d1-2: κινδυνεύοντα διαπλεῦσαι τὸν βίον), se non si può fare il viaggio più sicuramente e con minor pericolo, sulla nave più solida di un discorso divino». Per navigare nella vita bisogna servirsi di buoni discorsi, e per navigare tra i discorsi occorre una zattera che ci consenta di orientarci tra di essi. Il percorso non è facile, comporta pericoli, e occorre coraggio per affrontare la lunga traversata: a meno che non si rinunci, per debolezza, per comodità, alla ricerca, e non si preferisca abbandonare la zattera e rifugiarsi a bordo della nave di un discorso divino, che ha già tutte le risposte pronte e acquietanti.

La navigazione prospettata da Simmia, con l’affermazione della necessità di un metodo, senza il quale appunto si rischia di affogare, trova un riscontro in un passo del Teeteto: non bisogna abbandonare la ricerca prima di aver tentato l’indagine sotto tutti gli aspetti (πανταχῇ πειρατῶ σκοπῶν)… Se troviamo una via d’uscita e ci liberiamo (εὕρωμεν καὶ ἐλεύθεροι γενώμετα), bene; … mentre se rimarremo senza via d’uscita (πάντῃ ἀπορήσωμεν), prostrati, credo, ci abbandoneremo al discorso (τῴ λόγῳ), come naviganti che soffrono il mal di mare (ὡς ναυτιῶντες πατεῑν), perché ci calpesti efaccia di noi quello che vuole (Theaet. 190e-191a).

Ma la metafora forse più famosa che collega la ricerca al mondo del mare è quella che si trova nel Fedone, alle pagine 99-100a, ed è ancora una vera e propria lezione di metodo. Si tratta della seconda navigazione (l’immagine è ripresa anche nel Politico 300c2, nelle Leggi 875c-d, e nel Filebo 19c3). Socrate racconta che in gioventù siera appassionato al problema delle cause delle cose, e aveva cercato la risposta negli scritti dei cosiddetti “naturalisti”, specialmente in quelli di Anassagora. Ma era rimasto deluso, perché essi parlavano di cause puramente materiali, sensibili, per spiegare altri fenomeni sensibili, ma non affrontavano il problema fondamentale di come fosse possibile lo stesso parlare delle cause e quindi di come fosse possibile giungere alla verità su questi argomenti. E poiché non era riuscito a trovarla né da se stesso, né negli scritti di altri, intraprese una seconda navigazione (Phaed. 99d1: δεύτηρον πλοῦν) alla ricerca delle cause.

«Mi sembrò, … dopo essermi stancato di indagare le cose che sono, di dover prendere precauzioni per non soffrire quello che soffrono coloro che contemplano ed esaminano un’eclissi solare: infatti alcuni perdono quasi la vista se non ne guardano l’immagine nell’acqua o in altre cose simili. Così pensai anch’io e temetti di diventare completamente cieco nell’anima guardando alle cose con gli occhi e tentando di catturarle con ciascuna delle sensazioni. Mi parve che avrei dovuto rifugiarmi nei discorsi (εἰς τοὺς λόγους καταφυγόντα) e in essi indagare la verità delle cose che sono (σκοπεῖν τῶν ὄντων τὴν ἀλήθειαν). Forsel’immagine che sto costruendo, in qualche modo, non è adeguata: non sono per nulla d’accordo, infatti, che indagare le cose che sono nei discorsi significhi indagarle nelle immagini piuttosto che in esperienze effettive (ἐν εἰκόσι μᾶλλον σκοπεῖν ἢ τὸν ἐν ἔργοις). E dunque mi slanciai su questa via, e ponendo per ipotesi, volta per volta, il discorso che giudico essere più forte, tutte le cose che mi sembrano concordare con esso io le pongo come enti veri, si tratti delle cause o di qualsiasi altra cosa, e quelle che non concordano, come non vere.»

Questo passo è fondamentale nella metodologia di Platone. Vengono affermate anzitutto la centralità e l’indispensabilità del discorso come unico mezzo a disposizione dell’uomo per intraprendere la ricerca della verità; viene affermato anche che la spiegazione delle cose (gli “enti che sono”) non si trova nelle cose stesse, ma appunto nel discorso che ne dà ragione. Ma viene affermato prima di tutto che la ricerca non può non svolgersi se non con un metodo ipotetico, che pone cioè ipotesi di spiegazione che vanno a volta a volta verificate. Porre ipotesi e giustificarle non consiste in altro che in discorsi, in quest’attività precipuamente umana, ed è in essi quindi, e solo in essi, e non nelle cose stesse, che si può trovare, se e quando si trova, la verità delle cose.

2. La città e la nave

Un’analogia molto forte e ricorrente nei dialoghi è quella tra la città e la nave. La città è come una nave, e quindi l’arte di guidare la città, l’arte politica, è come l’arte di guidare la nave, l’arte marinara, e quindi il politico è come il pilota; ed è singolare che in tutti i passi in cui l’analogia viene sviluppata il linguaggio marinaresco sia fortemente accentuato; e non mancano nemmeno in questi passi alcune belle immagini. Questa analogia si trova in molti dialoghi platonici, ma viene sviluppata estesamente nella Repubblica e nel Politico. Il politico è un uomo divino, che viaggia per mare e per terra continuamente alla ricerca delle migliori istituzioni, e quindi consolidando nella sua città quelle ben stabilite e correggendo le altre: «Infatti non resta mai perfetta una città senza questa osservazione e questa ricerca (τεορίας καὶ ζητήσεως) continua» (Leg. XII 951). Ecco perché è necessaria una buona educazione, fin dalla gioventù, di quelli che saranno i politici di una città: «Da giovani che crescono bene consegue per tutta la città una buona navigazione (Leg. VII 813d3: κατ’ὀρθόν πλεῖ)». L’Ateniese, nelle Leggi, VII 803a-b5, sottolinea l’attenzione che il politico ben educato deve porre alla pianificazione della sua attività per il bene della città:
«come un costruttore di navi all’inizio della sua opera, nel deporre la carena, traccia il piano del vascello, così faccio anche io quando provo a tracciare il piano delle vite per le anime dei cittadini… e veramente anche con quali costumi a me pare di deporre la carena di quelle vite esaminando correttamente con quale mezzo,vivendo, potremmo portare la nostra nel modo migliore attraverso questa navigazione dell’esistenza». (VII 803b2: διὰ τοῦ πλοῦ τῆς ζωῆς)

L’attenzione del politico a far sì che la navigazione sia buona deve essere quindi costante e continua: Leg. 758a4-6: «Come una nave che solca il mare deve avere sempre una vedetta giorno e notte,così una città che passa tra i flutti delle altre città (ἐν κλύδωνι τῶν ἄλλων πόλεων) deve formare una catena di magistrati che si passino la consegna», e il fine di questa attenzione non è quello di rendere la città la più estesa possibile, ricca e signora di molti popoli per terra e per mare, ma eccellente e felice (Leg. V 742d).

Una lunga trattazione di questa analogia si trova nella Repubblica (VI 488a-489c). Dopo che Socrate ha già caratterizzato (VI 485 sgg.) il filosofo in maniera molto alta, sincero, dotato di memoria, pronto ad apprendere, magnanimo, temperante, senza bassezza né piccineria, amico e congenere alla verità, alla giustizia, al coraggio, alla temperanza (887a), Adimanto obietta che uno potrebbe dire che a parole (λόγῳ) non ha obiezioni, ma di fatto (ἔργῳ) coloro che si dedicano alla filosofia appaiono invece molto stravaganti e addirittura del tutto malvagi. Socrate ribatte che coloro che affermano questo in effetti dicono la verità, e, alla meraviglia di Adimanto, dice che questo è un problema difficile e può rispondere solo con un’immagine. «Ascolta dunque l’immagine (ἄκουε εἰκόνος)»: è bellissima questa metafora usata qui da Platone, perché in effetti l’immagine che ora mostrerà ad Adimanto non è data da figure, ma da parole, da un discorso. Immagina dunque, continua Socrate, che su una nave succeda una cosa come questa: figuriamoci un armatore (ναύκληρον) superiore per grandezza e forza fisica a tutti i membri dell’equipaggio, ma duro d’orecchio e corto di vista e con scarse conoscenze di cose navali (quest’armatore potrebbe essere il popolo), e i marinai (ναύτας, che qui potrebbero essere coloro che pretendono di fare politica senza nessuna preparazione) che altercano tra di loro per il governo della nave, ciascuno credendosi in diritto di governarla pur non avendone appreso l’arte, tutti sempre stretti intorno alla persona dell’armatore a premerlo in tutti i modi perché affidi loro la barra: anche qui, in questi marinai, si potrebbero vedere gli adulatori del popolo, genericamente potremmo dire i sofisti, che sollecitano i suoi favori per le proprie mire di potere. E questi sofisti non si limitano a un’opera di adulazione, bensì mettono in atto tutta una pratica di cambiamento dei nomi, di stravolgimento dei significati. Essi chiamano infatti lupo di mare (ναυτικόν), “buon pilota ed esperto di cose navali (κυβερνητικὸν καὶ ἐπιστάμενον τὰ κατὰ ναῦν)” chiunque li aiuti a prendere il comando, e chi non li aiuta lo disprezzano come “inutile”. Laddove è proprio invece del vero pilota (ἀληθινοῦ κυβερνήτου) occuparsi dell’anno, delle stagioni, del cielo, degli astri, delle correnti d’aria e di tutti i problemi attinenti alla sua arte. E invece queste ciurme chiameranno il vero pilota “osservatore di fenomeni celesti”, chiacchierone e senza utilità: sono appunto le accuse che il senso comune, fortemente sollecitato dai demagoghi, rivolge a coloro che veramente sanno e che soli potrebbero guidare bene la nave; e non è difficile vedere qui un accenno alle accuse rivolte a Socrate dalla città democratica.

Ebbene, questa immagine somiglia alle città nei loro rapporti con i veri filosofi e spiega a chi si meraviglia perché i filosofi non siano onorati nelle città attuali. Quindi si dice il vero quando si afferma che i più onesti dei filosofi sono inutili alla maggioranza. Non è naturale infatti che sia il pilota a chiedere ai marinai di essere governati da lui, così come all’uomo di governo di chiedere ai governati di essere governati. E non sbaglierai, continua Socrate, se paragonerai gli odierni governanti delle città a quei marinai di cui dicevamo, e ai veri piloti coloro che da questi marinai sono detti gente inutile e cianciante per aria.

In effetti non è sempre facile tradurre i termini di quest’immagine: l’armatore verosimilmente è il popolo, superiore per forza fisica, ma non per conoscenze, a tutti gli altri membri dell’equipaggio. Che il ναύκληρος sia il popolo è confermato da Aristotele, in Rhet. 1406b35; ovviamente, la nave rappresenta la città. Il ναύκληρος (488a8, c1, d3) a sua volta è distinto dal pilota della nave, il ναυτικόν καὶ κυβερνητικὸν καὶ ἐπιστάμενον τὰ κατὰ ναῦν (488d1, e4; cfr. e2-3), o κυβερνήτης (488d4-5), che è colui che per la sua competenza è alla guida della nave, ha il comando della nave (488d8: νεὼς ἀρχικός), e rappresenta appunto il governante.

La metafora della nave e del pilota torna nel Politico, dove tra l’altro si arricchisce di un’altra connotazione, quella del difficile rapporto tra il governo della città e le leggi. Il vero pilota è appunto colui che, stando sempre attento al bene della nave e dei suoi passeggeri, salva tutto l’equipaggio, senza bisogno di leggi scritte, ma tenendo per legge la propria tecnica (Pol. 296e4). L’autentico timoniere (γενναῑον κυβερνήτην) in effetti è come un medico: unosolo vale quanto molti altri uomini presi assieme (Pol. 297e11), perché è possessore della tecnica adatta a navigare. Ma è nelle pagine 298b-302a del Politico che viene più estesamente sviluppato il rapporto tra legge scritta e vera scienza, che è sempre superiore alla prima, nella immagine della politica simile alla medicina e all’arte del navigare: la città è come una nave, πλοῖον.

Chi ha la tecnica, certo, può agire male, cioè non per quello della città, ma per il proprio vantaggio: come i medici che, se vogliono maltrattare un malato, tagliano, bruciano, impongono delle spese al malato e pretendono i suoi beni come pagamento. Così i timonieri (κυβερνῆται), che al momento di salpare abbandonano i passeggeri, e facendo false manovre in mare aperto (ἐν τοῖς πελάγεσιν), li fanno cadere in mare. Certo, come rimedio a questo, si potrebbero stabilire allora delle leggi che impediscano a questi tecnici di avere un potere assoluto: si potrebbe stabilire che sia un’assemblea, composta da incompetenti o da persone che esercitano mestieri diversi, a esprimere la propria opinione sulla navigazione e sulle malattie, ancor più sulle navi stesse, sia sui pericoli che sorgono dalla navigazione a causa dei venti e del mare, sia riguardo all’incontro con pirati, e di stabilirle con leggi scritte, e, secondo queste disposizioni, navigare o prendersi cura dei malati. Ma queste sarebbero cose completamente assurde (298e4: κομιδῇ ἄτοπα). Supponiamo anche di istituire dei magistrati che governino con queste leggi scritte sia nei confronti delle navi sia nel curare i malati, e che ci siano dei tribunali che alla fine dei mandati giudichino quei magistrati, e che in essi ognuno potrà accusarli di non aver ben pilotato le navi o non aver ben curato i malati.

Questa critica del sistema democratico è diretta contro l’esistente prassi ateniese per la quale ognuno, anche incompetente, poteva accusare un magistrato alla fine del suo mandato. In una situazione del genere chiunque cerchi la verità (ἀλήθειαν) sull’arte del pilotare le navi o sull’arte medica sarà chiamato né medico né timoniere, ma persona con la testa tra le nuvole (299b7: μετεωρολόγον), sofista, e sia permesso a tutti di portarlo in tribunale: nulla deve essere infatti più saggio delle leggi (299c6: οὐδὲν γὰρ δεῖν τῶν νόμων εἶναι σοφώτερον), e nessuno deve ignorare la medicina né l’arte di condurre una nave.

Ma cosa succederebbe se le cose stessero effettivamente così e avvenissero soltanto secondo disposizioni scritte e non secondo tecnica (299e3-4: κατὰ συγγράμματα καὶ μὴ κατὰ τέχνην)? La risposta di Platone è molto chiara.

«Tutte le tecniche ci verrebbero a mancare… a causa di questa legge che impedisce la ricerca (ζητεῑν), cosicché la vita, che già ora è difficile, diventerebbe… assolutamente invivibile (299e7-9: ὁ βίος, ὢν καί νῦν χαλεπός, … ἀβίωτος γίγνοιτ’ ἂν τὸ παράπαν). Certo, sarebbe un male se un custode non si curasse affatto delle leggi scritte, e per il proprio tornaconto compisse atti contrari alle disposizioni: la seconda navigazione (300c6: δεύτερος πλοῦς) consiste dunque nel non permettere a nessuno di agire contro le leggi: ma queste costituiscono solo un’imitazione della verità (300c5-6: μιμήματα… τῆς ἀληθείας), mentre la prima navigazione, quella che dovrebbe essere seguita dal vero gevernante/pilota è quella del governo migliore, ossia del governo di coloro che posseggono l’arte politica, e quindi la verità, perché si basano sulla vera conoscenza, quella che è qualcosa di diverso dalle leggi codificate. E quindi l’uomo che sa (300c9: εἰδότα), il vero uomo politico (300c9-10: τὸν ὄντως πολιτικόν), farà molte cose, se gli appaiono migliori (300d1: βελτίω) delle norme scritte, secondo la sua scienza, senza curarsi delle disposizioni scritte (300c11: τῶν γραμμάτων): questo sarebbe il più vero comportamento politico. I governanti dunque che fanno compiere ogni azione solo secondo norme scritte e consuetudini e non con scienza (301e8-9: κατὰ γράμματα καὶ ἔθη μὴ μετὰ ἐπιστήμης) fanno sì che le città possano affondare come navi (302a6: καθάπερ πλοῖα καταδυόμεναι)».

Anche nel Politico dunque si conferma l’idea sviluppata nella Repubblica che è solo il filosofo, cioè colui che possiede la veraconoscenza, che è in possesso della vera arte politica, che agisce per il bene della nave/città intera e non per il proprio tornaconto, o per il tornaconto di una parte soltanto della città, ad avere il diritto di governare.

3. Ancora sul nocchiero sapiente

Ci sono molti passi nei dialoghi platonici, nella Repubblica, ma anche in dialoghi precedenti, nei quali si insiste sul fatto che la tecnica dell’andare per mare è una vera e propria tecnica, al pari, per esempio, della medicina. Certo, non si tratta della conoscenza più alta, quella che consente al filosofo, grazie al suo elevarsi al mondo delle idee, che sono il presupposto e la condizione di un sapere certo (ἐπιστήμη), una visione complessiva del mondo e della vita umana, e tuttavia tutta la polisemanticità del termine τέχνη costituisce come il sottofondo delle riflessioni di Platone: tecnica, legata quindi all’esperienza, ma anche conoscenza vera e propria e a volte sapienza (σοφία). Il vero pilota (ὁ ὀρθῶς κυβερνήτης) è colui che governa i marinai; non un marinaio (ναύτης) qualunque: non perché si trova a bordo di una nave e naviga lo si chiama pilota, ma per l’arte sua (τέχνη) e perché governa i marinai (κατὰ τὴν τῶν ναυτῶν ἀρχήν), si dice in Resp. I 341c9-d2; e in I 342d9-e2, nel corso della confutazione della definizione della giustizia come l’utile del più forte data da Trasimaco: il vero pilota (κυβερνήτης ἀκριβῆς) è chi governa i marinai e fa l’utile dei marinai e non del pilota. Poco dopo il pilota è esplicitamente accomunato al medico: ciascuna tecnica in effetti è diversa dalle altre perché diverso ne è il potere (δύναμις) e ciascuna ci procura un vantaggio particolare: così l’arte medica procura salute e l’arte del pilota (κυβερνητική) una navigazione sicura (σωτερίαν ἐν τῷ πλεῖν), si dice in Resp. I 346a7-b2. E nel III libro, 389b-c, il pilota è l’unico, insieme al medico ed al governante, ad avere il diritto di dire il falso: certo, si deve tenere sempre in gran conto la verità, e tuttavia a volte il falso è utile agli uomini, come può esserlo un farmaco, anche se l’uso di questo farmaco è riservato ai medici e non a privati qualunque. Dicendo il falso agli uomini di governo, un privato commette lo stesso, anzi un maggiore sbaglio (μεῖζον ἁμάρτημα) del malato che non dice la verità al medico o di chi non espone al pilota (κυβερνήτης) il reale stato della nave e della ciurma.

La τέχνη del pilota dunque assume, nella complessità della vita sociale, uno statuto di grande rilievo, al pari di quella di un medico o di un vero e proprio governante, e non la possiede chiunque, ma solo chi l’ha acquisita. Se in una nave uno avesse la libertà di fare ciò che gli pare, privo della minima idea di scienza nautica, te lo immagini cosa avverrebbe di lui e degli altri imbarcati? – Perirebbero tutti: così nell’Alc. I 135a5. E nella Repubblica (Resp. VIII 551c3), parlando del regime oligarchico, in cui governano i ricchi che pensano solo a far denaro e spregiano la virtù e la scienza: «costoro portano sempre alle cariche pubbliche solo i ricchi… Pensa se si creassero i piloti di nave (κυβερνήτας) in base al censo, farebbero una navigazione penosa (πονηράν… ναυτιλίαν).

Ci sono ancora alcune considerazioni molto interessanti a proposito della tecnica/scienza del pilota. Nelle Leggi, per esempio (XII 961e2-5), si sottolinea un’importante caratteristica della sua arte: non si tratta di una sapienza puramente teorica, bensì di una sapienza che si coniuga necessariamente all’esperienza. Abbiamo già visto che il buon pilota deve conoscere gli astri, i venti, le stagioni, ma non basta. L’intelletto (νοῦς) infatti, necessario al pilota per acquisire queste conoscenze, deve fondersi con i sensi, cioè con la pratica degli altri marinai: solo così, quando intelletto ed esperienza si coniugano, potrà risultare la salvezza delle navi nella tempesta come nel tempo sereno (ἐν χειμῶσιν καὶ ἐν εὐδίαις): «Non sono forse nella nave il pilota e i marinai, insieme a lui, che fondendo le loro sensazioni all’intelletto del pilota stesso salvano se stessi el’imbarcazione?». Ed è sempre il pilota, con la sua scienza e la sua esperienza, che ha l’altro importante compito di sovrintendere all’opera di un altro artigiano, cioè del falegname, come si dice nel Cratilo: il lavoro di questi consiste sì nel costruire il timone dellanave, ma solo con la soprintendenza del κυβερνήτης, se il timone dev’essere buono (Crat. 390d2), perché, sempre, chi giudica della bontà di un prodotto non è chi lo costruisce, ma colui che lo usa, e quindi chi giudica dell’opera del costruttore di navi (ναυπηγοῦ) è il κυβερνήτης, il nocchiero (Crat. 390c1; la stessa idea in Resp. X 601c-d).

Ma c’è ancora un’altra connotazione/condizione importante perché l’arte del pilota, ma in effetti ogni altra arte, possa conseguire buoni risultati. In ogni scienza infatti c’è una parte che potremmo chiamare puramente “tecnica”, che però si deve sempre accompagnare a un’altra scienza, fondamentale, a quella che concerne il bene e il male. Così si dice per esempio nel Carmide (174c6): se si toglie la scienza del bene e del male alle altre scienze, forse la medicina, la tecnica della produzione di scarpe, l’arte tessile e l’arte della navigazione (κυβερνητική) saranno in grado di esplicarsi, ma certo non sarà possibile che ciascuna di queste scienze si realizzi bene e vantaggiosamente. Conoscere il bene e il male è la caratteristica essenziale, per il Platone della Repubblica, del buon governante, che agisce non per il suo tornaconto, ma per il bene di tutti; ora questa conoscenza si dimostra necessaria anche a ogni altro τεχνίτης. Concetto ribadito anche in un bel passo dell’Alcibiade II (146e-147d):

«Il possesso di molte scienze (ἄλλων ἐπιστημῶν κτῆμα), quando non è accompagnato dalla scienza di ciò che è il meglio (τοῦ βελτίστου), sempre, poche volte è utile e il più delle volte danneggia… Così occorre che la città o l’anima, che voglia vivere rettamente, si tenga stretta a questa scienza, proprio come il malato si tiene stretto al medico e il passeggero che voglia navigare senza rischi al pilota… E chi per altro possiede la cosiddetta scienza enciclopedica e politecnica (πολυμαθίαν τε καὶ πολυτεχνίαν), ma sia privo di questa scienza e sia menato di volta in volta da ciascuna di queste altre conoscenze, si troverà giustamente e senza metafora in gran tempesta come chi sia fra i flutti del mare senza pilota».

E c’è infine un’ultima considerazione importante, che mostra come Platone non sia affatto il pensatore astratto come a volte viene delineato, ma abbia ben presente la concretezza delle situazioni nelle quali agisce l’uomo, l’uomo comune come lo scienziato, che sono sempre relative e nelle quali il risultato delle sue azioni non dipende esclusivamente da lui e dalle sue conoscenze, ma anche da un quid di imprevedibile (che sia caso, fortuna, necessità) che interferisce con esse. Perché l’azione dell’uomo entra sempre in un gioco di fattori esterni, e questi non tutti sono da lui dominabili. Così un valente pilota (κυβερνήτης) o un medico, ben conscio delle possibilità della sua arte, farà sempre tutto ciò che è possibile e in suo potere, lasciando stare l’impossibile, e con tutto ciò qualche volta sbaglia, anche se a volte ha modo di riprendersi (Resp. II 360e7). E nel Protagora (344d3), dopo la spiegazione del carme di Simonide fatta da Protagora, Socrate, proponendo la sua (342a sgg.), distingue in particolare tra il detto di Pittaco (contro cui era diretto il carme) “è difficile mantenersi onesti” e la risposta di Simonide “non essere, ma divenire buono è difficile” (344a). E, divenuto buono, permanere in questa condizione è impossibile, non umano bensì divino. Chi è colto, per esempio dalle sventure nel governo di una nave? non certo chi è profano, perché sempre il profano è colpito. Come nessuno potrebbe abbattere chi già fosse disteso a terra, così una sventura potrebbe cogliere chi sia ricco di ripari, non chi è sempre senza, per esempio una grande tempesta (χειμών) potrà ridurre il nocchiero (344d3:κυβερνήτης) a non aver più ripari. E infine nell’Epistola VII (351d3-5): se Dione cadde mentre stava per sconfiggere i suoi nemici, questo non deve meravigliare. Perché se un uomo buono si trova in mezzo a dei malvagi non si farà certo illusioni sulla loro anima, ma potrà capitargli quello che capita anche a un buon pilota, al quale non sfugge l’avvicinarsi della tempesta, ma ne ignora la potenza e soccombe alla sua violenza improvvisa.

4. Il mare, l’oceano, la terra e l’aria nel mito

Il mare e l’Oceano, oltre ad essere quelli reali, solcati dalle navi guidate dai saggi timonieri, costituiscono anche un importane elemento dell’immaginario fantastico rappresentato nei miti, spesso inventati, di Platone. I più belli e significativi si trovano in tre dialoghi, il Fedone, il Crizia e il Timeo.

Se l’anima è immortale, si dice nel Fedone, alla morte dell’uomo essa raggiunge un luogo bellissimo, quello che costituisce la “vera terra”, che non è quella che pensano gli uomini che parlano di essa. Alla richiesta di Simmia di spiegare quel che Socrate intende dire, questi dapprima si schermisce, dicendo che raccontare questo racconto non è certo difficile, mentre dimostrare che siano cose vere è certamente molto più difficile (108d4-6), ma poi, all’insistenza di Simmia, acconsente. Inizia così il mito della “terra vera” (109-111).

«La terra è qualcosa di immenso e noi la abitiamo solo in piccola parte, dal Fasi [nella Colchide, all’estremità orientale del Mar Nero] alle colonne di Eracle [lo stretto di Gibilterra], e abitiamo intorno al mare (θάλασσα) come le formiche e le rane abitano intorno agli stagni, e ci sono in altri posti tanti altri uomini che abitano in molti luoghi simili. Dovunque sulla terra ci sono molte cavità, diverse per forma e grandezza, nelle quali sono confluite acque, vapore e aria; ma la terra in se stessa giace pura nel cielo puro, dove si trovano gli astri, cielo che viene chiamato etere da molti di quelli che parlano abitualmente di queste cose… A noi rimane oscuro il fatto di abitare nelle cavità della terra, e crediamo invece di abitare in alto, sulla superficie della terra. Come se qualcuno, abitando nel mezzo delle profondità marine, credesse di abitare sulla superficie del mare e, guardando il sole e gli astri attraverso l’acqua, credesse che il mare è il cielo, non riuscendo mai a raggiungere, per la sua lentezza e la sua debolezza, la superficie del mare, né a vedere (emergendo e sollevandosi sulla superficie del mare verso il luogo dove ora siamo) quanto più pure e più belle siano le cose intorno a lui… Ma se qualcuno si sollevasse fino a quella sommità, o se, divenuto alato, vi volasse, potrebbe vedere, alzando la testa, le cose di lassù e… potrebbe riconoscere che quello è veramente il cielo, quella la vera luce, quella veramente la terra. Infatti la terra e le pietre e tutto questo luogo in cui ci troviamo sono danneggiati e corrosi, come lo sono dalla salsedine le cose che stanno nel mare… Se infatti è bello raccontare miti, vale la pena ascoltare quali possono essere le cose sulla terra, sotto il cielo… Su una terra di tal specie tutto ciò che nasce vi nasce proporzionatamente, alberi, fiori e frutti. E ancora, analogamente, anche le montagne hanno pietre più lisce e trasparenti e di colore più bello, e sono parti di esse le gemme di quaggiù, che noi tanto amiamo, le corniole, i diaspri, gli smeraldi e tutte le altre simili… La terra vera è adornata da tutte queste cose, e anche da oro, argento e tante altre cose di questo genere. E tutte sono splendenti, in grande quantità, grandi e sparse ovunque sulla terra, così che il vederle è uno spettacolo per spettatori felici. Ci sono su di essa molti animali di specie diversa ed uomini, e alcuni abitano l’interno, altri intorno all’aria, così come noi viviamo intorno al mare, altri in isole circondate dall’aria, vicino alla terraferma. In una parola, quello che per noi sono l’acqua e il mare, in rapporto ai nostri bisogni, lì è l’aria, e quello che per noi è l’aria, lì è l’etere. E le stagioni sono così temperate che gli uomini di lassù non soffrono malattie e vivono molto più a lungo di quelli di qui, e per la vista, l’udito, l’intelligenza e per le altre facoltà di questo tipo ci superano di tanto, di quanto, per la purezza l’aria è superiore all’acqua e l’etere all’aria. E ci sono anche boschi sacri e templi di dèi, nei quali realmente abitano gli dèi, e gli uomini ricevono profezie e oracoli, ed hanno contatti sensibili con essi, e sorgono comunanze di questo tipo degli uni con gli altri. E il sole, la luna e gli astri sono visti da loro così come effettivamente sono, e ogni altra loro felicità è la conseguenza di queste cose.»

Se gli uomini che hanno vissuto con purezza di vita sono destinati a luoghi del genere, quelli che hanno compiuto colpe gravi, ma poi hanno passato la vita pentendosi, la necessità li getta nel Tartaro, e dopo esser rimasti lì per un certo periodo di tempo, le onde (κῦμα) li rigettano fuori di fronte a coloro ai quali hanno fatto violenza, e se li persuadono sono sciolti dalle pene, altrimenti sono trascinati di nuovo nel Tartaro e non pongono fine alle sofferenze prima di aver persuaso coloro che avevano offeso (114a4). Ecco perché bisogna vivere come coloro che “si purificano con la filosofia” (οἱ φιλοσοφίᾳ… καθηράμενοι) e fare di tutto per «partecipare in questa vita della virtù e dell’intelligenza».

Naturalmente Platone è ben cosciente di aver raccontato un mito, la cui verità non è assolutamente dimostrabile, ma questo rientra pienamente nello stile drammatico di questo dialogo: il mito, il racconto, hanno un valore “pratico”, di convenienza, per spingere gli uomini, e specialmente coloro che non hanno la capacità di praticare la filosofia, a vivere una vita giusta, temperata ed esente da colpe. E questo viene ribadito da Socrate, ancora una volta, alla fine del racconto:

«Certo, pretendere a forza che le cose stiano così come le ho raccontate non si addice ad un uomo dotato di intelletto, ma che stiano più o meno così mi pare conveniente e mi pare che valga la pena di crederlo… il rischio infatti è bello (καλὸς γὰρ ὁ κίνδυνος). (114c-d)»

L’altro mito nel quale il mare, o meglio l’Oceano, gioca un ruolo importante è quello dell’isola di Atlantide, della sua potenza e della sua distruzione ad opera dell’antica Atene. Si trova nel Crizia e nel Timeo, e la fonte principale del mito è proprio Platone, che utilizza miti precedenti e li riadatta nei suoi racconti. Atlantide è un’isola favolosa che si trovava proprio di fronte alle colonne di Ercole, nell’Oceano Atlantico. Nella mitologia preellenica, quindi precedente Platone, Poseidone era uno dei figli di Crono (il più giovane dei Titani, figlio a sua volta di Urano, il cielo, e di Gea, la terra) e della sorella Rea, anch’ella figlia di Urano e di Gea. Secondo la Teogonia esiodea, essi ebbero sei figli, tra i quali Ade, Poseidone e Zeus, il più giovane. Quando gli dèi si divisero a sorte tutta la terra, dopo che Zeus ebbe sconfitto Crono e i Titani, a Poseidone toccò il regno sulle acque, e principalmente sul mare e quindi sull’isola di Atlantide. Qui egli collocò i figli avuti da donna mortale, la figlia del re di Macedonia, il maggiore dei quali si chiamava appunto Atlante. Per fortificare l’isola Poseidone la spezzò tutto d’intorno e la protesse alternativamente con cinte minori e maggiori di mare e di terra, due di terra e tre di mare, di modo ché non vi fosse accesso per gli uomini, perché a quel tempo non c’erano navi né navigazione. Le cinte di mare, che stavano intorno all’antica metropoli, furono congiunte con ponti, formando una via tra il di fuori e la reggia; in seguito fu scavata una fossa che desse accesso alle navi dal mare: ne fu allargata la bocca formando un porto in modo che potessero entrarvi le navi più grandi. E le cinte di terra, che separavano quelle di mare, le perforarono lungo i ponti tanto che potesse passarvi una trireme per volta e le ricopersero con tetti in modo che la navigazione si compisse di sotto. E costruirono torri sui ponti lungo tutti i passaggi del mare (Criti. 115c4-116a6).

Di là dai tre porti esteriori cominciava dal mare un muro circolare. Tutto questo territorio conteneva molte abitazioni, e il canale e il porto più grande erano pieni di navi e di mercanti che venivano d’ogni parte del mondo e sollevavano giorno e notte clamore e strepito per il loro gran numero. Passando poi a descrivere la restante regione, si diceva che il luogo fosse molto alto e scosceso dalla parte del mare, e tutt’intorno una pianura circondasse la città, una pianura cinta in giro da monti discendenti fino al mare, liscia e uniforme; questo piano era stato fatto da natura e dall’opera di molti re in molto tempo. Riceveva corsi d’acqua che scendevano dalle montagne e raggiungevano, cingendo la città, il mare; e scavando trasversalmente costruirono canali che mettevano in comunicazione i canali tra loro e con la città (117e1-118d7).

Nel Timeo (22d-e), infine, nel racconto del sacerdote egiziano a Solone, antenato di Platone, si parla di sei diluvi che sommersero periodicamente la terra di acque, e poi (24d-25d4) della più grande e valorosa impresa dell’antica Atene, quando «annientò una grande potenza che aveva invaso tutta l’Europa e l’Asia, muovendo violenta di là dal mare Atlantico. Quel mare era allora navigabile: infatti dinanzi a quello stretto che voi chiamate le Colonne d’Ercole, c’era un’isola, e quest’isola era più grande della Libia e dell’Asia unite insieme… «Grande e meravigliosa potenza regale s’era venuta formando in quest’isola Atlantide, che dominava su di essa e su molte altre isole e parti del continente. Non solo, ma il suo impero si estendeva al di qua dello stretto in Libia fino all’Egitto, ed in Europa fino alla Tirrenia. Ebbene, questa potenza, concentrate un giorno tutte le sue forze, d’un sol balzo tentò di aggiogare il vostro territorio e il nostro e tutti quelli al di qua dello stretto. Fu allora, o Solone, che la vostra potente città fece rifulgere agli occhi di tutti il suo eroismo e la sua forza», liberando tutti i popoli al di qua delle Colonne d’Ercole. Poi l’isola di Atlantide si inabissò nel mare e scomparve. Ecco perché, ancora oggi, quell’Oceano è difficile ad ogni navigazione ed inesplorabile, impedendolo il pericolo dei bassi fondi che l’isola ha formato inabissandosi. Quest’ultima affermazione da qualcuno è stata messa in relazione con il Mar dei Sargassi.

5. I pericoli del mare

Eppure il mare nasconde una serie di pericoli soprattutto di carattere morale, come l’acquisizione di cattive abitudini. Nel Fedro, per esempio, si fa cenno ad un linguaggio volgare che sarebbe proprio dei marinai: dopo aver ascoltato il discorso di Lisia riferito da Fedro, che sosteneva che è meglio concedersi a qualcuno che non sia innamorato piuttosto che ad un innamorato, Socrate afferma che un uomo nobile e di mite carattere crederebbe di aver ascoltato persone cresciute nelle bettole del porto (243c7: ἐν ναύταις, lett. “tra marinai”). E, nella Repubblica, vi è un altro accenno alle cattive abitudini che si potrebbero acquisire da chi in certo modo frequenta l’ambiente legato al mare: a proposito della questione se i guardiani devono o no essere abili nell’imitazione, e poiché «le imitazioni si consolidano poi in abitudini e costituiscono una seconda natura» (III 395d2), si afferma che «pazzi e malvagi si devono conoscere ma non imitare, i guardiani non devono imitare cose volgari, come … scrosciare di fiumi, fragore di mare (lett.: mare rimbombante: θάλατταν κτυποῦσαν), e ogni simile rumore» (III 396b6).

Ma Platone è cosciente che in certo qual modo il contatto con il mare e quindi con le persone che con esso hanno a che fare era inevitabile. Nel II libro della Repubblica si comincia a tracciare la storia dell’evoluzione della città, da quella semplice e primitiva, costituita da pochi abitanti, ma nella quale già si afferma il principio della specializzazione nel lavoro, e perciò il bisogno di persone specializzate in una tecnica che richieda specifiche conoscenze. Quando la popolazione di questa città comincia a crescere, aumentano i bisogni di beni sempre più numerosi e vari, e quindi anche quello di nuovi tecnici, sempre secondo il principio che «ciascuno faccia una cosa sola, secondo la propria naturale disposizione e a tempo opportuno (370c4-5: ὅταν εἷς ἓν κατὰ φύσιν καὶ ἐν καιρῷ πράττῃ)». Ci sarà bisogno quindi anche di commercianti, e, se il commercio si svolge per mare, di esperti del lavoro marittimo (II 371a-b: ἐπιστημόνων τῆς περὶ τὴν θάλατταν ἐργασίας).

L’apparizione del ceto dei marinai era dunque inevitabile, e Platone riconosce che la loro vita non è delle più semplici e facili. Non considerando quei pericoli che possono venire dal mare, quali quelli raccontati nelle mitologie, per esempio quelli corsi da Eracle quando stava combattendo l’Idra, una sofistessa (σοφιστρία), e all’improvviso si trovò a dover affrontare anche un granchio enorme, «un altro sofista giunto dal mare» (Euthid. 297c4), effettivamente la vita del marinaio è oggettivamente difficile. «Consideriamo l’uomo di mare (πλωτικός), che passa per tanti rischi e che, come disse Biante [non in DK10], “non si trova né tra i morti né tra i vivi (μήτε ἐν τοῖς τεθηκόσιν ὄντα μήτε ἐν τοῖς βιοῦσιν)”»; eppure «l’uomo, nato per vivere sulla terra, come un anfibio si precipita sul mare, trovandosi del tutto in balia della sorte» (Ax. 368b-c).

Quest’ultima osservazione in effetti sembra esprimere una convinzione di Platone, specialmente nell’ultima parte della sua vita. Nelle Leggi, infatti, ci sono diversi passi che, sottolineando i pericoli del mare, sembrano preferire decisamente una vita vissuta sulla terra rispetto ad una vissuta sul mare. Nel terzo libro (usando per altro una splendida immagine del genere umano) si dice che, nel corso dei flagelli che a più riprese sterminarono gli uomini, sotto forma di inondazioni (κατακλυσμοῖς), epidemie e altre calamità, nel corso dei quali solo una piccola parte degli uomini, «piccole scintille del genere umano (σμικρὰ ζώπυρα τοῦ τῶν ἀνθρώπων γένους)», potésopravvivere, furono proprio le città vicino al mare le prime ad essere distrutte (III 677b-c2). Ecco perché, nell’immaginare la nuova città, i tre protagonisti del dialogo convengono che essa dovrà essere fondata a circa 14 km dal mare: pur avendo ottimi porti, con territorio circostante fertile, essa non troverà ostacoli nella conquista della virtù. Se invece dovesse trovarsi sul mare, avere bei porti e non essere fertile, bensì mancare di molti prodotti, assumerebbe molte costumanze tortuose e squallide.

«In effetti la prossimità di una contrada al mare, pur essendo ragione di quotidiano diletto, è circostanza ben amara e salata (ἀλμυρὸν καὶ πικρόν: 705a3-4), perché, affollando la città di traffici e di affari legati al commercio e instillando nelle coscienze attitudini incostanti e infide, rende tale città infida e ostile tanto a se stessa quanto agli altri uomini. (705a2-7)»

Il territorio invece della città immaginata sarà adatto ad ogni coltura, perché, se non producesse di tutto, dovrebbe ricorrere a molte esportazioni e in cambio ne riceverebbe una gran quantità di oro e di argento, cosa di cui, per così dire, non c’è male più grande per una città (Leg. IV 704b-705b).

In perfetta continuità con quanto detto nella Repubblica, il valore e l’eccellenza di una città non si misura dalla ricchezza dei suoi commercianti e dei suoi governanti, sempre la parte minore della sua popolazione, bensì dalla qualità morale di tutti i suoi cittadini e dalla giustizia che tra essi regna. Ancora nel quarto libro c’è un dialogo, tra il cretese Clinia e l’Ateniese (706a5-707d6), nel quale sembra che Platone esprima la sua netta preferenza per una vita condotta sulla terra piuttosto che per una condotta sul mare, non solo per quanto riguarda l’acquisizione della virtù, ma anche per quanto riguarda l’acquisizione dello stesso valore militare.

«La cattiva imitazione dei nemici si ha quando si vive vicino al mare e si è infastiditi dai nemici stessi, come per esempio nel caso di Minosse, il quale sottopose gli abitanti dell’Attica a un gravoso tributo perché possedeva una gran forza navale e quelli non disponevano di navi da guerra né di un territorio ricco di legname atto alla costruzione di navi da guerra. Perciò non furono in grado a quel tempo di cacciare immediatamente i nemici diventando essi stessi marinai se non grazie all’imitazione dell’arte navale (706b5: διὰ μιμήσεως ναυτικῆς). E sarebbe stato meglio per loro perdere ancora molte volte i sette fanciulli prima di trasformarsi da saldi opliti in marinai e abituarsi a sbarcare di continuo dalle navi e risalirvi in tutta fretta e credere che non fanno nulla di disonorevole se non osano morire restando al loro posto di fronte all’assalto dei nemici; ma così dispongono di scuse verosimili e belle e pronte per abbandonare le armi e darsi a fughe che portano vergogna (706c6-7: οὐκ αἰσχρὰς φυγάς). Così dicono i soldati della marina, che davvero non meritano i tanti elogi che sono soliti incontrare, ma proprio il contrario: perché non bisogna assuefarsi alle cattive abitudini.»

Anche in Omero Odisseo insulta Agamennone perché, in un momento difficile per gli Achei, ordina di trarre in mare le navi (Iliade XIV 96-102). Anche Omero si rendeva conto che è un male la presenza in mare delle triremi in aggiunta agli opliti in battaglia. Inoltre le città che fondano la loro potenza e la loro salvezza sulla marina non onorano la parte migliore del mondo militare, poggiando quella potenza sull’arte di manovrare e su quella di comandare gente d’ogni risma e tutt’altro che rispettabile. A questo punto il cretese Clinia obietta che la battaglia navale combattuta a Salamina salvò la Grecia dai barbari. E l’Ateniese: sì, così pensa la maggior parte dei Greci e dei barbari; noi invece diciamo che le battaglie combattute sulla terraferma a Maratona e a Platea posero il germe della salvezza per i Greci e li resero migliori. Infatti stiamo parlando di leggi che non considerano la semplice sopravvivenza e la mera esistenza come la cosa più degna, bensì il fatto di far diventare e rimanere il più possibile virtuosi.

Ed anche per quanto riguarda le attività sportive, il cui scopo finale, come già nella Repubblica, non è quello di rendere i giovani corpi dotati di forza bruta, ma di plasmare armonicamente corpo e anima in personalità coraggiose, di un coraggio che prepari il corpo a combattere per la propria città e l’anima a combattere per la conquista della virtù. Così, per esempio, per quanto riguarda l’attività della caccia, attività sempre in Grecia ritenuta importante per l’educazione di un giovane, bisogna lodare quella che rende migliori le anime dei giovani e biasimare quella che agisce in modo contrario. Bisogna quindi rivolgersi ai giovani pregandoli di non farsi prendere dal desiderio della caccia per mare o comunque di quella che avviene nelle acque. Da questa infatti si passa facilmente alla pirateria; in effetti anche la caccia agli uccelli non è molto degna di uomini liberi, perciò ai nostri atleti, conclude l’Ateniese, resta dunque solo la caccia e la cattura degli animali terrestri (Leg. VII 823d-e). Insomma, nell’organizzazione della vita, mentre per la maggior parte dei Greci la vita proviene da molte fonti, dalla terra e dal mare, per i nostri cittadini solo dalla terra (Leg. VIII 842c).

Non è estraneo a Platone nemmeno il problema degli stranieri che giungono nella nostra città dal mare, o perché spintivi da tempeste e sventure, o semplicemente per commerciare; e, contrariamente a quanto si potrebbe pensare dopo la rivendicazione della superiorità della vita condotta principalmente sulla terra, la posizione di Platone è quanto mai equilibrata, anche nel caso di stranieri che abbiano compiuto qualche reato. Come si dice per esempio nelle Leggi (IX 866d): se uno straniero o un meteco uccide un altro involontariamente, sia mandato in esilio e non possa metter più piede nella città; e se invece ritorna contro la sua volontà, per esempio in un naufragio che lo getti sulla costa del paese, stia attento, accampatosi sulla riva del mare, «con i piedi a bagno», a reimbarcarsi subito.

La condanna della xenofobia invece è netta, pur nell’attenzione che i magistrati debbono sempre avere per la salvaguardia delle proprie leggi giuste: bisogna mostrare benevolenza verso i visitatori stranieri, si dice in un altro passo, sempre dalle Leggi (XII 952e), per esempio verso coloro che vengono in estate, «volando realmente per mare», per commerciare. I magistrati devono accoglierli nei mercati, nei porti e in edifici pubblici fuori della città ma vicino ad essa, stando solo attenti a che nessuno introduca innovazioni che possano turbare la vita ordinata della città, e amministrando loro correttamente la giustizia. Mentre coloro che tentano di sfruttare la condizione di difficoltà in cui possano trovarsi vanno decisamente condannati, come per esempio coloro che prima accolgono con apparente amabilità gli stranieri che si trovano in difficoltà, spinti sulla terra dal mare in seguito a grandi tempeste, e poi li trattano come nemici, caso mai chiedendo grandi e ingiusti riscatti (Leg. XI 919a-b).

Eppure, credo che in fondo per il mare accada in Platone quello che accade per la tragedia: pur criticandola in tanti passi dei suoi dialoghi, ne era innegabilmente attratto; così per il mare, al cui fascino non credo si sia del tutto sottratto, se ad un certo punto Socrate, elencando una serie di cose belle, vi include le navi. In un passo dell’Ippia Maggiore (Hip. I 295d3) infatti Socrate, afferma che belli sono gli occhi, l’intero corpo, tutti gli animali e perfino tutti gli utensili e veicoli, sia quelli terrestri sia quelli adatti a navigare sul mare.

6. A mo’ di (provvisoria) conclusione

Come spero di aver mostrato, il rapporto di Platone col mare è molto complesso. E potrebbe essere letto in molti modi. Si potrebbe parlare di un atteggiamento “retrogrado”, di chiusura verso le novità e i cambiamenti che necessariamente seguono al commercio marittimo e all’incontro quindi tra usi e costumi diversi dal proprio, un atteggiamento misto a una certa “nostalgia” per il mondo antico, agricolo, semplice e non corrotto. Allo stesso tempo però c’è da notare che questo tipo di atteggiamento viene esplicitato in riferimento ad una kallipolis, una “città bella” che ha già attuato quelle riforme che Platone auspica perché si realizzi la vera giustizia nella comunità umana. Ma c’è da notare anche che questo tipo di atteggiamento è presente soprattutto nelle Leggi, con tutte le correzioni del programma rivoluzionario esposto nella Repubblica.

D’altra parte c’è il riconoscimento della necessità, dovuta all’aumento della popolazione nella città, con il conseguente aumento dei bisogni, primari e secondari, del commercio via mare. E questa necessità ne comporta un’altra, la formazione di tecnici della navigazione in grado di svolgere bene questa nuova attività. Da questo punto di vista la tecnica del nocchiero viene elevata al rango di tutte le altre tecniche, che sono tutte nobilitate nella loro indispensabile funzione di “servizio” alla ordinata e civile convivenza tra gli uomini, perché depositarie di un’esperienza e di una sapienza che non è di tutti. Tant’è vero che spesso essa viene accomunata alla medicina e addirittura all’arte del governare: guidare una nave è come guidare una città.

Il mare, e in genere tutti i corsi d’acqua, fanno poi parte anche dell’immaginario del mito: anche se non sono tra i più belli tra quelli inventati o rielaborati da Platone, i miti legati al mare giocano anch’essi un ruolo non secondario nei dialoghi platonici. Con lo stesso intento col quale nel Fedro, per esempio, la descrizione della “pianura della verità”, così nel Fedone la descrizione della terra, del mare e dei corsi d’acqua “veri”, rispetto a quelli tra i quali viviamo, ha una funzione potremmo dire genericamente etica: la fantastica pittura di luoghi belli e puri dove uomini puri, cioè che hanno condotto e conducono una vita giusta e buona potrebbero vivere, se abbandonassero malvagità, ingiustizia e soggezione alle peggiori passioni.

A queste, che sono alcune delle coordinate teoriche che, mi sembra, ispirano il rapporto di Platone col mare, si affiancano poi altre riflessioni su altri temi, forse marginali ma non meno importanti.

Quello che vorrei però ricordare è la quantità di metafore, analogie, immagini, alcune delle quali bellissime, che accompagnano e colorano i discorsi platonici sul mare e sulla vita di mare; due esempi per tutti: la vita come una navigazione («la navigazione dell’esistenza (διὰ τοῦ πλοῦ τῆς ζωῆς»), e l’immagine delle poche persone che scampano alle tempeste e ai flagelli naturali che si abbattono sulle comunità umane, nella quale quelle che sopravvivono sono chiamate «piccole scintille del genere umano (σμικρὰ ζώπυρα τοῦ τῶν ἀνθρώπων γένους)». L’uso delle immagini non è inconsueto ed è presente in tutti i discorsi platonici, è parte caratterizzante dello “stile” platonico; ma nel caso dei suoi discorsi sul mare mi pare che esse acquistino un colore particolare.

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