L’industrializzazione del quotidiano
Dal lavoro flessibile allo smart working

Iperindustria e trasformazioni del lavoro

Da Machina. Intervento di Salvatore Cominu, 2 dicembre.

Mi interessa, più che entrare nel merito specifico o nella genealogia di quello che per velocità chiamiamo smart working e che nell’esperienza di questi due anni sarebbe più corretto definire lavoro in remoto, soffermarmi sui rapporti tra «digitalizzazione» e lavoro, entrando nel merito di quella espressione un po’ criptica che è industrializzazione del quotidiano e dunque collocando la remotizzazione del lavoro in questo frame. A maggior ragione se pensiamo che non tutto il lavoro per cui è tecnicamente possibile sarà remotizzato (si vedano i ruvidi appelli al ritorno in ufficio di Elon Musk o la preferenza generalmente accordata dai manager HR verso il full-time in sede, almeno per i professional e le figure «core»), mentre larga parte del lavoro che non richiede la compresenza di partner cooperanti o dell’erogatore e del beneficiario della prestazione (ossia, la parte crescente) sarà distanziato, sia che il termine indichi il lavorare da casa o in sedi remote, sia che si vada in ufficio. Distanziato, dunque intermediato da dispositivi digitali.

Partiamo da alcune questioni di postura. Anticipo l’assunto alla base della riflessione: l’insieme delle tecnologie, delle infrastrutture, delle funzionalità, degli algoritmi automatici che danno forma all’universo digitale e che sono quindi, per velocità, «la digitalizzazione», costituisce il framework che abilita l’estensione dei metodi e della maniera organizzativa industriale oltre i confini organizzativi delle fabbriche e degli uffici (che ne erano stati i luoghi di incubazione) e dunque nello stesso spazio della vita quotidiana, della socialità, dei consumi, della comunicazione e della riproduzione. Questo era, tradotto in modo parecchio banalizzato e divulgativo che non restituisce la ricchezza e problematicità delle ipotesi proposte da questo autore, un concetto caro a Romano Alquati. Aggiungo che, poiché viviamo in una società strutturata dagli imperativi sistemici del capitalismo, questa industrialità, questi modi organizzativi, servono anzitutto tali fini. La chiamiamo iperindustria (come Alquati, ma non solo lui) per riferirci a questo suo esondare dai luoghi in cui è nata, per divenire metodo applicato a tante situazioni in cui precedentemente, anche per precisi vincoli tecnici, non poteva essere applicato e significa, per l’appunto, un’estensione della razionalità economica applicata ad una varietà di processi sociali allo scopo di incrementare il sovrappiù, accumulare plusvalore e, in ultima istanza, riprodurre i rapporti sociali esistenti. Questo non significa che il digitale, quindi le tecnologie oggi specifiche dell’iperindustria (ma non sono le uniche, e non è detto che siano le più importanti ai fini del discorso), non possano servire scopi diversi. Ma stiamo parlando della società di oggi e non di osterie dell’avvenire.

Il digitale è la tecnologia di riferimento del nostro tempo: magari è una forzatura, non si può negare l’esistenza di altre discipline e sistemi uomo-macchina altrettanto importanti. Mi sembra importante evidenziare due cose: parliamo di sistemi convergenti di macchine, non una singola tecnologia ma un insieme di tecnologie di impiego universale, generale, trasversale (non casualmente sono definite general purpose technologies), una varietà restituita da acronimi e neologismi quali IA, cloud, robotica evoluta, IoT, tecnologie che prese singolarmente esistono magari da decenni e che formano una sorta di esoscheletro che da una parte avvolge e dall’altro compenetra ogni forma sociale del presente. Sono oggetti che hanno in comune l’incorporamento di istruzioni digitali, altrimenti detti algoritmi, e punti di connessione che consentono il dialogo tra umani e il mondo fisico e inanimato, degli oggetti, delle macchine e degli impianti e forse più avanti anche dei replicanti umanoidi vari. In secondo luogo è corretto definire il digitale come l’infrastruttura portante della società, dell’economia e della politica di oggi: esso è potenza di calcolo, connettività, dorsali, server, ciò che serve a trasportare e trasferire, ovvero immagazzinare in grandi docks virtuali con accesso selettivo, enormi quantità di dati, informazioni, disposizioni, contenuti, conoscenze codificate, dunque tutto quanto costituisce materia prima della nuova economia (senza dimenticarsi delle vecchie materie prime che continuano a condizionare in maniera decisiva le nostre vite), ma anche dei rapporti di dominio nella sfera politica, amministrativa, delle attività variamente intese, incluse quelle riproduttive, che costituiscono peraltro un campo sempre più mercificato e colonizzato dagli imperativi dell’accumulazione.

Perché credo che sia importante sottolineare questo aspetto del digitale, come sistema di macchina e infrastrutture? Perché consente di sottrarre il discorso a quel misticismo utopico che talora ha pervaso la discussione sulla questione tecnologica nei nostri giorni. Questo è oggi evidente, poiché parlare di infrastruttura portante e strategica significa parlare di potere, e questo vale da sempre: dalle navi inglesi e olandesi del capitalismo mercantilista alle ferrovie dell’800, passando per le reti energetiche, le autostrade e le reti satellitari e telematiche dei giorni nostri. Potere nell’accezione forte, anche geopolitica e militare del termine. E macchina significa anche potenza, il parametro tecnico che ne definisce l’utilità. Per me è importante ragionare in questi termini, per quanto sia convinto che riferirsi alla digitalizzazione limitandosi alle categorie mutuate dall’industria novecentesca sia (è scontato, ma diciamolo) riduttivo. Però penso sia importante rimarcarli. Potenza che nel linguaggio grigio del conto economico potremmo tradurre come produttività, quindi capacità, forza, energia, lavoro in rapporto al tempo e, anticipando l’argomento di oggi, anche al tempo delle attività in genere. Potenza è risparmio, è incremento di prodotto (non parliamo di sole merci, anche la fruizione di un contenuto può essere letto da questo punto di vista). L’uso che viene fatto di questo incremento va prioritariamente letto come potenza accumulata nel sistema a discapito della ricchezza e della qualità dell’esistenza delle persone.

Quanto detto esprime una postura precisa sulla questione tecnologica, ma non vorrei stressare questo ragionamento. Le nuove tecnologie non sono certamente il traghetto verso la terra del latte e del miele, come sembrava agli albori della new economy alla fine del secolo scorso, una rappresentazione che era penetrata anche nel “nostro” campo. Allo stesso tempo, a differenza di quanto emerge da altre analisi, non sono neanche l’ascensore per l’inferno. Il mood è infatti cambiato negli ultimi anni: il principale best seller sulle imprese tecnologiche s’intitola «il capitalismo della sorveglianza» (Zuboff), che sarebbe da leggere parallelamente a «la ricchezza della rete» (Benkler) di 20 anni fa per capire quali mutamenti di percezione sociale sia intervenuta nel frattempo.

Siamo abituati, rispetto a queste rappresentazioni contrapposte, a leggere le potenzialità in termini di ambivalenza dei processi. Ho l’impressione che si usi questo termine in maniera impropria. Ambivalenza non significa equidistanza, significa semmai che resta aperta la possibilità, a date condizioni, di rovesciare quest’apparato per altri scopi. Quest ’ambivalenza non è mai data di per sé, non è iscritta nello sviluppo spontaneo dei mezzi, proprio perché di spontaneo in questo sviluppo non c’è mai niente. Questo ci conduce ad un’altra vexata quaestio: la neutralità del cambiamento tecnologico. A parole neanche i più indefessi sostenitori delle magnifiche sorti e progressive della società digitale si dichiarano deterministi. Anche loro dicono che niente è scritto. Se noi guardassimo alla grandissima parte di quelli che si esprimono sulla questione tecnologica, vedremmo fino in fondo il loro determinismo, quel «futuro che domina il presente», con l’intento liquidatorio circa le possibilità di aprire vie diverse. Sono i nuovi sacerdoti della tecnica, che si identificano nelle trasformazioni abilitate dal digitale (al netto di alcune circostanza frizionali, perché in ogni fase di transizione ci sono i vincenti e i perdenti) e che ci dicono che tutto sommato la terra del latte e del miele è vicina.

Il paradosso è che in un certo senso potrebbero avere ragione, ma per motivi ben diversi dalla pretesa inesorabilità dello sviluppo tecnologico: potrebbero averla perché sono dalla parte di chi detiene le leve per orientare lo sviluppo tecnologico. Da Marx in poi, passando per la critica dell’uso capitalistico delle macchine di Panzieri, la non neutralità dello sviluppo tecnologico e scientifico è il necessario punto di partenza per una critica (che preferiremmo non oscurantista) della scienza e della tecnica. Alquati considerava la realizzazione di più potenti sistemi uomo-macchina, come l’anello finale di una concatenazione di mezzi che a monte includeva la scienza, la tecnica, la tecnologia, l’organizzazione, la standardizzazione dei processi attivi e lavorativi: in ultima istanza, arrivava la macchinizzazione. Ma non credo ci sia bisogno di sfogliare l’album di famiglia del marxismo eterodosso per trovare riferimenti teorico-concettuali che affermano più o meno i medesimi principi. Anche per Weber era la ricerca del profitto il motore dell’innovazione tecnologica. Più prosaicamente, potrebbe confermarlo in modo molto più efficace qualsiasi commissione di valutazione dei progetti di ricerca scientifica che si candidano ad ottenere un finanziamento o, se preferite, qualsiasi venture capitalist che si appresta a valutare il potenziale di una start up. Non voglio dire che tutta la ricerca sia direttamente asservita al profitto, sarebbe una semplificazione fuorviante. Vorrei chiudere però questa parte del discorso richiamando il punto di vista di uno storico eretico, David Noble, che diceva che l’idea che le macchine facciano la storia al posto delle persone è mistificante. Quegli stessi cambiamenti che sembrano obbligati non seguono una logica tecnologica disincarnata, ma una logica sociale. Ed è questo il punto: guardare cosa e chi orienta lo sviluppo delle tecnologie.

Quando parliamo di uso del digitale applicato ai processi di lavoro ma anche alla vita quotidiana, dobbiamo sempre partire dal presupposto che lo sviluppo tecnologico presuppone anzitutto che vi sia qualcuno che concepisce questi mezzi; qualcun altro, magari lo stesso, che li progetta; qualcun altro (di norma sono organizzazioni economiche, ma anche famiglie, ovvero unità organizzative molecolari di produzione e riproduzione) che le applicano e adattano ai propri scopi; solo in fondo c’è l’uso. Allora, noi guardiamo a quest’ultimo livello per vedere il rapporto che materialmente si dà tra uomo e macchina, donna e macchina. Credo che qui sia anche possibile e auspicabile progettare forme di uso alternativo, pratiche meno alienanti e spersonalizzanti. E del resto l’utilizzatore modifica la tecnologia, rinnovandola e esplorandone altri scopi. Però non possiamo mai dimenticare che l’input sistemico di quella tecnologia parte a monte.

Torniamo al discorso di prima: sono quegli imperativi sistemici di incremento della potenza e della produttività applicata al lavoro, all’attività, a svariati ambiti della vita sociale, progressivamente sussunti nella logica della valorizzazione e della mercificazione, a dare gli input per la progettazione e la concezione delle nuove tecnologie. Questo non significa che non vi siano ambivalenze o che non ci siano progettisti, scienziati, ricercatori disallineati e finanche dei disertori. Credo che un progetto di trasformazione, se esistesse, non potrebbe prescindere dal dialogo strutturato e dall’alleanza con questi disertori e disallineati. Però, allo stesso tempo, sono abbastanza convinto che se non si cambia la committenza dello sviluppo scientifico e tecnologico, sarà difficile progettare macchine che non servono prioritariamente quegli scopi. Per chiudere questo lungo preambolo, il digitale senza questi scopi, senza rapporti sociali che ne sono sottostanti e che tendenzialmente concorre a riprodurre, è nient’altro che un assemblaggio inerte di materiali semiconduttori, di plastica, di bit, di cavi. Sono i fini sistemici a dargli vita. Ciò non significa che tali fini sistemici non contengano aspetti positivi anche per le nostre vite, né che non possano, a determinate condizioni, fornirci strumenti usabili per scopi alternativi; soprattutto non vuol dire sminuire l’apporto degli artigiani non allineati o dei cooperatori digitali. Vuol dire però riconoscere questa matrice originaria.

Veniamo a quel termine criptico, industrializzazione del quotidiano. Con industrialità (ribadiamo) non parliamo di un settore economico ma, citando testualmente Romano Alquati, “una maniera organizzativa, un metodo organizzativo trasversale, che consiste nel lavorare in reti sia distribuite sia sotto forma di piramidi di comando centrale”. Come si può vedere qui abbiamo già il lavoro remotizzato e distanziato (Alquati non svolgeva una riflessione spaziale, beninteso), in queste reti distribuite al punto che sono terminali di esse le nostre stesse abitazioni. Con i device mobili qualsiasi terminale umano diventa un terminale uomo-macchina di questa rete distribuita. Nella citazione s’aggiunge però anche l’espressione “a forme di piramidi di comando centrale” e questa non è una visione pregiudiziale derivante dalla fuorviante idea per la quale il capitalista abbia sempre bisogno di centralizzare il comando, ma perché lo vediamo concretamente.

Continua Alquati “di rapporti psichici neo-artigianiali, in cui questo lavoro cooperante è pre-scomposto e distribuito mediante un piano informatizzato e digitalizzato che lo pre-integra con una flessibilità scientifica rivolta al risparmio di capacità umana vivente, tempo e capitale e tesa all’innovazione risparmatrice, quindi procede verso nuovi e più potenti sistemi uomo-macchina”.

Ritroviamo in questa definizione alcune invarianti del metodo industriale: la standardizzazione, le alte intensità di scala, ma anche cose nuove come la compresenza di lavoro intellettuale e neo-artigianale, il controllo centrale la il distribuzione a rete, un’organizzazione scientifica peculiare e flessibile volta al risparmio ma anche capace di autocorreggersi in tempo reale. Queste definizioni hanno 20-30 anni ma anticipavano alcune tendenze oggi più semplici da vedere.

L’economista Enzo Rullani, che si potrebbe definire un tecno-ottimista, su questo punto dice una cosa simile: “la digitalizzazione ha incrinato l’assetto dualistico che si basava sulla separazione tra l’industria, che si basava sulla riduzione della varietà a standard, e l’ambiente sociale: i consumi, la riproduzione e i servizi che non erano riducibili a standard” perché i problemi non erano misurabili, non erano prevedibili, non si poteva programmare secondo le alte intensità di scala e secondo la razionalità specifica dell’industria. Il digitale consente di gestire la varietà e superare questa dicotomia. Il digitale consente di estendere oltre i confini dell’impresa i criteri e la razionalità (metriche, calcolabilità) che ieri erano esclusivi dell’industria.

Questa è l’industrializzazione del quotidiano. Diventa molto meno ostica questa affermazione se pensiamo alle modalità con cui vengono ridefiniti i concetti stessi di produzione e creazione di valore, attraverso la previsione dei funzionamenti uomo-macchina, dei comportamenti o la possibilità di fare dei gesti, delle azioni, delle conversazioni che ciascuno di noi compie tutti i giorni, delle informazioni trattabili con metriche e misurazioni tipiche dell’industrialità. Poi, sono lontanissimo dal dire che non è cambiato nulla: il metodo industriale applicato alle fabbriche è differente dall’approccio applicato ai consumi.

Mi sembra infine importante sottolineare un aspetto. Qualcuno potrebbe dire: non si sta esagerando? Non si sta descrivendo un grande fratello, un panopticon immateriale? Sarebbe un’obiezione legittima, ma non possiamo vedere di questi processi solo questa componente, che tutto sommato è la stessa con cui l’industria funziona da più di un secolo. Qui di nuovo Alquati ci dà una mano: nell’industrialità interagiscono, qualche volta si scontrano, due grandi componenti dinamiche (sono, beninteso, due astrazioni): la prima è l’uniformazione, la seconda la definiva sinergia nelle differenze, che richiede una logica diversa, presuppone nuovi spazi non ancora sussunti alla logica del valore e della merce. Qui proprio l’innovazione, la creazione di nuove funzionalità, ha una funzione decisiva: di aprire la strada a nuovi canali di valorizzazione, dove ieri non era possibile. Pensiamo al dibattito sull’innovazione sociale. Si è sempre creato valore in questi settori (welfare, servizi riproduttivi variamente intesi, la formazione), ma non è mai stato industrializzabile. Forse non la sarà mai fino in fondo, ma grazie all’operato sinergico tra grandi big player della rete e una riorganizzazione anche delle modalità, degli scopi stessi dell’insegnamento che vediamo in corso da anni, è possibile introdurre quei criteri di valutazione, al momento solo analogici, basati su criteri presuntamente oggettivi e che si presentano come tali (l’uso del digitale incorpora l’utopia neo-manageriale dell’oggettività; vi sono manager di multinazionali che valutano i propri sottoposti in base al tempo di risposta alle chat, e sostengono in assoluta buona fede il valore dell’impersonalità oggettiva di questo «rating»). E’ facile prevedere una ulteriore diffusione di questi strumenti: con la remotizzazione del lavoro e la diffusione di nuovi modelli organizzativi si andrà verso un rafforzamento degli investimenti nei pacchetti valutativi e altri sistemi di nuovo management algoritmico.

Torno al tema digitale e lavoro. Un buon modo per analizzare il rapporto tra tecnologia e lavoro è domandarsi cosa fanno le macchine: per quali scopi sono progettati? Cosa consentono di risparmiare (se costassero più di quanto rendono non sarebbero introdotte)? Quali relazioni e ruoli «abilitano»? Teniamo conto che in molti settori non c’è macchinizzazione, o perché sono richieste conoscenze pregiate e poco riproducibili (non tutto è sostituibile) oppure perché il lavoro è talmente mal retribuito che non conviene passare alle macchine (ad esempio per intere fasi delle catene logistico-distributive e nel lavoro agricolo).

Abbiamo alle spalle una storia ormai lunga di tecnologie IT applicate per l’automazione delle fabbriche (questo avveniva già negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso). Quindi le IT sono dapprima servite a contenere i costi della produzione materiale e, qualche decennio dopo, anche nel lavoro di trasmissione e gestione delle informazioni, quindi negli uffici. Sono quindi state usate per comprimere i costi di circolazione delle merci (logistica integrata digitale) e per ridislocare in nuove coordinate spaziali la produzione a livello mondiale (catene globali, outsourcing, ecc.); inoltre, per ridurre il costo e accelerare il tempo di produzione e circolazione delle informazioni e dei contenuti digitali. E infine, in tempi più vicini, per ridurre i costi della distribuzione, i costi informativi e d’intermediazione delle merci, materiali e immateriali. Quali sfide si prospettano davanti (ragiono qui ponendomi dal punto di vista del management d’impresa)? Senza pretesa di esaustività:

· il contenimento dei costi del lavoro professionale, intellettuale e scientifico. Non penso solo al famoso software IA che scrive l’articolo al posto del giornalista, ma all’armatura tecnologica che rende più produttivo il lavoro scientifico, in parte sostituendolo in parte integrandolo.

· i costi di monitoraggio del lavoro

· i costi di allineamento rispetto ai comportamenti del mercato, ovvero la prevedibilità, la calcolabilità, la misurabilità ex ante. L’utopia venduta dai sacerdoti del digitale è azzerare l’imprevedibilità, formattare, immaginare un umano calcolabile come lo è il funzionamento delle macchine (la cd. manutenzione preventiva).

· i costi di produzione, gestione e circolazione della moneta

· i costi di conversione di informazioni in dati sul lavoro delle macchine e degli oggetti, ciò che banalmente chiamiamo industria 4.0

· oggi i costi della compresenza, delle relazioni vis-à-vis, della cooperazione basata sulla prossimità fisica

Queste sono alcune grandi questioni che contengono un’utopia perversa, che a mio modo di vedere resta un’utopia. Stiamo parlando come se questi obiettivi fossero tutti semplici da realizzare. Ad esempio, come se il lavoro fosse effettivamente remotizzabile, tutto decentrabile in case governate da un panopticon centrale. Ma non funziona così e i primi a saperlo sono gli imprenditori. Dal loro punto di vista la riduzione dei costi della compresenza è una sfida, che produrrà probabilmente una segmentazione (che non vale per tutti i tipi di imprese) tra una élite manageriale-professionale che presidia le funzioni strategiche delle aziende e che non sarà lasciata lavorare in remoto (il comando non si esercita ancora a distanza), quindi strati di lavoratori molto qualificati per cui varrà l’espressione «lavoro ibrido» (potranno scegliere dove lavorare, ma avranno comunque livelli di socializzazione e di scambio rilevanti), un terzo gruppo che lavorerà prevalentemente in remoto, il cui lavoro può essere monitorato attraverso strumenti a distanza. Ma è solo uno degli scenari (stiamo tuttavia descrivendo situazioni reali).

Qui si apre una grande questione: nella continuità dei metodi industriali, non cambia proprio niente? Se vedessimo soltanto il risparmio, il taglio dei costi (e la maggioranza delle imprese ragiona così) vedremmo solo un aspetto, seppur importante, dell’industrializzazione e della digitalizzazione, ma non vedremmo quali nuovi e differenti rapporti si creano tra imprese, manager e lavoratori, i mutamenti che si producono nella soggettività delle persone nei loro differenti ruoli. Se l’industrializzazione «abilita» l’estrazione di plusvalore da ciò che sta fuori dalle mura dell’impresa, tante attività che eccedono le prestazioni in cambio di salario diventano lavoro. Questo è un argomento che accetto a patto di non produrre una visione indifferenziata: il lavorare in cambio di un salario mantiene una rilevanza distintiva per le persone che lavorano. Posso produrre valore anche quando scarico un video su YT, ma nella mia esperienza ciò non avrà mai la rilevanza (anche in termini di status, di soggettività e di percezione che ho di me stesso), di quella che passa attraverso il lavoro scambiato con salario. Comunque abbiamo una lavorizzazione di attività non organizzate direttamente dalle imprese, quindi una estensione del lavoro gratuito, se si vuole. Su questo il digitale aiuta: dai nostri device svolgiamo tante attività che un tempo erano svolte da salariati, pensate alle banche, alle assicurazioni, alle agenzie di viaggio, agli uffici delle reti distributive. E facendole generiamo dati che possono essere trattati e convertiti in informazioni contenenti valore, o che promettono di contenerlo.

È importante inoltre guardare a come cambiano le relazioni tra le figure sociali della produzione. Il capitalismo nella fase industriale classica aveva il centro la relazione tra management e classe operaia, rapporto conflittuale che nei momenti alti della lotta di classe ha messo in discussione il rapporto sociale medesimo, ma che era anche un rapporto coalizionale, la relazione centrale del capitalismo industriale classico. Il cosiddetto capitalismo delle piattaforme (termine che personalmente non amo molto, ma usiamolo per velocità) si basa su un gioco asimmetrico e coalizionale tra management dell’impresa che possiede l’infrastruttura e l’utente-cliente-consumatore: è questo il gioco strategico abilitato dalla digitalizzazione, a discapito del lavoro stesso (pensiamo alla funzioni di controllo del lavoro riversate sugli utilizzatori dei servizi di piattaforma quando esprimono una valutazione del servizio con un rating). Quindi si creano nuove forme che combinano il vecchio controllo gerarchico, la distribuzione di attività e informazioni, la cooptazione: un aspetto fondamentale di questa nuova industrialità digitale è la capacità di cooptare dentro i meccanismi riproduttivi di valore e rapporto sociale, una molteplicità di di pratiche della vita quotidiana.

Tutto ciò è così lineare? Stiamo descrivendo un processo senza attriti? Decisamente, risponderei di no. Questo è uno dei modi in cui questa transizione viene rappresentata. Nella realtà ci rendiamo conto che non è così semplice neanche per i padroni della rete e per i capitalisti dell’algoritmo mezzificare le persone, l’umano, i comportamenti. Ci sono molto più fallimenti che successi. Inoltre, spesso tendiamo a pensare che queste forme di economia sostituiscano le precedenti: penso che la logica del nuovo capitalismo non sia la sostituzione, piuttosto la sussunzione e subordinazione delle economie manifatturiere e di servizi e l’allargamento del proprio dominio a spazi in cui prima non si producevano profitti, che erano naturalmente funzionali alla riproduzione del sistema, ma anche parzialmente sottratti alla sfera della merce (la formazione e la salute sono campi in questo senso fondamentali).

Comunque, anche la piattaforma digitale necessita di lavoro materiale sottostante. Questo rimanda ad un’ultima questione: che fine fa il lavoro dentro questi processi? Dal punto di vista della parte «proletaria», il processo di digitalizzazione è coinciso con un lungo periodo di indebolimento. Vi sono però retoriche da cui dovremmo liberarci: la prima è la «grande sostituzione», l’idea che le nuove tecnologie sostituiscano il lavoro (su questo non mi dilungo, consiglierei gli scritti di Antonio Casilli, l’autore di Schiavi del clic). A me sembra che viviamo nell’epoca del lavoro infinito, più che della fine del lavoro. Oltre che di tutta la materialità dei processi produttivi, il digitale richiede lavoro vivo che lo faccia funzionare. Mi sembra molto più utile capire le forme concrete dei lavori che si danno nei nuovi processi: tutti parlano di un nuovo lavoro di concezione, di progettazione, di lavoro alto e molto qualificato, ma i lavori poco qualificati e mal pagati si sono moltiplicati (è la tesi della cosiddetta job polarization, abbastanza riconosciuta anche nelle scienze sociali mainstream); è cresciuto il lavoro fuori dalle mura e nelle case, nei termini di cui dicevamo prima; esistono lavori di connessione che permettono al digitale di funzionare e che non sono svolti da grandissimi tecnici ma è il grosso del lavoro fatto dalle nuove figure operaie impiegatizie che si trovano nelle fabbriche e negli uffici. La grande sostituzione secondo me è un’ideologia molto pericolosa. Le statistiche ci dicono che essa si vede dappertutto fuorché sul mercato del lavoro, come dice Casilli parafrasando il vecchio paradosso di Solow.

Una seconda ideologia di cui liberarsi è quella della «grande qualificazione»: si è pensato a lungo ad una correlazione tra espansione delle nuove tecnologie e crescita dei lavori qualificati e creativi. Effettivamente i cambiamenti in corso richiedono alte specializzazioni anche a carattere scientifico-tecnologico, a me sembra però che per la maggioranza in termini qualitativi il lavoro non sia granché migliorato, anche perché complessivamente si è ridotta la forza collettiva e il potere contrattuale dei lavoratori. Per molti aspetti il lavoro esposto al digitale, e ciò vale a maggior ragione per le attività svolte a distanza e in remoto, contiene nuovi livelli di nocività esplicita. Un ricercatore, Dario Fontana, ha scritto un libro sul rapporto tra nuova organizzazione del lavoro e salute dei lavoratori, arrivando a conclusioni che potrebbero anche essere intuitive, ossia che nelle forme organizzative abilitate dal digitale (lui guarda dentro le mura dell’impresa, nelle fabbriche e negli uffici), crescono le nuove patologie (stress lavoro correlato, disturbi muscolo-scheletrici); le inchieste sul lavoro in remoto hanno tutte tematizzato l’intensificazione del tempo e la compenetrazione tra lavoro e altre sfere della vita. Non cresce neanche, come dicevo, la ricchezza delle conoscenze e delle capacità delle persone (che è cosa ben diversa dalle credenziali educative), spesso ciò che ci viene chiesto è piuttosto banale e impoverito, anche se pervaso (ma forse in parte anche a causa di ciò) da strumenti digitali, software sempre più potenti e friendly, calcoli, processi per i quali erroneamente si ritiene che servano grandi conoscenze. Le attività che richiedono effettivamente capacità sviluppate sono meno diffuse di quanto si legge, e peraltro quelle sono effettivamente ben remunerate. L’idea che le capacità importanti risiedano nel far funzionare e applicare i processi digitali è secondo me mistificante; semmai, ma questo valeva anche per i vecchi addetti macchina dell’industria e persino per gli operai apparentemente dequalificati delle linee di assemblaggio, c’è tutta una capacità informale e attuativa non riconosciuta, un lavoro «cognitivo» non pagato, che è quello che effettivamente fa funzionare i processi di produzione e più in generale quelli riproduttivi della società e delle persone, che poco ha a che fare con i bit.

La casa come luogo di lavoro

Da Machina. Intervento di Sandra Buschi, 9 dicembre.

Il lavoro da casa è stato per me il punto di osservazione per leggere le trasformazioni del lavoro contemporanee. Negli anni ho portato avanti vari cicli di interviste e ricerche, in questo intervento riporterò alcuni risultati degli studi sul campo.

È stato naturale per me occuparmene considerando la casa come spazio di lavoro perché, a partire dagli anni ’90, si è palesata la scomposizione e la frammentazione rispetto alle modalità che molti riferiscono al fordismo ̶ ovvero quelle di un lavoro organizzato con tempi e spazi precisi ̶ anche se questa narrazione è perlopiù una mitologia: solo una parte della complessa organizzazione che si è vista si è basata su una modalità di attuazione compatta e precisa, basti pensare al lavoro di genere per avere un esempio alternativo. Quindi, se ricalibriamo la prospettiva dal punto di vista del genere, ci possiamo rendere conto di come persino i «Trenta gloriosi» abbiano visto una certa intermittenza fra non-lavoro e lavoro, tra dentro e fuori.

Mi sembrava interessante ricucire la tradizione della scomposizione del lavoro, processo che parte da lontano. Porre sotto la lente di ingrandimento l’universo del lavoro flessibile, atipico, autonomo ̶ anche se ciascun termine ha un significato proprio ̶ , significa subito rendersi conto di come esso sia stato disperso nella città, di come abbia coinvolto anche la casa come luogo di lavoro: in maniera più o meno pensata, decisa, organizzata, una parte di quel lavoro definito «della conoscenza», «intellettuale» o «autonomo di seconda generazione» ̶ concetti usati per definire quelle attività che hanno perso un sistema di regolazione chiaro ̶ veniva svolto anche da casa. Queste prime letture sono della fine degli anni ’90: ad esempio il libro Il lavoro autonomo di II generazione di Sergio Bologna e Andrea Fumagalli è del 1997. In queste analisi si è analizzato il cambiamento del rapporto tra lavoratori e il lavoro, rapporto che in quegli anni stava prendendo una declinazione diversa, diventando sempre più autonomo e poggiato sulle spalle dei singoli, sempre più indaffarati a costruire delle situazioni di continuità con il lavoro. Inoltre, questo processo coinvolgeva sempre più la postazione del tutto privata che era la casa. Così anche io ho cominciato ad occuparmene, sempre con un’ottica di genere.

La flessibilità, la precarietà e l’intermittenza, infatti, appartengono moltissimo all’esperienza delle donne. La casa come luogo di produzione è stata particolarmente centrale nella storia femminile: la commistione tra lavoro che porta economia e quello che serve per vivere, ha trovato nella casa una sua collocazione. Le storiche del lavoro, in Italia ma non soltanto, stanno facendo una ricerca importante in tal senso. Ad esempio, nel libro di Anna Bellavitis «Il lavoro delle donne nelle città dell’Europa moderna», si fa una ricostruzione che spiega come una parte importante del lavoro femminile già tra Cinquecento e Settecento era compiuto in questo spazio-soglia che è la casa. L’immagine che abbiamo noi della casa è fondata su quello che è successo alla fine dell’Ottocento, su quel processo che si chiama «domesticazione». Ad un certo punto, l’onda lunga della rivoluzione industriale ha separato in maniera netta il lavoro e la casa, la città come spazio pubblico e la casa come spazio privato. Quindi questa distinzione non ce la portiamo dietro dalla notte dei tempi. Gli scritti di Antonella Sarti ci dimostrano come la casa sia da sempre anche spazio di lavoro, non soltanto per le donne: mi riferisco, ad esempio, alle botteghe artigiani; inoltre molte corporazioni e molte attività, come il tessile, hanno avuto storicamente nella casa il luogo di attivazione.

Il nostro immaginario sulla casa viene però mantenuto pervicacemente: basti pensare ai timori e alle discussioni in pandemia, quando si è pensato che molte attività potessero essere svolte in uno spazio concepito come ambiente a sé solido e solitario e separato da tutto il resto.

La continuità, la non-separazione netta tra vita e lavoro, è particolarmente evidente se vista dal punto di vista di genere, senza per questo negare che dagli anni ’70 siano intervenuti dei cambiamenti importanti. In Italia, ad esempio, c’è un’esperienza importante di lavoro a domicilio di cui c’è pochissima memoria, ma che invece è stato abbastanza significativo, determinando un certo scarto, una certa configurazione della società. Il lavoro a domicilio ritorna spesso nelle interviste sullo smart working che ho fatto: molte lavoratrici richiamavano le esperienze di lavoro a domicilio nelle precedenti generazioni della propria famiglia, perciò l’impiego da casa per loro non era una novità.

Inoltre per me la casa era un elemento particolarmente importante dal punto di vista del genere perché sin dagli anni ’70 le femministe l’hanno considerata un luogo politico in cui avvenivano dei processi con una valenza strutturante e strutturale rispetto al resto della società: una parte importante delle declinazioni dei rapporti tra i generi e dei rapporti di potere passavano per quelle attività invisibilizzate che abbiamo imparato a riconoscere come lavoro di cura o lavoro domestico e che sono state messe al centro del dibattito soprattutto dal femminismo marxista.

Mi sembrava che tutto questo universo di contenuti fossero richiamati da quello che stava avvenendo quasi spontaneamente, ovvero quel processo per cui alcune professioni stavano trasformando la casa in un luogo in cui lavorare in una maniera ovviamente differente rispetto al domicilio classico, per vari motivi: ad esempio per la minore pesantezza delle macchine ̶ per cui un computer si può mettere in un angolo della casa a differenza di un telaio.

Per dirla ancora più chiaramente, mi sembrava che guardare ai processi che si stavano attivando dentro casa significasse mettere in mostra un lato poco evidente delle trasformazioni del lavoro complessive, dell’individualizzazione dei rapporti di lavoro. In più era un modo per osservare al meglio il lavoro nell’esperienza femminile. Perciò a metà degli anni 2000 ho fatto vari cicli di interviste a donne con una posizione di lavoro indipendente ̶ partita iva, consulenti del turismo, microimprenditrici, tutte persone che si assumono una certa flessibilità, con un’autoattivazione molto incoraggiata ̶ che erogavano le prestazioni da casa. Mi sono fatta raccontare come si sono organizzate, quali strumenti utilizzassero, come attrezzassero lo spazio di lavoro. Farsi raccontare il luogo di lavoro come spazio fisico è stato un modo per capire l’organizzazione del lavoro e tutto il contesto che c’era dietro. Un’osservazione di dettaglio dunque, come mettere una lente d’ingrandimento per capire cosa stesse succedendo. Ho organizzato poi delle interviste su alcune parole chiave del lessico della sociologia del lavoro ̶ tempi, spazi, diritti, corpo, organizzazione, economia e via dicendo ̶ per capire qualcosa di questi concetti a partire dalle biografie delle lavoratrici intervistate nel dettaglio.

In quegli anni in sociologia del lavoro era molto utilizzato il concetto di «domestication», usato da Bologna e Fumagalli e ripreso poi da Cristina Morini in Per amore o per forza. Il concetto era stato preso da un autore, Silverstone, che lo utilizzava per descrivere quel processo per cui le case hanno iniziato a diventate punto di riferimento di una serie di tecnologie di tutte i tipi (da quelle classiche fino a internet) che addomesticano i nostri stili di vita e che «aprono» le nostre case mettendole in collegamento con quanto c’è fuori. La soglia di casa, dunque, che è sempre stata considerata importante nel lavoro e nell’organizzazione della vita in generale, tra privato e pubblico, viene scompaginata perché con le nuove tecnologie diventa uno spazio con molti più strati da gestire. I sociologi che studiano il tema dell’abitare parlano delle case come nodi interconnessi piuttosto che come ambienti separati, di spazi ibridi in cui alla vita domestica materiale si unisce la vita del lavoro e delle tecnologie, come se dal cyberspazio al fornello di casa ci fossero una serie di continuità.

La domestication per Bologna e Fumagalli era dunque quel processo per cui i soggetti perdono la capacità di guardare alla vita e al lavoro con punti di vista diversificati. Riprendo la definizione che ne danno: «la prima caratteristica del lavoro indipendente è la domestication del luogo di lavoro, l’assorbimento del lavoro nel sistema delle regole della vita privata, anche se i due ambiti del lavorare e dell’abitare sono tenuti distinti. L’esistenza dei nuovi lavoratori si riduce ad un unico ciclo socio-affettivo: quello della vita privata». Definizione interessante, anche se dal mio punto di vista ragiona in termini dicotomici: la preoccupazione di un unico ciclo affettivo ha dietro di sé la nostalgia degli ambiti separati. Come dicevo prima, è però da dimostrare che questi ambiti siano stati sempre così separati, soprattutto se prendiamo come riferimento quello della vita quotidiana.

Un altro importante sociologo del lavoro, Luciano Gallino, condivideva la preoccupazione rispetto allo «spargersi» del lavoro. Ne Il costo umano della flessibilità scrive: «una società in cui è possibile e conveniente lavorare ovunque perché siffatta attività ha perso ogni legame definito con uno spazio definito. La «placeless society» è una delle icone preferite dai soggetti che progettano la nuova economia». Gallino era preoccupato dal racconto che veniva fatto, un lavoro che diventando flessibile, sarebbe stato liberato dai vincoli temporali e spaziali, sarebbe potuto divenire nomade. Questa idea di liberarsi dai vincoli è arrivata fino allo smart working.

Ma cosa succede se, nonostante tutte queste idee sugli spazi che si allentano, si diversificano, si invisibilizzano, ti radichi a casa con il lavoro? È vero che con il portatile si può lavorare dovunque, ma serve comunque uno spazio, che resta un frame significativo dell’azione individuale. Liberare il lavoro da uno spazio fisico e da un orario preciso, inoltre, è un bisogno effettivamente circolato nella nostra società. In Soggettività smarrita. Sulle retoriche del capitalismo contemporaneo, Federico Chicchi scriveva che la spinta verso la destandardizzazione del lavoro provenisse, in parte, anche da una soggettività inquieta, desiderosa di andare oltre.

Le motivazioni che hanno indotto una siffatta destandardizzazione del lavoro sono dunque tante: da un lato, quindi, il bisogno, incoraggiato da tanti punti di vista; dall’altro la necessità organizzativa, come è emerso dalle persone che ho intervistato. In un momento in cui il lavoro autonomo e indipendente non è più quello delle professioni autonome tradizionali (come ad esempio gli avvocati e i commercialisti) ma include anche quelle forme che un tempo sarebbero state considerate sotto il rapporto di subordinazione, costruirsi uno spazio diventa importante. Lo spazio di lavoro, inoltre, contiene una dimensione performativa che racconta l’agency di queste lavoratrici e lavoratori.

Ma cosa è venuto fuori da queste interviste? Che la maggiore fatica sta proprio nell’organizzare una routine che diventa produttiva. È stato molto interessante ascoltare come sia importante organizzare lo spazio in un certo modo perché possa essere produttivo e possa favorire la concentrazione, che non invada troppo l’ambiente di casa ma che, al contempo, sia abbastanza visibile e rispettato dagli altri abitanti della dimora, in modo tale da poter lavorare senza troppi disturbi. Mi sono concentrata molto su questa necessità di disporre confini nello spazio e nel tempo. Anna Carreri e Annalisa Dordoni, due colleghe rispettivamente dell’Università di Milano e di Trento, che stanno lavorando sul lavorare da casa in pandemia, mi hanno suggerito il paradigma del «boundary work», che indica proprio il lavoro sul confine. Lavorare da casa è fondamentalmente uno sforzo per trovare un’organizzazione che funzioni, che crei visibilità e che, al tempo stesso, faccia in modo che il quotidiano non sia totalmente colonizzato dal lavoro. La questione del tempo di lavoro resta fondamentale: se non si pongono dei confini precisi, il tempo di lavoro di dilata in maniera smisurata. Nelle interviste vengono fuori molti stratagemmi usati per regolarizzare il tempo: ad esempio, c’è chi fa suonare la sveglia ogni ora per rendersi conto del tempo che passa; chi organizza la giornata in base agli orari di lavoro di chi è assunto in azienda per fare in modo che ci sia compatibilità con i tempi sociali; ma c’è anche chi è inseguito dal lavoro per 24 ore. Il tempo che non ha forma deve trovarne una per fare in modo che sia pagato giustamente: la questione è come far diventare economia un’organizzazione della vita quotidiana che è impastata da cose che vanno in direzioni diverse.

Le intervistate che lavoravano da casa con queste modalità passavano una parte consistente del tempo a cercare un’organizzazione efficace, un equilibrio tra quanto percepito e tempo di lavoro e tra spazio occupato per il lavoro e quello per le altre attività. Negli anni in cui ho fatto le interviste, si parlava già di smart working, anche se la legge è stata approvata definitivamente solo nel 2017, dopo un iter parlamentare lungo e complicato. Nel 2017 si è dunque arrivati ad una definizione, utilizzata poi negli anni della pandemia. La legge ha una collocazione particolare perché inserita in una serie di articoli sul lavoro autonomo ed è stata molto discussa perché spinta da alcune sperimentazioni fatte soprattutto in alcune città del Nord: si svolgevano, infatti, le «giornate del lavoro agile» che insistevano sull’idea di risincronizzare i tempi di spostamenti verso il lavoro, risparmiando un po’ delle insistenze sulle mobilità delle città, ripensando l’organizzazione complessiva di città ed aziende e cercando di far diminuire le quantità di Co2 emesse.

Fino alla pandemia, la legge è stata utilizzata molto poco perché complicata da realizzare. Lavorare come richiede la legge, un po’ dentro l’azienda e un po’ fuori, richiede che siano organizzati gli spazi anche in esterno. Come dicevo, sono al 2020 la legge non ha funzionato molto, gli accordi individuali sul lavoro agile erano circa 500.000. Era dunque una contrattazione di nicchia attivata nelle grandi aziende molto innovative, con una serie di policy aziendali forti, mentre era scarso l’uso che se ne faceva nella pubblica amministrazione e nelle piccole e medie imprese. Durante la pandemia è stata infine modificata. La legge è così espressa: «Le disposizioni del presente capo, allo scopo di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, promuovono il lavoro agile quale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa». Quindi lo smart working è concepito per cicli da dentro e fuori l’azienda (a differenza del telelavoro) e si definisce chiaramente che è pensato per «incrementare la produttività delle aziende e facilitare la conciliazione vita-lavoro». Inoltre, ha per principale riferimento il lavoro subordinato. In pratica, mi sembrava che con questa legge regolarizzassero alcune cose che io vedevo già svolgersi nel mondo del lavoro precario.

Durante la pandemia in molti si son ritrovati a dover lavorare da casa, cosa che è sembrata un’assoluta novità. Come ho spiegato, invece, la casa era un posto già occupato dal lavoro. Nessuno ha pensato di confrontare la propria esperienza con quelle, abbastanza solide e definite, di chi da almeno 20 anni lavora dalla propria abitazione.

Lavorare da casa è un processo piuttosto complesso che richiede una consapevolezza rispetto agli spazi e che ha dei significati importante perché significa ridefinire il lavoro tout court: il lavoro desincronizzato e dematerializzato cambia nella propria costituzione. Quando gli studiosi che ho citato sopra parlavano del lavoro svolto in un «unico ciclo», scrivevano che produrre fuori dall’azienda, da casa, in uno spazio che un singolo gestisce in solitudine, da una parte garantisce l’ambizione di autonomia, di autogestione e di libertà, dall’altra disciplina fortemente i luoghi di vita. Il contraltare della supposta libertà è la preoccupazione che il dovere del produrre possa conquistarsi tutti gli spazi di vita. Durante la pandemia si è spesso ripetuto che le donne da casa hanno lavorato maggiormente perché le sono tornate le aspettative sul fatto che ad esse tocchi il lavoro di cura, domestico, di gestione della casa. Credo che sia una visione un po’ convenzionale dei rapporti tra i generi e avrei delle cose da dire. In ogni caso, ammesso che sia vero, non si è detto con sufficiente insistenza che è vero che si lavora di più in assenza di limiti dati di tempo, ma a mutare è la natura stessa di quel tempo. In questo impasto di attività diverse nello stesso ambiente, il lavoro diventa più pesante perché non funziona secondo un’organizzazione riconoscibile e già definita e dunque richiede delle capacità produttive particolari: non soltanto una buona gestione di sé ma, più in generale, del saper produrre e non produrre, una gestione dell’attenzione, della tensione, una capacità psicologica forte. Per dirla più brevemente, richiede una disciplina per interiorizzare un numero crescente di compiti.

Dunque è un lavoro che va sempre più in interno: non è solo lo spazio di casa a essere occupato (che può essere anche un’occasione, non va demonizzato a priori, lavorare da casa per due giorni alla settimana può anche essere positivo), ma c’è un disciplinamento continuo rispetto all’interiorizzazione di cose che vanno fatte. La promessa che c’è dentro lo smart working per il lavoro dipendente è quella di commutare l’orario di lavoro in obiettivi raggiungibili. Ma questi obiettivi chi li decide e con quali strumenti? Con quale controllo? In un librino scritto da alcuni pensatori entusiasti dello smart working, che s’intitola «Smart working. Mai più senza» viene scritto che tutto si basa sul rapporto di fiducia tra lavoratore e datore. Penso che ci possano essere delle aziende in cui il rapporto di lavoro si basa effettivamente sulla fiducia, ma, in generale, quello che sappiamo è che sono aumentati tantissimo i sistemi di controllo. In molti casi lo smart working è diventato telelavoro tout court. Trasformare le ore di lavoro in compiti da realizzare è una cosa che bisogna analizzare bene. Ad esempio, per i lavori molto esecutivi si possono stabilire le cose da fare in un determinato tempo; ma se, invece, nel tuo lavoro devi scrivere un report o devi svolgere un’attività che richiede l’immissione di soggettività oppure se all’attività da svolgere è connessa una valutazione, non c’è diritto alla disconnessione che tenga, perché sarai tu stesso a metterci più del tempo che serve. Quindi effettivamente sento questi elementi disciplinanti, non soltanto quelli evidenti ma anche quelli sottili: l’ingiunzione a stare negli obiettivi.

L’altra questione, come dicevo, è quella della conciliazione. Le lavoratrici che ho intervistato (un campione variegato di progettiste, consulenti del turismo, ricercatrici etc.) mi parlavano soprattutto di lavoro, come se volessero sottolineare il loro sforzo. Alle mie domande sull’organizzazione della vita familiare mi rispondevano dicendo che è una cosa molto complessa, stabilita una volte per tutte è gestita con più facilità, come fosse un sistema in cui si mettono dei confini, raccontata con un linguaggio molto lavoristico, con un’organizzazione molto precisa, molto scritta anche. Però era evidente che potevano lavorare bene da casa solo quando l’abitazione era vuota. Anche i meno critici dello smart working si rendono conto che la doppia convivenza di cose da fare nello stesso ambiente crea un sistema di interferenze. La conciliazione probabilmente si recupera nel tempo di spostamento che risparmi, nell’organizzazione che ognuno si dà da solo: ancora una volta la regia delle cose da fare torna sulle spalle dei singoli.

Dopo la legge del 2020, alla fine del 2021 sono usciti dei protocolli che insistono su questioni molto più specifiche: straordinari, permessi etc. In effetti, negli ultimi due anni i lavoratori dipendenti diventati smart worker hanno iniziato a perdere una serie di diritti che gli venivano garantiti, pezzi di welfare che di fatto scompaiono in questo mondo iper-responsabilizzante.

Nell’estate del 2020 ho condotto una ricerca per la Cgil, ho trovato molte differenze rispetto al primo ciclo di interviste. Se nel primo ciclo ho ritrovato l’esigenza di capire come riuscire a lavorare negli spazi di casa smontati e rimontati, nel secondo ho percepito l’impreparazione e l’incapacità di darsi una regola personale ̶ indotta probabilmente dalla pandemia e dall’abitudine a lavorare in ufficio ̶ , un uso notevole delle tecnologie e molto disorientamento per la ridotta socialità. Anche le comunicazioni online (l’uso delle chat), nell’impossibilità di poter cooperare con i colleghi, contribuisce ad aumentare l’orario di lavoro. L’elemento che mi ha sicuramente colpito di più è stato questa sensazione di sentirsi obbligati a saper fare tutto da soli: la perdita della vita d’ufficio è stata letta come una generazione di un ambiente troppo solitario e isolato, dove il lavoro si impoverisce perché la cooperazione è tenuta in considerazione anche in ambienti classici; in questo modo, le intervistate non si sentivano all’altezza di fare tutto da sole (dal gestire il rapporto con le tecnologie, quello con il tempo e via dicendo). La nuova norma richiede di saper fare tutto da sole, di saper reggere un’organizzazione del lavoro totalmente centrata sulla performance, sulla prestazione, sul fare bene e nei tempi giusti e sul non avere bisogno del confronto, dell’appoggio, dello scambio.

La remotizzazione è quindi vissuta come un rapporto esclusivo e isolato con le attività lavorative da svolgere, elemento che crea sofferenza e burnout soprattutto nelle persone con molte situazioni da gestire. In questo caso le case diventavano oppressive e, come reazione, i soggetti si trovano a cambiare postazione di lavoro più volte per sottrarsi dall’oppressione di uno spazio che deve ospitare troppe persone e troppa gestione di sé.

L’economia politica dello smart working

Da Machina. Intervento di Andrea Fumagalli, 15 dicembre.

Parto dicendo che il termine «smart working», diventato ormai di uso comune, secondo me è un abuso, perché in questo tipo di lavoro di «smart» c’è ben poco. Se dovessimo utilizzare una definizione corretta, dovremmo utilizzare «remote working». Il termine «smart», infatti, implica una suggestione di benessere che non sempre cattura la condizione effettiva di chi lo svolge.

Fatto questo breve inciso, queste brevi considerazioni che propongo si svilupperanno su tre livelli per poi concludere con la discussione di alcuni risultati di una ricerca svolta dal «Laboratorio Futuro» dell’Istituto Toniolo dell’Università Cattolica, intitolata Il futuro delle città. Smart working nelle imprese milanesi al tempo del Covid-19 da cui emergono dati empirici particolarmente interessanti. Il primo livello riguarda i processi di trasformazione del lavoro ai tempi del capitalismo delle piattaforme; il secondo tema discute il processo definito di «platformization» del lavoro; nel terzo punto tratterò i problemi relativi alla regolamentazione (o deregolamentazione che dir sì voglia) di questa particolare forma di lavoro.

Partiamo dal primo punto, senza soffermarsi troppo sui particolari. «Capitalismo delle piattaforme» è una definizione diventata di uso corrente in seguito all’omonima pubblicazione del bel libro di Nick Srnicek del 2016. Dico subito che secondo me non si tratta semplicemente di una forma di capitalismo: poteva essere interpretata come tale fino a poco tempo fa, quando lo si intendeva come qualcosa che utilizzava delle specifiche e degli strumenti, in particolar modo un’infrastruttura connessa allo sviluppo tecnologico legato agli algoritmi che si aggiungeva a forme di organizzazione della produzione del lavoro che si erano sedimentati, anche se in forme nuove, nel recente passato. Oggi possiamo chiederci se effettivamente il capitalismo della piattaforme sia diventata la forma predominante di capitalismo sussumendo le altre forme esistenti, tema che meriterebbe di essere sviscerato con maggior tempo. La mia opinione, ma non ho gli elementi per una conferma più sostanziale, è che il capitalismo delle piattaforme oggi sia la punta avanzata del capitalismo cognitivo. Le piattaforme, infatti, si basano sullo sfruttamento di economie di scala di tipo dinamico e hanno a che fare con la produzione intangibile, anche se la forma di lavoro sottostante è tutto tranne che immateriale. Pensiamo ai cosiddetti «clic workers», analizzati in un recente testo da Antonio Casilli (En attendent les robots, tradotto in italiano con il titolo di Schiavi del clic e pubblicato da Feltrinelli). Queste economie di scala dinamiche fanno cumulo sfruttando delle tecnologie (come quelle legate agli algoritmi, alla gestione dei dati, alle nanotecnologie) che hanno una proprietà particolare, assente in quelle tayloristiche: un elevato grado di cumulabilità, il principio per cui, utilizzando una particolare tecnologia, si provoca un incremento dello sfruttamento delle economie di scala e contemporaneamente si facilita il processo di innovazione. La cumulatività è una proprietà di tutte quelle tecnologie che riguardano l’apprendimento, la conoscenza, la relazione, l’informazione. Per fare un esempio che rende utile a chiarire il concetto: più uso una nuova lingua più la apprendo; più la apprendo, meglio parlo; meglio parlo, più la trasformo. Questo meccanismo si è reso evidente con le prime tecnologie informatico-digitali degli anni Ottanta, che hanno prodotto lo sviluppo di software in grado di generare nuovi linguaggi in maniera automatica. Se prima questo processo avveniva attraverso un intervento diretto e più o meno controllato della capacità umana (e quindi il valore era creato da un’attività lavorativa in qualche modo strutturata rispetto alle forme di flessibilità lavorativa sviluppatesi negli anni Ottanta e Novanta), oggi questa cumulatività tecnologica avviene sempre più in maniera automatica. In questo senso, il termine «industrializzazione» nell’accezione alquatiana ha una sua pregnanza perché gli algoritmi di seconda generazione, ovvero quelli che si basano sul deep e sul machine learning, cioè capacità di creare modalità di comunicazione, di manipolazione, di business intelligence che viene fatta sempre più attraverso un processo di neo-taylorizzazione: se negli anni 80 gli hacker dovevano avere delle skills particolarmente sviluppate, oggi la capacità di un algoritmo di II generazione è legata ai clic workers, un lavoro dequalificato e routinario, che non ha un posizionamento fisico predeterminato come l’operaio alla catena di montaggio della fabbrica del Novecento. Se è vero che questa attività lavorativa diventa standardizzata e organizzata, le capacità cognitive e relazionali che questa attività lavorativa obbligano rimangono inalterate, in quanto l’informazione con cui si entra a contatto nel lavoro non è immediatamente materiale. Il capitalismo delle piattaforme, fissando un nuovo modello di organizzazione della produzione, ha definito un nuovo modello di organizzazione del lavoro, ha rinnovato il rapporto capitale-lavoro, questo è un punto fondamentale. Stiamo assistendo ad una metamorfosi del rapporto tra macchina o macchinico e capacità lavorativa umana. Usando uno slogan, potremmo definire questo processo come il divenire macchina dell’umano e il divenire umano della macchina. Questione che non riguarda solo alcuni settori o caratteristiche lavorative: questo processo sta avendo una dinamica pervasiva simile a quella del computer, che è diventato uno strumento utilizzato in ciascun settore produttivo. Per questo motivo penso che oggi il capitalismo delle piattaforme sia la nuova frontiera dell’accumulazione e della valorizzazione all’interno del quale è necessario sviluppare le forme più avanzate di conflitto.

Credo che oggi si stia definendo anche un processo di intrusione di questa infrastruttura tecnologica all’interno del rapporto lavorativo diretto. Arriviamo al secondo punto che vorrei analizzare, quello che abbiamo definito «platformization» del lavoro, oltre che della produzione, della valorizzazione (su cui molti hanno già scritto) o della finanza, come il caso GameStop ci ha mostrato.

In questo processo, il lavoro a distanza rappresenta il caso più significativo. La prestazione lavorativa oggi tende a non avere un rapporto diretto con l’output da produrre: da un lato per via del fatto che quest’ultimo è sempre meno fisicamente definibile; dall’altro, ed è il motivo principale oggi, perché il lavoro oggi viene applicato direttamente sull’infrastruttura tecnologica, a prescindere dall’output che viene prodotto. In pratica, il cambiamento qualitativo della prestazione lavorativa è la questione preminente oggi.

Questo quadro generale che ho descritto serve a catalogare il lavoro da remoto. Arrivo su questo punto. Il lavoro da remoto viene spesso considerato come un esempio di ciò che Sergio Bologna in Lavoratori autonomi di seconda generazione definiva «domestication», ossia il lavorare da casa. Rispetto a questo punto, le reazioni che vengono fuori nella ricerca che citavo prima, come vedremo, sono variegate a seconda dei contesti.

Ma lavoro da remoto non è soltanto lavoro da casa. Per cogliere la trasformazione radicale del nuovo modello di organizzazione produttiva bisogna considerare che il lavoro nel capitalismo delle piattaforme viene applicato a uno strumento, ad un device che può essere utilizzato per un’eterogeneità di scopi. Questa che ho descritto è una forma di alienazione perché chi lavora perde la concezione della finalità dell’attività che sta svolgendo. Chi lavora ha l’illusione di essere padrone di sé stesso perché controlla il device, ma in realtà, spesso, si realizza quello che descriveva Marx con grande arguzia nel capitolo su Macchine e grande industria del primo libro del Capitale, ovvero che non è il lavoratore a controllare la macchina ma è il lavoro morto a sussumere e controllare il lavoro vivo.

La domanda è dunque: la tecnologia ci libera o ci opprime? Secondo me, la tendenza è verso la creazione di una nuova forma di neo-schiavitù, questo per vari motivi. Il più evidente è il fatto che diventa assolutamente indefinibile l’orario di lavoro: attività di vita e attività lavorativa sono estremamente sovrapposte. Questo è un punto su cui le organizzazioni sindacali, non a caso, spingono fortemente per trovare una qualche forma di regolamentazione. Si tratta del cosiddetto diritto alla disconnessione che non è riferito solo ai rider per intenderci, ma a qualsiasi lavoratore collegato alle app o ai device. C’è una sorta di obbligo auto-imposto a rimanere connessi per non perdere le informazioni, pensate all’uso di Facebook o di altri social per molti giovani e non.

Questo è l’esempio più lampante di quanto nel passaggio dal capitalismo cognitivo al capitalismo bio-cognitivo la vita venga messa a valore direttamente dalla piattaforma, senza necessità di un’intermediazione o di un rapporto di lavoro. Sulle piattaforme, infatti, si sviluppa un ingente massa di lavoro non pagato che è la base dei nuovi processi di valorizzazione e di eterodirezione. Il lavoro da remoto, anche se a primo impatto dà un’illusione di libertà maggiore, mette in moto un processo di organizzazione delle piattaforme che è molto rigido e gerarchico, che è controllato in maniera unilaterale da chi gestisce la finalità stessa della piattaforma.

L’altro aspetto importante da sottolineare è la vaporizzazione del luogo di lavoro che viene portata a termine. Orario, luogo e specializzazione del lavoro sono i tre principali cardini su cui si definisce l’organizzazione del lavoro. Il lavoro dipendente a tempo indeterminato, ad esempio, richiede che tutte e tre le caratteristiche siano ben definite e certificate. Col venir meno della definitezza dell’orario e, fenomeno più recente accelerato dall’emergenza pandemica, la destrutturazione del luogo fisico, il lavoro cambia la sua natura qualitativa. Non si tratta solo della domestication di cui parlava Sergio Bologna, che si riferiva ad un particolare segmento, il lavoro autonomo di seconda generazione; possiamo dire che oggi siamo diventati tutti lavoratori autonomi di terza generazione perché, indipendentemente dalla tipologia del contratto, l’organizzazione complessiva tende a sviluppare forme di lavoro con una postazione non fisicamente definita.

Oltre alle importanti questioni di carattere giuslavorista, si staglia all’orizzonte una domanda fondamentale: chi lavora da remoto è proprietario del mezzo di produzione? Tema che meriterebbe un approfondimento specifico, ma per il momento basta porre in evidenza il fatto che viene meno la separazione rigida tra lavoro dipendente o meno. Credo che oggi esistano pochissimi casi di lavoro effettivamente indipendente. I lavoratori dipendenti subordinati con un contratto collettivo di lavoro è oggi di fatto precarizzato, flessibile, incerto, ricattabile. Il concetto cardine per definire dal punto di vista giuslavorista il lavoro nel capitalismo delle piattaforme è quello di eterodirezione, anche se esiste un vulnus di non poco conto: dal punto di vista giuridico non esiste una definizione ufficiale di questo concetto. In ogni caso credo che questo aspetto andrebbe analizzato in maniera interdisciplinare tenendo insieme aspetto giuridico, economico, antropologico e così via.

Sul lavoro eterodiretto, dunque, si apre uno dei punti chiave: chi mette a disposizione i mezzi necessari per il lavoro da remoto? Il lavoratore o il committente? Non c’è chiarezza su questo aspetto considerato che questa materia non è ancora oggetto di regolamentazione, fornendo un assist alle imprese, che continuano ad avere il coltello dalla parte del manico.

Apro una piccola parentesi: questo tema non è completamente nuovo, perché già con lo sviluppo delle catene internazionali del valore negli anni Novanta, i mezzi di produzione dell’output venivano concessi in leasing ai subfornitori, che dunque non ne erano proprietari. Questo faceva dei subfornitori degli imprenditori senza mezzi di produzione, una sorta di lavoro eterodiretto. Questa situazione si sta estendendo di fatto anche alle catene del valore non globalizzate ma locali. Si sta estendendo, infatti, nella grande distribuzione organizzata, nei servizi alle persone nelle aree metropolitane, nei servizi pubblici, grazie all’esistenza di tecnologie algoritmiche che permettono tutto ciò.

Ricapitolando: destrutturazione dell’orario e del luogo di lavoro, rapporto con lo strumento ambivalente ed eterogeneo sono alcune delle questioni che pone la nuova organizzazione del lavoro. C’è un altro grande tema che va introdotto: la conferma della tendenziale individualizzazione del lavoro, questo è il punto politico. L’erogazione della prestazione da remoto diventa l’archetipo del processo di individualizzazione del lavoro. Questo pone un problema sulla soggettività dei lavoratori, che si modifica in tempi velocissimi, con effetti di percezione e reazione diversa tra le varie generazioni. Utilizzo alcuni dati della ricerca che ho introdotto. Innanzitutto anticipo che è una ricerca classica che rientra nell’ambito mainstream. Si riferisce ad un campione di 400 aziende e 700 lavoratori localizzati a Milano e provincia, perciò i risultati non sono estendibili a qualsiasi parte d’Italia.

Passo in rassegna alcuni dei risultati più interessanti. Il primo dato che viene fuori è che il 43% delle aziende di Milano e provincia ritiene che non ci siano le condizioni per rendere attuabile lo smart working. Effettivamente, l’introduzione dello smart working presuppone il superamento di alcuni vincoli, per cui alcune prestazioni possono essere erogate in questa modalità, altre meno. A determinare questa possibilità sono vari elementi: ad esempio, il settore di appartenenza (è abbastanza banale dire che da questo punto di vista il settore maggiormente penalizzato è il piccolo commercio e, in generale, le piccole imprese) o il posizionamento territoriale (perché dipende dalla possibilità di usufruire di reti di connessione di una certa portata). Le imprese che operano all’area metropolitana di Milano, dunque, accedono molto più facilmente allo smart working rispetto a chi è posto nelle periferie. Le aree metropolitane, detto in altro modo, permettono di sfruttare le esternalità positive del territorio. La capacità di fare cumulo nei contatti e nelle connessioni ha permesso ad alcune piattaforme di assurgere a posizioni monopolistiche a livello globale nel giro di 15 anni, cosa impensabile nel capitalismo taylorista-fordista, dove per assumere una posizione di tale predominio servivano più di 50 anni. Quella che è stata definita «network» o «connection economy» favorisce dunque il processo di concentrazione oligopolistica.

Un altro dato interessante della ricerca è che lo smart working prima della pandemia era molto marginale. Oggi, invece, la metà di quel 57% che ha la possibilità di utilizzare il lavoro da remoto, lo usa effettivamente, un’altra metà ha una gestione ibrida.

Per quanto riguarda gli aspetti che riguardano i lavoratori: la ricerca dice che alla domanda «che valutazione dai all’esperienza di lavora da remoto» in una scala che va da 1 a 10, la valutazione data dall’impresa è, in media, 6,64; per i lavoratori invece è intorno al 5,9, in media. Questo dato va poi scaglionato sulle tipologie di lavoro, sul settore etc. Viene fuori una correlazione tra valutazione positiva al quesito e titoli di studio e mansione di servizi avanzati. Man mano che si scende verso le mansioni più dequalificate la soddisfazione tende a ridursi.

Un’altra importante domanda che possiamo porci è: la prestazione da remoto può essere un parametro che va a ridefinire la divisione del lavoro? La prima divisione del lavoro partorita dal capitalismo è quella smithiana della fabbrica di spilli, che ha portato al successo il paradigma taylorista; negli anni ‘70 con lo sviluppo delle tecnologie della conoscenza, si è sviluppata la divisione del lavoro cognitiva, basata sulla possibilità di accedere o meno agli strumenti cognitivi; col processo di internazionalizzazione della produzione abbiamo oggi una divisione spaziale o internazionale del lavoro. Oggi il lavoro da remoto introduce la possibilità di una nuova divisione del lavoro? O invece è il riflesso tra la commistione delle divisioni del lavoro già conosciute? Domanda a cui è difficile rispondere oggi. Dalla ricerca viene fuori che sicuramente la divisione cognitiva del lavoro influenza l’accettazione del lavoro da remoto. Il dato più interessante è che alla domanda sull’incremento della produttività indotto dal lavoro da remoto, le risposte dei lavoratori producono una media di 7 su 10. Anche questo dato non è sorprendente. Chi ha avuto esperienza di questa nuova forma di lavoro si è accorto subito della differenza, che può essere strettamente legata al fatto che non avendo un orario di lavoro tutto il tempo di vita può essere messo a frutto, determinando un aumento sostanziale della produttività. Aumento della produttività non implica però un miglioramento della qualità del prodotto o del servizio erogato, ma si traduce immediatamente in aumento del grado di sfruttamento. Un elemento che viene fuori è che a rispondere con una valutazione più alta sono i lavoratori della provincia che, come abbiamo visto, hanno possibilità ridotte di accedere allo smart working. Questo può essere spiegato dalla riduzione dei tempi di spostamento dovuti allo smart working (perché lavorando da casa non è necessario prendere tutte le mattine un treno per spostarsi). Ma il risparmio di tempo percepito non è effettivo perché il tempo di spostamento si trasforma in lavoro svolto da casa. Chi abita nell’area metropolitana, invece, ha una valutazione più negativa, questo per via della carenza di relazioni indotte dallo smart working. Questo aspetto ha un tratto generazionale: per la fascia giovanile dai 18 ai 30 anni, infatti la carenza di relazioni sociali è maggiormente percepita.

Ultimo aspetto interessante da citare è sul cosiddetto «south working». Alla domanda sulla possibilità di trasferirsi da Milano in caso di smart working integrale, solo il 25% degli intervistati risponde positivamente; chi risponde affermativamente, si sposterebbe in Liguria, Toscana o Trentino, luogo in cui si presume che gli intervistati abbiano le seconde case. Questo fa pensare che a rispondere positivamente siano i lavoratori con redditi medio-alti, mentre chi viene dal Sud non ritornerebbe. Questo può dipendere anche dalla capacità attrattiva di una città come Milano. I risultati della ricerca sembrano dunque confermarci che le grandi trasformazioni del lavoro tendono a individualizzare e a despazializzare il lavoro. A questo punto si pone un altro problema: questa attività lavorativa è regolamentabile? Una eventuale regolamentazione è applicabile e controllabile?

L’automazione della vita

Da Machina. Intervento di Igor Pelgreffi, 16 dicembre.

Quando si parla di software e schermi, si fa spesso riferimento ai processi di assoggettamento che essi veicolano. Seppur importanti, questi processi non saranno il principale tema del mio intervento: mi interessa parlare del corpo, più che del soggetto. Stéphane Vial, filosofo francese, nel suo libro L’essere e lo schermo, che richiama nel titolo il famoso saggio heideggeriano, parlava di «strutture tecniche della percezione» che si modificano con l’esposizione agli schermi. Nel suo libro discute come gli schermi modifichino il corpo su un piano pre-logico, pre-razionale e, dunque, pre-soggettivo.

Nonostante gli apparecchi tecnologici odierni siano concepiti (o almeno quella è la retorica) per essere user-friendly e fluidi, la spesa energetica erogata mentre siamo davanti agli schermi è notevole. Serve la presenza del corpo come resistenza, ma anche come sofferenza e attrito: c’è, in parole povere, un’interattività, anche se su quest’ultimo termine c’è da intendersi. Già negli anni Novanta Zizek scriveva, infatti, che bisognerebbe parlare di inter-passività più che di inter-attività nel rapporto con questi strumenti che danno solo un’illusione di potenza.

Ma dove si incrociano inter-attività e inter-passività? Io credo nel corpo e nella percezione, prima ancora che nell’essere soggetti a questi dispositivi. Il livello corporeo del nostro livello di attenzione mi interessa molto, questione filosofica che ha delle implicazioni immediatamente pratiche come abbiamo visto, ad esempio, con l’esperienza della Dad durante la pandemia: allo studente è richiesta attenzione nella lezione a distanza, ma è una cosa molto complicata perché lo schermo stesso ci porta altrove, ci sottrae anche se c’è la percezione di essere lì, presenti. La retorica sullo schermo come «tunnel dell’attenzione» secondo me è fallace. Nel libro La testa altrove. L’attenzione e la sua crisi nella società digitale, Enrico Campo procede in uno studio dell’attenzione e sottolinea, con riferimento anche agli inizi della società industriale, come l’attenzione sia una costruzione sociale e non un fatto individuale: il modo in cui un soggetto è attento deriva da una dimensione intersoggettiva anche quando tacita e non esplicita, dalle relazioni che in una società si riescono a creare. Questa constatazione, ci dice, è valida ed applicabile anche quando si parla di schermi. Nell’esempio che facevo prima sugli studenti in Dad, allora, possiamo dire che il livello di attenzione di ciascuno va commisurato sul fatto che la mancanza del gruppo-classe si sente, modifica i comportamenti di ogni studente.

Un’altra questione interessante sollevata dal libro è sulla labile (o, perlomeno, non così netta) distinzione tra essere attenti ed essere distratti. L’autore scrive che la distrazione è il rovescio dell’attenzione, fa parte della nostra corporeità: ognuno di noi è in parte attento e in parte no.

Infine, il libro discute il concetto di «neuroplasticità cerebrale» secondo cui, i dispositivi digitali, soprattutto negli adolescenti, plasmano il pensiero, le connessioni tra neuroni e ambiente circostante (in questo caso digitale), in maniera negativa (pensate, ad esempio, come cambi il rapporto con la lettura con le app e i dispositivi tecnologici). Enrico Campo ci dice che questo processo reale è vero ma che, in ogni caso, la crisi dell’attenzione va vista in maniera più complessiva, perché siamo dentro degli automatismi e proprio per questa internità dobbiamo venirne fuori con delle pratiche critiche.

Qui si apre un grosso problema: come si fa? La questione fondamentale è, allora, come si apprendono gli automatismi, processo che passa da un certo rapporto con il corpo: non assorbiamo le pratiche in maniera rapida, senza attriti, ma esiste sempre una resistenza corporea che va rivalutata, anche se minima. In alcuni casi la resistenza può essere palese: basti pensare a quando un qualsiasi soggetto prova a imparare a suonare uno strumento, c’è sempre una certa fatica a diventare un esecutore automatico. In che modo si apprende un determinato automatismo? In maniera critica e lenta o a memoria? Che differenza c’è tra i processi di apprendimento di un robot e di una persona? Gli umani, anche se hanno degli automatismi meccanici, possono apprendere in maniera complessa, tramite errori, processi lunghi, a volte perfino con dolore. Queste modalità influenzano il rapporto col dispositivo automatico che noi utilizzeremo, a differenza del robot che esegue in maniera automatica senza resistenza, non ha lo sforzo dell’incorporazione dell’automatismo.

Faccio questi riferimenti perché c’è una spinta, nel sistema capitalistico in cui viviamo, a far diventare i nostri corpi delle macchine che obbediscono, che imparano rapidamente (quindi, ad esempio, l’insegnante deve trasformarsi in maniera rapida con la Dad). Manca, in queste direttive, il livello del corpo, la deviazione della necessità meccanica, che è un elemento di fastidio che per noi può essere una risorsa. Il corpo come risorsa critica dunque, questo è un punto che va sottolineato.

Riprendo la questione della Dad in pandemia. In quei mesi gli schermi sono diventati veicolo di meccanismi di prestazione (l’insegnante doveva sentirsi all’altezza di fare lezione, in tanti hanno provato ad essere più efficienti in questa modalità nuova), di adeguamento, di algoritmizzazione, di ottimizzazione del funzionamento dei congegni da utilizzare per garantire l’insegnamento. Mi sembra ci sia stata poca resistenza, molto annichilimento, forse era necessario rallentare, prendere tempo. Il corpo-insegnante, concetto che prendo da Derrida e che può significare tante cose, ha prodotto un apprendimento accelerato, acritico, inglobando tutti gli automatismi introdotti che hanno cambiato il nostro modo di insegnare, che hanno introdotto una metrica di efficienza.

Ho fatto questa introduzione per dire che, davanti agli schermi, c’è la cattura dell’attenzione, siamo investiti dagli automatismi standardizzanti, istituzionalizzati (anche se presenti già da prima) dopo la pandemia. L’introduzione degli automatismi non è stata sufficientemente pensata, ragionata. Le app, nella loro implementabilità infinita (perché esiste sempre un margine di miglioramento), hanno indotto un’accelerazione potente, senza curarsi dei nostri corpi che soffrono. Come si mette un freno a tutto questo a partire da un livello relativo alla corporeità?

Quindi: qual è il concetto importante degli schermi? Essi puntano, apparentemente, alla dematerializzazione, estraendo sempre maggiore energia dal corpo e delle relazioni intercorporee. È come se il sistema complessivo avesse bisogno dell’intensificazione, quasi patologica, del nostro spaesamento dopo una giornata di lavoro e di esposizione agli schermi. Gli schermi necessitano queste distorsioni.

La dematerializzazione (anche del lavoro) viene perseguita anche attraverso gli schermi, che vanno intensi come elemento tipico di questa contraddizione perché, attraverso di essi, passa lo sfruttamento intensivo dei nostri sensi e dei nostri corpi, con tutto l’accumulo di stanchezza, di instabilità emotiva che abbiamo. Gli attriti, le fatiche, le ansie, le nevrosi che abbiamo difronte allo schermo, possono essere viste come una messa a valore di carattere estrattivo del nostro corpo lungo questo asse dei processi di digitalizzazione. È il processo di cui parlava Bernard Siegler nel suo libro La società automatica.

È una messa a valore sul piano pre-logico, emotivo, affettivo, cambiano anche le nostre emozioni. Questa distinzione tra corpo e soggetto è molto importante sul piano politico. Il soggetto rimane rilevante per la trasformazione della società, ma prima c’è questo intervento sui corpi, su come si percepisce la realtà circostante, perché il digitale ci modifica: spegniamo lo schermo e pensiamo di essere tornati noi stessi ma non è così, siamo irrimediabilmente cambiati perché perdiamo ciclicità, si modifica il ritmo circadiano, siamo soggetti ad eccitazione mediale e depressione.

Volevo partire da questi elementi per capire quale partita si stia giocando attraverso gli schermi nel processo di industrializzazione del quotidiano.

L’inter-attività, che, ricordiamo è anche inter-passivitivà, diventa importante in un numero sempre maggiori di lavori. Attraverso lo schermo transitano forme di apprendimento degli automatismi. È proprio la fase di apprendimento a essere importante, perché in quel momento forse possiamo agire criticamente e non solo quando il processo è già compiuto e avvenuto.

L’uomo apprende degli automatismi da sempre. Gli stessi atti del camminare, dell’imparare un linguaggio sono degli automatismi. La modalità dell’apprendimento è fondamentale, è differente farlo in maniera affettiva o meccanica. Come ci suggerisce Roland Barthes, il modo in cui noi riusciamo a «truffare il linguaggio», dipende da come lo abbiamo appreso. Il processo di apprendimento è molto complesso, passa da errori, perdite di tempo, da controsensi. Non esiste una logica unilaterale per cui si assorbono delle informazioni dall’alto. In quest’ultimo caso non parliamo di apprendimento ma di trasferimento, di in-formazione e non di formazione. Dove origina il futuro dissenso che può darsi? La possibilità di mettere a critica la società digitale dipende, quindi, dall’apprendimento dei nuovi automatismi, in quel momento lì il corpo ha un suo protagonismo, una sua preminenza.

Merleau-Ponty e altri hanno analizzato come gli organismi viventi apprendono gli schemi motori e la struttura dei comportamenti. A differenza di Pavlov, per cui il processo di apprendimento si dà per riflesso condizionato, il filosofo francese ci dice che ogni organismo vivente non procede per automatismi macchinici ma che esso modifica gli input che riceve nella comunicazione col mondo circostante. Il pattern di dati, dunque, non è solo oggettivo, ma diventa soggettivo, si trasforma mentre viene elaborato. L’elaborazione non è dunque un semplice algoritmo, ma esiste un corpo vivo che assorbe ed elabora, esiste sempre una possibilità di divergere dal precostituito perché apprendiamo di continuo a modificare gli schemi. L’elaborazione, dunque, è già trasformazione, il risultato non è sempre prevedibile rispetto alle premesse. Le riflessioni di Merleau-Ponty partivano da un problema che si poneva in quel momento: maturano, infatti, ai tempi in cui nasceva la cibernetica e si poneva il problema del rapporto tra sistemi viventi e calcolatori.

Dunque: anche i viventi hanno degli automatismi, sono, per certi versi, delle macchine che possono modificare le proprie automaticità. Secondo Merleau Ponty la vita non è altro che la variazione dei nostri schemi.

Il futuro dissenso del comportamento si radica nelle prime fasi dell’apprendimento degli automatismi, dovremmo apprendere le forme sociali (dal lavoro all’andare a scuola) in una maniera critica che lascia aperto il dialogo con il nostro corpo, dove quest’ultimo può essere inteso come resistenza ai nuovi automatismi che nel processo diventano naturali. In questo modo la necessità della materia può prendere una forma diversa, gli input vengono trasformati in maniera non deterministica.

Dunque: costruzione, resistenza, sforzo sono concetti molti importanti. Il corpo è continuamente sotto sforzo per mantenere una certa traiettoria, si può dire che il corpo vivo non è automatico nello stare nel suo automatismo. Spinoza parlava di conatus per esprimere questo concetto. Quindi si può stare nell’automatismo in maniera critica, rivalutando le risposte e ascoltando il nostro corpo.

Dunque, in questo passaggio dell’industrializzazione del quotidiano non facciamo l’errore di pensare che sia tutto dematerializzato: la controparte politica è il nostro corpo, inteso come elemento di resistenza concreto.

Noi siamo i nostri automatismi, siamo il nostro corpo e utilizzare lo schermo è sicuramente interessante perché ci permette di stare dentro la dimensione storico-materiale di oggi, stare dentro la contraddizione, modificando gli automatismi. Possiamo farlo solo se il nostro atteggiamento verso le nostre tecnologie è critico ma non di netto rifiuto: dobbiamo starci trovando dei modi corporei ed emotivi nuovi, capendo come stare criticamente dentro le forme di ripetizione del quotidiano.

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