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Giappone e Sud-est asiatico
Da Inimicizie.
Nel medioevo, la dinastia cinese dei Ming ampliò le già esistenti fortificazioni nel nord dell’impero, costruendo centinaia di chilometri di mura e torri in pietra, per contenere le incursioni mongole e difendere il proprio territorio.
Qualche secolo dopo, possiamo ancora riscontrare la presenza di una “grande muraglia cinese” nella regione, con qualche differenza: Non si trova in terra – ma in mare – non è composta da torri ma da basi navali ed alleanze, non serve a difendere i cinesi ma a contenerli. Stiamo parlando della “prima catena di isole“.
La prima catena di isole è una “Linea Maginot” marittima, che si estende (le definizioni possono variare) circa dalla punta della penisola della Kamchatka fino al Mar Cinese del Sud, passando per Giappone, Formosa (Taiwan), Filippine e per le coste di Malesia e Vietnam, lambendo Singapore.
Nella dottrina navale americana rappresenta la prima linea della competizione con la Cina; sia in caso di guerra aperta – in cui verrebbe usata per contenere la PLAN ed impedirle di allontanarsi dalle coste cinesi, oltreché come base per attacchi contro la Cina continentale e insulare – che in tempo di “pace” (ovvero di campagne da zona grigia).
In questo post in due parti analizzeremo i punti forti e i punti deboli della prima catena di isole, le possibilità che fornisce agli USA in un ipotetico scontro con la Cina e i modi in cui quest’ultima sta cercando di aggirarla… o di sfondarla.
Suddivideremo la prima catena di isole in tre settori, diversi per condizioni politiche e militari: Il settore nord – composto da Giappone e Corea del Sud – il settore sud, in cui la competizione è incentrata sulle aree economiche esclusive reciprocamente contestate, e infine l’anello centrale, quello più importante: Taiwan.
Il settore nord
Il settore nord della prima catena di isole è il meno movimentato, sia a causa dello scarso interesse cinese rispetto agli primi due, sia a causa dell’alleanza – forte e con poche ambiguità – degli USA con Giappone e Corea del Sud.
L’Impero (è ancora possibile chiamarlo tale) del Sol Levante si sta ormai da tempo riarmando, con il benestare degli USA ed evitando i limiti imposti dalla costituzione con formule giuridiche creative, soprattutto dal punto di vista navale: Può anche vantare due portaerei di recente costruzione, classe Izumo, ufficialmente ritenute dai giapponesi dei “cacciatorpedinieri multiruolo“. Il Giappone gode anche della stabilità politica più elevata di ogni paese del blocco filoamericano, con un governo quasi del tutto ininterrotto del partito liberaldemocratico dal dopoguerra ad oggi.
Una mai sopita inimicizia con la Cina, rinfocolata periodicamente dalle ricorrenze della seconda guerra mondiale e dalle dispute sulle Isole Senkaku, completa il quadro: Il Giappone è sicuramente un alleato su cui gli USA possono contare nella regione – e l’architrave del settore nord della prima catena di isole – nonostante i frequenti disaccordi del primo con la Corea del Sud e con Taiwan stessa.
La Corea del Sud ha una discreta forza navale, anche se non è propriamente inclusa nella prima catena di isole. Rappresenta una possibile spina nel fianco della Cina nel continente, ma non si è sicuri sul fatto che una riunificazione con il nord porterà necessariamente ad un’avanzata dell’influenza americana oltre il 38esimo parallelo: Una Corea unita potrebbe anche diventare uno stato neutrale, o moderatamente filo-cinese, in luce delle enormi opportunità che questo potrebbe portare dal punto di vista commerciale rispetto ad un legame “forzato” con un alleato che risiede dall’altra parte dell’Oceano.
Il settore sud: un lago cinese?
Le situazione si fa molto più calda – e quindi interessante – nel settore sud.
La contesa qua è principalmente una, e si chiama “linea dei 9 tratti“. La linea dei 9 tratti è il confine marittimo reclamato dalla Repubblica Popolare Cinese nel Mar Cinese del Sud – inizialmente tracciato dal nazionalista Chiang Kai Shek – che va a lambire le coste di Filippine, Vietnam, Malesia, Brunei.
In questo mare però la contesa non è solo tra la Cina e gli altri stati, ma si estende a livello bilaterale tra tutti gli attori in gioco: Tra Filippine e Malesia, tra Vietnam e Indonesia. La Cina quindi, pur essendo un attore decisamente più potente degli altri, non trova di fronte a se un’opposizione compatta.
Come agisce la Cina in questo settore? Attraverso quelle che vengono chiamate “tattiche da zona grigia“, tramite cui sta riuscendo a trasformare gradualmente il Mar Cinese del Sud in un lago della RPC. Queste tattiche da zona grigia hanno due capisaldi: Il primo è la costruzione di isole artificiali nell’arcipelago delle Spratly, che svolgono il duplice compito di fungere da base aeronavale e da pedina nella lawfare per il controllo delle Zone Economiche Esclusive; il secondo è l’uso della “milizia marittima” in vece della Marina dell’Esercito di Liberazione Popolare.
La milizia marittima è uno strumento (ora spiegheremo meglio come è composto) che permette di agire al di sotto delle linee rosse dei vari attori in gioco, permettendo di avanzare gli obiettivi territoriali della Cina riducendo il rischio di un’escalation (che se avvenisse potrebbe addirittura mettere la controparte dalla parte del torto) e con un velo di negabilità plausibile.
E’ suddivisibile in due corpi diversi ma complementari. L’Haishang Minbing Yuchuan è un corpo professionale – addestrato dalla marina – di pescherecci che svolgono anche il ruolo di guardia costiera e supporto logistico alle operazioni militari cinesi, equipaggiati tra le altre cose con potenti cannoni ad acqua. In più occasioni le navi dell’HMY hanno speronato pescherecci vietnamiti e filippini in acque contestate, in modo coordinato.
Vi è poi il Nansha Gugan Yuchuan, che non è un corpo paramilitare per se, ma un “consorzio” tra piccole-medie imprese ittiche locali e governo locale cinese: I pescatori ricevono importanti sovvenzioni per operare nelle zone contese, sovvenzioni che in certi casi incentivano le aziende a non svolgere neanche attività di pesca, inviando le navi con un equipaggio scheletro e lasciandole semplicemente ancorate vicino alle isole artificiali della PLAN.
In questo contesto, l’interesse statunitense di contenere la Cina si interseca con quello di paesi come le Filippine e il Vietnam di salvaguardare – o espandere – la propria zona di controllo marittimo. Ma la partnership tra gli USA e questi paesi è tutt’altro che sicura o scontata, diversamente dal caso del Giappone.
Crepi Xi Jinping, viva il corpo dei marines?
Particolarmente interessante in questo contesto è il ruolo del Vietnam.
Il Vietnam è la nazione dei Viet del sud (nam). I Viet del nord ora fanno parte della Cina, e un detto vietnamita dice che la storia del popolo vietnamita sia la storia di chi non è voluto essere cinese.
La recente storia del Vietnam però la conosciamo tutti, e i suoi snodi più traumatici non sono stati dovuti ai conflitti con la Cina (che pur ci sono stati) ma alla lunghissima guerra di liberazione prima contro la Francia, poi contro il Giappone (ora pietra miliare della prima catena di isole), poi nuovamente contro i francesi e in seguito contro USA e alleati del pacifico.
In questa lunga guerra, dall’invasione giapponese in poi, i comunisti cinesi hanno giocato un ruolo fondamentale per la sopravvivenza dell’esercito e delle guerriglie comuniste vietnamite, nonostante la storia ufficiale vietnamita lo ignori deliberatamente: Inizialmente fornendo basi e supporto logistico, poi, dopo la partizione del Vietnam e il ritiro francese, fornendo copertura politico/militare al Vietnam del Nord sulla falsariga di quella che era stata fornita alla Corea del Nord. Gli statunitensi temevano (o sapevano) che se avessero lanciato un’invasione terrestre del Vietnam del Nord si sarebbero dovuti scontrare non solo con il Viet Minh ma anche con l’Esercito Popolare di Liberazione cinese, motivo per cui non lo fecero mai.
Nonostante il legame storico, politico e militare tra i due partiti al governo sia molto forte, però, le relazioni iniziano rapidamente a deteriorarsi in parallelo alla rottura sino-sovietica (iniziata nel 1969) e all’alleanza de facto sino-americana. In questo frangente il Vietnam entra a far parte del campo sovietico, dando il via ad una battaglia per l’influenza sul resto dell’ex indocina francese, dove il Patet Lao è legato a doppio filo con il Vietnam e il Khmer Rouge invece con la Cina.
Quando il Vietnam riesce a rovesciare militarmente il regime di Pol Pot nel 1979, la Cina lancia un’azione punitiva dal nome di “guerra di autodifesa contro il Vietnam“, che si conclude in un nulla di fatto, non riuscendo le forze cinesi ad avanzare.
In Cambogia però continua una guerra per procura, che vede Raegan, Tatcher e Mao sostenere la guerriglia del Khmer Rouge di Pol Pot per tutti gli anni ’80, fino ad una risoluzione pacifica nel 1991.
Ora, non esistendo più l’Unione Sovietica e trovandosi di fronte ad una Cina sempre più ambiziosa in Indocina e nel Mar Cinese del Sud, il Vietnam è portato a cercare sponde nell’ex nemico giurato statunitense. Come al solito è la geopolitica ad orientare le relazioni internazionali.
In ambienti militari USA si parla addirittura di aprire una base navale nel paese, ma – salvo gravi crisi tra Vietnam e Cina – questo potrebbe essere un obiettivo irrealistico: Il Vietnam non può permettersi, per ora almeno, di essere un paese ostile alla Cina. Alla Cina che controlla la foce del fiume Mekong, vitale per il sostentamento di tutta l’Indocina, alla Cina i cui componenti sono fondamentali per le nascenti industrie vietnamite, il cui sviluppo può essere pesantemente condizionato da Pechino.
Il Vietnam è dotato anch’esso di una milizia navale che opera nelle aree contestate del Mar Cinese del Sud, ed è ancora strettamente legato al Laos, ma in Cambogia l’influenza cinese non ha rivali e si vede: E’ di questi giorni la notizia della costruzione di una base navale cinese nel Golfo di Thailandia, la seconda base ufficiale della PLAN all’estero, dopo quella di Djibouti.
Il ritorno di Marcos
Per quanto riguarda l’altro paese al centro delle dispute marittime nel Mar Cinese del Sud – le Filippine – si può fare un discorso quasi speculare rispetto a quello vietnamita.
Le Filippine sono sin dalla loro indipendenza strettamente legate all’ex padrone coloniale – gli USA – che le hanno integrate nel loro sistema economico e le hanno difese (poi, non riuscendoci, liberate) dal Giappone durante la seconda guerra mondiale.
L’ascesa cinese da una parte porta a rinforzare questo legame – la Cina ha di fatto annesso un’isola delle Filippine nel 2012, il Banco di Scarborough – ma dall’altra lo mette in discussione. La potenza economica cinese in Asia, e la sua prossimità con le Filippine, porta a non volere – o potere – antagonizzarla più di tanto. Il nuovo duo presidenziale, formato da “BongBong” Marcos, figlio dell’autoritario ex presidente, e dalla figlia dell’ex presidente Duterte, in campagna elettorale è stato molto chiaro sulla necessità di dover mantenere un buon rapporto con la Cina.
Il problema per gli USA è che, se il Vietnam rappresenta una “piacevole sorpresa” e un potenziale alleato, le Filippine sono invece un attuale alleato su cui è imperniata tutta la strategia americana nel Mar Cinese del Sud, un alleato di cui non si può fare a meno e da cui non ci si possono permettere titubanze.
Ogni volta che si sente parlare, o si legge, un militare americano riguardo la strategia nel pacifico, le Filippine non mancano mai. In una guerra – limitata o estesa – con la Cina le basi americane più avanzate sarebbero quasi sicuramente nell’arcipelago delle Filippine. Il corpo dei marines si sta attrezzando per operare al meglio in questo scenario, per condurre operazioni anfibie in questo territorio.
E’ quindi comprensibile il nervosismo di Washington ogniqualvolta la Cina espande la sua influenza, anche solo dal punto di vista commerciale e politico – nelle apparentemente insignificanti Isole Salomone – nella regione: Se anche le Filippine vengono integrate in un sistema economico, portuale, marittimo e quindi politico cinese nel sud-est asiatico, la posizione strategica americana peggiora sensibilmente.
Con conseguenze che vanno dalla difesa di Taiwan al controllo sulle rotte commerciali.
Taiwan e il controllo degli oceani
Da Inimicizie, pubblicato il cinque giorni dopo.
Il gioiello incastonato nella “prima catena di isole” è l’isola di Formosa (Taiwan), che costituisce la maggior parte del territorio della Repubblica di Cina, la polity indipendente de facto ma non de jure – riconosciuta internazionalmente da pochissimi stati – nata dalla sconfitta dei nazionalisti nella guerra civile sulla terraferma.
Presa Taiwan, la nuova grande muraglia cinese è rotta, e la PLAN libera di operare in gran parte del pacifico.
Il Partito Comunista Cinese vuole reintegrare le isole della Repubblica di Cina, non c’è nessun dubbio su questo: O pacificamente, o militarmente, è determinato a farlo. Lo è sempre stato.
E’ quindi il caso di analizzare possibili scenari e implicazioni, anche nell’ambito di una guerra calda tra USA e Cina che potrebbe essere scatenata da questa crisi.
Attacco a Taiwan, è possibile?
Da quando è scoppiata la guerra in Ucraina, ogni volta che si sente di incursioni cinesi nello spazio aereo di Taiwan – cosa che avviene quotidianamente da diversi anni – in molti corrono a domandarsi se siamo alla vigilia di un’invasione su larga scala di Taiwan. La risposta è semplicemente: No.
Le Forze Armate della Repubblica di Cina contano circa 165mila soldati attivi, con una riserva grande 10 volte tanto. Stiamo parlando più o meno della stessa quantità di uomini con cui la Russia ha invaso l’Ucraina, da Kiev a Kherson, in un’area meno grande di Piemonte e Liguria messe insieme.
Tale concentrazione di truppe dovrebbe essere attaccata via mare varcando lo stretto di Taiwan, e questo porta con se tutta una serie di complicazioni.
E’ una credenza comune che per svolgere un assalto anfibio sia necessario un rapporto di 3 uomini ad 1 in favore degli attaccanti; è una cifra estrapolata dalle operazioni alleate durante la seconda guerra mondiale ma non è del tutto veritiera.
A Guam, ad esempio, le truppe americane erano solamente 1,64 volte più numerose rispetto a quelle giapponesi, in molti altri casi il rapporto è stato di 2 a 1. Durante la guerra delle Falklands, addirittura, la task force britannica si trovava in pesante inferiorità numerica, a centinaia di chilometri dalla prima base disponibile, e riuscì comunque a svolgere egregiamente il suo compito.
Inoltre non tutti i soldati, ovviamente, devono essere sbarcati in una sola ondata. Chi parte dal presupposto che la PLAN debba trasportare 300mila marines in una volta sola – e non abbia dunque le navi per farlo – parte da un presupposto totalmente errato.
Nonostante questa premessa, però, resta comunque vero che l’ondata iniziale verso Taiwan coinvolgerebbe migliaia, probabilmente decine di migliaia, di soldati, al fine di assicurarsi una o più teste di ponte.
Questo assalto richiederebbe preparazione da parte dell’EPL, una preparazione che non potrebbe passare inosservata e darebbe tempo a Taiwan – e ai suoi alleati – di prepararsi a loro volta; motivo per cui è assurdo pensare che possa avvenire dall’oggi al domani. L’assalto avverrebbe inoltre in un ambiente pesantemente contestato e fortificato; sia durante il “periodo di allarme” in cui ai preparativi del PCC seguirebbero quelli della RC – mobilitazione delle riserve compresa – sia durante i 70 e passa anni precedenti.
Le Marina della Repubblica di Cina, dotata anche di due sottomarini olandesi – con i primi indigeni che vedranno la luce nel 2025 – è nella posizione di causare perdite nel contingente da sbarco cinese, servendosi della relativa protezione della costa est dell’isola. Ulteriori danni sarebbero arrecati dall’aviazione e dalle moderne batterie anti-nave (sia harpoon americane che indigene) basate a terra.
Le navi della PLAN dedicate ad operazioni anfibie – le classi Yushen e Yuzhao – possono trasportare circa 10mila uomini alla volta; l’ELP si dovrebbe quindi ricorrere alla requisizione di traghetti civili, come fece la Royal Navy durante la guerra delle Falklands, servendosi di una nave da crociera. Queste navi però, per quanto possano essere modificate, non hanno adeguati sistemi di difesa e sono più vulnerabili di una nave della marina militare; subirebbero per forza di cose perdite più elevate.
E’ comunque ragionevole pensare che – nonostante tutte queste difficoltà – l’ELP riuscirebbe a creare una testa di ponte sull’isola principale della RC. Una volta creata la testa di ponte, inizierebbe una pesante guerra d’attrito nell’isola che, se dovesse andare fino in fondo, comprenderebbe anche la più grande battaglia urbana dalla seconda guerra mondiale, nella capitale di Taipei.
Anche senza immaginare una guerra tra Cina e USA (scenario che analizzeremo in seguito), i mercati globali subirebbero uno shock dovuto all’interruzione delle operazioni di una grande compagnia taiwanese: La TSMC.
La Taiwan Semiconductor Manufacturing Company è la compagnia produttrice di chip più importante al mondo, l’unica in grado di produrre chip di ultima generazione. Si dice che pesi su più del 50% del mercato globale dei chip.
La stragrande maggioranza dei suoi siti produttivi si trovano nell’isola di Formosa, e sarebbero sicuramente colpiti da attacchi missilistici e raid aerei cinesi, anche se indirettamente. Ne risulterebbe una carenza di chip a livello globale, impossibile da risolvere a breve termine.
Scenari limitati
Esistono anche dei territori della RC, meno conosciuti rispetto all’isola di Formosa, che potrebbero essere presi dalla RPC senza subire perdite ingenti.
Stiamo parlando della “Provincia di Fujian“, l’entità amministrativa che raccoglie tutte le isole minori della RC ed è la casa di circa 150mila cinesi, e delle Isole Pescadores, parte della Provincia di Taiwan, con una popolazione di circa 100mila civili. Sul loro territorio non si trovano industrie di chip o risorse naturali particolarmente importanti, ma la loro presa sarebbe comunque una vittoria per il PCC, e alcune isole sarebbero il terreno ideale per poi preparare e supportare un’invasione dell’isola prinicpale.
La Contea di Kinmen ad esempio si trova ad una manciata di chilometri dalle città cinesi di Quanzhou e Xiamen, e l’ELP potrebbe nel 2022 potrebbe invaderla senza eccessive difficoltà, nonostante negli anni ’70 ci abbia provato senza successo.
Potrebbe anche non averne bisogno, siccome il territorio è sempre più dipendente economicamente dal continente, e la popolazione è sempre più favorevole a iniziative di integrazione, che potrebbero un giorno culminare in una riunificazione pacifica.
Vi sono poi le Isole Matsu, a 20 km dal continente, in una situazione simile.
La piccola Isola di Minhua, che potrebbe ospitare una base aereonavale in prossimità della costa nord di Formosa.
Se l’EPL tentasse di invadere le Isole Pescadores troverebbe una resistenza più efficacie, in ragione della loro maggiore prossimità a Formosa rispetto al continente, ma un’operazione per annetterle sarebbe in ultima istanza fattibile, fornendo in seguito una base ad una distanza appena superiore alla gittata dell’artiglieria convenzionale, rispetto all’isola di Formosa.
Va detto che però, se il PCC non ha ancora tentato operazioni di questo tipo dopo gli anni ’80, un motivo c’è: Il risultato, oltre alle sanzioni economiche da parte di alcuni paesi, sarebbe probabilmente una dichiarazione di indipendenza da parte di Taiwan, che fin’ora supporta invece la “Politica di una sola Cina”, la dottrina secondo cui sia il governo di Taipei che quello di Pechino (e con loro la comunità internazionale) ritengono la Cina una e indivisibile, pur non essendo “d’accordo” su quale sia il governo legittimo.
Una dichiarazione di indipendenza di Taiwan renderebbe inevitabile una guerra con la RPC, che l’ha sempre ritenuta una linea rossa da non oltrepassare.
L’ELP si troverebbe dunque a dover invadere comunque Formosa, avendo però dato più preavviso del necessario al governo e alle forze armate di Taipei, oltreché agli alleati di Taiwan.
Ricapitolando, nonostante la probabilità di prevalere militarmente (ad un costo alto) sia buona per l’EPL, un’operazione totale o limitata non è ancora stata lanciata per una serie di motivi che si sommano tra loro: Le sanzioni economiche unite al costo materiale della guerra, la volontà di voler ancora provare a conseguire un’integrazione pacifica, il fattore tempo che gioca a favore di Pechino… e la possibile risposta da parte di USA e alleati nel pacifico.
Ambiguità strategica
La risposta degli USA ad un’invasione di Taiwan è la grande incognita per gli strateghi del PCC.
Washington mantiene (nonostante i tentativi di Biden di mandarla in malora) una politica di “ambiguità strategica” riguardo alla difesa della RC. Come minimo fornirebbe sistemi d’arma in quantità a Taiwan, ma è sarebbe ragionevole aspettarsi un’atteggiamento più “spericolato” rispetto a quello tenuto nei confronti della Russia in Ucraina.
In primis perché Taiwan – a differenza dell’Ucraina – è vitale per gli interessi americani e perché la Cina – a differenza della Russia – è davvero una superpotenza in grado di scalzare il primato americano. In secundis perché il ridotto arsenale nucleare cinese, e la stretta dottrina “no first use“ di Pechino lasciano agli USA (e a possibili alleati come Australia, Regno Unito e Giappone) la possibilità di lanciare attacchi convenzionali contro la Cina o gli interessi cinesi, senza il pericolo immediato di una risposta nucleare.
Che forma prenderebbe il conflitto se diventasse una guerra calda tra USA e Cina?
USA e Cina: guerra globale
Un paragone interessante è quello della guerra dei sette anni (1756 – 1763) che vide combattersi da una parte una coalizione tra Gran Bretagna, Prussia, Hanover, Portogallo e alcuni stati germanici, dall’altra Francia, Spagna, Svezia, Impero Russo, monarchia asburgica e altri stati germanici.
Sul continente la coalizione francese godeva di schiacciante superiorità numerica, e la Gran Bretagna si accorse in fretta di non poter condurre nessuna operazione anfibia contro la costa atlantica francese, limitandosi a fornire supporto all’ingeniosa difesa di Federico il Grande.
Diversa era invece la situazione fuori dal continente europeo.
Essendo il territorio britannico in sicurezza, grazie al canale della manica e alla superiorità della Royal Navy, l’esercito di Sua Maestà fu in grado di lanciare operazioni offensive contro gli interessi francesi e spagnoli sugli oceani, nelle indie e nelle americhe, infine prevalendo.
Gli USA si troverebbero di fronte ad uno scenario simile: A Formosa dovrebbero combattere sulla difensiva (o aiutare i taiwanesi a farlo) e operazioni anfibie nel continente sarebbero del tutto fuori discussione, ma oltre la prima catena di isole si troverebbero enormi interessi cinesi, vulnerabili di fronte al controllo americano degli oceani, per cui passa il 90% del volume commerciale globale.
La potenza commerciale cinese, linfa vitale dello sforzo bellico, si sgretolerebbe lentamente passando per lo stretto di Malacca – controllato da Singapore, ferreo alleato dell’anglosfera – per il canale di Suez, per Gibilterra – territorio britannico – per Panama, in cui gli Stati Uniti sono intervenuti poco più di 30 anni fa.
Entrambe le parti in causa sono al corrente di questa realtà strategica, e si stanno preparando di conseguenza. Come?
La Cina da una parte, come abbiamo detto in un post precedente, sta cercando di spostare la maggior parte del suo commercio dal mare alla terra; dando vita a rotte ferroviarie, attraverso il continente eurasiatico, in grado di connetterla con i suoi mercati di riferimento sfuggendo al controllo della US Navy. Dall’altra, sta lavorando per espandere le basi da cui la PLAN – la marina più grande al mondo – potrebbe operare in un futuro conflitto: Non solo tramite le basi ufficiali di Djibouti e Cambogia, ma anche e soprattutto tramite una rete di porti dual-use controllati da aziende cinesi, capaci di fornire quantomeno dei servizi di supporto alle navi della marina cinese. Porti di questo tipo esistono in tutto il mondo, dallo Sri Lanka ad – in un prossimo futuro – Alessandria d’Egitto, un tempo base fondamentale della marina britannica.
Gli USA da parte loro cercano di aumentare il loro già ampio controllo sui nodi dei flussi commerciali marittimi, supportando il Fronte Popolare di Liberazione del Tigray nella recente guerra civile etiope, e inviando nuovamente un contingente di militari in Somalia, all’entrata dello stretto di Bab El Mandeb e a poca distanza da Djibouti, dove si trovano non solo una base navale cinese, ma anche una statunitense, una italiana, una britannica, una spagnola, una francese, una tedesca, una saudita.
Washington cerca anche di contrastare i progetti infrastrutturali cinesi nel mondo, tramite una combinazione di competizione economica (carota) e pressione politico-militare (bastone). I casi di questo tipo sono innumerevoli… Isole Salomone, Guinea Equatoriale, Italia.
Due esponenti del milieu militare americano, sull’autorevole sito “War on the Rocks” propongono anche un potenziale utilizzo della guerra di corsa, che sfrutti la vasta disponibilità di dollari e armi di cui godono gli USA per imporre enormi costi al commercio cinese. E’ un’idea che viene spesso rieccheggiata in podcast e pubblicazioni semi-ufficiali americane.
Gli USA, oggi, si trovano in vantaggio in un conflitto globale contro la Cina – quantomeno dal punto di vista prettamente militare – ma la decisione di “morire per Taiwan” non sarebbe presa a cuor leggero.
Sarebbe corretta dal punto di vista strategico, ma il costo umano ed economico che comporterebbe non sarebbe facilmente digerito dal fronte interno, già – di fatto – in uno stato di guerra civile a bassa intensità, lontano dalla compattezza ideologica e patriottica che permetteva – al netto degli importanti movimenti di opposizione – di combattere cruente guerre di spedizione in Vietnam e in Corea.
Il PCC può contare, oltreché sui fattori temporale e demografico che giocano in suo favore, sul fatto che i cinesi combatterebbero per la loro terra, per la loro Taiwan; mentre i ragazzi americani, britannici e australiani dovrebbero andare ad affrontare missili ipersonici dall’altra parte del pacifico, mentre a casa la vita continuerebbe in una situazione di quasi normalità – in una condizione di sicurezza fisica – al netto della pesante recessione. Per una terra che non è la loro, come furono ad esempio le Falklands, o le Hawaii.
Come insegna Clausewitz la guerra è uno scontro di volontà.
La superiorità americana sugli oceani sarebbe sufficiente per sopperire ad un pesante “squilibrio di volontà” a favore dei cinesi, se la crisi precipitasse nel prossimo futuro? La domanda resta aperta.