Un nuovo ordine nel golfo persico

Da Inimicizie.

Chi controlla il Golfo Persico forse non controlla il mondo – per non scadere sempre negli stessi adagi da geopolitologi da bar – ma comunque controlla il 40% del fabbisogno energetico giapponese, circa il 20% di quello europeo e il 25% di quello del sud-est asiatico. Questo non è un dato secondario.

Il Vicino Oriente sta attraversando dei mutamenti – potrebbe essere la storia geopolitica più importante di tutto il 2023 – le cui cause e le cui ripercussioni saranno visibili ben oltre i suoi confini. In questa regione osserviamo la crescita del mondo multipolare, la razionalizzazione dell’impero americano, la strategia cinese per diventare una potenza globale, quella iraniana per diventare una potenza regionale, quella russa per organizzare il suo estero vicino e rompere lo scacco a cui è sottoposta tramite la “pakistanizzazione” dell’Ucraina, in una guerra che non riesce a vincere decisamente ma da cui non può neanche ritirarsi.

Il 10 marzo 2023, i rappresentanti iraniani e sauditi si sono incontrati a Pechino, e lì si sono accordati – una decisione di portata storica – per la normalizzazione diplomatica tra i due paesi, una normalizzazione i cui contorni si ampliano sempre di più nei mesi successivi, con un presunto patto di non aggressione, la riammissione della Siria di Assad nella Lega Araba e una crescente distensione dell’insidiosa guerra civile yemenita, una minaccia esistenziale per i paesi del golfo e un fronte di primo piano per Teheran nella guerra fredda del Golfo Persico.

Questi eventi potrebbero sembrare – a chi non ha deliberatamente scelto di ignorarli – un terremoto improvviso. In realtà, proprio come avviene per i terremoti, sono stati il risultato di una crescente e quasi impercettibile tensione sotterranea, poi sfociata nella sua naturale conclusione.

I lavori del trilaterale di Pechino
I lavori del trilaterale di Pechino

Il disimpegno americano

Non si può parlare del cambiamento che sta attraversando il Vicino Oriente senza guardare alla politica estera della principale superpotenza, che fino a pochi anni fa si poteva considerare l’egemone indiscusso della regione.

La convergenza sino-russo-iraniana – l’alleanza “anti-egemonica” riguardo a cui Zbigniew Brzezinski metteva in guardia già nel 19971, consigliando agli USA di non antagonizzare tutte e tre le potenze simultaneamente – in parte causa, in parte si forma in parallelo con un vero e proprio disimpegno statunitense dalla regione, che inizia con la presidenza Trump e procede senza troppi intoppi con la presidenza Biden.

La “razionalizzazione imperiale” di cui spesso parliamo impone una riorganizzazione geografica dell’impegno politico-militare americano, la progressiva rimozione di risorse da teatri onerosi e poco remunerativi come quelli afgano e siriano, per concentrare gli sforzi nelle zone cruciali del rimland eurasiatico dove si combatte la sfida più importante per l’impero americano, ereditata da quello britannico: il contenimento delle potenze terrestri dell’isola-mondo, atto ad evitare che l’Eurasia diventi una “base of seapower – per dirla con il Contrammiraglio statunitense Alfred T. Mahan – per contestare e conquistare gli oceani, la principale fonte sia di prosperità che di sicurezza dell’anglosfera tutta.

La ritirata di Washington dalla regione quindi è volontaria, sebbene sia resa una scelta quasi obbligata dalle azioni delle potenze ostili.

Più di un anno prima degli “accordi di Pechino”, notavamo come il flirt saudita con la prezzatura dei suoi idrocarburi in yuan, la renitenza nel coordinare la politica energetica con gli USA in funzione anti-russa e la freddezza diplomatica nei confronti di Washington andasse letta come un ricatto: un ricatto che a Riyadh serviva per ottenere un obiettivo esistenziale, l’uscita dalla guerra per procura con l’Iran che nel medio termine avrebbe portato al collasso della monarchia saudita e probabilmente di tutte le altre monarchie del golfo. Gli alleati degli USA nella regione chiedevano nuove forniture militari, sistemi antiaerei, copertura politica e, soprattutto, un impegno militare diretto nella regione. Specialmente in Yemen, dove l’operazione “rompere l’assedio” lanciata dagli Houti – milizia sostenuta dall’Iran – coadiuvata dalla minaccia a nord, a poche miglia nautiche dai principali stabilimenti petroliferi sauditi ed emiratini, delle milizie sciite irachene – in una letale manovra a tenaglia, colpiva regolarmente l’industria energetica saudita, i dissalatori che da soli permettono il sostentamento della popolazione, le città emiratine diventate un centro turistico e finanziario negli ultimi 20 anni.

I sauditi – in questa situazione di pericolo esistenziale – giocano parallelamente su due tavoli: quello degli accordi di Abramo – “scelta americana”, normalizzazione con Israele – e quello dei colloqui in Iraq con il nemico – “scelta sino-russo-iraniana” – aspettando una risposta dei vecchi alleati. E’ stata Washington, con in mano le sorti della sopravvivenza della monarchia Al-Saud, a decidere per Riyadh, rifiutando l’offerta.

Un mese prima degli accordi scrivevamo su Lettera da Mosca – parafrasando Kissinger2 – che l’Arabia Saudita non fosse un soggetto proattivo della geopolitica del Golfo Persico ma, piuttosto, un oggetto di essa e il termometro degli equilibri di potenza nella regione. Uno stato estremamente fragile che, per sopravvivere, può solamente conformarsi all’esistente. Se gli USA non avessero voluto o potuto fermare l’ascesa dell’Iran a principale potenza della regione, l’Arabia Saudita (e le monarchie del Golfo con essa) non avrebbe avuto altra scelta se non accettare il nuovo stato delle cose, guardando a Teheran e ai suoi alleati: Pechino e Mosca.

Le cose si sono mosse molto velocemente dopo che le “proteste di Mahsa Amini” – ultima speranza per scompaginare il regime iraniano e sterilizzare la sua proiezione all’estero – si sono gradualmente spente a febbraio.

Soldati americani nella Siria nord-orientale, 2020. Trump aveva avviato il ritiro dal paese ma era stato posticipato/frenato dall'amministrazione.
Soldati americani nella Siria nord-orientale, 2020. Trump aveva avviato il ritiro dal paese ma era stato posticipato/frenato dall’amministrazione.

La posta in gioco

Gli USA hanno “bevuto l’amaro calice” – per usare le parole con cui l’Ayatollah Khomeini accettò un nulla di fatto dopo 8 sanguinosi anni di guerra con l’Iraq – scegliendo di concentrare le forze in Europa e soprattuto nel Pacifico, ma quali sono le conseguenze? Qual è l’obiettivo della Cina, che si è posta visibilmente come paciere della regione? E cosa possono guadagnare Russia e Iran, che nel Vicino Oriente giocano partite minori – per le sorti del mondo – ma comunque significative?

Ritorniamo a quanto accennato nelle prime righe: il Golfo Persico è il cuore pulsante del traffico di idrocarburi mondiale. Idrocarburi che sono diretti principalmente verso gli stati ricchi ma energeticamente poveri del rimland eurasiatico: controllare questi flussi è stato il fil rouge della strategia geopolitica anglosassone nella regione da quando è stato scoperto il petrolio.

E’ proprio in Iran che è stato scoperto il primo petrolio della regione all’inizio del ventesimo secolo, controllato dapprima dalla Anglo-Persian Company. E’ sempre in Iran che avviene uno dei passaggi di testimone più significativi della transizione dall’impero britannico a quello statunitense, quando nel 1953 l’Operazione Ajax – condotta da CIA ed MI6 – rovescia il primo ministro Mossadeg, reo di aver nazionalizzato il petrolio dell’Anglo-Persian, con la collaborazione dell’ENI di Mattei e del governo di De Gasperi in Italia, che ne pagheranno il prezzo. Nello stesso anno, la NSC Resolution 138 stabilisce che “non si possa interferire” con i flussi di petrolio in uscita dal Golfo Persico e dal Venezuela, estendendo la dottrina Monroe agli idrocarburi della regione.

Appena tre anni prima apriva la prima base militare statunitense in Vicino Oriente: Daharan, a pochi chilometri dall’imbocco dell’oleodotto Tapline, un progetto americano che porta il petrolio saudita fino ai porti del Libano.

La posizione angloamericana (diventerà sempre più americana) nella regione, che verrà migliorata con la guerra “gestita” del Kippur – anche se subirà un contraccolpo con la rivoluzione islamica in Iran – ed ulteriormente espansa dopo la guerra fredda – con la reintroduzione della quinta flotta nel 1995, l’occupazione dell’Afghanistan nel 2001, dell’Iraq nel 2003 e di alcune zone della Siria nel 2015-2016 – principalmente, persegue due obiettivi: controllare i flussi di idrocarburi verso i grossi importatori del rimland eurasiatico – quasi tutti rientranti nell’impero americano – e, dopo l’abbandono del gold standard nel 1971, sostenere la posizione dominante del dollaro nel sistema valutario internazionale tramite la prezzatura dei contratti di gas e petrolio, che hanno l’importante caratteristica di essere costanti nel tempo e quantitativamente molto importanti.

Le importazioni energetiche del Giappone
Le importazioni energetiche del Giappone

E’ proprio su questi flussi dal Golfo Persico che – con rinnovata intensità negli ultimi 4 anni – si intensifica la competizione tra Iran e monarchie del golfo sostenute dagli angloamericani: nel 2019, una petroliera iraniana viene colpita nel Mar Rosso da due missili (lanciati sicuramente dai sauditi o da alleati) come rappresaglia per gli attacchi all’industria petrolifera del regno da parte delle forze proxy iraniane in Iraq e Yemen, che si sono intensificati.

Sempre a giugno dello stesso anno, mentre il premier giapponese Shinzo Abe si trova in Iran per ricucire il complicato rapporto con un importante fornitore di idrocarburi – nei concitati mesi che vedono l’uscita americana dall’accordo sul nucleare ed una guerra calda avvicinarsi pericolosamente – esplodono nel Golfo dell’Oman due portacontainer con carico giapponese, un attacco che da Washington viene immediatamente attribuito ai pasdaran iraniani. I giapponesi, invece, visto l’inquietante tempismosi dimostrano decisamente scettici rispetto a questa versione. Un mese prima, venivano colpite 4 petroliere saudite, emiratine e norvegesi nello Stretto di Hormuz, questa volta con ogni probabilità da asset iraniani. A luglio, viene sequestrata una petroliera iraniana diretta in Siria al largo di Gibilterra dai Royal Marines, l’Iran risponderà un mese dopo sequestrando a sua volta 3 portacontainer arabe e occidentali nel Golfo Persico.

Nel luglio 2021 verrà nuovamente attaccata una nave giapponese, a giugno viene abbattuto un drone Global Hawk americano, a novembre la marina iraniana fermerà un tentativo statunitense di sequestrare una petroliera nel Golfo. A novembre 2022 l’israeliana Pacific Zirkon viene attaccata con un drone o un missile, mentre due petroliere iraniane vengono sequestrate al largo della Grecia. A maggio 2023 l’Iran sequestra due navi cargo nel Golfo Persico.

E’ evidente che chi controlla i flussi di questi idrocarburi – sia nel Golfo che in altre strettoie come la Malacca, Gibilterra e il Mediterraneo Orientale – sia in grado di condizionare pesantemente la politica energetica dei paesi importatori, come il Giappone ha imparato a sue spese.

Questa posizione di forza potrebbe essere progressivamente guadagnata da una Cina che assume il ruolo di arbitro tra iraniani e sauditi, o in ogni caso progressivamente persa da chi l’ha detenuta fino ad ora: gli Stati Uniti. Neanche due mesi dopo gli accordi di Pechino, gli Emirati Arabi abbandonano la coalizione navale statunitense nella regione, e lavorano per stabilirne una alternativa con Iran, Oman, Arabia Saudita e supporto cinese. Di questo passo, non è fuori discussione l’espulsione della quinta flotta dal Bahrain (un piccola monarchia satellite di quella saudita, con una maggioranza della popolazione sciita) e, chissà, un suo ricollocamento nella remota Diego Garcia – a sud della Maldive, già sede di una base aeronavale americana, e centro di pre-posizionamento logistico usato durante le guerre del Golfo – più lontana dalla polveriera dello Stretto di Hormuz, ma anche più sicura, e vicina alle rotte commerciali marittime che collegano Cina ed Europa, uno dei fronti principali della competizione tra Washington e Pechino.

Il progressivo abbandono della regione da parte degli Stati Uniti, dunque, riduce le leve che Washington può utilizzare nei confronti di Europa, Giappone e Sud Est Asiatico per indurre i suoi alleati e clienti a collaborare nella competizione contro la Cina e gli altri rivali della potenza americana. Un rapporto più diretto – non mediato dagli americani – tra importatori ed esportatori della regione, o addirittura un rapporto mediato dai cinesi, cambieranno drammaticamente il calcolo strategico di capitali come Tokyo, Roma, Berlino e Parigi.

Immagine dell'attacco alla Pacific Zirkon nel 2022
Immagine dell’attacco alla Pacific Zirkon nel 2022

Il petroldollaro

Se Washington viene indebolita nella sua capacità di controllare – proteggendo o sabotando, a seconda della convenienza – i flussi di idrocarburi della regione, e se l’alleanza strategica con le monarchie del golfo viene meno, ad uscirne indebolito è anche il “sistema” del petrodollaro.

Di fatto, il “petroyuan” è già realtà: il 29 marzo 2023 – per la prima volta in assoluto – un carico di gas liquefatto emiratino viene venduto in yuan alla compagnia statale francese Total, presso la borsa degli idrocarburi di Shangai. Una transazione tra Europa Occidentale e Golfo Persico mediata dalla Cina, esemplificativa dell’ordine strategico in fieri descritto sopra.

La dedollarizzazione però non si riduce solamente ad una competizione tra remnimbi – che nonostante gli sforzi di Pechino, a causa di sue caratteristiche strutturali, rimane ancora ai margini del sistema valutario globale – e dollaro. Va piuttosto letta come un processo di multipolarizzazione dei blocchi valutari, che si muove di pari passo con quello dei blocchi geopolitici e militari.

Oggi il petrolio del Golfo inizia ad essere venduto in remnimbi, ma in un prossimo futuro sarà altamente probabile vedere contratti prezzati in rupie indiane, dirham emiratini (si pensi all’accordo valutario di ampio respiro concluso pochi mesi fa tra Nuova Dehli e Abu Dahbi) riyal sauditi, riyal iraniani e – nonostante l’inescusabile latitanza delle autorità europee dai nuovi sviluppi valutari globali, indice di una politica quasi sempre subordinata agli interessi americani e perfettamente spiegata da un intervento dell’allora PDC Draghi in conferenza stampa – euro. Con conseguenze geopolitiche estremamente significative.

La dedollarizzazione del commercio significa un minore incentivo da parte degli stati a finanziare il debito americano tramite l’accumulo di riserve3 (titoli di stato USA) e un minore controllo finanziario (importante quanto quello militare) di Washington sui flussi commerciali tramite il sistema di comunicazione interbancaria SWIFT che – non confonda la sua collocazione fisica a Bruxelles – agisce sempre negli interessi americani, come dimostrano l’esclusione delle banche iraniane – nonostante l’opposizione europea – nel 2019 e i file di Snowden dove viene descritto il monitoraggio in tempo reale da parte dell’NSA americana delle transazioni inter-bancarie di tutto il mondo.

Le alternative a questo sistema – ancora assente, ovviamente, quella europea – potranno sicuramente accelerare nel loro sviluppo, “nutrendosi” delle costanti e voluminose transazioni relative agli idrocarburi del Golfo che – slegate dal controllo politico-militare statunitense – potranno ora essere regolate con sistemi diversi da quelli usati in precedenza.

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Prezzare i contratti del gas in euro per rafforzarne “pomposamente” il ruolo “non funziona”… mesi dopo, ha però funzionato in remnimbi e in rubli.

L’intersa russo-iraniana

Sicuramente meno importante delle dinamiche globali di dedollarizzazione e della competizione tra USA e Cina, merita ugualmente una menzione il successo della cooperazione tra Russia e Iran nella regione del Vicino Oriente. Due paesi, questi, rimasti ostili per tutta la guerra fredda e anche oltre: le repubbliche popolari nate sotto l’occupazione sovietica a nord – crisi risolta solo con la ritirata di Stalin – il ruolo di contenimento dell’URSS svolto dalla monarchia persiana nell’ambito delle coalizioni regionali a guida americana, l’ancora più difficile rapporto con il regime degli ayatollah – in parte causa dell’invasione dell’Afghanistan nel 1979 – e ancora, nei primi anni ‘2000, le offerte (non accolte) di Mosca agli Stati Uniti di collaborare ad una difesa anti-missile diretta verso l’Iran, per scongiurarne una che avvolgesse anche la Russia. La “vecchia guardia” iraniana, quella capitanata dall’ex presidente Ahmadinejad, ha infatti ancora una visione piuttosto negativa della collaborazione con Mosca.

Il rapporto tra i due paesi però si rinsalda con il peggioramento di quello tra Russia e Stati Uniti, andando a saldare quella “coalizione anti-egemonica” le cui potenzialità erano state descritte da Brzezinski. Questo avviene in primis con l’intervento congiunto in Siria, voluto dall’Iran per espandere la propria presenza nella regione e consolidare l’”arco sciita” Teheran-Beirut in funzione anti-saudita ed anti-americana; voluto dalla Russia (anche) per perseguire il sempiterno obiettivo dello sbocco verso il mare caldo, che vedrà una prima realizzione con l’apertura della base navale di Tortosa, la prima della Russia nel Mediterraneo da dopo la guerra fredda. E’ proprio la Siria infatti che diventa uno degli snodi chiave della normalizzazione Iran – Arabia Saudita, quando dopo mesi di flirt e contatti a basso livello, il paese viene riammesso nella Lega Araba, mettendo fine al tentativo di cambio di regime che le monarchie del golfo, per prime, avevano sostenuto.

La seconda tappa dell’integrazione strategica russo-iraniana avviene invece tra il 2019 e il 2022, ovvero con la rottura del JPCOA da parte americana – l’inizio della guerra navale a bassa intensità che abbiamo descritto sopra, l’espulsione dell’Iran dallo SWIFT, l’assassinio di Kassem Soleimani – poi con l’invasione russa dell’Ucraina, a cui segue un forte decoupling – in parte dettato dagli europei stessi, in parte da Washington, in parte da Mosca – tra la Russia e i suoi precedenti partner continentali, Russia che viene colpita con le stesse sanzioni che hanno colpito l’Iran negli anni precedenti e quindi – giocoforza – diventa volenterosa di collaborare con un paese ha già una nutrita esperienza in merito. L’integrazione Russia-Iran raggiunge una profondità senza eguali nei rapporti bilaterali di Mosca e Teheran: militare – la vendita di droni e munizioni iraniane alla Russia e di sistemi avanzati russi all’Iran, con anche la messa a terra di una produzione su licenza – bancaria, con la piena integrazione delle banche russe e iraniane tramite il circuito MIR e il sistema SPFS, logistico-commerciale, con l’accelerazione del (da tempo in stallo) corridoio INSTC, un sistema multimodale di trasporto su rotaia, gomma e nave volto a congiungere la Russia (e gli altri paesi sulla strada, come Armenia e Azerbaijan) all’India, tramite il porto iraniano di Bandar Abbas.

Anche qui si ripropone il tema dello sbocco sul mare caldo: in questo caso, con un accesso all’oceano per la Russia ancora più “libero” rispetto a quello siriano – comunque bloccato dagli stretti di Suez e Gibilterra – che permette un collegamento con l’alleato indiano con cui i rivali americani non sono in grado di interferire (se non nel “collo di bottiglia” del Caucaso). Sembra concretizzarsi in questo senso la visione espressa dal geopolitologo Aleksandr Dugin alla fine della guerra fredda ne “L’ultima guerra dell’isola-mondo” in cui veniva ritenuta proprio la regione del Golfo Persico quella su cui la Russia avrebbe dovuto puntare per uscire dalla sua “condizione di minorità”.

L’Iran invece è in grado di far pesare il suo status – faticosamente ottenuto – di principale potenza regionale per mettersi al centro delle nuove vie commerciali che innervano l’Eurasia, congiungendo Europa, Russia, India e Cina, offrendo un’alternativa rispetto alle vie oceaniche che Washington controlla e da cui Teheran è rimasta esclusa sin dal 1979. La cooperazione con Russia e India crea un corridoio nord-sud, quella con la Cina – unita alla “sistemazione” del Levante tramite il grande accordo con le monarchie del Golfo, e ad un canale con l’Europa rimasto aperto anche dopo il 2019 – un corridoio est-ovest, il completamento del ramo sud (finora impraticabile) della nuova via della seta sotto l’egida dello SCO, organizzazione a guida cinese in cui l’Iran entra nel 2022 e in cui sembra in procinto di entrare anche l’Arabia Saudita.

Mappa stilizzata delle vie logistiche in costruzione, con epicentro l'Iran
Mappa stilizzata delle vie logistiche in costruzione, con epicentro l’Iran

Conclusione

Il rapido cambiamento che sta attraversando la regione del Medio Oriente è quindi la storia di un ritiro americano, di una “collaborazione di scopo” tra Cina, Iran e Russia e di una presa d’atto da parte delle monarchie del golfo del nuovo equilibrio di potenza.

Siamo solo all’inizio: alcune delle caratteristiche di questo nuovo ordine regionale ci sono già chiare, altre sono ancora in via di definizione. Le incognite sono ancora molte e, come in altri quadranti del neonato mondo multipolare, potrebbero dare vita a nuove guerre e conflitti, alimentati sia dalla fame dei nuovi arrivati, sia dalla paura dell’ignoto e dalla “trappola di Tucidide” che aleggiano sui precedenti beneficiari dell’ordine regionale.

Il primo tra questi “precedenti beneficiari” è Israele, uno stato che si trova di fronte sia ad una potenziale crisi geopolitica, sia ad un’immediata crisi d’identità, politica e demografica.

Tel Aviv si trova davanti ad una scelta epocale: adattarsi a questo nuovo ordine o provare ad abbatterlo sul nascere con la forza militare che ha fatto la sua fortuna durante il secolo precedente. La decisione non è ancora stata presa.

A sostegno della prima via notiamo il volo di Nethanyahu in Cina, che ricorda il repentino cambio di atteggiamento del Giappone nei confronti di Pechino, quando gli USA – sorprendendo il mondo – decisero di fare della Cina maoista un alleato. Ma anche la volontà di mantenere una “relazione strategica stabile” con la Russia – che controlla i sistemi antiaerei siriani, in modo da non interferire con gli attacchi israeliani ad obiettivi iraniani – che è costata ad Israele una crisi diplomatica con l’Ucraina e una costante tensione con l’alleato americano, che chiede l’invio di carri armati e sistemi anti-aerei nel teatro bellico.

A sostegno della seconda si nota invece la pianificazione di operazioni militari contro l’Iran – con un senso d’urgenza conferito dal trasferimento di asset aerei e anti-aerei sempre più avanzati da parte di Mosca – e, soprattutto, un irrigidimento interno della politica israeliana: la rottura dello status quo nella spianata delle moschee, la riforma giudiziaria di Nethanyahu, la linea dura contro le formazioni militanti a Gaza e in Cisgiordania, dove le operazioni militari hanno raggiunto un’intensità senza precedenti dalla seconda intifada e dalla guerra in Libano.

Molto dipenderà dall’atteggiamento di Washington. Tutto porta a pensare che Tel Aviv non riuscirà ad ottenere il sostegno militare di cui avrebbe bisogno per “riportare indietro” le lancette dell’orologio. Se questa volontà ci fosse stata, avrebbe potuto trovare espressione mesi fa in Yemen, quando i sauditi erano ancora dal lato americano della barricata e in procinto di firmare gli Accordi di Abramo. Di questo però non si può essere certi.

Ogni evidenza suggerisce che – se rimanesse isolata, o quasi – Israele non potrebbe permettersi di combattere (e vincere) una guerra contro l’Iran e i suoi alleati senza il sostegno attivo di USA e monarchie del golfo, circondata da paesi “neutrali” come Egitto, Libano e Giordania che – se si presentasse l’occasione – potrebbero rimangiarsi gli accordi accettati malvolentieri nei decenni precedenti. Una forma di accomodamento di Teheran con mediazione russa, turca e cinese, che con ogni probabilità avrebbe un impatto anche sulla vita interna e sulla “costituzione” del paese, potrebbe dunque rivelarsi necessario, per evitare il tragico epilogo in cui spesso sfociano i tripolarismi: l’isolamento di un polo e la sua spartizione tra gli altri due.

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