La strategia di Scipione l’Africano

Da Inimicizie.

Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Renovatio Imperii, lo ripubblico su Inimicizie in versione (notevolmente) ampliata e aggiornata

La grande strategia del generale romano Scipione ci viene presentata elegantemente dal militare britannico Sir Basil Lidell Hart nel suo “Scipio Africanus: Greater than Napoleon“.
Lidell Hart è ufficiale, poi stratega militare, teorico del “new model army” britannico e in seguito della dottrina di difesa continentale durante la guerra fredda, nonché storico militare.

Il pensiero dell’Autore è eterodosso rispetto a quello di molti suoi contemporanei e predecessori, rifiutando la supremazia della grande battaglia e l’imperativo della distruzione dell’esercito nemico teorizzati da Clausewitz e Jomini – praticati da Napoleone e Von Bulow il vecchio – poi culminati nei tritacarne della prima guerra mondiale in cui si raggiunse il nadir del pensiero strategico, arrivando ad adottare come tattica, secondo le stesse parole di Von Falkenhayn durante la battaglia di Verdun, il “dissanguamento”.

Lidell Hart è un teorico dell’”economia del sangue e della forza“, della manovra, studioso di Sun Tzu – e altri autori asiatici – secondo cui il miglior modo per vincere una guerra o una battaglia sia in effetti non combatterla, o combatterla il meno possibile.

Lidell Hart è un teorico della “grande strategia“, un’idea secondo cui la strategia non sarebbe semplicemente la coordinazione dei combattimenti militari nello spazio e nel tempo, bensì “l’impiego del potere in tutte le sue forme nel perseguimento di una politica“. Su questo l’Autore si pone in continuità con Clausewitz e con il suo epigono Mao.

Secondo l’Autore, il comandante non dovrebbe essere solo un abile tattico o stratega militare, ma anche un abile politico e diplomatico.

E’ un’idea ricorrente nella storia del pensiero militare, dal già citato Sun Tzu passando per Machiavelli; che viene espressa ai giorni nostri da pensatori sia anglosassoni (come Mark Galeotti), che russi (Gerasimov, Chekinov e Bogdanov), che cinesi (Qiang e Xiangsui), non dimenticata neanche laddove esiste una formale e rigida separazione dei poteri tra politica e forze armate.

E’ questa la lezione principale che impariamo da Scipione l’Africano, un gigante della tattica ma soprattutto, secondo Lidell Hart – che porta elementi piuttosto persuasivi a riguardo – il più grande stratega della storia.

La grande strategia di Scipione l’Africano

Le lezioni di Scipione provengono principalmente dalla seconda guerra punica (218-201 A.C.) e dalla guerra romano-siriaca del 190 A.C.

Quando Scipione si autocandidò per comandare le truppe romane in Spagna, dove suo padre – a cui, all’età di soli 17 anni, salvò la vita con una carica di cavalleria durante la battaglia del Ticino – era stato sconfitto dai cartaginesi, Roma viveva la sua ora più buia. Annibale, il formidabile comandante barcide che aveva varcato le alpi con gli elefanti e sconfitto le legioni romane più volte nella penisola italiana, minacciava nuovamente Roma.
Siamo all’apice del secondo grande scontro “terra contro mare” (essendo il primo la guerra del Peloponneso) che nei secoli appassionerà ed informerà gli scritti di Halford MacKinder, Alfred T. Mahan, G. K. Chesterton, Karl Haushofer, Carl Schmitt, Aleksandr Dugin.

La campagna spagnola rivela da subito il genio militare e strategico di Scipione l’Africano.

Contrariamente a quanto avrebbe probabilmente fatto Napoleone (secondo Lidell Hart) Scipione, con un contingente inferiore numericamente e senza una solida base d’operazioni, decise di attaccare a sorpresa Cartagena, il fulcro delle operazioni cartaginesi in Spagna che – se conquistata in breve tempo – non sarebbe potuta essere rinforzata dalle due armate comandate rispettivamente da Mago e Asdrubale Barca.

L’acume politico di Scipione – e quindi la capacità di elaborare una grande strategia di successo – vengono evidenziati anche dal modo in cui si rapporta con le tribù spagnole, con ammutinati romani e con potenziali alleati africani.

Livio racconta che – dopo la conquista di Cartagena – dei giovani legionari romani portarono una bellissima donna del luogo al cospetto del comandante romano, porgendogliela come dono. Scipione l’Africano rifiutò, affermando che la giovane donna dovesse essere data in moglie ad Allucio, un capo tribù dei celtiberi di cui era innamorata nonché promessa sposa. Questa sua umanità e magnanimità gli valse il rispetto dei celtiberi e di Allucio in particolare, che decise di unirsi al contingente romano con 1400 truppe di cavalleria.

Una magnanimità e astuzia simile furono mostrate almeno in un’altra occasione in Spagna: Quando durante una battaglia con Cartagine fu catturato un giovane nipote di Masinissa, sovrano berbero il cui regno si trovava sotto l’influenza di Cartagine. Il giovane fu vestito di tutto punto, gli fu donato un cavallo e gli fu assegnata una scorta che lo riportasse sano e salvo dallo zio. Questo episodio contribuì a fare di Masinissa il più importante alleato di Scipione e di Roma durante la seconda guerra punica.

Scipione poi – ironia della sorte sempre nei confronti di Masinissa – seppe anche essere terribilmente cinico.

Quando quest’ultimo prese in moglie la vedova del fu Re di Numidia – Siface – una donna che secondo le trattazioni di Livio e Polibio non aveva eguali in quanto a fascino e scaltrezza, Scipione ordinò a Masinissa – ormai innamorato di lei – di ucciderla. Così quest’ultimo – come atto di pietà – le fece arrivare in tenda un calice avvelenato per “soddisfare i suoi doveri di marito”, che lei bevve senza esitazioni in quanto l’alternativa sarebbe stata la consegna ai romani. E il disonore.

Mappa risalente alla Seconda Guerra Punica, prima dello sbarco a Cartagine di Scipione l'Africano
Mappa risalente alla Seconda Guerra Punica, prima dello sbarco a Cartagine di Scipione l’Africano

Architettura della pace

Dopo i brillanti successi tattici in Spagna, in Africa a Zama – battaglia che di fatto vinse la seconda guerra punica, contro il secondo comandante più abile al tempo, Annibale – e a Magnesia contro Re Antioco (nella guerra romano-siriaca) Scipione seppe essere architetto di una pace sostenibile e duratura. Seppe esserlo nonostante l’impedimento di avere a che fare con un sistema politico competitivo e non autocratico – che spesso e volentieri metteva in dubbio le sue decisioni – a differenza di altri condottieri nella storia come Alessandro Magno e Napoleone.

Sia in Spagna che in Africa fece dei suoi alleati in guerra dei Re, ricoprendoli dei più alti onori e fornendo loro il massimo rispetto che un comandante romano potesse mostrare, ottenendo in cambio una ferrea lealtà.

Scipione l’Africano presentò a Cartagine le condizioni di pace migliori in cui essa potesse sperare: Riparazioni, smantellamento della flotta e stop all’addestramento di elefanti da guerra, oltreché la garanzia che Cartagine non potesse muovere guerra se non dopo l’approvazione di Roma.

E’ vero, si potrebbe anche sostenere, come fece Catone per tutta la sua vita – e Dugin sarebbe stato certamente d’accordo – che Cartagine andasse rasa al suolo e debellata per sempre, in quanto potenza antitetica a Roma per definizione e destinata ad essere sua eterna nemica.

E’ questo forse l’unico punto in cui il ragionamento di Lidell Hart appare più debole. L’Autore sostiene che la caduta di Roma sarebbe stata evitata se la via di Scipione fosse stata seguita nei secoli, ovvero se si fosse proseguito con “la costruzione di una cintura di regni virili ma non romanizzati” intorno all’Impero vero e proprio. Questo avrebbe protetto il vasto Impero dalle penetrazioni esterne.Ma non è stato proprio l’appalto della sicurezza romana ai barbari, mentre a Roma si erano abbandonati i costumi marziali tradizionali in favore di una raffinata opulenza greca e asiatica – per cui Scipione, ben 600 anni prima della fine dell’Impero, veniva già criticato da suoi contemporanei come Catone – a portare alla rovina di Roma?

Una prospettiva anglosassone

Possiamo dire che Lidell Hart in questo caso esprime un punto di vista squisitamente anglosassone e, potremmo anche dire, talassocratico.

La strategia degli imperi anglosassoni, quello britannico prima, quello americano (o angloamericano) poi ricalca in gran parte l’idealtipo scipioniano raccontato dal nostro Autore. Lo spiega in modo molto elegante George Friedman, consigliere del Dipartimento di Stato americano e fondatore del noto think-tank “Stratfor”: L’impero oceanico americano non può combattere da solo in Eurasia, pena venire schiacciato dalle grandi masse demografiche che abitano il macro-continente e lo considerano casa, come avvenuto in Vietnam o in Afghanistan, come avverrebbe in Iran. Il suo intervento diretto deve quindi essere chirurgico e breve quanto “overwhelming” – come prescriveva la “dottrina Powell-Weinberger” ai tempi della guerra del golfo – volta a “sbilanciare” i possibili avversari. La presenza in Eurasia dell’Impero nel corso del tempo, invece, deve essere indiretta e fondarsi sull’appoggio di (stati) “sovrani” locali, possibilmente virili (per citare Lidell Hart) e non necessariamente americanizzati: Gli esempi sono molti, vanno dalla “dottrina Heisenhower” e il Patto di Baghad, all’Europa da riarmare e tenere sotto controllo tramite “Gladio durante la guerra fredda, al Regno Saudita e le “repubbliche marziali” israeliana e ucraina al giorno d’oggi.
Si tratta – su scala planetaria – della precedente strategia britannica nei confronti dell’Europa, da cui gli americani prendono esempio e che sicuramente informa la lettura di Lidell Hart della strategia di Scipione Africano: Sbilancia, coopta, divide et impera.

E’ però una strategia (che si dimostra) fallace per un impero tellurocratico come quello romano, che non ha il lusso di essere protetto da due oceani o quantomeno di essere circondato dal mare. I regni marziali, i barbari che proteggono la raffinata cittadella “greca” che ha deciso di smettere di combattere, possono ad un certo punto rivoltarsi contro l’alleato d’antan. Una potenza terrestre come Roma non può a quel punto permettersi di abbandonarli per cooptarne di nuovi: I barbari sono già alle porte, sono già in casa, e nessuno può fermarli.
La geografia impone necessità strategiche diverse ad una potenza di terra rispetto che ad una di mare, differenza che Lidell Hart non sembra cogliere del tutto: La strategia di Scipione è più adatta all’Impero britannico che a quello romano. Non è un caso che sia stata definita la migliore di sempre da un’autore londinese.

Quel che è certo – in ogni caso – è che sia la via di Scipione che la via di Catone furono migliori dal punto di vista della grande strategia di quello che si fece a Versailles: Una pace estremamente punitiva ma senza debellatio, che piantò i semi per una feroce revanche tedesca ma non costruì un’architettura geopolitica, un sistema internazionale, atti a prevenirla. Appare evidente come gli strateghi romani – nelle loro geniali intuizioni o nei loro errori – abbiano ancora tanto da insegnare, anche 2000 e passa anni dopo.

Sir Basil Lidell Hart (1895 - 1970)
Sir Basil Lidell Hart (1895 – 1970)

Economia della forza

Occorre spendere ancora due parole su questo concetto.

Lidell Hart vede in Scipione l’Africano un fulgido esempio di quello che è un suo punto fisso nella polemica con strateghi suoi contemporanei – ostili alla riforma “new model army” – e predecessori come Clausewitz e Napoleone: Quello dell’economia della forza.

Scipione ottiene i suoi risultati con il minor spargimento di sangue (alleato) possibile, sia dal punto di vista strategico – si pensi alla presa di Cartagena bypassando le armate cartaginesi – che dal punto di vista tattico. Qui va menzionata la “battaglia” di Castra Cornelia, nella cui occasione Scipione infiltrò dei legionari negli accampamenti cartaginesi e numidiani, fingendo che fossero parte del suo entourage diplomatico durante dei negoziati, per poi inviare delle vere e proprie squadre speciali nottetempo a dare fuoco agli accampamenti di Asdrubale e Siface, marciando poi su di essi e causando un massacro oltreché la fuga rocambolesca dei due comandanti nemici.

Per pensare un’azione del genere sono necessari due elementi: Un acume strategico e politico che vada oltre il combattimento militare e una forza militare – professionale – capace di essere altamente mobile. La mobilità fu importante in entrambi gli esempi citati di Cartagena e Castra Cornelia.

E’ il cavallo di battaglia di Lidell Hart a cui – nonostante le opposizioni degli ufficiali di cavalleria conservatori, ostili alle sue proposte di meccanizzazione dell’esercito avanzate dopo la prima guerra mondiale – alla fine si è dato ragione, quantomeno nei paesi che poi diventeranno parte della NATO, che preferiranno forze armate più snelle, mobili e professionali piuttosto che grosse armate “territoriali”. Non è però un modello universalmente applicabile, ma che ancora una volta riflette il punto di vista prettamente britannico di Lidell Hart: Non sarà efficacie per la Georgia – “costretta” a dotarsi di un esercito in stile NATO per entrare nell’Alleanza – davanti alla potenza soverchiante (sebbene farraginosa) russa; non sarà adottato dall’Ucraina, che giustamente predilige (perché necessita di) un grande esercito terrestre, anche se meno professionale.

L’analisi di Lidell Hart della tattica e della strategia militare di Scipione l’Africano è ancora attuale e stimolante 100 anni dopo la sua stesura. E’ una dimostrazione molto convincente di ciò che sostiene Clausewitz: Che la guerra sia un’arte – o un giuoco probabilistico – e che il bravo comandante non debba seguire scientificamente delle prescrizioni immutabili, una “scienza dei comandanti”, ma debba saper studiare la storia militare e trarne dei principi, che poi possano essere sintetizzati e – volta per volta – applicati al caso presente e concreto.

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