Da Inimicizie.
Filosofo, geopolitico, ideologo, attivista, consigliere.
Aleksandr Dugin è tutto questo, ed altro.
Da subito oppositore di Gorbaciov e di Yeltsin, poi “compagno viaggiatore” di Putin che ha sia elogiato, che consigliato, che criticato, vedendo in lui la rinascita della missione geopolitica della Russia, benché ancora insufficiente.
Il principale testo in cui viene riassunto il pensiero geopolitico di Dugin è “L’ultima guerra dell’isola mondo“, originariamente pubblicato in russo nel 2012 con il titolo Geopolitika Rossii, quindi precedentemente alla guerra del Donbass. Una guerra che è costata al filosofo la vita di sua figlia, Darya Aleksandrovna Dugina, assassinata dai servizi di sicurezza ucraini tramite un ordigno esplosivo piazzato sotto la sua macchina.
Proviamo a fare una sintesi del principale lavoro geopolitico di Aleksandr Dugin, integrandolo con altri suoi scritti e dichiarazioni.
Indice
La Geopolitica dell’Heartland
La geopolitica di Dugin discende da tutto il filone realista delle relazioni internazionali, in particolare dagli autori – anglofoni e continentali – che hanno focalizzato la loro analisi sullo scontro tra civiltà di terra e civiltà di mare, di cui abbiamo già parlato in un post precedente: MacKinder, Spykeman, Hausofer, Schmitt, De Benoist, Thiriart, Brzezinski.
Due sono le idee principali intorno a cui ruota tutto il pensiero geopolitico di Aleksandr Dugin.
La prima è che le sorti geopolitiche del mondo siano decise dal controllo dell’heartland, che MacKinder definisce “il perno geografico della storia”, la parte “interna” del continente eurasiatico schermata dall’influenza oceanica.
Solo tramite il controllo dell’heartland è possibile controllare il continente eurasiatico, “l’isola-mondo”, l’area geopolitica di gran lunga più influente sul pianeta.
La seconda è che la storia umana sia segnata da una costante: Lo scontro tra civiltà di terra e civiltà di mare, tra tellurocrazia e talassocrazia. Queste due civiltà non solo si trovano in costante competizione per il controllo dell’heartland, e quindi di tutto il mondo, ma rappresentano due modelli di civiltà alternativi, radicalmente diversi tra loro e quindi incompatibili.
Ne abbiamo già parlato, quindi è inutile ripetersi, su questo il pensiero di Dugin ricalca perfettamente quello di Schmitt: Valori mercantili contro valori spartani, individualismo contro comunità, nichilismo e liberalismo contro spiritualità ed autoritarismo. Insomma, Roma contro Cartagine.
Lo scontro simbolico, di ispirazione cabalistica, tra il Leviatano e il Behemot.
Unione Sovietica
Naturalmente, il faro della civiltà tellurocratica è proprio l’impero che da secoli, da dopo la dominazione mongola dell’orda d’oro (a cui Dugin da il merito di aver infuso nell’ethnos russo la sua missione tellurocratica) domina l’heartland: La Russia. La terza Roma.
Questo impero ha, secondo Dugin, una missione storica: L’integrazione del continente eurasiatico e l’espansione a partire dall’heartland. Una missione che, senza sosta, ha perseguito per tutta la sua esistenza, indipendentemente dai cambiamenti politici e sociali avvenuti.
E infatti l’Autore individua proprio nei (brevi) momenti in cui la Russia ha seguito una strategia talassocratica, o ha subito influenze possiamo dire “cartaginesi”, i momenti di maggiore difficoltà.
In epoca moderna, il primo di questi momenti viene individuato con il tardo impero zarista, legato in un’alleanza con l’Inghilterra (la principale potenza talassocratica del tempo) con l’entente anglo-russo del 1907. Quest’alleanza ha portato alla disfatta nella prima guerra mondiale, alla catastrofe dell’accordo di Brest-Litovsk e alla guerra civile. Dugin evidenzia, in modo molto interessante, come questa spaccatura tra tellurocrazia e talassocrazia, che declinata nel contesto russo definisce tra atlantisti ed eurasiatisti, sia osservabile nelle aree controllate militarmente dai bolscevichi e dai controrivolazionari durante la guerra civile.
Le roccaforti bolsceviche si trovavano proprio nell’heartland, le roccaforti bianche nel rimland, la zona costiera da cui potevano ricevere aiuti dalla talassocrazia. I rossi vivevano in modo spartano ed ascetico, i bianchi, come il ministro della guerra nonché massone Kerensky (salvo poche eccezioni come l’armata del nord, filo-tedesca) erano impregnati di ideali borghesi di stampo anglosassone. Lo stesso socialismo, ritiene, citando Costanzo Preve, non a caso ha trionfato in una civiltà tellurocratica come la Russia e in altre dopo di essa.
Dugin individua poi, da Stalin fino a Chernenko, una continuità nella conduzione di una geopolitica prettamente eurasiatica e volta all’espansione dell’influenza dell’heartland, che ha portato la Russia (intesa come ethnos) alla sua massima espansione storica e influenza mondiale. Per poi arrivare, appunto, alla seconda “deviazione”, ancora più disastrosa della prima.
Gorbaciov e Yeltsin
In sostanza, la tesi dell’Autore sul collasso dell’Unione Sovietica è quella del “socialismo tradito”, per il cui approfondimento il saggio omonimo di Roger Keeran e Thomas Kenny è fondamentale.
A partire più o meno dalla fine degli anni ’70, il socialismo (e quindi l’eurasiatismo, la tellurocrazia) sarebbe diventato gradualmente una farsa, in cui non credeva più nessuno, che nessuno si sforzava più di difendere, i cui oppositori non venivano combattuti ma incoraggiati. La mobilitazione aveva lasciato il posto all’apatia e al nichilismo.
Fu solo con l’avvento di Gorbaciov – in teoria un appassionato leninista – che questa tendenza assunse però una forma concreta.
Le teorie della convergenza e della distensione sarebbero quindi state non un genuino tentativo dei due blocchi di riappacificarsi, bensì un’avanzata unidirezionale dell’impero talassocratico americano.
La glasnost, la perestroika e l’abbandono dell’est Europa sarebbero poi state la pietra tombale della tellurocrazia russa: L’apertura di una porta da cui la talassocrazia angloamericana entra ad armi spianate, facendo una strage.
Il resto della storia lo conosciamo tutti, con una postilla: Gli autori del colpo di stato del 1991 ebbero solo la colpa di non essere andati fino in fondo e di essere stati troppo disorganizzati.
Con il crollo dell’Unione Sovietica, ci troviamo davanti ad una catastrofe geopolitica senza precedenti nella storia russa. Il nuovo presidente Yeltsin, ubriacone con un’idea molto fumosa di ciò che avveniva intorno a lui, circondato da agenti d’influenza atlantisti (come Kosyrev, la cui omonima dottrina prescriveva un appoggio acritico alle iniziative di politica estera statunitensi, ad esempio in Corea del Nord) peggiorò ulteriormente la situazione con privatizzazioni selvagge e concessioni di sovranità alle repubbliche della federazione. Ma Yeltsin, nella tragedia, avrebbe avuto anche due meriti, che portano Dugin a non inserirlo tout court nell’elenco dei nemici della Russia (di cui invece Gorbaciov fa parte a pieno titolo).
Il primo è il colpo di coda, l’atto d’orgoglio che portò il Presidente ad invadere la Cecenia nel 1993 dopo la dichiarazione unilaterale d’indipendenza, fermando quindi il pieno trionfo della “dottrina MacKinder”, delineata dal geopolitico inglese durante i suoi viaggi nel caucaso in supporto ai russi bianchi, riassumibile grezzamente in questo modo:
- Creazione di un “cordone sanitario” anti-russo nell’est Europa, dalla Finlandia all’Ucraina
- Diffusione di ideali talassocratici e borghesi
- Smembramento pezzo per pezzo della Russia, a partire proprio dal Caucaso, passando per territori abitati da minoranze come il Tatarstan per arrivare infine all’estremo oriente russo, che sarebbe dovuto passare sotto il controllo (diretto o indiretto) americano
Se Yeltsin avesse abbandonato la Cecenia, come i suoi consiglieri atlantisti suggerivano di fare, il risultato sarebbe stato un effetto domino che avrebbe messo fine alla Russia. Niente di meno. Quindi, nonostante gli accordi di Kasav-Yurt avesseri riportato la situazione allo status quo ante, rendendo quasi vana la campagna militare, si mise almeno una pezza al declino inesorabile della tellurocrazia.
Il secondo merito di Yeltsin, invece, è stato la scelta del suo successore: Vladimir Putin.
Putin e il futuro
Putin, ex agente del KGB semi-sconosciuto, si rivela un vero e proprio uomo della provvidenza per gli eurasiatisti, anche se con alcune incertezze e lacune che esporremo in seguito.
Il cambio di passo diventa subito evidente con la seconda guerra russo-cecena, con cui viene messa definitivamente la parola fine alla balcanizzazione della Russia, appoggiandosi alle forze tradizionaliste e tellurocratiche afferenti al sistema islamico-tribale dei teip ceceni, riunitosi sotto le figure dei signori della guerra Yamadayev e Khadyrov (il cui figlio governa ancora la Cecenia ed è uno dei principali esponenti del “partito della guerra” russo). Poco dopo, Putin inizia gradualmente a centralizzare lo stato russo e a ridurre la sovranità delle repubbliche.
Anche la guerra tra Russia e Georgia del 2008, naturalmente, viene vista da Dugin come un chiaro esempio di politica eurasiatista, seppur non sfruttata fino in fondo con l’occupazione di Tblisi, errore la cui colpa ricade su Medvedev, atlantista (oggi meno) che Putin non riuscì a controllare completamente e con cui fu costretto a collaborare per ragioni di politica interna (da notare a margine che in Italia il “merito” di aver fermato i carri armati russi se lo intestò Berlusconi).
I meriti di Putin non si fermano qua. Sua sarebbe anche la decisione di ravvivare quelle iniziative di politica estera di impronta marcatamente eurasiatista come l’unificazione con la Bielorussia e l’integrazione dell’Eurasia tramite organismi internazionali come l’Unione Economica Eurasiatica, il CTSO (che recentemente è intervenuto per stabilizzare il Kazakhstan), lo SCO – sovrastruttura diplomatica della “via della seta” cinese, il CICA. Suo sarebbe il merito di aver perseguito una politica continentalista e filo-tedesca per tentare di separare il continente dall’influenza angloamericana, tramite legami energetici (e la cosa a qualcuno non è piaciuta) politici e diplomatici.
Verso il nuovo Zar arrivano però anche delle critiche, sia ne “L’ultima guerra dell’isola-mondo” che in “Putin contro Putin“.
Per riassumere, quello che Putin dovrebbe fare, e ancora non ha fatto, sarebbe:
- Sviluppare un’ideologia eurasiatica e tellurocratica, come furono l’assolutismo zarista e il socialismo sovietico, per mobilitare la popolazione e fornire un faro verso cui dirigersi agli alleati dell’heartland nel mondo. A questo Dugin ha cercato di supplire personalmente con le sue avventure politiche, ultima tra le quali il “Movimento Eurasiatico”. Invero, sembra che Putin stia gradualmente andando in questa direzione, tramite una critica sempre più serrata dello stile di vita talassocratico: Il capitalismo, il liberalismo dei costumi etc etc di cui un esempio lampante è il discorso del 2021 al “club di Valdai”. Una retorica che si infiamma ulteriormente dopo l’inizio della guerra – o “operazione militare speciale” – in Ucraina.
- Liberarsi degli atlantisti che ancora esercitano un’influenza nella formazione della politica estera russa (un altro obiettivo che oggi si può dire raggiunto, alla luce della guerra in Ucraina)
- Mostrare una maggiore ambizione nell’espandere l’influenza dell’heartland (come, a dire di Dugin, hanno fatto tutti gli Zar e i Segretari passati, con pochissime eccezioni) piuttosto che limitarsi a difenderla con interventi come quelli ceceno, georgiano, siriano, ucraino, kazako
Quello che sostiene Dugin, per concludere, è che l’avanzata della talassocrazia nell’heartland sia stata fermata da Putin ma non in modo irreversibile, e che senza una serie di passi cruciali potrebbe ricominciare da un momento all’altro.
Magari alla fine della carriera politica dello stesso, se non lascerà un adeguato “testamento”.
La guerra in Ucraina, in un modo o nell’altro, sarà suddetto testamento.