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Un continente che non va avanti
Da Formiche.
Per spiegare la mancata ripresa in Europa, e soprattutto in Italia, di recente si fa sempre più spesso riferimento ad una sorta di rifiuto dell’incertezza da parte dei cittadini, imprese ed investitori: mentre il rischio è accettato e valutato, ed anzi il suo calcolo rappresenta il presupposto del capitalismo, di recente non si investe, né si consuma ma ci si limita a risparmiare perché ci si trova in una situazione in cui ci sono troppe variabili. Questa sorta di sfiducia nel futuro, così incerto, sarebbe paralizzante: si scommette sull’uscita di una pallina bianca, piuttosto che di una nera, anche sapendo che nel sacchetto ce ne sono sei bianche su dieci, ma ci si astiene dal giocare se non si sa quante sono di un colore e dell’altro.
E’ una spiegazione psicologica, consolatoria, che non considera invece un altro caso: nessuno scommette puntando sul nero quando sa già in partenza che tutte le palline nel sacchetto sono bianche. Così come non esiste mercato, nè scambio, quando tutti contemporaneamente vogliono comprare o vendere, non si possono fare scommesse se tutti puntano sullo stesso cavallo, così nessuno investe quando le regole di funzionamento di un sistema sono tali per cui il risultato è predeterminato: la scommessa è persa in partenza, la perdita è sicura.
Probabilmente, è uno schema di questo genere che caratterizza ormai da anni il funzionamento dell’Eurozona, come era stato ampiamente previsto in un articolo pubblicato su Scenari economici nel marzo del 2013. Si mettevano a confronto due scenari a tre anni, col mantenimento dell’euro e col ritorno alle monete nazionali in un contesto di break-up concordato. Quest’ultimo evento avrebbe portato ad un diverso rapporto valutario tra le nuove monete nazionali ed il dollaro: la “nuova lira” si sarebbe svalutata del 12% rispetto al cambio euro/dollaro allora corrente (pari a 1,30), portandosi a 1,16-1,13; il “nuovo marco” si sarebbe invece rivalutato ad 1,48-1,53. Nello scenario di mantenimento dell’euro, la previsione a tre anni comportava un continuo miglioramento della bilancia dei pagamenti tedesca, con un attivo in crescita dal 6,3% al 7% del Pil; di converso, nello scenario del break-up dell’euro e della rivalutazione del “nuovo marco”, l’avanzo tedesco sarebbe stato completamente riassorbito, risolvendo così uno dei più gravi squilibri economici e finanziari internazionali. La Germania avrebbe pagato il break-up con una piccola recessione, visto che il Pil nominale nel 2015 sarebbe stato pari a 96, rispetto al valore 100 del 2012, e con un peggior rapporto debito/Pil: anziché scendere al 76%, come è effettivamente accaduto, sarebbe salito al 90%. Non è un caso che la Germania è attaccata all’euro come un paguro.
Per quanto riguarda l’Italia, nel primo scenario sarebbe passata da un disavanzo delle partite correnti pari allo 0,5% del pil nel 2012 ad un avanzo intorno all’1% negli anni successivi. Con il ritorno alla lira, in tre anni l’attivo sarebbe arrivato al 5%. Con il mantenimento dell’euro, la crescita del pil italiano sarebbe assai faticosa, passando dal -2,4% del 2012 al -1,8% del 2013, per toccare il +0,8% solo nel 2015. Sembrano numeri profetici, visto che è quanto effettivamente accaduto. In uno scenario di break-up, la crescita italiana sarebbe stata più veloce, soprattutto in termini nominali, per via della maggiore inflazione importata con la svalutazione della “nuova lira” in un contesto non recessivo, contribuendo così ad accelerare il miglioramento del rapporto debito pubblico/pil. Mentre nel primo scenario si prevedeva che sarebbe rimasto inchiodato al 129% del pil, nel secondo caso sarebbe sceso al 117%.
C’è un elemento di fondo su cui riflettere: mentre le previsioni relative al contesto del break-up dell’euro possono essere considerate fantasiose, e financo fuorvianti, quelle relative al contesto di mantenimento dell’euro si sono rivelate azzeccate, assai più di quelle dei governi che si sono succeduti: non solo quelle relative all’andamento della bilancia commerciale ed all’andamento del pil, quanto quelle relative al deficit ed al rapporto debito/pil. Le previsioni dei governi si sono dimostrate invece sempre eccessivamente ottimistiche: con orizzonte al 2015, infatti, quest’ultimo rapporto sarebbe stato: 114,4% secondo il Def del governo Monti dell’aprile 2012; 125,5% nel Def del governo Monti dell’aprile 2013; 133,3% nel Def del governo Renzi dell’aprile 2014; 132,5% nel Def del governo Renzi dell’aprile 2015; 132,7% nel Def varato ad aprile scorso.
C’è un secondo aspetto che va sottolineato. Una svalutazione sul dollaro c’è stata: l’ha indotta la Bce con il Qe, facendo passare il cambio dell’euro da 1,30 ad 1,10 nei confronti del dollaro. La svalutazione dell’euro è stata più forte di quella prevista nello scenario del ritorno alle monete nazionali, mentre i benefici sono stati assai più scarsi di quelli ipotizzati nello scenario del ritorno concordato alle monete nazionali: sarebbe però sbrigativo dedurne che fossero quindi campate in aria le positive conseguenze delineate nello scenario del break-up dell’euro, così come sarebbe troppo facile rilevare che si è risolta in una boilla di sapone il terrorismo che si fa correlando automaticamente la percentuale di svalutazione alla crescita dell’inflazione. La svalutazione dell’euro nei confronti del dollaro ha coinciso con una discesa inusitata dei prezzi dei prodotti energetici, non ha avuto alcuna influenza sul commercio infra-Ue, e soprattutto ha rafforzato l’avanzo strutturale commerciale tedesco extra-Ue. Non ha invece sanato gli squilibri commerciali della Francia nei confronti della Germania, mentre ha aggravato nuovamente il deficit commerciale americano verso l’Europa, riportando pericolosamente indietro l’orologio della storia che ha portato alla crisi del 2008. Se il cambio euro/dollaro ad 1,30 era già favorevole alla Germania, la svalutazione dell’euro ha rappresentato un ulteriore regalo fatto dell’Europa all’industria tedesca. In più, l’Eurozona ha esportato deflazione nel resto del mondo: è inammissibile, infatti, che un’area economica che ha già un attivo della bilancia dei pagamenti pari al 2/3% del suo pil, per quanto frutto prevalentemente dell’export tedesco, svaluti la sua moneta. E’ stato ribaltata sull’esterno una contraddizione tutta interna all’Eurozona, aggravando lo squilibrio rappresentato dall’attivo strutturale della Germania: anziché riassorbirlo, l’ha enfatizzato. Peggio la toppa del buco.
In Europa, c’è stato un terzo disincentivo agli investimenti, che non ha nulla a che vedere con l’incertezza o con la psicologia: le riforme strutturali hanno puntato tutto sulla maggiore competitività delle imprese basata sulla riduzione del costo del lavoro e sulla flessibilità in uscita, cumulando così l’attesa di un mercato interno privato sempre più striminzito alla decisione strategica, assunta con il Fiscal Compact, di politiche di bilancio restrittive nel lungo periodo. L’Europa pensa al proprio futuro in modo statico: non compete sul terreno dei nuovi e migliori prodotti e servizi, migliorando la produttività sistemica attraverso le infrastrutture materiali ed immateriali, ma su quello della riduzione dei costi. Un mercato interno che si rattrappisce non ha bisogno di investimenti, mentre la competitività sull’estero è già stata drogata con la svalutazione dell’euro: cercare una spiegazione della stagnazione europea nell’incertezza sistemica suona per questo verso alquanto curioso.
Il quarto ed ultimo disincentivo alla ripresa economica dell’Eurozona è derivato dalla politica monetaria ultra-accomodante della Bce, che ha determinato il dilagare di tassi di interesse negativi sulle obbligazioni: siamo precipitati nella tristemente famosa trappola della liquidità. Anche qui, non c’è nulla che abbia a che fare con la psicologia dell’investitore, o con i postumi degli inganni della finanza speculativa, quando si ha la certezza matematica di vedersi restituita una somma di denaro inferiore a quella depositata o data a prestito. Quando si determinano condizioni penalizzanti per gli investitori, è assurdo attendersi che si precipitino a farlo.
La simulazione pubblicata su Scenari Economici nel 2013 mantiene intatta ancor oggi la sua portata dirompente, non tanto perché prefigurava i supposti vantaggi di una scelta alternativa, quella di un break-up concordato dell’euro, ma perché anticipava chiaramente la situazione di stallo in cui ci saremmo venuti a trovare.
Nessuno prenderà mai la decisione di tornare alle monete nazionali, perché nessuno vuole passare alla Storia per il becchino dell’euro. Ma nessuno ha comunque la forza di correggerne gli errori ed i difetti. Abbiamo costruito in Europa un sistema robotizzato, come lo ha definito Giuseppe Guarino, uno tra i più insigni giuristi italiani: impermeabile a qualsiasi input esterno, a qualsiasi volontà politica, si autodetermina attraverso regole meccaniche, inderogabili: dal divieto di finanziamento monetario degli Stati, al divieto di aiuti di Stato alle imprese, al recentissimo bail-in bancario, passando per il Fiscal Compact con le sue clausole di flessibilità predeterminate, ed all’ESM che può intervenire solo imponendo clausole di severa condizionalità. La realtà non conta, come si constata in questi giorni, leggendo dei miserrimi proventi delle privatizzazioni in Grecia, finalizzate al rimborso dei creditori internazionali, che hanno fruttato una inezia rispetto alle previsioni. E’ una gabbia, una realtà fittizia che paralizza le coscienze, i comportamenti, le prospettive. Meglio parlare di psicologia, di crollo della fiducia, di incertezze paralizzanti: come ai vecchi tempi, “Qui non si fa politica”.
Ecco come l’Europa va a marcia indietro rispetto a Usa e Asia
Da Formiche, pubblicato il 16 settembre dello stesso anno.
Servono due passi in avanti, secondo Mario Draghi, per costruire un’Europa coerente con le aspirazioni di De Gasperi. Intervenendo alle celebrazioni in memoria dell’illustre politico italiano, ha sostenuto che solo uniti i Paesi europei potranno affrontare le sfide cruciali in campo ambientale, sul piano geopolitico, e gli ulteriori sviluppi della globalizzazione. La crisi attuale dipende dalla globalizzazione iniziata negli ultimi decenni del Novecento: può avere esiti tragici, come accadde per quella che iniziò nel 1870, se si torna indietro. La Brexit fa temere il ritorno all’isolazionismo ed al protezionismo, fenomeni che portarono alla costruzione, già nei primi anni del Novecento, di frontiere sempre più alte: erette per garantire sicurezza ai cittadini, anche allora per fronteggiare fenomeni migratori di eccezionale portata. Anche Usa ed Australia chiusero le porte a chi abbandonava la sua terra, accontentandosi di molto poco pur di lavorare. Non servono nuove istituzioni europee, bensì agire sul piano politico: visto che d’è dappertutto sfiducia verso le istituzioni, queste non hanno più una legittimazione di per sé, ma solo se dimostrano di essere utili ai cittadini. In questi anni, fin troppo ci si è lasciati dai problemi derivanti dalla incompleta costruzione dell’Unione Monetaria Europea (EMU). Va ripresa la strategia elaborata nel Documento dei Cinque Saggi, cui lo stesso Draghi ha partecipato, della sovranità condivisa: il meccanismo che porta la democrazia ad un livello più alto, tra gli Stati europei.
Il primo passo in avanti riguarda il completamento del mercato interno: non è il regno dell’anarchia, afferma Draghi. Devono esserci regole comuni, applicate uniformemente.. Ci sono numerose iniziative per renderlo effettivo, da un Fondo comune contro la disoccupazione, agli stanziamenti per il retraining professionale.
La seconda direttrice riguarda il versante esterno: l’abbattimento delle frontiere interne impone un rafforzamento delle politiche in grado di fronteggiare tre questioni: sicurezza, migrazioni, difesa. Le emergenze derivanti dal terrorismo jihadista e dai milioni di persone in fuga da guerre e carestie impongono iniziative congiunte, fino alla costruzione di una difesa comune.
Rispetto agli ideali degasperiani e alle iniziative che rappresentarono i passaggi fondamentali per la costruzione europea, innanzitutto la Comunità del carbone e dell’acciaio, Draghi sottolinea che si trattava di mettere in comune le risorse strategiche che in precedenza erano state contese perché consentivano le politiche di riarmo. Lo stesso si fece con l’Euratom, che avrebbe dovuto rendere cooperativi gli impegni e soprattutto i risultati nel campo della produzione elettrica attraverso il nucleare. Erano settori strategici in cui si condividevano gli sforzi ed i benefici. Anche il Mec iniziò sulla base del principio di cooperazione, mutualizzando gli interessi delle produzioni agricole mediterranee con quelli dell’allevamento in Francia e Germania.
Queste ispirazioni si sono perse. L’Europa si è trasformata in un sistema normativo al servizio della concorrenza sul mercato, dove le ragioni del più forte prevalgono. Dalle crisi per sovrapproduzione in agricoltura siamo usciti con le quote latte, asimmetriche per l’Italia che è Paese trasformatore, con le multe e l’abbattimento delle fattrici. Per non parlare del set-aside, con i contributi erogati per lasciare la terra incolta.
La concorrenza è stata portata all’esasperazione, impedendo la formazione di imprese in grado di competere sui mercati internazionali: gli antitrust hanno determinato il nanismo industriale in tutti i mercati dinamici, dalle telecomunicazioni all’informazione, dalla televisione alla informatica. Non c’è ormai un solo standard “made in Europe”: il Gsm, frutto della cooperazione tra i monopolisti statali, è rimasto senza eredi. Siamo ormai privi di rilevanza. Non copriamo alcun segmento del valore, né quello alto come avviene negli Usa, né quello più basso della manifattura. Siamo schiacciati, mentre la Cina continua a fare passi da gigante.
La Germania si gloria per essere il più grande esportatore al mondo, ma prevalentemente vende automobili: un mestiere non certo all’avanguardia. L’Italia si fa forza con la meccanica, l’abbigliamento e l’arredamento: altri settori più che maturi. I pochi progetti industriali europei di respiro globale, dal Concorde franco-britannico all’Airbus franco-tedesco, risalgono alla notte dei tempi. Se per rafforzare l’Europa si auspica la creazione di un Fondo comune per la disoccupazione, è davvero un pessimo indizio.