Da Inimicizie.
Nel 1963, un Carl Schmitt isolato politicamente pubblica sotto forma di testo unico una serie di lezioni tenute nella Spagna franchista dal titolo: “Teoria del Partigiano“.
E’ un testo che traccia una “fenomenologia” della figura del partigiano, con la solita precisione e capacità espositiva di Schmitt, dalla sua nascita fino al presente e al suo possibile futuro.
Il partigiano, dice Schmitt, è un nuovo tipo di combattente sia dal punto di vista delle tattiche, che da quello delle motivazioni e delle caratteristiche. Esce dal dominio dell’inimicizia convenzionale per entrare in quello dell’inimicizia totale: Pertanto, non riconosce più nel nemico uno iustus hostis (nemico giusto) da combattere secondo lo ius in bello (diritto di guerra).
Non è un caso che il partigiano moderno nasca nell’era della sovranità popolare (e quindi della guerra di popolo) a cui da il via la rivoluzione francese.
Finché le guerre venivano combattute da capitani di ventura, mercenari, straccioni e nobili a cavallo, come durante lo ius publicum europeum, la figura del partigiano non aveva motivo di esistere. Nel momento in cui lo stato post-westphaliano, invece, passa dall’essere un possedimento del Sovrano, all’essere la casa di un popolo, di una nazione (o di più nazioni) le masse non solo vengono reclutate da esso per combattere, come avviene nella Francia rivoluzionaria, ma possono anche decidere di farlo autonomamente. Perché ne hanno motivo.
E così nascono i primi partigiani durante le guerre napoleoniche. Prima in Spagna, poi in Germania. Di lì ad oggi, la figura del partigiano cambierà per certi versi, ma mantenendo sempre dei punti fermi: La sua totale inimicizia, la sua natura tellurica (difficilmente opera in aria o in mare) la capacità di combattere contro un nemico più forte sfruttando i suoi legami con la terra e la popolazione, il fattore tempo e l’effetto sorpresa.
Schmitt, nella sua trattazione, arriva a commentare quella che secondo chi vi scrive è ancora oggi la forma più avanzata ed efficace di guerra partigiana: Quella maoista. Definisce Mao “il nuovo Clausewitz”, colui che ha ribaltato la massima dell’autore tedesco (“la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”) trasformandola in “la politica è la continuazione della guerra con altri mezzi”. Il lavoro politico, integrato con quello militare, permette di dare vita ad una guerriglia più coesa, motivata, organizzata.
Arriva anche a capire un’altra cosa, con una notevole lungimiranza: Le guerre partigiane che hanno successo, il più delle volte, usufruiscono del supporto di un attore regolare – indigeno o straniero – che le rifornisce di armi moderne, che fornisce loro rifugio e le supporta in molti altri modi.
Indice
Vietnam: best case scenario?
L’insurrezione di successo più nota dell’era moderna è probabilmente quella ventennale del Viet Cong (Fronte Nazionale per la Liberazione del Vietnam del Sud) contro le truppe americane e l’esercito regolare della Repubblica del Vietnam.
Viene ricordata come una guerriglia popolare, e lo fu senza ombra di dubbio, ma ciò che viene spesso dimenticato è l’apporto decisivo dell’esercito del Vietnam del nord, che riforniva costantemente di combattenti, armi, viveri ed addestramento i Viet Cong attraverso il “sentiero di Ho Chi Minh”; e soprattutto comandava e coordinava le attività dei guerriglieri dal suo quartier generale di Hanoi.
Il Viet Cong poteva contare quindi su due enormi vantaggi: Il supporto di cui godeva presso la popolazione, garantito dal proselitismo politico di stampo maoista, pianificato centralmente ed integrato nella struttura militare – che trovava terreno fertile nella povertà ideologica dei regimi che si susseguirono a sud e nella loro immagine di fantocci di una potenza straniera – e la presenza di un’entità statale e di un esercito regolare appena oltre un confine estremamente difficile da controllare. Entità statale che gli statunitensi si rifiutavano di attaccare se non tramite raid aerei, a causa di varie considerazioni e realtà strategiche.
Questa simbiosi tra Viet Cong, Esercito Popolare del Vietnam e lavoro politico si può osservare, tanto per fare un esempio, nel resoconto post-bellico dei generali vietnamiti sui preparativi per l’offensiva del Tet (da “Vittoria in Vietnam“):
“Nella provincia di Tri-Thien, il colonnello generale Tran Van Quang, membro supplente del Comitato centrale del Partito, divenne segretario regionale del Partito e contemporaneamente comandante del quartier generale della regione militare. Il colonnello generale Le Chuong fu nominato commissario politico della regione militare.
Alla fine del 1967 i nostri preparativi per l’offensiva strategica avevano raggiunto alcuni importanti risultati. Le nostre forze armate permanenti sui campi di battaglia del Vietnam del Sud erano aumentate da 204k a 278k. […] La sola Cocincina aveva ricevuto più di 50k armi di fanteria, compreso un consistente numero di lanciarazzi anticarro B-40. Il numero dei nostri guastatori era stato aumentato in tutte e tre le aree strategiche e nei tre tipi di truppe [Regolari dell’EPV, Viet Cong e Milizia, anche in questa terminologia si nota una struttura fortemente integrata]. Il sistema di comando e controllo era stato adattato alla nuova situazione e alle nostre nuove condizioni, assicurandoci la possibilità di attaccare ovunque contemporaneamente e di penetrare in profondità nei centri abitati.“
In ultima istanza, la conquista da parte dei comunisti dei “cuori e delle menti” della popolazione vietnamita, unità alla loro capacità di resistere per 20 anni (grazie al Vietnam del Nord e alle protezioni internazionali di cui a sua volta godeva, oltreché alle caratteristiche fisiche del terreno) e ad una soglia del dolore decisamente più alta di quella degli americani – che combattevano dall’altra parte del mondo in una guerra difficile da spiegare a casa – sancirono la loro vittoria sull’occupazione e sul regime del sud.
Senza nulla togliere alla determinazione dei soldati e all’abilità di comandanti come il “Napoleone rosso” Vo Nguyen Giap, possiamo dire che i Viet Cong si trovarono nelle condizioni ideali per condurre – e vincere – un’insurrezione.
Le condizioni migliori possibili? No. Sono esistiti scenari ancora più favorevoli.
Come la resistenza italiana, che combatteva contro un nemico già in ritirata rispetto agli eserciti regolari alleati; o la rivoluzione socialista a Cuba che trovò condizioni ancora migliori. Castro, Che Guevara e compagni avevano come avversario un regime estremamente impopolare e senza appoggi militari esterni, tanto che il loro facile successo diede vita ad una teoria della guerra partigiana poi rivelatasi fallimentare: Il foco. Secondo la teoria fochista, non è il reclutamento politico a costruire un sostrato per l’attività militare insurrezionale (come invece sostiene la teoria maoista) ma viceversa un piccolo gruppo di insorti riuscirebbe a creare ex nihilo il supporto politico grazie alle sue gesta rivoluzionarie, in modo da ingrossare le fila dei guerriglieri con un effetto “palla di neve”.
La teoria fu testata nuovamente dallo stesso Guevara in Bolivia, e il suo fallimento costò al guerrigliero la vita.
Afghanistan
A trovare condizioni simili ai Vietcong furono invece i Talebani – della cui vittoria abbiamo già parlato in uno dei primi post sul blog – nella loro ventennale insurrezione contro l’ISAF e il governo di Kabul.
Senza la pretesa di essere esaustivi al 100%, riassumiamole.
Prima tra tutte, l’impopolarità del governo di Kabul, costituito (almeno inizialmente) da minoranze etniche, introduttore dall’alto di elementi estranei alla società tradizionale afghana (come fu anche per il PDPA ai tempi dei mujaheddin) e sostenuto dall’occupazione di eserciti stranieri. Impopolarità sfruttata dai talebani tramite il loro profondo radicamento nelle strutture religiose, tribali e civili della società afghana (Si racconta che le imprese straniere, ingaggiate per la costruzione di progetti in Afghanistan, pagassero proprio i talebani per la protezione fisica dei loro cantieri). Poi, il supporto materiale e logistico dell’ISI, il servizio segreto militare del Pakistan (e in misura minore di altri settori del “mondo sunnita”) dall’altra parte di un confine poroso, in uno stato – il Pakistan – che non veniva attaccato dalla Coalizione se non nell’ambito dei raid aerei inaugurati da Obama con la strategia Af-Pak, dove la “Shura di Quetta” – la dirigenza talebana – poteva comandare l’insurrezione in modo centralizzato in relativa sicurezza.
Infine, come per il Vietnam, una conformazione geografica adatta ad un’insurrezione ed una soglia del dolore nettamente superiore rispetto a quella della controparte straniera – ancora una volta inficiata dalla lontananza del teatro bellico e dalla difficoltà di giustificare la guerra a casa – contribuiscono a creare le condizioni ideali per una guerra partigiana che, infatti, alla fine avrà successo.
Hezbollah e la guerra ibrida
Uno scenario meno favorevole, ma comunque praticabile, di guerra partigiana viene recentemente osservato nella guerra in Libano del 2006, combattuta tra Israele ed Hezbollah.
Hezbollah in questo caso non ha il lusso di avere alle spalle una struttura regolare più o meno sicura, ma deve simultaneamente combattere in una guerra regolare sulla difensiva (senza profondità strategica, in quanto tutto il piccolo territorio libanese è sotto tiro da parte dell’IDF) e combattere una guerra partigiana nelle retrovie del nemico.Ha però il vantaggio di essere ben preparato al conflitto, di avere una soglia del dolore più alta rispetto agli israeliani e di combattere nelle aree sciite del Libano in cui la sua insurrezione trova terreno fertile.
Ci troviamo quindi nella situazione in cui lo stesso esercito, composto da regolari, combatte sia una guerra regolare che una partigiana. Questo porterà Biddle e Friedman a dare a queste tattiche la celebre definizione di “guerra ibrida”, ma in realtà non stiamo assistendo a niente di nuovo: E’ lo stesso modo in cui combattè l’Esercito Popolare di Liberazione contro i giapponesi: Difendendo un fronte e conducendo simultaneamente operazioni di guerriglia e proselitismo politico nelle retrovie giapponesi.
Alla fine l’IDF – soddisfatta dei risultati ottenuti o persa la volontà di combattere – si ritira dal Libano ed Hezbollah può dichiarare vittoria.
E in Ucraina?
Dopo aver esaminato diversi casi di guerra partigiana, guardando all’Ucraina, dobbiamo chiederci: Ne stiamo osservando una? Potrebbe avere successo? In cosa differisce lo scenario ucraino rispetto ad altri osservati prima?
Lo scenario ucraino non combacia perfettamente con nessuno di quelli elencati sopra.
Prima di tutto notiamo questo: Una guerra irregolare su larga scala nelle retrovie russe potrebbe poggiarsi su un safe heaven comparabile al Vietnam del Nord o al Pakistan, e quel safe heaven è l’Ucraina occidentale, che può essere raggiunta dai russi solo con attacchi missilistici che non sarebbero in grado di interrompere il supporto logistico o distruggere i centri di comando e controllo. C’è un però: La permeabilità del fronte russo è di gran lunga inferiore rispetto a quella del confine vietnamita o afghano. Il fronte non è impermeabile come lo era quello del Donbass prima di febbraio 2022, ma i rifornimenti ucraini, specialmente se parliamo di qualcosa di più delle armi di fanteria, non potrebbero arrivare così facilmente nelle retrovie russe, non disponendo della giungla vietnamita o delle terre tribali afghane.
Il problema, in ogni caso, non è il controllo del territorio da parte dei russi (che è scarso) ma l’assenza di una struttura ucraina capace di sfruttarne le lacune, come vedremo dopo.
Per un secondo aspetto, invece, lo scenario ucraino somiglia di più a quello di Hezbollah o dell’Esercito Popolare di Liberazione cinese. L’Ucraina non ha creato una struttura irregolare dedita esclusivamente alla guerra partigiana, come il Vietcong, ma deve combattere nelle retrovie con lo stesse forze armate che in altri teatri vengono invece impiegate in modo regolare. Questo è stato fatto, soprattutto fintanto che le truppe russe si trovavano nel nord-est del paese, durante il loro tentativo di minacciare Kiev. Le linee logistiche russe venivano attaccate, ma si trattava sempre di singole azioni di guastatori dell’esercito ucraino, non di una guerra partigiana che sarebbe potuta essere su scala molto più estesa. In ultimo, le truppe russe si ritirano dal nord-est dell’Ucraina non tanto a causa degli attacchi nelle loro retrovie, quanto a causa della resistenza regolare che trovano nei sobborghi di Kiev, impossibile da sormontare con il limitato numero di truppe a disposizione.
Ci sono stati dei richiami da parte di ufficiali politici e militari ucraini alla guerra partigiana, ma si è trattato sempre di richiami generici, spontanei e disorganizzati, come quello di Stalin folgorato dall’invasione tedesca durante la seconda guerra mondiale; senza nessuna particolare pianificazione dietro. In un caso, ad esempio, il consigliere militare di Zelensky – Arestovich – ha chiesto di sabotare le infrastrutture ferroviarie in Bielorussia. In un altro, sono state distribuite armi di fanteria ai civili in vista di una possibile occupazione di Kiev.
Soprattutto nelle zone “russofone” del paese, i possibili tentativi ucraini di dare vita ad una guerra partigiana su larga scala si scontrano con uno svantaggio che le FAU hanno rispetto ad Hezbollah e all’Esercito Popolare di Liberazione: Non hanno quella struttura “ibrida” politico-militare che permette di passare in modo fluido dalla guerra regolare a quella partigiana.
Non hanno una rete di militanti, di quadri di partito, di moschee sul territorio; non dispongono del sostrato in cui ai due soggetti di sopra è stato possibile dare vita ad una guerriglia efficace. Le forze armate ucraine sono un’organizzazione prettamente militare regolare – apolitica e in fondo burocratica – quindi non adatta alla guerra partigiana. I battaglioni territoriali, tramite cui sono stati mobilizzati i civili, sono integrati nel fronte regolare al fianco dell’esercito professionale.
Impraticabilità o possibilità sprecata?
Il governo di Kiev ha dalla sua parte alcuni fattori che renderebbero possibile una guerra partigiana su larga scala nelle retrovie russe, come la presenza di una base logistica sicura e lo scarso controllo del territorio e delle linee di rifornimento da parte delle truppe russe; ma si trova di fronte anche degli ostacoli, come: La conformazione geografica dell’Ucraina, l’assenza di una rete di mobilitazione che congiunga l’aspetto politico a quello militare e la presenza di autorità politiche alternative nei territori occupati dalla Russia, che nel tempo possono senza dubbio guadagnare un controllo politico e del territorio sufficiente a disinnescare o addirittura rendere politicamente infertile un’insurrezione su larga scala, posto che regga il fronte regolare delle forze armate russe.
Detto questo, quindi, se il fatto che il governo di Kiev non abbia creato una struttura dedita alla guerra partigiana sia stato frutto di un errore, di una scarsa preparazione, o invece di una corretta analisi dei fattori in campo, rimane oggetto di speculazione. E’ una domanda a cui si potrà avere una risposta solo in futuro.
Per il momento, la guerra in Ucraina continua ad essere un affare prevalentemente regolare, tra eserciti in uniforme. Le azioni di sabotaggio nelle retrovie (che peraltro vengono intraprese anche dalla Russia) restano per la maggior parte deputate alle forze speciali di entrambi gli schieramenti, e restano tutto sommato limitate nella loro estensione.