Da Inimicizie.
In tutta la storia del pensiero strategico anglosassone, l’Impero Romano ha sempre rappresentato un punto di riferimento, l’Impero per antonomasia da cui imparare e a cui ispirarsi.
Persino il geopolitologo Halford Mackinder, forte sostenitore della missione storica delle potenze di mare (anglosassoni) contro quelle di terra (Germania, Russia) tentò di incastrare a forza Roma – nonostante i romani fossero pessimi navigatori, e considerassero il Mediterraneo più un ostacolo che una risorsa – nei ranghi delle prime, per rivendicare la continuità storica del suo impero britannico con essa.
Nonostante Carl Schmitt abbia portato convincenti argomenti – nell’ottica di una dialettica storica terra contro mare – a sostegno della tesi che una potenza come Roma fosse geneticamente diversa da quelle anglosassoni moderne, non si può comunque negare che quello romano sia un esempio storico da cui ogni grande potenza, ogni impero (o aspirante tale) abbia molto da imparare. Se non altro perché quello romano è stato uno degli imperi più potenti della storia, è il più conosciuto dagli occidentali ed ha una storia ben documentata per i canoni del tempo. I suoi oltre mille anni di esistenza (se si esclude quello orientale) le sue vittorie, le sue sconfitte e la sua caduta hanno ancora tantissimo da insegnare.
Un nostro tema di interesse è quello della razionalizzazione degli imperi: quando, per una potenza, è saggio e necessario fissare un limite alla propria espansione? Dove va fissato? Come può essere fatto? L’impressione è che siano proprio queste la domande geopolitiche fondamentali del nostro tempo.
Abbiamo osservato una tendenza degli Stati Uniti – la principale superpotenza – a razionalizzare il proprio impero in luce delle mutate circostanze, iniziata con l’amministrazione Trump e proseguita con l’amministrazione Biden, individuando proprio nella guerra in Ucraina un passaggio fondamentale di questo processo. Un processo non accettato all’unanimità a Washington, i cui dettagli, la cui opportunità ed estensione sono oggetto di un costante e duro dibattito. Ma che rappresenta, incalzato dalle azioni delle potenze revisioniste (e di quelle che potrebbero diventarlo) il principale leitmotiv degli anni turbolenti che stiamo attraversando ed attraverseremo.
Gli Stati Uniti sono e rimarranno una superpotenza globale con una vasta sfera d’influenza. Le condizioni però sono mutate: il mondo non è più un oggetto da plasmare nelle mani di Washington come nel “momento unipolare”, ma non è neanche più il teatro di un semplice – per certi versi rassicurante – bipolarismo. Il mondo multipolare è molto più complesso, gli USA dovranno adattarsi. Lo stanno già facendo.
Se cerchiamo una “lezione romana” per capire meglio questo processo, ci viene fornita proprio da un (naturalizzato, come usava a Roma) americano, Edward Luttwak, nel suo “La grande strategia dell’impero romano“.
Indice
Il sistema unipolare giulio-claudio
La trattazione di Luttwak inizia dal passaggio da repubblica a impero: il regno di Ottaviano Augusto – figlio adottivo di Giulio Cesare – iniziato nel 27 a.C. Da questo momento fino alla fine dell’Impero Romano Occidentale, vengono individuati tre “sistemi strategici”, con caratteristiche distinte tra loro, con cui Roma ha organizzato il suo esercito, la difesa dei suoi confini, la proiezione di potenza all’esterno di essi.
Il primo sistema è quello “Giulio-Claudio”, corrispondente per l’appunto alla dinastia Giulio-Claudia, al potere dal 27 a.C. Fino alla guerra civile del 69 d.C. E’ un sistema che viene anche definito “egemonico”: Roma non controlla direttamente, con la forza militare, tutto il suo impero.
Un nucleo centrale dove il controllo imperiale è esercitato direttamente è circondato da una cintura di stati cliente, dove non solo non sono collocate truppe romane, ma che forniscono a loro volta truppe per i bisogni di sicurezza di Roma, oltre a fungere da cuscinetto nei confronti di minacce esterne. Bisogni che comunque sono piuttosto modesti, e si riducono grossomodo ad evitare scorribande da parte di tribù barbare aldilà del Reno – o desertiche provenienti dal Sahara – e ad effettuare spedizioni punitive affinché non si ripetano.
Un altro aspetto interessante del sistema degli stati cliente – come descritto da Luttwak – è il modo in cui Roma mantiene la sua stabilità, quindi la lealtà di questi stati, tramite tre misure: un “impiego costante di mezzi diplomatici particolari e di un controllo e una sorveglianza continui“, la messa in competizione degli stati cliente – che non devono essere né così deboli da aver bisogno di essere difesi, né così forti da poter diventare una minaccia per Roma – tramite la gestione (cessazione o, al bisogno, accensione) dei conflitti tra loro e infine – ma solo come extrema ratio – la presenza delle legioni romane, un potente e soprattutto visibile deterrente contro ogni tentativo di insubordinazione.
Siamo di fatto – per quanto riguarda il mondo conosciuto dai romani – in un sistema unipolare.
L’unica vera minaccia per Roma è rappresentata dai Parti, impero “persiano” con capitale a Ctesifonte, nel moderno Iraq. In ogni caso – forse anche vista la loro collocazione all’estrema periferia del mondo romano – il conflitto viene gestito dall’ultimo imperatore Giulio-Claudio, Nerone, in maniera piuttosto esemplare: il regno armeno – prima d’allora stato cliente romano – viene trasformato di comune accordo in uno stato cuscinetto, neutrale, governato da una dinastia arsacide ma tributario di Roma. La “superficie” dello scontro viene ridotta, la stabilità strategica viene garantita dal fatto che entrambe le potenze sono disincentivate dall’attaccare per prime, dovendo muovere guerra all’Armenia, perdere l’effetto sorpresa e logorarsi prima di arrivare all’obiettivo. Funzionerà per 50 anni, a beneficio in primis dell’Armenia.
I paragoni con l’unipolarismo americano, volendo, si sprecano.
I “mezzi diplomatici particolari” con cui vengono assicurati il cambio di regime in Italia nel biennio 1991-1993 e molti altri eventi politici necessari alla stabilità del blocco. Un “controllo e una sorveglianza continui” a cui si sottopongono i clienti, con gran parte dell’apparato di intelligence dedicato all’Unione Sovietica ora orientato nella loro direzione, ed uno spaventoso livello di penetrazione nelle comunicazioni, nei segreti di stato e in quelli industriali evidenziato dalle rivelazioni di Snowden.
Il pericolo a bassa intensità del terrorismo combattuto con la “cooperazione internazionale” e le spedizioni punitive (boots on the ground in Afghanistan, droni nel resto del mondo islamico). Le piccole guerre appaltate o “concesse” ai paesi NATO (che le volevano per interessi propri) come quella in ex-Yugoslavia per Germania e Italia, quella in Libia per Francia e Regno Unito, quella in Siria per la Turchia. Il convinto sostegno apportato alla nascita e all’espansione dell’Unione Europa (“il più grande successo della potenza americana“) come Antieuropa, forte abbastanza – si credeva – per gestire in autonomia l’Europa Orientale, i Balcani e il Nord Africa e soprattutto raddrizzare sbandamenti nella fedeltà atlantica dei suoi membri, ma geneticamente incapace di diventare una grande potenza autonoma in grado di minacciare il primato dell’egemone, basata com’è sulla messa in competizione dei suoi stati membri.
Ma anche il congagement (containment + engagement) delle potenze regionali, per invogliarle a cooperare con l’ordine imperiale americano, nonché scoraggiarne una defezione. E infine: un massiccio programma di ammodernamento dello strumento nucleare – l’extrema ratio per eccellenza nel 21esimo secolo – corredato dallo sviluppo di un sistema anti-missile del tutto nuovo.
Come nel sistema Giulio-Claudio, non doversi sobbarcare l’onere di difendere i confini da importanti minacce comporta degli enormi vantaggi: le “legioni” sono ridotte in numero, gli Stati Uniti smobilitano ed incassano un lauto “dividendo della pace”. Le forze convenzionali americane sono ormai una forza di polizia mondiale, che ha l’ulteriore vantaggio – non essendo fissata da una costante minaccia al confine – di essere estremamente flessibile ed impiegabile in ogni angolo del mondo, garantendo una maggiore deterrenza con un minor numero di truppe.
Mackinder sosteneva che l’apogeo del potere navale britannico sia stato il momento in cui nell’Oceano Indiano non si potevano trovare una singola corazzata o un singolo incrociatore della marina di Sua Maestà: la Corona controllava l’India, l’Australia e il Capo di Buona Speranza, dunque non ce n’era bisogno.
Il sistema multipolare e i disordini interni
Il sistema egemonico romano entra in crisi con la guerra civile del ’68-’69 provocata dalla rivolta contro Nerone e dalla morte di quest’ultimo, una guerra civile che lacererà l’impero in 4 fino all’imposizione di Vespasiano come imperatore. Si innescherà quindi un fattore interno destinato ad incancrenirsi lentamente nei secoli successivi, con pesanti conseguenze sulla potenza dell’impero: la “pretorianizzazione” dell’esercito. In mancanza di un solido sistema di successione, usurpatori e complotti contro l’imperatore in carica diventano la normalità, e l’autorità imperiale cercherà di dotarsi di armate sempre più personali, sempre più rivolte verso l’interno piuttostoché verso l’esterno dei confini. Una malattia – quella degli eserciti “anti golpe” – che è riconosciuta ad oggi a molti stati arabi.
Vi è però anche un fattore esterno che induce i romani a mutare il loro calcolo strategico: l’aumento della belligeranza (e della “dimensione”) delle popolazioni barbare, soprattutto in Germania e in Britannia. Per fronteggiare questa nuova minaccia che solo in parte è il risultato dell’eterogenesi dei fini delle precedenti azioni romane – nella misura in cui i “popoli clienti” aldilà del Reno sono stati potenziati dal riconoscimento di Roma – l’impero deve razionalizzare i suoi confini. Lentamente, gli stati cliente iniziano ad essere assorbiti nell’impero o abbandonati. Roma deve “fissare” un maggior numero di truppe sul confine, a difesa di fortificazioni come il Vallo di Adriano, il Fossatus Africae e il Reno per mitigare l’effetto delle frequenti incursioni aldilà del confine. La nascita di questa particolare forma di multipolarismo ha numerosi effetti negativi.
La maggiore necessità di truppe al confine ed un loro impiego in funzione difensiva non si traduce solamente in una minore deterrenza per Roma – che ha meno truppe “libere” per azioni offensive e rappresaglie – ma anche in un radicale mutamento del modus vivendi romano: le legioni diventano stanziali, e sono meno inclini a voler combattere lunghe campagne lontano dalle proprie famiglie, e inoltre devono proteggere cittadini dell’impero propriamente inteso. Aumentato il numero delle minacce, Roma non può più permettersi di avere degli stati cliente che potrebbero decidere di contrastare il suo dominio unendosi ai suoi nemici; ma il loro assorbimento porta Roma a non poter più “esternalizzare” i suoi problemi di sicurezza. Senza stati cuscinetto, le scorribande dei barbari colpiscono cittadini romani, minano dalle fondamenta le basi materiali (tasse, derrate, logistica) e immateriali (legittimità come fornitore di sicurezza) dell’Impero.
Beninteso: Roma è ancora un impero in salute, ed in grado di lanciare importanti azioni offensive come la conquista della Dacia (circa attuale Romania) e la soggiogazione della Partia in seguito alla rottura di quest’ultima del compromesso neroniano, arrivando alla sua massima estensione con l’imperatore Traiano (98-117). I germi del declino, però, hanno ormai attecchito: l’aumento in numero ed importanza delle minacce esterne, la degenerazione della lotta per il potere interna a Roma e la totale chiusura a riccio dell’esercito (il poco che rimaneva disponibile fuori dalla guardia del corpo dell’imperatore, in ausilio a limitanei che erano poco più di una milizia di contadini situati presso i confini) segneranno la rovina militare dell’impero occidentale nel periodo tardo-imperiale.
Razionalizzazione americana
Anche in questo caso, diversi paragoni con l’attuale ciclo dell’impero americano – a confronto con la nascita di un sistema multipolare – possono essere tracciati.
Gli USA, in risposta a mutate minacce esterne – un URSS che aveva raggiunto la parità nucleare – e a tensione interna – Watergate, opposizione alla guerra in Vietnam – hanno già una volta razionalizzato il loro impero d’oltremare, amputando le sue estremità incancrenite nel sud-est asiatico ma anche ristabilendo l’ordine e rafforzando il controllo al suo interno, abolendo il gold standard internazionale, mettendo fine al conflitto arabo-israeliano ed assestando un duro colpo all’indipendenza energetica dell’Europa. Fissando in seguito un confine ben definito con l’altra superpotenza: quello europeo sancito dagli accordi di Helsinki del 1975.
Questa razionalizzazione ha dato i suoi frutti nei decenni successivi, permettendo di affrontare l’Unione Sovietica con rinnovato vigore negli anni ’80 e, di fatto, sconfiggerla.
La razionalizzazione però non ha trasformato la natura degli USA nel modo in cui il passaggio da impero egemonico a impero territoriale ha trasformato Roma: gli USA sono rimasti un impero egemonico, che ha continuato ad esternalizzare la sua (in)sicurezza agli stati cliente e ad esercitare una robusta deterrenza sia nei confronti dei suoi nemici, sia nei confronti di potenziali sbandamenti dei suoi amici. La way of life americana, basata sull’essere superpotenza senza un’eccessiva mobilitazione dei cittadini e dell’economia – grazie alla sicurezza geografica e ad una ragionevole, ma non eccessiva, presenza all’estero – è stata preservata.
Corrado Stefanachi – nel suo volume sulla geopolitica americana – spiega come il preservare questa way of life sia stato tra gli obiettivi geopolitici più importanti degli Stati Uniti da quando essi sono una potenza. Sia Spykman che Kennan – due illustri strateghi “internazionalisti” della metà del Novecento – sono infatti convinti che gli Stati Uniti possano materialmente sopravvivere – e in una certa, ridotta misura, anche prosperare – all’interno del proprio emisfero, forti di due confini oceanici inespugnabili e di un’abbondanza di territorio e materie prime. Una condizione simile, però, porterebbe alla trasformazione degli USA in uno stato-caserma, porterebbe l’insicurezza direttamente ai suoi cittadini, porterebbe a sacrificare il lusso della libertà individuale sull’altare della sicurezza collettiva. Si andrebbero a minare – in questo caso sì, come nel caso romano – le fondamenta della potenza americana, con ricadute sul piano interno che potrebbero portare anche ad una sua fine.
Questa è la sfida che affrontano gli Stati Uniti oggi, mentre si imbarcano in un secondo processo di razionalizzazione che comprende la fine dell’avventura afghana, l’abbandono di un meno strategico (per gli USA, anche se non per gli alleati) Golfo Persico – con l’Arabia Saudita non sostenuta a sufficienza nella sua guerra fredda con l’Iran, che ha giocoforza dovuto trovare soluzioni alternative per garantire la propria sopravvivenza – la fortificazione del limes europeo – messi in riga gli alleati, fatti saltare i ponti (e i gasdotti) con la Russia, appaltata la sicurezza all’intermarium di mackinderiana memoria – e di quello asiatico, la prima catena di isole delimitata da Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Filippine e Singapore. Vengono tracciati i confini del mondo multipolare, a partire dai quali avverrà la futura competizione tra potenze. Viene tracciato il perimetro esterno dell’impero americano, sfondato il quale gli USA si troverebbero in territorio del tutto inesplorato (avendo goduto della protezione della Royal Navy per oltre un secolo, prima di diventare una grande potenza) per la way of life americana.
Riusciranno ad affrontarla sul fronte esterno, con un’Europa tentata dall’integrazione con la Cina, dalle materie prime russe e dalle proprie – mai sopite – ambizioni di autonomia strategica? Con una prima catena di isole a pochi chilometri dalla costa cinese, nei cui porti è in costruzione la flotta più grande al mondo?
Riusciranno ad affrontarla sul fronte interno, dove parte della natura delle tensioni risiede in un momento unipolare (“globalizzazione”, della potenza americana) di cui gran parte della popolazione ritiene aver pagato i costi, senza coglierne i frutti? Da questo punto di vista, la cose potrebbero anche andare meglio: un impegno globale più misurato e razionale, unito ad un rimpatrio di alcune attività economiche in ottica di sicurezza nazionale, potrebbero alleviare le tensioni presenti nella società americana. D’altro canto però, la libertà sfrenata dovrà conoscere dei limiti (oggi agli americani viene vietato TikTok, domani chissà) e la guerra tornerà ad essere una cosa seria: non più un dispendioso tiro al piccione delle armi americane su un vetusto esercito di stampo socialista o un’arretrata insurrezione islamica, ma il rischio di uno scontro all’ultimo sangue con un nemico alla pari, dalla società più irreggimentata e dalle motivazioni più forti (si pensi a Taiwan). Sullo sfondo, lo spettro della guerra nucleare. E il ritorno dei vecchi sospetti dei tempi della guerra fredda, con un corpo politico che rischia di essere (ulteriormente, oltre al clima di sempre più accesa kulturkampf) lacerato da sospetti di infiltrazioni russe, cinesi, iraniane.
Riuscirà la società americana, di certo cambiata rispetto ai tempi della guerra fredda – e non in un modo che la rende più adatta alla competizione tra grandi potenze – ad essere all’altezza della sfida?