Perché gli investimenti in Italia sono al palo

Da Formiche.

Nei conti con l’estero, alla fine dello scorso giugno ha accumulato in un anno un avanzo commerciale di 59 miliardi, con un saldo attivo delle partite correnti di 48 miliardi (3% del pil). Nel frattempo, ci sono stati deflussi per investimenti all’estero per 106 miliardi ed afflussi per 45 miliardi, con un saldo di 61 miliardi. Gli investimenti di portafoglio hanno registrato il record: quelli italiani all’estero sono aumentati di 82 miliardi, mentre quelli stranieri in Italia sono diminuiti di 70 miliardi, con un saldo di 152 miliardi.

Lo Stato, in un anno, paga circa 65 miliardi di interessi (4% del pil), e si indebita ulteriormente per 38 miliardi (2,3% del pil) per sostenere il corrispondente onere degli interessi, dopo aver già utilizzato a questo fine ben 28 miliardi di entrate (1,7% del pil).

Il sistema bancario è paralizzato, avendo ridotto di 25 miliardi e di 12 miliardi il credito ai privati a far data rispettivamente dal giugno 2014 e dal giugno 2015. L’attivo commerciale, il risparmio, così come la liquidità immessa dalla Bce nel sistema italiano, volano all’estero.

Ancor più che di merci, l’Italia è dunque un Paese sempre più esportatore di capitali. Sono numeri che fanno aggrottare le ciglia, anche per il record negativo di fine agosto nell’ambito del sistema Target 2, quando è stato superato con 327 miliardi di euro il debito della Banca d’Italia verso le altre banche centrali europee. Il peggior risultato precedente risaliva all’agosto 2012, con un saldo negativo di oltre 289 miliardi. Allora i capitali fuggivano per il timore di un collasso del debito pubblico, ora defluiscono perché il canale del credito bancario è bloccato, i canali alternativi di finanziamento sono ancora sterili e si guarda con salvifica attesa al governo: tutti ad aspettare chissà cosa e chissà quanto dalla spesa pubblica. Le pessime abitudini, anche nel mondo imprenditoriale, non cambiano mai.

Al calo degli investimenti si deve la caduta del pil ed ora la sua stasi: nel primo trimestre di quest’anno erano appena a quota 70,8 rispetto al valore del primo trimestre 2008, pari a 100. Il sistema produttivo che aveva un forte fabbisogno di ristrutturazione è rimasto, e purtroppo rimane ancora, a macerare. La letargia del sistema creditizio. sottoposto agli stress della Vigilanza Unica, alle pressioni del mercato, al peso delle sofferenze, ed alle prospettive del bail-in, non può essere bilanciata dal maggior deficit pubblico. La strozzatura del sistema bancario rende quindi sostanzialmente inutile, ai fini di una ripresa interna, la politica monetaria ultra espansiva della Bce.

L’andamento crescente degli investimenti di portafogli all’estero sembra strettamente legato all’operatività del Qe, visto che si è passati dai 22 miliardi di euro del 2013 ai 98,7 miliardi del 2014, ai 122 miliardi del 2015. Gli investimenti di portafoglio esteri in Italia sono dapprima cresciuti, passando dai 35,2 miliardi del 2013 ai 97,7 miliardi del 2014, per poi ridursi ad appena 22,5 miliardi del 2015. Nel primo semestre di quest’anno, il trend è proseguito: ci sono stati disinvestimenti netti dall’estero per 15,6 miliardi di euro, mentre gli investimenti italiani all’estero sono aumentati di 54,1 miliardi.

L’analisi per settori mostra che, tra la fine del 2014 ed il primo trimestre 2016, gli investimenti italiani di portafoglio da parte di soggetti diversi dalle banche in azioni e fondi comuni all’estero è salito da 398 miliardi di euro a 446 miliardi, e che il sistema bancario ha ridotto il suo indebitamento sull’estero, passando da 119 miliardi a 65 miliardi. Il debito pubblico italiano verso l’estero è passato da 751 miliardi a 833 miliardi, con un incremento di ben 43 miliardi nel solo primo trimestre dell’anno, somme che includono gli acquisti fatti dalla Bce con il Qe, attraverso la Banca d’Italia.

La situazione è a dir poco florida dal punto di vista dell’export, considerato l’attivo commerciale. Ma anche le risorse finanziarie da destinare agli investimenti in Italia ci sarebbero, o meglio ci sarebbero state: si tratta dei 152 miliardi di euro, una somma pari al 10% del pil, che in un anno sono invece andati all’estero per investimenti di portafoglio, e che sono stati ritirati dall’estero.

La nuova fuga di capitali dall’Italia è il frutto più amaro e paradossale del Qe: l’acquisto di titoli del debito pubblico da parte della Banca d’Italia, per conto della Bce, ha messo in circolazione nuova liquidità, determinando due effetti, al momento negativi. Nonostante le banche abbiano potuto ridurre la provvista sull’estero, non c’è stata alcuna espansione del credito, ma una contrazione: 12 miliardi in un anno, 25 miliardi in un biennio.

La riqualificazione della spesa pubblica, con una contrazione di quella per consumi a favore degli investimenti, non riesce a dimostrarsi efficace in termini di contributo alla crescita. Il conto capitale nel 2015 è ritornato ai livelli del 2010, con 66,7 miliardi, con un incremento nel biennio di 10 miliardi che ha utilizzato l’intero risparmio sulle spese per interessi, ridottesi da 77,6 miliardi del 2013 a 68,4 miliardi del 2015. Nel frattempo, in Italia gli investimenti fissi lordi sono calati di circa 6 miliardi: il contributo pubblico aggiuntivo è stato più che bilanciato dalla tendenza del settore privato a ridurre gli investimenti e dalla incapacità del sistema bancario di finanziarli.

La liquidità immessa nel sistema bancario non viene impiega nel credito: si dovrebbe accantonare nuovo capitale, che non c’è, peggiorando il coefficiente di rischiosità degli impieghi. La si impiega all’estero, magari in altri titoli di Stato che offrono rendimenti negativi, peggiorando i conti economici.
Se il bilancio pubblico italiano ha le mani legate, anche al sistema bancario sono state messe le manette, come se non fossero bastate le difficoltà derivanti dalla crisi. Tutti hanno detto la loro: imponendo il bail-in, il divieto di aiuti di Stato, aumenti di capitale a raffica, trasformazioni, quotazioni in Borsa e fusioni. Mentre si incidono i bubboni del parassitismo e del malaffare, si è provocato uno stato di coma: le quattro piccole banche locali, recuperate dopo la liquidazione, non sono state ancora vendute; nessuna delle banche popolari che dovevano quotarsi in Borsa lo ha fatto; la ricapitalizzazione del Monte dei Paschi si dipana stancamente da una settimana all’altra; i nuovi amministratori appioppano perdite su perdite alle precedenti gestioni, per fare bella figura nel nuovo esercizio.

La redditività delle imprese è calata: per recuperarla, o si tagliano i salari o si fanno investimenti. La prima strada, percorsa da tutti, porta alla recessione. Si invoca allora l’intervento pubblico, salvifico: servono sgravi fiscali e sostegni alle imprese, mentre le banche sono fuori gioco ed i capitali volano all’estero. Se gli investimenti non ripartono, più che rimboccarsi le maniche, basterebbe aprire gli occhi. Svegliarsi.