Da Machina.
Indice
Premessa
Il tempo, l’idea del tempo, è spesso la qualità fondatrice di una concezione comune del mondo. Il tempo, il tempo comune, il tempo pubblicamente misurabile ordina le azioni sociali secondo il «prima» ed il «dopo». Il tempo rende, così, intelligibile il movimento. Ma, come ogni concetto fondatore, il tempo, spesso, diviene cosa; e ci appare come realmente esistente. Anzi ci appare talvolta, paradossalmente, più reale che le cose. Le idee comuni, le idee costitutive del senso comune, trovano la loro sostanza nell’accordo sociale; questo significa che un concetto fondante del senso comune è reale solo perché è condiviso da una moltitudine di individui. Un’idea totalitaria, poi, cioè un’idea unanimemente accettata, fa nido nello spirito dell’individuo, diviene così un concetto irriflesso, quasi un istinto – in modo che l’idea appaia meno come un mezzo di dare ordine al mondo che un frammento del mondo, il più vero forse.
Il tempo come la causa, il numero o la libertà, è un’idea, anche se si tratta di un’idea-paradigma. Ma un’idea di questa natura appare all’individuo come cosa del mondo malgrado si tratti di un simbolo per ordinare le cose del mondo. E come le cose del mondo si sottrae alla riflessione critica e all’interrogazione: perché quel che esiste è ovviamente considerato ragionevole. Infatti i paradigmi concettuali non si aprono alla critica che durante le crisi sociali. Una crisi sociale è prima di tutto una crisi della comune concezione del tempo.
La temporalità, cioè il modo d’apprendere il cambiamento, è un’esperienza necessariamente collettiva, essa caratterizza non solamente una società ma perfino una comunità.
Così l’apprensione del tempo è relativa ai gruppi sociali: il tempo scorre uniforme nella fabbrica, ma non certo a teatro. A vero dire, v’è sempre una molteplicità di tempi. Perfino nel Medioevo, epoca che Gramsci considera giustamente come totalitaria, coesistevano insieme diversi tempi: quello del contadino, quello del signore, quello del mercante ecc. Tuttavia, perché la società si possa riprodurre, i diversi tempi devono avere una sincronizzazione; e questa privilegia abitualmente un tempo particolare che subordina gli altri o li rende marginali. Ed è proprio questo tempo privilegiato che caratterizza globalmente una società. Dominare, è in effetti disporre del tempo altrui. Solo il tempo del dominio è dunque propriamente legittimo, cioè razionale.
Per altro, ogni movimento sociale appare come svelamento del tempo, nuovo calendario, apprensione del tempo autentico. Gli antagonismi sociali mettono in gioco il tempo comune; è una rivoluzione e un cambiamento della concezione comune del tempo.
La nostra vita si dipana nella crisi senza fine della civilizzazione industriale, cioè nella crisi del tempo cronologico. Il quotidiano sembra mancare di significazione comune; ciò che rende, giustamente, la vita penosa. Ogni volta che scompaiono le comuni certezze, il mondo diviene inintelligibile e l’anima soffre poiché l’intelligibilità è una condizione di possibilità del suo operare.
Quando il quotidiano pone problemi, bisogna interrogare le certezze; e queste qui si lasciano interrogare solo allorché il mondo tangibile s’inabissa, perde senso. Il tempo, l’idea del tempo essendo una certezza, la sola critica pertinente è una critica comune, cioè il ricorso al ragionamento discorsivo. Bisogna, dunque, rendere la critica del tempo un’esperienza collettiva; e questa è, per altro, una sorta di terapia.
Certo, la concezione comune del tempo si appoggia su qualcosa di non-pensato, sicché occorrerà, forse, pensare ciò che nel tempo comune è normalmente impensabile.
Questo saggio si inserisce nello sforzo collettivo di ripensare il tempo; sforzo che vede, in primo luogo, impegnate le moltitudini che si battono contro la passione funesta d’arricchirsi in fretta; passione che costituisce il cardine attorno al quale viene fabbricata questa anima generica posseduta dal feticcio del progresso, come ricchezza astratta, cifrata «stricto sensu».
Il nostro compito si limita, in queste pagine, al tentativo di ricostruzione della relazione sotterranea che lega il tempo comune a quello scientifico; lo abbiamo già fatto, in un altro saggio, per quel che attiene all’economia politica.
Qui noi consideriamo il tempo naturale, cioè il tempo fisico; l’esposizione si divide in due parti: la prima tratta il tempo nella fisica aristotelica, la seconda nella fisica moderna.
1. Introduzione
In Occidente, la discussione su «le supposizioni correnti» del tempo comincia con i Greci ma non esiste una concezione greca del tempo. La molteplicità dei punti di vista e degli argomenti possibili deve essere ritenuta uno dei tratti essenziali della civiltà greca.
Questa discussione non riguarda solo la filosofia; l’epopea, la lirica e la tragedia sono, in effetti, ricche di immagini e di simboli relativi al tempo e ai fenomeni temporali. Il tema del tempo serve spesso a veicolare le riflessioni più significative dell’autore sulla vita e la morte, sull’uomo e la natura, sull’umano e il divino. Nella letteratura filosofica anteriore alla scuola d’Elea il tempo è un fenomeno non neutro, carico d’affettività.
Parmenide e Zenone, scossi dal brivido glaciale dell’astrazione, sono i primi a mettere in questione il concetto di tempo cioè a negare la realtà del tempo. Ma bisogna attendere Platone perché la questione sia posta nella forma dell’interrogazione filosofica, specialmente nei due dialoghi del «Timeo» e «Parmenide». E bisogna ancora aspettare Aristotele per trovare un’analisi esaustiva e sistematica del tempo. Lo Stagirita dedica all’argomento i cinque ultimi capitoli del quarto libro della Fisica. Questo trattato costituisce peraltro un esempio del metodo dialettico che l’autore ha già messo in opera nel libro Le Topiche. Il metodo consiste nell’investigare discorsivamente i concetti comuni attraverso la comune capacità d’astrazione; e, beninteso, conservando, come criterio dirimente di verità, l’orizzonte della comune esperienza. L’investigazione ha per scopo di chiarire il concetto comune, d’eliminare le anomalie che ne rendono comunemente difficile la comprensione; per poi ridefinirlo in modo che possa far ritorno nel senso comune. Il metodo dialettico (aristotelico) non presuppone alcuna competenza se non quella comune legata alla comunicazione linguistica.
Il lettore contemporaneo potrebbe trovare un po’ bizzarro l’applicazione del metodo dialettico alle investigazioni fisiche; questa disciplina, infatti, nella nostra epoca, sembra essere definitivamente al di fuori del senso comune. Per altro, Aristotele è un fisico senza laboratorio…
Certo, Aristotele non pensa alla fisica, cioè alla «natura delle cose che sono», alla maniera dei moderni – che la ritengono una microstruttura non osservabile con la comune esperienza; al contrario, egli concepisce la «natura delle cose che sono» osservabile, in principio, attraverso le facoltà generiche dell’essere umano, in primo luogo quei sensi naturali di cui il nostro corpo è normalmente dotato.
Per Aristotele, le esperienze sensibili comuni costituiscono l’insieme dei fatti naturali; per lui, non vi sono certo delle proprietà fisiche definitivamente nascoste ai nostri sensi. La fisica aristotelica si limita alle superfici delle cose, alle forme delle cose così come appaiono nell’esperienza sensibile comune, nella fenomenologia del soggetto umano. Il laboratorio d’Aristotele è la vita quotidiana.
Per un fisico contemporaneo, Aristotele ha commesso l’errore di rigettare l’ipotesi di una struttura del cosmo non-direttamente osservabile. Il successo tecnico della fisica moderna, che trova le sue origini nella critica alla fisica aristotelica, ne sarebbe, a posteriori, la prova.
Ora, a nostro parere, se un errore è stato commesso si è trattato di un errore geniale, un errore che ha generato la fisica come scienza, un errore al quale la fisica contemporanea sta per ritornare come a quella origine che può rinnovarla.
L’argomentazione d’Aristotele sul tempo è sottile; e tutta serrata negli ultimi cinque capitoli del libro IV del trattato La Fisica; ma egli vi ritorna in altre parti della stessa opera, e particolarmente nel libri VI e VIII.
Qui ci limitiamo a evidenziare i passi più significativi del IV libro, pur restando vigili verso le altre considerazioni sull’argomento che appaiono altrove nel testo. Dopo aver introdotto questi passi, proveremo a scorgervi la loro pertinenza all’epistemologia contemporanea.
2. Il tempo come cosa che esiste e il tempo come cosa che non esiste, ovvero la natura del tempo
Il capitolo decimo del libro IV si apre ponendo due quesiti: il tempo esiste? e se esiste, cos’è?
Aristotele sviluppa il primo quesito a mezzo di due considerazioni che negano l’esistenza del tempo: a) il «passato» e il «futuro» non esistono; b) il «presente» e l’«adesso» non appartengono al tempo.
La prima considerazione non è argomentata; lo Stagirita considera, in effetti, come auto evidente, cioè di senso comune, che il passato è una parte del tempo, precisamente quella che non esiste più; mentre il futuro è quella parte che non esiste ancora.
La seconda considerazione è, invece, parzialmente argomentata; ma lo è per quel che attiene all’«adesso» e non per il «presente».
Aristotele sembra avere delle buone ragioni per procedere in questo modo. Non è tuttavia difficile ricostruire1 il motivo per il quale riteneva che il «presente», se esiste, non fa certo parte del tempo. In effetti, o il presente dura qualche tempo o non dura affatto. Nel primo caso, il presente è di sicuro una parte del tempo; ma, allora, in quanto parte, è divisibile in due, e l’una arriva dopo l’altra; sicché il «presente» come durata è composto da due parti che non sono in presenza l’una dell’altra, ovvero il «presente» è composto del «non-presente», il che è contraddittorio per il senso comune; dunque, il «presente» non ha alcuna estensione temporale.
Ma, d’altro canto, se il presente non dura, non può essere, certo, una parte del tempo; la parte, infatti, misura il tutto e il tutto è composto dalle parti. Se il presente non possiede alcuna durata, non può misurare il tempo che è composto di durate come la linea è composta da segmenti.
Ricostruita così l’argomentazione a proposito del presente atemporale, ritorniamo al testo aristotelico per esporre la ragione per la quale l’«adesso», in quanto istante, non fa neanche esso parte del tempo. In effetti, se l’istante è temporale si danno due possibilità: o cambia nel corso del tempo o resta invariato.
Nel primo caso, è necessario che l’istante trapassi in un altro istante, quello prossimo. Ma, avendo il tempo una struttura continua, tra due istanti, ce n’è sempre un terzo, come accade ai punti geometrici di una linea continua. Dunque, perché un istante si cambi in un altro istante, deve attraversare un numero illimitato d’istanti compresi tra se stesso e l’istante successivo. È necessario dunque che l’istante sia simultaneo a un’infinità d’istanti; e questo è, di nuovo, contraddittorio.
Nel secondo caso, poi, se cioè l’istante è un invariante nel tempo, allora non vi sarebbe più tempo; e le cose accadrebbero tutte insieme, senza un «prima» e un «dopo», senza passato e futuro, tutto sarebbe simultaneo a tutto, e il povero Aristotele si ritroverebbe contemporaneo dell’improbabile Zichichi2.
Avendo così introdotto la questione della realtà del tempo, Aristotele passa in rassegna le interpretazioni a lui anteriori della temporalità; ed espone brevemente le difficoltà che emergono. Egli cita, per subito rigettarle, due concezioni del tempo, cioè l’identificazione del tempo: a) con il movimento di rivoluzione della sfera celeste (qui pensa, probabilmente al Platone del «Timeo» e del «Parmenide»); b) con la sfera celeste stessa3.
Aristotele presenta il quesito centrale, quello relativo alla natura del tempo, nell’ultima parte del capitolo decimo del libro IV. Egli fa osservare, preliminarmente, che la nozione di tempo è associata all’esperienza del movimento, del cambiamento, della corruzione dei corpi. Bisogna, dunque, considerare l’apprensione soggettiva del movimento come l’origine sensibile, materiale del concetto di tempo. Di conseguenza, il tempo è una proprietà, un predicato del cambiamento, dell’esperienza del cambiamento, del movimento, della corruzione, della rovina delle cose.
Tuttavia, il tempo non è né il cambiamento, né il movimento, né la corruzione. Infatti, il cambiamento non esiste che come cambiamento concretamente osservabile, dunque locale; contrariamente al tempo che è dappertutto. Ancora: il movimento può variare nel tempo, può essere lento o rapido; mentre il tempo non può esserlo poiché la rapidità e la lentezza sono esse stesse definite dal tempo.
In conclusione, la natura del tempo è indifferentemente nella corruzione, nel movimento, nel cambiamento; questi ultimi, però, non sono il tempo; perché il tempo non è un’esperienza sensibile.
3. Il tempo come numero del movimento
L’undicesimo capitolo del libro IV riprende l’asserzione che vuole non ci sia tempo senza cambiamento, alterazione, movimento. In effetti, se niente arriva a turbare la nostra coscienza, non ci sembra che il tempo sia trascorso. Aristotele introduce qui, a mo’ d’esempio, a sostegno della sua tesi, una gemma letteraria: i «mitici dormienti» del tempio degli eroi, in Sardegna, «i quali svegliandosi, confondono il risveglio di dopo e la veglia di prima in un solo istante, poiché hanno eliminato l’intervallo di cui non si sono accorti»4.
A ben vedere, dunque, noi percepiamo il tempo e il cambiamento insieme, allo stesso tempo per così dire. Nell’oscurità immobile e silenziosa, se l’umore si turba, ci sembra, immediatamente che il tempo sia passato.
E Aristotele conclude di nuovo che il tempo è soltanto un aspetto del cambiamento, del movimento, della corruzione.
Il capitolo prosegue con l’analisi del cambiamento come segreta natura del tempo: il cambiamento è la cosa di cui il tempo è un aspetto. Ora, il cambiamento, quello più comune nella nostra esperienza, è il movimento nello spazio che è, propriamente, un cambiamento di grandezza spaziale. La grandezza cambia in modo continuo, e lo stesso accade al movimento. Inoltre, noi possiamo definire, per accordo linguistico certamente, il «prima e il dopo» nello spazio; e analogamente per il movimento nello spazio.
Cos’è il tempo nel movimento spaziale, questa esperienza fondatrice assolutamente comune?
Il tempo, risponde Aristotele, è quello che fa sì che il movimento sia misurabile secondo il criterio convenzionale del «prima e del dopo». Il tempo è, dunque, la misura del movimento secondo «il prima e il dopo». Misurare nel senso di contare le fasi successive del movimento con i numeri naturali; contare nel senso di ciò che è contabile, si presta al conto. Il tempo del movimento è, quindi, quello che nel movimento è numero, o quello in virtù del quale il movimento è numerabile; numero non in senso logico-matematico bensì in quello del molteplice esistere delle cose, molteplicità che si lascia contare.
4. Il presente e l’istante come limite del tempo
Nella seconda parte dell’undicesimo capitolo viene sviluppata la definizione di tempo data prima, indicando ciò che limita il tempo in quanto misura del movimento. Infatti, distinguiamo il prima e il dopo nel movimento attraverso la nozione d’istante, così come noi rileviamo il prima e il dopo sulla linea attraverso il concetto di punto. L’istante non è dunque una parte del tempo, bensì il suo limite inferiore, così come il punto è il limite inferiore del segmento sulla linea. Ancora: sono necessari almeno due istanti per misurare una durata temporale, così come sono necessari almeno due punti per misurare la lunghezza del segmento.
L’istante non è dunque la misura del tempo, ma una condizione di possibilità della misura, nel senso che l’unità di misura temporale è una durata contrassegnata da due istanti secondo il prima e il dopo, come due punti contraddistinguono l’unità di lunghezza secondo il prima e il dopo.
Gli istanti sono le date che ordinano il tempo come i punti sono i luoghi che ordinano il segmento. Di conseguenza, ciascun istante è unico nel tempo, così come ciascun punto è unico sul segmento. Gli istanti, come i punti, sono differenti tra loro perché noi li individuiamo diversamente attraverso la concreta operazione di misura. Essi sono potenzialmente infiniti, vale a dire che tra due punti o due istanti si può sempre trovare un altro punto, o un altro istante; e così possiamo continuare a contare senza sosta. Gli istanti, come i punti, hanno, in effetti, un’esistenza potenziale: ciascuno può essere contato, contarli tutti è impossibile. Infatti, per Aristotele, l’istante o il punto è una possibilità reale della misura, e non una possibilità logico-matematica.
Ma, peraltro, il punto, in quanto divisione potenziale del segmento, è un punto della linea sulla quale è situato il segmento; in quanto tale, il punto è, dappertutto lungo la linea, lo stesso punto, perché esso è la divisione potenziale di una linea concretamente definita. La linea, nella misura in cui possiamo considerarla una sola cosa, comporta che il punto, suo potenziale divisore, sia identico su tutta la lunghezza.
La situazione è analoga nella fenomenologia del movimento: esso si svolge attraverso dei luoghi e delle fasi, o istanti, differenti; ma questi luoghi e queste fasi sono relative alla stessa entità reale che è la cosa che si sposta; e questa, essendo una cosa concretamente rilevabile dai sensi, resta identica nei luoghi e nelle fasi del movimento.
La stessa analogia vale per il tempo e gli istanti; nel corso di una durata temporale persiste qualcosa nel tempo, qualcosa di cui gli istanti numerati costituiscono le differenti fasi, qualcosa che è il limite superiore del tempo come l’istante ne è il limite inferiore. Questa cosa è il «presente permanente».
Il presente permanente è, in effetti, il «limite del tempo», ma un limite che esiste attualmente; mentre l’istante è il limite che esiste potenzialmente; e diviene attuale solo quando la misura coincide con una fase del «presente permanente».
5. Misura reciproca del tempo e del movimento
Nel dodicesimo capitolo, Aristotele sviluppa le conseguenze della definizione del tempo fornita nel capitolo precedente: il tempo come «numero del movimento secondo il prima e il poi».
In effetti, se il tempo è numero, questo si può intendere in due modi: il numero come mezzo per contare e il numero come cosa numerabile. Il numero minimo è due, se considerato in quanto numero astratto; ma, se considerato come grandezza concreta, in quanto cosa numerabile, esso non esiste per niente.
Allo stesso modo, il tempo minimo esiste in quanto mezzo per contare (uno, due, tre ecc.); ma in grandezza, non esiste un tempo minimo, poiché tutto il tempo si divide (gli istanti intermedi tra due istanti sono, in effetti, in numero infinito). Non si parla né della velocità né della lentezza del tempo benché si dica che si ha molto o poco tempo, che esso è lungo o corto. Essendo continuo, infatti, esso è lungo o corto; e in quanto numero può essere piccolo o grande; ma non è né rapido né lento, perché non v’è nessun numero numerante che sia rapido o lento.
Noi misuriamo il movimento nel suo farsi tramite la numerazione degli istanti. D’altro canto, i numeri, in quanto numeranti, si danno tutti insieme in una sola volta, sono simultaneamente dappertutto. Ma, come numeri concreti è tutt’altra storia perché sono soggetti al criterio del «prima e del poi».
Qualcosa di molto simile accade per il tempo: è simultaneamente identico dappertutto; ma secondo il «prima ed il dopo» non è più lo stesso. Infatti, il movimento nel corso del suo farsi coincide con il «presente permanente» e quindi si dà nella sua unità intera; ma, secondo «il prima e il poi», questa unità è rotta perché il movimento è composto di passato e di futuro.
Anche qui, l’argomentazione dello Stagirita ricorre all’analogia: il numero di cento cavalli e quello di cento uomini sono unici e identici, è la natura delle cose numerate che fa la differenza.
Infine, così come accade che vi siano movimenti unici e identici ma periodici, allo stesso modo accade per il tempo che può avere la periodicità di un giorno, un anno o forse più.
Così come noi determiniamo il tempo, come grandezza continua, attraverso un movimento di riferimento e parliamo di molto o di poco tempo misurandolo con questo movimento «standard»; allo stesso modo, misuriamo il numero attraverso il numerabile: il numero dei cavalli, ad esempio, attraverso il cavallo-unità.
Infatti, è attraverso il numero che noi conosciamo la quantità dei cavalli ma solo perché abbiamo fissato il cavallo-unità che possiamo stabilire il numero stesso dei cavalli. Similmente, noi misuriamo la grandezza spaziale attraverso il movimento e il movimento attraverso la grandezza descritta nello spazio. Giacché proprio perché la grandezza è continua e divisibile che i suoi caratteri si riversano sul movimento e, attraverso quest’ultimo, sul tempo. Noi diciamo, ad esempio, che la lunghezza di una strada è considerevole se il cammino necessario per percorrerla è tale, e reciprocamente; analogamente possiamo affermare che il tempo è tale se lo è il movimento con il quale misuriamo, e, per il movimento se lo è il tempo.
In più, poiché il tempo misura il movimento in tanto che movimento nel suo farsi e che, d’altro canto, questa misura avviene per mezzo di un altro movimento anch’esso in corso di attualizzazione e che costituisce l’unità di misura per il totale del movimento misurato (allo stesso modo che il «piede» può essere scelto come unità per misurare tutta la lunghezza), «essere nel tempo» per il movimento significa solo essere misurato da un altro movimento che ne determina sia gli istanti sia la durata.
Per il movimento dunque, «essere nel tempo» coincide con l’ «essere misurato» da un altro movimento (chiamato tempo) che ingloba il primo in grandezza, come la durata più grande ingloba la più piccola.
Insomma, «essere nel tempo» si può intendere in due modi. Primo, essere nel tempo quando accade un’altra cosa, cioè coesistere, come il grano di miglio coesiste col cielo stellato; secondo, essere nel tempo come si dice che certe cose sono nel numero: l’unità, il pari e il dispari sono nel numero come l’istante, il prima e il dopo sono nel tempo.
La prima maniera d’essere nel tempo non è che un accidente che non spiega niente della natura delle cose. Al contrario, essere nel tempo, nel senso che l’esistenza è misurata dal tempo, è una conseguenza necessaria della natura del movimento proprio perché si tratta della sua essenza. È così che il tempo ci appare come causa di distruzione poiché è il numero del movimento e il movimento manda in rovina tutto ciò che esiste.
Noi abbiamo, infatti, l’abitudine di dire che «il tempo consuma», che «ogni cosa invecchia sotto l’azione del tempo»; e certo non diciamo che col trascorrere del tempo si diviene più giovani o più forti o più belli. Di conseguenza, gli esseri eterni (come l’incommensurabilità del diametro del cerchio) non sono nel tempo, e la prova risiede nella loro divina indifferenza al trascorrere del tempo.
Infine, anche il riposo è misurato dal tempo; in effetti tutto ciò che è immobile non è per questo a riposo ma, potendo naturalmente essere mosso, è momentaneamente privato del movimento; di conseguenza il tempo sarà, anche se solo per accidente, misura del riposo: ogni riposo è nel tempo.
6. Il tempo è universale e irreversibile ma non esiste senza l’anima
Il capitolo tredicesimo sviluppa ancora la definizione del tempo come numero del movimento. Questa definizione permette di ritrovare, attraverso il metodo dialettico, i termini che denotano la comune esperienza del tempo: all’istante, presente atemporale, un giorno, passato e futuro, subito, recentemente, improvvisamente, adesso, e perfino il tempo infinito.
Il lettore con tendenze ossessive può ritrovare questo catalogo nel libro Il nome della rosa di Umberto Eco; ma certo non vi troverà alcun chiarimento sul tempo distruttore o, dirò così, irreversibile. Infatti, osserva Aristotele, ogni cambiamento, alterazione, movimento è per sua natura rovinoso; ed è nel tempo che tutto è costruito e distrutto; tradizionalmente alcuni chiamano il tempo saggio mentre per i pitagorici è la cosa più rovinosa poiché grazie a esso interviene l’oblio; e Aristotele sembra condividere questa opinione. La nascita e il divenire non sono nel tempo che per accidente. La prova risiede nella circostanza che niente diviene senza essere mosso in qualche maniera né senza agire. Al contrario, una cosa può cessare d’essere in sé senza essere mossa. Ed è soprattutto questa distruzione spontanea che noi attribuiamo ordinariamente al tempo; malgrado che a vero dire, esso non sia certo la causa della corruzione delle cose ma solo la misura del loro mutare; e questo sì è, per sua natura, distruttore.
Il capitolo quattordicesimo pone due questioni di senso comune: a) di quale movimento osservabile il tempo è il numero? b) il tempo potrebbe esistere senza il numero, cioè senza la capacità umana d’astrarre?
La prima questione implica la scelta del movimento che, per convenzione comunemente accettata, misura il tempo. Aristotele nota, a questo proposito, che deve trattarsi di un movimento concreto, collocato in un luogo ben visibile; di più, la lettura del numero del tempo – l’istante e la durata unitaria – deve essere facilmente accessibile cioè pubblica. Ancora, deve essere continuo come lo spostamento nello spazio; e deve essere sempre presente dal momento che la sua esistenza è il limite superiore di ogni esistenza. Infine, deve essere uniforme, cioè deve trattarsi di un movimento dall’andamento costante, in modo che appaia indifferente a ogni possibile evento.
Così, i vincoli sulla definizione del tempo come «numero del movimento» forniscono ad Aristotele un risultato assai paradossale: eliminare ciò che di arbitrario c’è nel fatto che il tempo sia uniforme per convenzione linguistica e non per esperienza sensibile. Lo Stagirita, infatti, seguendo peraltro il senso comune, ritiene che il tempo universale sia il movimento circolare dell’ultima sfera celeste, l’ottava, quella delle stelle fisse; movimento la cui uniformità è provata per ragionamento e non attraverso la misura.
Il tempo universale è il movimento dell’ottava sfera del cielo, movimento che ancora al giorno d’oggi è interrogato, la notte, dai pescatori del mare greco, a largo, quando devono stabilire il punto in cui si trovano.
La rotazione della volta celeste è il tempo del senso comune. E dentro questo tempo, gli istanti sono le congiunzioni osservabili degli astri, mentre l’unità temporale è l’anno siderale, cioè l’alternarsi delle quattro stagioni.
Infine l’ultimo capitolo, il quindicesimo, pone un’ultima questione, disperatamente ingenua e tranquillamente sovversiva: il tempo può esistere senza l’anima, indipendentemente dalla coscienza umana?
Fra Piperno, il dominicano di Priverno reso celebre da Il nome della rosa, aveva l’abitudine di dire, a proposito di questa questione, che la difficoltà di rispondervi testimonia il nostro oblio dell’Essere. L’ostacolo risiede, infatti, non nella complessità ma nell’autenticità dell’interrogazione. Da parte sua, Aristotele risponde che no, che non v’è tempo senz’anima, senz’anima intellettiva ben inteso.
In effetti, il tempo è numero; ma noi sappiamo che la natura del numero è doppia – numerante e numerato. Accade lo stesso per il tempo; perché senza il numero, come facoltà di numerare, niente potrebbe essere numerato. Senza la capacità di contare i movimenti numerabili delle stelle, non vi sarebbe né primavera né giorno, perché il tempo non esiste in sé, come le cose o il movimento delle cose; non esiste come il cane in quanto animale abbaiante, ma esiste a modo del cane come costellazione celeste, esiste cioè come esiste l’ultimo orizzonte quando guardiamo il paesaggio spazio, come esiste il colore o, forse, il gusto delle cose. Il tempo è insomma una significazione umana e non una cosa.
7. I quattro ragionamenti di Zenone sul movimento e il tempo
I quattro ultimi capitoli del IV libro costituiscono una riflessione sistematica d’insieme sul tempo come concetto comune. Ma Aristotele riviene, ancora, sull’argomento nei libri successivi dell’opera e dà, in più di un’occasione, delle illuminazioni fondamentali. È il caso del libro VI dove presenta e critica gli argomenti o paradossi di Zenone d’Elea5, in particolare il primo e il terzo.
Il primo paradosso sostiene l’impossibilità del movimento dal momento che il mobile deve dapprima pervenire alla metà del suo cammino prima di giungere al termine; e quindi, dentro un tempo finito, deve passare per un’infinità di luoghi.
Il terzo argomento pretende che una freccia, nel corso del suo volo, sia sempre nello stato di quiete; perché, a ogni istante, ella occupa quello che è il suo luogo e solamente il suo; e quindi è, per definizione, nel suo stato di riposo.
Zenone, scrive Aristotele, suppone a torto che un’infinità di punti non possa essere percorsa o toccata, ciascuno successivamente, in un tempo finito. Infatti, la lunghezza e il tempo, e in generale tutte le grandezze continue, sono dette infinite secondo due accezioni: sia per rapporto alla divisione, sia per rapporto agli estremi. Senza dubbio non è possibile toccare l’infinito secondo la quantità in un tempo finito; ma questo è possibile per l’infinito secondo la divisione perché il tempo stesso in questo caso è infinito. Da qui, risulta che il primo argomento di Zenone è senza portata perché è in un tempo infinito che viene percorsa un’infinità di luoghi, sicché, a ogni punto spaziale corrisponde un istante temporale.
Quanto al terzo paradosso, Aristotele stima che il movimento della freccia non è istantaneo ma dura nel tempo; e che quest’ultimo non è composto d’istanti ma di durate finite, essendo gli istanti semplicemente i limiti delle durate. Zenone dunque, commette un paralogismo poiché è falso che il tempo sia composto d’istanti.
Le risposte d’Aristotele a Zenone sono quelle stesse che si possono trovare nella letteratura scientifica contemporanea. Certo, è vero che la fisica moderna parla di velocità istantanea; ma si tratta precisamente non di una velocità misurabile ma del limite della sequenza delle velocità realmente misurabili, limite detto velocità istantanea per convenzione, dal momento che non fa parte propriamente della sequenza.
La risposta d’Aristotele è, a vero dire, la prima e l’ultima che Zenone abbia potuto ascoltare da più di duemila anni. Tuttavia, il Nostro non è soddisfatto della sua stessa risposta; così, nel libro VIII , ritorna sulla soluzione, da lui stesso data, al primo paradosso di Zenone, per criticarla. In effetti, l’argomento eleatico può essere riformulato in termini unicamente temporali: è possibile passare attraverso un numero infinito d’istanti in un tempo finito? Infatti gli istanti sono tali se possono essere contati; ma non si possono contare degli instanti infiniti in un tempo infinito. Bisogna dunque, prosegue Aristotele, trovare la soluzione del paradosso in quanto argomento puramente temporale, cioè il paradosso del tempo reso infinito attraverso gli istanti. La soluzione del paradosso, in questa nuova formulazione, verrà trovata dallo Stagirita, come al solito, attraverso il metodo dialettico. Gli istanti sono infiniti non attualmente ma potenzialmente; come accade per i punti sulla linea, essi esistono solo quando vengono concretamente indicati. Il paradosso, nella nuova formulazione, è allora sciolto: in una durata finita, si passa per una infinità potenziale d’istanti; ma non si possono contare che gli istanti realmente definiti dalla misura; e questi sono certamente il numero finito perché sono tali le misure concretamente effettuate.
8. Il ruolo della «Fisica» nella storia della fisica
È dubbio che Aristotele abbia compiutamente sciolto tutti i problemi le questioni che lui stesso si è via via posto; ma è certo che il IV libro della «Fisica» risponde alla prima e più importante questione: esiste il tempo come esistono le pietre o gli animali o gli alberi?
Il testo mostra che la natura del tempo è da ricondurre all’anima umana, nel senso intellettivo del termine – the mind.
Infatti, il tempo spartisce con il numero lo stesso modo d’esistenza – si tratta di idee, rappresentazioni e concetti, anche se dentro la dimensione comune, collettiva.
Così, le proprietà del tempo derivano da quelle del numero; per esempio, il tempo è infinito nel senso che si può continuare a contare; ovvero l’infinito è una potenza umana, cioè una facoltà di cui facciamo esperienza ogni volta che contiamo o dividiamo una linea.
D’altronde, è proprio nella «Fisica» che si trova la prima definizione di continuo in quanto infinito potenziale; ma, bisogna avvertire, la trattazione aristotelica esamina il continuo come strumento per spiegare il movimento, e non si presenta come una teoria matematica; il che, peraltro, non esclude che possa avere conseguenze nelle discipline matematiche.
Infatti, le disavventure matematiche del concetto d’infinito ci parlano della capacità di durare della «Fisica» aristotelica. L’infinito potenziale dello Stagirita diviene un postulato, sia pure sotterraneo, nella «Geometria» di Euclide; e riappare, nell’epoca moderna, con Gauss, maestro di rigore logico-matematico, che considera l’infinito come potenza, che, in quanto tale, non può mai svolgersi completamente. Gauss critica l’altra concezione, quella di cui è vittima Bruno e molti tra i filosofi moderni, concezione che vuole l’infinito in atto, con tutte le sue parti che si danno simultaneamente; a suo avviso, si tratta di una falsa opinione che genera solo contraddizioni.
Purtroppo, questa falsa opinione è condivisa, ai giorni nostri, da buona parte del mondo accademico; è, addirittura, frequente l’opinione che l’infinito attuale sia il solo matematicamente concepibile. I professori universitari hanno dimenticato Zenone; e la teoria è regredita a superstizione.
Una smemoratezza regressiva di tale portata deve avere la sua origine nella natura stessa delle matematiche contemporanee, cioè nei luoghi di produzione di questo sapere.
Infatti, l’infinito attuale è una storia accademica, una storia di legittimazione delle matematiche come discipline accademiche. Tutto ha inizio con lo sforzo di pensiero, segnatamente di Dedekin e Weistrass, necessario per dare un fondamento rigoroso al calcolo differenziale tramite la teoria dei numeri irrazionali. Questa teoria, a sua volta, trova la sua legittimazione nella teoria degli insiemi infiniti di Cantor ; secondo questa concezione, il continuo è strutturato dall’infinito attuale.
La teoria cantoriana del continuo esercita, ancor oggi, la sua egemonia nelle istituzioni scientifiche dell’Occidente. Questo non vuol dire che l’infinito potenziale di Aristotele sia davvero superato.
Infatti, la scoperta dei paradossi presenti nella trattazione di Cantor impedisce di considerare il concetto d’infinito attuale come auto-evidente; così, la teoria diviene un sistema d’assiomi la cui eleganza fa aggio sulla consistenza. Questa crisi logica spinge i matematici a ritornare, attraverso Gauss, ad Aristotele, il Grande Vecchio del pensiero scientifico: è il caso, per esempio, degli intuizionisti.
Ma l’attualità del testo aristotelico si rivela nella sua interezza in relazione a un’altra crisi, la crisi epistemologica della fisica contemporanea. Infatti, come abbiamo osservato, la «Fisica» ha per oggetto d’indagine la natura e non le matematiche. Nel pensiero dello Stagirita, la natura si svela attraverso l’osservazione e la misura; e quest’ultima è artificiale nel senso che non appartiene alla natura in generale ma solo all’agire umano, alla presenza dell’uomo nella natura cioè alla capacità linguistico-discorsiva di parlare e scrivere della natura.
In questo senso, si può ben dire che la «Fisica» è ingenuamente realista: il movimento è visibile, esperibile, si può osservarlo, senza necessariamente doverlo misurare. Nella trattazione aristotelica, in effetti, contrariamente a quel che accade nei manuali accademici, il movimento è un realtà sensibile primaria, allo stesso titolo che gli oggetti che popolano lo spazio; per la sua individuazione non occorre ricorrere al concetto di tempo. Quest’ultimo, invece, è solo la misura del movimento; ed è dunque connesso all’origine con l’azione umana, ovvero non ha alcuna esistenza nella natura extra-umana.
Non si insisterà mai abbastanza su questa circostanza: nella «Fisica» la definizione di movimento non ha un rapporto circolare con quella di tempo. Infatti il movimento è definito come attualizzazione di una potenza, mentre il tempo è una convenzione linguistica che misura questa attualizzazione.
Il realismo d’Aristotele, la caratterizzazione del tempo come movimento campione, preserva la teoria dalle antinomie che sorgono ogni volta che si tenta una definizione temporale del movimento—come accade nei manuali accademici dove, per esempio, la relazione tra velocità e tempo è circolare.
Questo realismo, che assegna una qualità ontologica al movimento mentre la nega al tempo, consente ad Aristotele di definire il tempo come movimento localmente e comunemente osservabile: la rotazione della ottava sfera celeste come avvenimento periodico pubblicamente esperibile.
Questa rotazione si svolge in modo uniforme perché la sfera delle stelle fisse è autonoma, libera da ogni influenza esterna. Lo Stagirita, dunque, fonda la regolarità del movimento-campione sul ragionamento e non sull’esperienza; infatti, oggi come ai tempi di Aristotele, la regolarità del tempo non è misurabile in principio.
Così, la definizione aristotelica del tempo, come meglio vedremo nel seguito, salta a pie’ pari, per così dire, Newton per ricongiungersi a quella contemporanea, messa a punto da Einstein.
Infatti, il tempo come «numero del movimento secondo il prima e il poi» è gravido di una molteplicità di significati. «La Fisica» ne presenta esplicitamente due di grande rilievo: 1) il tempo come movimento uniforme, concetto che riprenderà, molti secoli dopo, Galilei e costituirà la sua maggiore gloria; 2) il tempo come movimento unidirezionale, irreversibile; trattato dalla fisica moderna come una proprietà termodinamica e considerato da Aristotele come un dato d’esperienza comune, che ha a che fare con la corruzione dei corpi e la morte, e che fonda, quindi, quel sentimento di finitezza proprio dell’umana esistenza.
Ma la maieutica della definizione aristotelica di tempo si dispiega nella individuazione dei limiti del tempo, ovvero di ciò che ne è necessariamente al di fuori.
Per lo Stagirita, lo abbiamo già notato, il tempo propriamente detto o è passato o è futuro giacché né l’istante né il presente sono nel tempo, essi ne costituiscono i limiti, i confini.
L’istante è il limite inferiore perché corrisponde a una fase del movimento, a quello che oggi solitamente chiamiamo «simultaneità locale».
Il presente è, a sua volta, il limite delle durate sommate insieme; di conseguenza è simultaneo con tutto, o, meglio, è la simultaneità assoluta – un concetto questo rigettato dalla relatività speciale di Einstein ma recuperato, curiosamente, dallo stesso autore, nella relatività generale.
In Aristotele, dunque, il tempo nel suo essere o passato o futuro ordina le azioni umane e circoscrive il presente come l’ultimo orizzonte delimita la spazio percepibile; in modo che il futuro possa indicare le potenzialità nascoste nel presente, mentre il passato è la memoria comunemente condivisa di ciò che è già stato svelato, l’intelligenza del mondo già compiuta.
Certo, v’è rottura tra «La Fisica» e la fisica, particolarmente, lo abbiamo sottolineato, sulla concezione del presente come simultaneità assoluta.
Ma è dubbio che, anche a questo proposito, il testo aristotelico si collochi al di qua della fisica.
A vero dire, se lo statuto epistemologico della fisica comporta non solo la definizione della misura ma anche l’individuazione dei suoi limiti – ovvero il riconoscimento della qualità convenzionale del ragionamento scientifico – allora il «presente permanente» è un concetto che mostra la sua pertinenza nella capacità esplicativa.
Con la definizione del movimento come passaggio all’atto della potenza, del tempo come predicato del movimento e dell’infinito come potenziale, Aristotele scrive con «La Fisica» un grande Libro della Natura, nel senso di rendere la Natura intelligibile dal senso comune.
Infatti, mai più che con Aristotele la Natura è apparsa così disponibile, così gravida d’intelligibilità; e, per suo tramite, il mondo.
Certo, né Gauss né Kant né Einstein riflettono sulla storia dei concetti che contribuiscono a costruire; piuttosto li presentano come auto-evidenti. Così facendo, essi rendono ad Aristotele il più grande omaggio che un pensatore possa mai conseguire – quello di considerare l’opera sua come parte del presente permanente, come una memoria senza data.
Va da sé che come le anticipazioni dello Stagirita non costituiscono dei miracoli così non si può spiegare tutto partendo da Aristotele. Ma, chiudendo senza concludere questo saggio, possiamo trovare una ragione, forse minore, della rinnovata attenzione ad Aristotele presso i fisici contemporanei, nella sua concezione della natura che costituisce, nello stesso tempo, un metodo.
«La Fisica» non pone dei princìpi dai quali derivino, più o meno a perpendicolo, le spiegazioni dei fenomeni, così come accade che i teoremi possano dedursi dagli assiomi.
Ben al contrario, Aristotele arriva a descrivere la Natura partendo dai concetti comuni e facendo riferimento alla comune esperienza; e percorrendo un cammino di pensiero che conserva il ragionamento discorsivo come comune capacità di pensare e comprendere attraverso la lingua ordinaria, quella naturale; e non quella formale o matematica.
Lo Stagirita parte dal senso comune, costruisce attraverso il ragionamento discorsivo concetti di senso comune che mirano a rendere il mondo più intelligibile al senso comune.
Anche lui, se si vuole, fa il suo viaggio «dalle masse alle masse», anche lui ritiene che la moltitudine sa tutto – ovvero che la scienza è una parte della nostra esperienza che tenta di comprendere con le parole ciò che si vede e si sente.
«La Fisica» parte dal senso comune e vi riviene; di conseguenza, la questioni poste sono qualche volta ingenue ma le risposte, quelle, sono sempre tecnicamente perfette; e questa può essere considerata un’altra ragione, del tutto accidentale, dell’attualità degli otto libri dell’opera.
Bibliografia
- Aristote, Physique ( I-VIII ), trad. H. Carteron, Les Belles Lettres, Paris 1931.
- Aristotle, Physics ( I-II ), trad. W. Charlton, Claredon Press, Oxford 1983.
- Physics ( III-IV ), trad. E. Hussey, Claredon Press, Oxfor 1983.
- Physics ( I-VIII ), trad. R.P.Hardie and R.K.Gaye, in The Complete
- Works of Aristotle, e J. Barnes, Princeton University Press, Princeton 1985.
- Platon, Parménide, trad. N.A. Diez, Les Belles Lettres, Paris 1926.
- Timée, trad. M. Rivaud, Les Belles Lettres, Paris 1926.
- C.F. von Weizsacker, The Unity of Nature, Strauss Grroux, New York 1980.
- Si ha ragione di pensare che Aristotele abbia definito il concetto di «presente permanente» nell’introduzione, scritta per gli allievi o essoterica, a La Fisica propriamente detta, cioè destinata a un più largo pubblico o esoterica. Non c’è bisogno di dire che tutta l’opera di introduzione ai corsi del Liceo è andata perduta, e non ci restano che le note dei corsi specializzati, peraltro difficili da leggere e «pour cause». Tuttavia, si possono spesso ricostruire le parti mancanti attraverso i dialoghi platonici; così, per esempio, si può trovare la spiegazione della natura atemporale del presente nel «Parmenide»152 b-c.[↩]
- Fisico italiano, venditore a papi e ministri delle mirabilia della «big science», nonché ridondante epistemologo della domenica.[↩]
- Il rifiuto della tradizione non sembra ben argomentato nel testo. Aristotele nega l’identificazione platonica del tempo con il movimento circolare dei cieli per due ragioni: 1) un tempo, ad esempio un’ora, non è un movimento circolare ma, semmai, una parte del movimento circolare; 2) se esistono molteplici movimenti circolari nei cieli, uno qualsiasi tra essi sarebbe un tempo allo stesso titolo che un altro; coesisterebbero, dunque, più tempi. Quanto all’identificazione del tempo con la sfera celeste stessa (tutto ciò che è nel tempo è nella sfera del tutto), d’origine eleatica, sembra, lo Stagirita la considera troppo ingenua perché valga la pena di esaminarne l’ impossibilità; qui viene il sospetto che il Nostro ricorra anche lui a considerazioni sempliciste per facilitarsi l’incombenza di criticare la tradizione.[↩]
- Secondo Simplicio, Aristotele si riferisce qui al mito dei nove figli di Ercole e di Tespiade che morirono in Sardegna. I loro corpi scamparono alla corruzione come se fossero stati sprofondati e ibernati nel sonno. Questo mito è largamente diffuso nei paesi del Mediterraneo. Per esempio, se ne trovano degli echi nella «Soura XVIII» del «Corano».[↩]
- La nostra conoscenza dei ragionamenti di Zenone proviene dalla «Fisica» che è per noi la fonte più antica a questo proposito. Infatti, in Platone, le tesi di Zenone appaiono come delle mere conseguenze di quelle del suo maestro Parmenide; noi ignoriamo quindi la forma originale e i numeri di questi argomenti chiamati comunemente paradossi. Del resto quello che qui ci concerne non è Zenone, ma Zenone letto da Aristotele.[↩]