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Il problema tedesco e gli anni della Merkel
Da Inimicizie.
Il 18 gennaio 1871, nella galleria degli specchi della reggia di Versailles, i principi tedeschi acclamano Guglielmo I come primo “Imperatore Tedesco”. Nasce così la Germania unita, e con essa il fattore principale che influenzerà la geopolitica del continente fino ai giorni nostri: Il problema tedesco.
La formazione nel cuore (se non geografico, politico e socioeconomico) dell’Europa di una nazione demograficamente vivace, politicamente unita e sicura di se, in grado di sviluppare in poco tempo una potente base industriale grazie anche alle sue condizioni geografiche favorevoli – tra tutte una vasta rete di fiumi navigabili – naturalmente portata a, usando le parole di Henry Kissinger, “manovrare liberamente tra est e ovest“; scompaginerà (insieme all’unificazione della meno importante, ma comunque importante Italia) totalmente l’equilibrio di potenza europeo post-westphaliano.
Il problema tedesco può essere riassunto schematicamente in questi termini: Una Germania troppo forte tenderà a sfruttare la sua posizione centrale e la sua base industriale per egemonizzare l’intero continente (vedasi prima e seconda guerra mondiale) una Germania troppo debole renderà l’Europa Centrale terreno di scontro tra potenze esterne (vedasi guerra fredda e giorni nostri). Un sano equilibrio viene raggiunto durante gli anni di Bismarck, che utilizza responsabilmente la posizione di potere tedesca per assicurare stabilità in Europa, delimitata ad est dagli imperi russo e ottomano, ad ovest dall’Oceano Atlantico egemonizzato dall’Inghilterra. E’ un equilibrio che però non sopravvive alla fine della carriera politica del suo creatore (ma più che altro, va detto, all’esaurimento di territori d’oltremare “vergini” da spartire tra le potenze europee per placare le tensioni nel continente).
La riunificazione tedesca del 1991 – conseguente alla vittoria americana nella guerra fredda – pone nuovamente il problema di una Germania non più troppo debole, ma potenzialmente troppo forte. La superpotenza egemone, assurta al ruolo di grande organizzatrice dell’Europa nel suo momento unipolare, è chiamata a ripensare il legame atlantico, originariamente costruito secondo la celebre formula: “tenere gli americani dentro, i russi fuori, e i tedeschi sotto“. All’inizio degli anni ’90 i russi sono indubbiamente fuori e in totale disgregazione interna. Per assicurare che ci restino – e magari anche che vengano inglobati in ottica della futura competizione con la Cina, temuta dagli strateghi americani sin dal diciannovesimo secolo – si progetta la metodica estensione dell’Alleanza Atlantica a tutta l’Europa Centrale, ai Balcani e idealmente anche al Caucaso. In alcuni quadranti, come quello baltico o centroeuropeo, questo obiettivo è facilitato dall’entusiasta adesione dei governi e delle popolazioni locali – di certo con molti meno dubbi rispetto a noi sul fatto che la NATO nasca e muoia come alleanza anti russa, e non come club di scacchi e di buon vicinato, di cui i timori da parte di Mosca risultano quasi incomprensibili – animate da un radicato, e sicuramente storicamente comprensibile, sentimento anti-russo. In altri, la situazione si prospetta più complicata.
Paradossalmente però, una grande vittoria su uno dei 3 “fronti” della strategia americana in Europa, rischia di mettere a repentaglio gli altri due: Sarà possibile tenere gli americani dentro e i tedeschi sotto se – in parallelo alla riunificazione della Germania – verrà meno la necessità/volontà europeo-occidentale di cercare protezione militare rispetto alla superpotenza sovietica? Se l’Europa – a naturale trazione tedesca – si sentirà sicura, o quantomeno in grado di dialogare ad armi pari e senza complessi d’inferiorità con una Russia notevolmente ridimensionata e una Cina lontana, Washington correrà il rischio di “perdere” l’Europa come parte del suo impero, e di doverci invece avere a che fare come polo separato ed uguale, talvolta addirittura avversario.
Washington, per perseguire i suoi rinnovati obiettivi, si muoverà principalmente su 3 direttrici.
La prima di natura “positiva”: Dare un nuovo casus belli alla NATO, nella fattispecie quello di guidare la costruzione del nuovo ordine mondiale a guida americana (con la promessa di un “bottino di guerra”, però, da spartire con gli alleati europei). Una crociata che a seconda delle amministrazioni americane è giustificata o dall’intervento umanitario “multilaterale”, o da una vocazione messianico/religiosa, unilaterale e muscolare, ma che si muove sempre in una direzione unica e coerente. I risultati sono misti: La tutto sommato entusiasta adesione tedesca e italiana (è proprio il riconoscimento tedesco di Croazia e Slovenia ad aprire la crisi) all’intervento nei Balcani – animata dalla volontà di avanzare l’interesse nazionale in una regione ove era retrocesso dopo la seconda guerra mondiale – e quella anglofrancese alle primavere arabe – in primis in Libia – è accompagnata da una grossa frattura nel 2003 sulla questione irachena, e dal logoramento della ventennale guerra afghana, pur inizialmente supportata da un’ampia coalizione.
La seconda di natura “negativa”: Riconfigurare gran parte dell’apparato d’intelligence angloamericano – l’alleanza Five Eyes, ma anche l’ex rete Gladio – dalla competizione con l’Unione Sovietica a quella con i principali attori europei, in primis la Germania, per mantenere l’integrità dell’impero americano in Europa, sventare la formazione di un forte centro di potere autonomo e salvaguardare il primato tecnologico ed economico americano, anche (ma non solo, come vedremo dopo) attraverso lo spionaggio industriale. Il rapporto del Parlamento Europeo del 2001 sul sistema di sorveglianza americano ECHELON, stima nell’ordine delle decine di miliardi di attuali euro all’anno il danno subito solo dall’economia tedesca negli anni ’90. Si cita ad esempio il contratto da 6 miliardi $ perso da Airbus in Arabia Saudita ed aggiudicato da McDonnel-Douglas nel 1994, dopo che un’intercettazione dell’NSA scopre il pagamento di una tangente alle autorità del Regno. Il furto da parte di un agente della CIA – poi espulso dal paese – nel 1997 di segreti tecnologici detenuti presso il Ministero degli Affari Economici tedesco. Lo spionaggio dell’impresa eolica tedesca Enercon da parte dell’NSA a beneficio dell’impresa americana Kenetech, risultante nel furto di brevetti su nuove promettenti tecnologie e segreti industriali. La lista dei soli casi documentati è lunghissima, e da l’impressione di una vera e propria guerra commerciale.
La terza – probabilmente la più ambiziosa – di natura ibrida: Scommettere sul processo di integrazione europea, per dare vita ad una struttura capace di controllare gli stati membri, ma non di unirli nella loro potenza. Per togliere sovranità agli stati membri senza però trasferirla al livello europeo. Perché controllare una capitale (disfunzionale) è infinitamente più semplice che controllarne 27.
Questo è il concetto di “Antieuropa” che Lucio Caracciolo – direttore di Limes – delinea nel suo ultimo lavoro, “La pace è finita“: “Un continente stabile ma non troppo, da loro [USA] strategicamente dipendente” […] “[Un europeismo] incapace di unire gli europei, invece utile per pacificarli, adagiarli nel declassamento inevitabile dopo aver collettivamente perso due guerre mondiali”.
Per chi – come chi scrive – è abituato a pensare la strategia anglosassone come una perpetua quanto razionale tensione a dividere l’Europa e l’Eurasia per evitare la formazione di una potenza continentale eccessivamente forte, il sostegno di Washington al processo di integrazione europea può sembrare un controsenso: Diventa coerente solo nell’ottica di Antieuropa, se la “creatura europea” è ontologicamente, strutturalmente subordinata all’impero d’oltremare. Se l’Europa “unita” è quella anglofila e addirittura anglofona pensata da Richard von Koudenhove-Kalergi dopo la Grande Guerra, o quella “trotzkysta” di Altiero Spinelli – il cui momento fondativo sarebbe dovuto essere una guerra aperta contro l’Unione Sovietica – o ancora quella del (poco apprezzato in patria) Jean Monnet, che nel 1973 lavora insieme a Kissinger per portare a compimento l’”Anno dell’Europa“, e legare indissolubilmente la neonata “Europa dei 9” a Washington con un nuovo “Patto Atlantico”. Non certo un Impero Romano, “sacro romano”, carolingio, tedesco o – ancora meglio – non egemonizzato da una singola nazione ed autenticamente europeo.
Al centro di queste “3 strategie” si trova la figura più importante del “terzo dopoguerra” tedesco ed europeo: Angela Dorothea Kasner, oggi – dopo un matrimonio di brevissima durata ai tempi della DDR – Angela Merkel.
L’ascesa politica di Angela Merkel
L’ascesa politica di Angela Merkel negli anni ’90 è fondamentale per capire la sua successiva ratio di governo; che eserciterà per ben 16 anni dal 2005 al 2021. Il suo è un cursus honorum costellato da una serie di mosse spregiudicate, zone d’ombra, tradimenti e aiuti esterni che è sicuramente interessante esplorare.
Angela Dorothea Kasner vive gli anni migliori della sua vita nel Brandenburgo, ai tempi sotto la sovranità della Repubblica Democratica Tedesca: Vi è stata trapiantata dai suoi genitori – un pastore luterano ed un’insegnante di inglese – raro caso di una famiglia migrata dalla Germania Ovest alla Germania Est, e non viceversa. La sua vita oltrecortina è piuttosto agiata, forse anche troppo: La famiglia di “Kasner il rosso” (così è soprannominato suo padre, per via della sua posizione filo-DDR in seno al clero protestante) ha ben due automobili, viaggia regolarmente all’estero (anche in paesi capitalisti) e permette ad Angela di iscriversi alla prestigiosa Università Karl Marx di Lipsia. Lussi che nella DDR sono concessi a pochi, probabilmente a nessuno che non abbia legami con la Stasi; il potentissimo servizio segreto della Germania Est, che conta circa un ossie su 60 tra le fila dei suoi informatori. Per oliare la sua carriera, Merkel – di certo non una socialista convinta – milita per 20 anni tra le fila della Libera Gioventù Tedesca, movimento giovanile della SED, blocco socialista che costituisce il partito unico tedesco-orientale.
Con il crollo del muro, la giovane Angela immediatamente si rende attiva nella politica della DDR democratica prima, e della Repubblica Federale unificata poi, con un’ascesa inarrestabile dalle varie sconfitte subite alle urne. Segnata dalla disfatta – senza nessuna esclusione – di ogni suo rivale politico. Alle prime elezioni libere nella DDR si candida con Risveglio Democratico, un partito supportato dalla chiesa luterana e presieduto dal pastore Ranier Eppelman, per lungo tempo oppositore interno alla DDR e forte di legami con i servizi occidentali. Nonostante il pessimo 0,9% alle urne del suo partito – in cui peraltro riveste il marginale ruolo di responsabile della propaganda – riesce a diventare vice-responsabile della comunicazione nel governo di Lothar De Maiziere, politico della CDU orientale anch’egli legato al mondo del protestantesimo.
A riunificazione in corso, entra nella CDU e guadagna – quasi inspiegabilmente – il favore nientemeno che di Helmut Kohl, con cui si incontra negli uffici della Cancelleria Federale prima di candidarla nella circoscrizione di Vorpommern-Rugen – in cui verrà eletta con le prime elezioni pantedesche – venendo in seguito nominata al Dicastero per i Giovani e le Donne del primo governo post-riunificazione.
Nel febbraio 1991 si ha la prima vittima illustre dell’ascesa politica di Angela Merkel: Lothar de Maiziere – ora numero 2 della CDU – viene colpito da un dossier riguardante una sua presunta collaborazione con la Stasi durante la guerra fredda. Viene formalmente prosciolto dall’accusa, ma è costretto a dimettersi a causa dell’incessante campagna politica e mediatica. E’ l’inizio dell’impiego dei “dossier della DDR”, una versione amplificata del “dossier Mitrokhin” che in Italia sarà fonte di continui scandali e rivelazioni; talvolta veri e talvolta fabbricati.
Angela si candida alla presidenza della CDU nel Brandenburgo, e perde rovinosamente alle elezioni primarie. Anche in questo caso però, riuscirà a trasformare una sconfitta alle urne in una scalata politica: Helmut Kohl la candida all’altra carica lasciata vuota da De Maiziere – quella più prestigiosa di Vice-Presidente della CDU – che in questo caso riesce ad ottenere.
Il secondo pretendente a ruolo di delfino di Kohl – Gunther Krause, il rivale ossie di Angela – cade in disgrazia nel 1993 in seguito ad uno scandalo sui rimborsi parlamentari, che causerà la sua purga dalle liste della CDU: Merkel si candida al ruolo lasciato vacante da Krause – Presidente della CDU del Mecklenburg-Vorpommern – e la ottiene.
La strada per la segreteria della CDU – dunque per la Cancelleria – si apre con un altro scandalo: La tangentopoli del 1999, incentrata su tangenti versate alla CDU dall’industria bellica tedesca. A saltare questa volta sono proprio la testa di Helmut Kohl e – appena un anno dopo – dell’ultimo avversario rimasto alla Merkel nella corsa per la Segreteria: Wolfgang Schauble, che nel febbraio del 2000 si dimette da capogruppo della CDU al Bundestag, relegandosi per sempre al ruolo di numero 2 del partito che per i 20 anni successivi sarà dominato solo da una persona: Angela Merkel, uscita completamente illesa sia dai dossier DDR – nonostante i forti legami suoi e della sua famiglia con il regime – che ora dalla tangentopoli tedesca.
Conserva la Presidenza della CDU anche quando alle elezioni del 2003 la coalizione di centrodestra sceglierà di candidare Edmund Stoiber, Presidente della CSU – e non lei – come sfidante di Gerhard Schroder, perdendo rovinosamente. Il momento di Angela Merkel arriva alle elezioni anticipate del 2005: Diventerà finalmente cancelliera, ergendosi sopra una montagna di cadaveri di suoi (ex) illustri colleghi di partito.
I due volti del “merkelismo”
Attitudine al mantenimento e conseguimento del potere, potenti angeli custodi: Queste due caratteristiche saranno il fil rouge della lunga cancelleria Merkel.
Giunta alla Cancelleria, Angela Merkel si pone come la mutti dei tedeschi, una sobria donna di mezza età che costruisce la sua fortuna elettorale rassicurando il tedesco medio, mettendolo al riparo dalle turbolenze economiche e geopolitiche e, in ultima analisi, assecondando la sua volontà: La Merkel commissiona centinaia di sondaggi segreti per informare ogni sua decisione importante, e quasi sempre sceglie l’opzione più popolare. Naturalmente il mantenimento del potere non dipende solo dalla rincorsa dell’effimero sondaggio, ma anche da legami molto stretti con l’industria tedesca, le cui necessità sono quasi sempre tenute in considerazione, anche quando si adattano poco alle posizioni politiche della CDU: Paradigmatica è la politica di mediazione diplomatica e cooperazione commerciale con la Russia, avviata “politicamente” dal governo rosso-verde di Schroder ma poi sviluppata autonomamente dalla confindustria tedesca; accettata come fatto compiuto dalla Merkel in modo simile a come l’Ostpolitik di Willy Brandt fu in grado di sopravvivere all’anticomunista Kohl, 30 anni prima.
Per l’appunto, quasi sempre, perché quando Angela Merkel “tradisce” i suoi due selettorati di riferimento – tedesco medio e confindustria – causa di forza maggiore, entra in gioco la seconda colonna portante del merkelismo: Il soccorso esterno.
Per approfondire: Federico Dezzani, Angela Merkel, la spia che andò e tornò dal freddo
La politica estera
Dove sarebbero nate le frizioni tra Angela Merkel e il suo “blocco sociale” diventa evidente già nel 2003, quando è Presidente della CDU ma non ancora Bundeskanzlerin.
Le piazze tedesche si riempiono di manifestanti contrari alla guerra che di lì a poco l’amministrazione Bush scatenerà contro l’Iraq. Il Cancelliere tedesco dell’SPD – Gerhard Schroeder – si posiziona in ferma opposizione alla guerra, facendo asse con il Presidente francese Jacques Chirac e raccogliendo l’approvazione della maggioranza della società tedesca.
Nel frattempo compare un’editoriale sul Washington Post – firma Angela Merkel – dal titolo “Schroeder doesn’t speak for all germans“: E’ un panegirico dell’aggressione all’Iraq – estremamente impopolare nella politica e nella società civile europea – che delinea inoltre la visione di integrazione europea della Cancelliera in pectore della CDU:
“Gli Stati Uniti sono l’unica superpotenza rimasta, ma anche in questo caso dovranno fare affidamento su partner affidabili nel lungo periodo. La Germania ha bisogno dell’amicizia con la Francia, ma i benefici di tale amicizia possono essere realizzati solo in stretta collaborazione con i nostri vecchi e nuovi partner europei e nell’ambito dell’alleanza transatlantica con gli Stati Uniti. […] Per il partito che dirigo, la nostra stretta partnership e amicizia con gli Stati Uniti è un elemento fondamentale dell’obiettivo nazionale della Germania tanto quanto l’integrazione europea. Ma entrambi avranno successo solo se sarà possibile costruire una nuova fiducia e se saremo in grado di formulare i nostri interessi. Non c’è alternativa accettabile a questa strada all’inizio di questa nuova epoca.“
Una visione che combacia alla perfezione con quella di Antieuropa descritta sopra: Un’integrazione europea che può avvenire solo “nell’ambito dell’alleanza transatlantica con gli Stati Uniti” quindi, parafrasando, con gli americani dentro, e i tedeschi sotto. Non ci deve essere alternativa.
Se Angela Merkel non passerà alla storia come un “falco atlantista”, nonostante le sue personali posizioni – o lealtà – politiche, il motivo risiede in una precisa opera di bilanciamento, volta a smorzare i malumori del blocco sociale della CDU (generalmente provenienti dall’opinione pubblica sulle questioni mediorientali, dall’industria per quanto riguarda il rapporto con Russia e Cina) pur nell’ambito di una politica estera che nei fatti non osa molto nel discostarsi da quella delle amministrazioni americane.
Un esempio è il caso della Georgia: Inizialmente è proprio la Germania di Angela Merkel a bloccare l’adesione di Ucraina e Georgia alla NATO. Nel 2008 però, quando la Georgia lancia il suo – malriuscito – tentativo di reintegrare militarmente l’Ossezia del Sud, Mutti viene richiamata all’ordine: “Intima” a Medvedev il ritiro totale dalle regioni separatiste ed apre politicamente all’ingresso di Tblisi e Kiev nella NATO.
Similarmente agisce in Libia, 3 anni dopo: L’opposizione tedesca all’attacco di un partner strategico e commerciale – e alle avventure militari in generale – viene accontentata tramite atti di testimonianza come l’astensione alle Nazioni Unite. Nei fatti poi, la Germania aumenta il suo impegno in Afghanistan per liberare risorse angloamericane e francesi necessarie al bombardamento della Libia, e prima del cambio di regime si schiera sul fronte più duro per quanto riguarda le sanzioni, proponendo un embargo totale al petrolio libico.
Snowden files
Per la Bundeskanzlerin, bilanciare lealtà tedesche ed atlantiche diventerà molto difficile quando inizieranno ad essere rilasciate dalla stampa – lasciando sgomenta la società europea e mondiale – le rivelazioni del whistleblower dell’NSA Edward Snowden.
Nel giugno del 2013, dalla prima tranche di documenti trafugati da Snowden ed elaborati dalla stampa emerge come la Germania sia la nazione più sorvegliata d’Europa. I programmi di spionaggio dell’NSA americana e del GCHQ britannico monitorano ogni giorno 500 milioni di comunicazioni. In questo caso la reazione della Merkel è dura: “Spiare gli alleati è inaccettabile“. Segue una minaccia: Non ratificare il TTIP (che in effetti non verrà ratificato).
Le rivelazioni si fanno sempre più pesanti, centellinate di settimana in settimana, di mese in mese, dal settimanale tedesco Der Spiegel, che ha accesso riservato ai documenti di Snowden. Emerge la collusione del BND – il servizio segreto tedesco – che raccoglie dati su cittadini tedeschi per conto di NSA e GCHQ, pur non facendo parte dell’alleanza Five Eyes e quindi non avendo un corrispondente accesso ai cittadini statunitensi e britannici. L’ambasciata americana a Berlino è un sofisticato centro di spionaggio SIGINT rivolto verso il quartiere governativo tedesco, con tanto di antenne sul tetto. Il cellulare della cancelliera è monitorato dall’NSA dal 2002, con l’ausilio del servizio segreto danese.
Nuovamente la Merkel condanna il fatto, e l’ambasciatore americano viene convocato a Berlino. Nei fatti però, la risposta tedesca si avvita su se stessa: Una delegazione del BND parte alla volta di Washington, per negoziare l’entrata tedesca nel Five Eyes – l’alleanza di intelligence privilegiata dei paesi industriali anglofoni – o almeno un trattato di non spionaggio. Entrambe queste trattative – ovviamente – falliscono: Il Five Eyes nasce come alleanza anti tedesca durante la seconda guerra mondiale, tale rimane. L’indignazione di Angela Merkel, dunque, non risolve il problema centrale, già noto alla politica europea – come abbiamo visto – almeno dalla fine degli anni ’90.
Lo scandalo però prosegue: A luglio 2014, l’agente del BND Markus R. viene arrestato, accusato di aver fornito alla CIA materiale riservato della commissione parlamentare tedesca sugli “Snowden Files“. Il capo stazione della CIA a Berlino viene dichiarato persona non grata ed espulso dal paese.
Nel 2015 arrivano le rivelazioni che più incrinano il rapporto tra Angela Merkel e il suo elettorato, un rapporto fino ad allora basato sull’obiettiva incensurabilità della Cancelliera.
Nel 2015, Der Spiegel rivela che dal 2004 il BND tedesco opera – congiuntamente con l’NSA – un centro di raccolta dati presso la cittadina di Bad Aibling. Lo spionaggio di Bad Aibling è particolarmente scandaloso perché neanche lontanamente giustificabile con la necessità della “lotta al terrorismo”, essendo diretto esclusivamente contro governi europei – come quello francese – e verso i più grandi colossi economici tedeschi: Airbus, Siemens, Deutsche Bank, Mercedes-Benz.
Angela Merkel ne è a conoscenza almeno dal 2010, ed ha quindi mentito nel 2013 quando ha affermato che non sussistesse alcuna ipotesi di spionaggio industriale, perché ?
Nello stesso anno l’Environment Protection Agency americana da il via al Dieselgate: A partire da Volkswagen tutta l’industria automobilistica europea viene investita da indagini e scandali relativi alla manomissione del rilevamento delle emissioni di CO2.
Eurocrisi
Dove il rapporto tra Merkel e il suo elettorato rischia davvero di rompersi però non è sullo spionaggio, accettato con un certo fatalismo – benché con sdegno – dalla popolazione tedesca. La maggiore tensione si consuma su temi molto più sentiti dal tedesco medio: Il rigore fiscale e l’immigrazione. In entrambi i casi, mutti rischia di spezzare la corda del suo consenso per in un caso tenere insieme, nell’altro tentare di forzare (sospendendo il Trattato di Dublino per ottenere la redistribuzione) la costruzione europea.
La crisi della moneta unica è lunga (e ancora in un certo senso aperta) ma raggiunge il suo apice nel 2015, anno in cui il governo Tsipras – in Grecia – sottopone a referendum le condizioni della troika per il “bailout“, ed arriva ad un passo dal far uscire la Grecia dall’Euro.
Durante la crisi, la voce dell’intransigenza – apprezzata dalla maggioranza dei tedeschi, di cui solo il 21% è favorevole al salvataggio – è Wolfgang Schauble, il numero 2 della Merkel che presidia l’Eurogruppo e detta condizioni alla Grecia. Mutti è la “colomba”: Dovrà spendere molto del suo capitale politico per far digerire alla CDU e ai liberali un bailout comunque feroce, e rigettato dai greci alle urne.
A guardarle le spalle, anche questa volta, i governi, la stampa e le istituzioni anglosassoni: Barack Obama si spende a favore di un piano di bailout più morbido, il FMI lavora in seno alla troika per calmierare le posizioni della delegazione tedesca e voci autorevoli come quella di Lloyd Blankfein – direttore generale di Goldman Sachs – sostengono “l’importanza imprescindibile” della permanenza greca nella moneta unica europea.
Ma non basta.
E’ il 5 luglio 2015, il 61% dei greci ha rigettato tramite referendum le condizioni di bailout proposte dalla Troika, ma Yannis Varoufakis – Ministro delle Finanze greco – racconta che al quartier generale di Syriza (che ha fatto campagna elettorale per il no!) non si respira aria di festa. Dapprima – sorprendendo Varoufakis – Tsipras si rifiuta di dare il via alla “strategia di deterrenza” pianificata dal suo Ministro delle Finanze, ovvero l’implementazione di un sistema di pagamenti separato (i cosiddetti “minibot“) per spuntare le armi della Troika nello scontro finale che sta per consumarsi e il cui esito dovrebbe essere solamente una ristrutturazione del debito (opzione favorita da Varoufakis) o in alternativa l’uscita della Grecia dall’euro:
“La conversazione stava diventando evasiva, per cui gli feci una domanda precisa: avrebbe rispettato il voto, chiesi, riprendendo il nostro patto originale o stava per gettare la spugna? La sua risposta fu ambigua, ma non c’erano dubbi sulla direzione che stava prendendo: resa senza condizioni. […] A quel punto Alexis confessò qualcosa che non avrei mai pensato. Mi disse che aveva paura, se avessimo insistito, ci toccasse un destino alla “Goudi” – riferendosi ai sei politici e capi militari giustiziati nel 1922. La cosa mi fece ridere e dissi che se ci avessero giustiziato, dopo che avevamo vinto con il 61,3%, avremmo avuto assicurato un posto nella storia. Alexis parlò di un possibile complotto e mi disse che il presidente della Repubblica, Stournaras [Banca Centrale Greca] i servizi segreti e membri del governo erano in “stato di allerta”. Di nuovo lo dissuasi: “Che facciano il loro peggio! Ti rendi conto di cosa vuole dire il 61,3%?” Alexis mi disse che Dragasakis aveva cercato di convincerlo a disfarsi di me, di tutta la Piattaforma di sinistra e del gruppo dei Greci indipendenti di Kammenos e di fare invece un governo di coalizione con Nuova democrazia, PASOK e Il Fiume. […] Gli dissi che era l’idea più stupida che avessi mai sentito.” (Yannis Varoufakis, Adulti nella Stanza)
Poche ore dopo, Varoufakis non è più il ministro degli esteri della Grecia. 8 giorni dopo, Tsipras firma un accordo di bailout con la troika che impone condizioni di austerity ai greci ancora più dure di quelle rifiutate tramite referendum, in occasione del quale il partito di governo – eletto facendo campagna elettorale contro il bailout e l’austerity – ha sostenuto il no.
Ma perché è così importante che la Grecia rimanga nell’euro, tanto da mobilitare Barack Obama, il FMI, Goldman Sachs, far spendere la Merkel per una linea estremamente impopolare in Germania e da, probabilmente, minacciare la vita dei vertici politici greci – tramite i servizi, come ci insegnano i file di Snowden, filiazione di quelli angloamericani – preparando un “maidan” in salsa tzatziki?
Perché il processo di integrazione europea è – come spiegato sopra – ormai imprescindibile per la strategia americana in Europa e – ancora peggio – un’eventuale Grexit gestita da Syriza non avrebbe portato certo al rinsaldamento di una special relationship con Washington, come la Brexit appena un anno dopo.
Prima del referendum, il governo Tsipras delinea con l’ambasciatore cinese un piano di natura potenzialmente dirompente: Investimenti da centinaia di milioni di euro nelle ferrovie greche, ammodernamento del Porto del Pireo (di cui COSCO possiede già un terminal container dal 2010) con disponibilità per la manutenzione di navi cinesi (è sottointeso, ma anche navi militari) e l’acquisto da parte di Pechino di buoni del tesoro greci per allentare la morsa della troika che – in barba alla presunta “indipendenza della Banca Centrale” – ha tagliato liquidità alla Grecia grazie alla leale collaborazione dell’allora Presidente della BCE Mario Draghi. L’accordo inizialmente viene rallentato dalla ferma opposizione di Berlino (la Cina acquista solo qualche centinaio di milioni di euro in buoni del tesoro greci) ma è evidente che con una Grecia fuori dall’Euro e in rottura con l’impero euro-atlantico, la sua piena implementazione sarebbe stata solo questione di tempo. Questo per Washington è inaccettabile.
In gran parte grazie alla perseveranza di Angela Merkel – e a sue spese politiche – la Germania è riuscita a mantenere intatta la sfera d’influenza statunitense sul continente. Alla crescente impopolarità della cancelliera in patria – esacerbata anche dall’afflusso di un milione di immigrati clandestini in Germania nel solo 2015 – mettono una pezza le lodi provenienti da oltremanica e oltreoceano: Merkel è eletta persona dell’anno sia da Time che dal Financial Times.
Per Mutti si avvicina l’ultimo cancellierato, che terminerà nel 2021 con un ultimo spettacolare canto del cigno: Il Next Generation EU e la riforma del trattato MES – a questo punto non c’è neanche bisogno di dirlo, invisi all’elettorato tedesco – destinati a mantenere i paesi dell’Unione in una potente – e politicamente senza vie di fuga – situazione di vincolo esterno, tramite la sottoscrizione obbligatoria di ingenti fondi a ritorno condizionato, e la presenza di una nuova leva con cui manipolare la sostenibilità dei debiti sovrani. Questo, forse, basterà a tenere sui giusti binari anche i governi più riottosi.
Il nuovo cancelliere dell’SPD – Olaf Scholz – ha un’eredità molto pesante alle spalle. L’eredità di 15 anni di merkelismo, improntato su un minuzioso bilanciamento tra consenso popolare, interessi industriali e talvolta rivendicati, talvolta inconfessabili, legami transatlantici. Che solo la spietata e Machiavellica Merkel – dietro l’immagine rassicurante della mutti – ha saputo navigare sopravvivendo a dossier della Stasi, tangentopoli, proteste e persino violenza politica.
Verrà subito messo alla prova, come abbiamo visto e come vedremo, con lo scoppio della guerra in Ucraina.
La geopolitica di Olaf Scholz
Da Inimicizie.
E’ il 2021, e Angela Merkel ha deciso di non ricandidarsi né alle elezioni per il bundestag, né tantomeno come cancelliera in pectore della CDU, mettendo di fatto fine a (o in pausa) la sua carriera politica per ritirarsi a vita privata.
Le elezioni vedono un ottimo risultato per l’SPD, che si prepara ad esprimere un cancelliere dopo ben 17 anni dalla fine del cancellierato di Gerhard Schroder, segnati dal lungo regno della mutti dei tedeschi. Quel cancelliere – che salirà al governo con una “coalizione semaforo” insieme a verdi e liberali – è Olaf Scholz.
Scholz non è un volto nuovo, né un uomo di rottura, nella Germania “merkeliana”: Infatti, ricopre il ruolo di ministro delle finanze – in stretta collaborazione con il falco della CDU Schauble – nonché vicepremier nell’ultimo gabinetto Merkel. Per 7 anni, dal 2011 al 2018, ricopre la carica di burgermeister di Amburgo – “capitale atlantica” della Germania – sede durante la guerra fredda di importanti interessi angloamericani (è proprio da lì che i genitori di Angela Dorothea Kasner, un pastore protestante e un’insegnante di inglese, partono alla volta della loro curiosa permanenza nel blocco orientale) ma oggi anche di importanti interessi cinesi, in quanto porto principale del paese giocoforza legato alla “nuova via della seta” di Pechino.
Scholz è un uomo profondamente integrato in quel “pentapartito” (CDU, CSU, SPD, liberali, verdi) che governa la Repubblica Federale Tedesca da dopo la seconda guerra mondiale in modo piuttosto collaborativo, che ha retto l’urto della fine della guerra fredda – paradossalmente, nonostante la rottura sia stata maggiore – molto meglio rispetto a quello italiano. Giunge al potere nel difficile inverno 2021, in cui la crisi del covid inizia a cedere il passo a quella ucraina: A soli due mesi dalla fiducia al suo gabinetto da parte del bundestag, i primi BTG russi iniziano a varcare i confini ucraini. Verrà subito messa alla prova la precaria posizione geopolitica della Germania, politicamente e militarmente legata a Washington ma economicamente legata a Mosca: La risposta sarà un continuo e snervante esercizio di equilibrismo, destinato a scontentare sia Kiev – da cui pioveranno continue accuse di codardia e talvolta ingiurie contro il cancelliere – sia per ovvi motivi Mosca, e a immettere benzina nel motore di Polonia, Cechia e Baltici, che potranno porsi (in realtà, confermarsi) come i veri – e più affidabili – interlocutori di Washington e Londra sul continente, a spese ovviamente della centralità della Germania nell’Unione Europea e in Europa in generale.
Interessi russi e fedeltà atlantica
Il forte legame energetico tra Russia e Germania – oggi arcinoto a tutti – motore dello sviluppo industriale tedesco dopo gli shock petroliferi mediorientali del 1973 e del 1979, viene promosso proprio dai primi due cancellieri dell’SPD della Repubblica Federale: Willy Brandt ed Helmut Schmidt negli anni ’70/’80, la cui Ostpolitik culminerà nel progetto Yamal – avviato negli ultimi mesi di vita di Brezhnev e fortemente contrastato dall’amministrazione Raegan, anche con un atto di sabotaggio – che sopravviverà, animata di vita propria dai nascenti legami economici, al ritorno al potere di una CDU fortemente antisovietica.
Verrà poi ampliato ulteriormente dal terzo cancelliere dell’SPD a inizio anni ‘2000, Gerhard Schroder – oggi lobbista non solo presso Gazprom, ma anche presso la banca Rotschild e la China Investment Company, in quanto uomo legato strettamente all’industria tedesca – che nelle ultime settimane del suo cancellierato darà la spinta definitiva (fornendo una garanzia statale) al finanziamento del gasdotto NordStream, che avrebbe fornito gas russo alla Germania attraverso il Mar Baltico. Un gasdotto progettato non solo per il suo percorso più diretto ed economicamente conveniente, ma anche in quanto geopoliticamente più sicuro, non dovendo attraversare il famoso intermarium di concezione mackinderiana, la “nuova europa” di Rumsfeld in sintonia con l’anglosfera e argine agli interessi sia russi che tedeschi, con in testa la Polonia.
Come l’Ostpolitik di Brandt e Schmidt, anche – soprattutto, visto il contesto politico di partenza molto più disteso dell’Europa dei primi anni ‘2000 – quella di Schroder crea interessi che si animano di vita propria, e continuano a svilupparsi anche durante i cancellierati della Merkel, in un certo senso costretta a non ostacolarla più di tanto nonostante le sue convinzioni personali, le sue alleanze politiche siano orientate verso il movimento neoconservatore americano, che a dispetto dell’ostentato (più che altro da Berlusconi) “spirito di Pratica di Mare” vede la Russia post-sovietica come un avversario – la cui sfera d’influenza va smantellata pezzo per pezzo, dall’Ucraina all’Asia Centrale passando per la Georgia – o meglio ancora come il paese vinto e sottomesso degli anni ’90, da inquadrare nell’impero europeo degli USA (in funzione di contenimento di una Cina in ascesa ma ancora non apertamente in rotta con Washington) sostanzialmente non lasciandogli altra scelta.
E’ emblematico infatti che il progetto di espansione del gasdotto NordStream – il NordStream 2 – non necessiti di nessuna garanzia governativa a differenza del suo predecessore, e venga interamente finanziato – nel 50% non di competenza di Gazprom – da compagnie energetiche private europee. Il governo tedesco deve solo, nel 2018, concedere (forse riluttantemente) il permesso di costruzione e (altrettanto riluttantemente e lentamente, fino allo stop formale a novembre 2021) certificare il gasdotto tramite una sua autorità “indipendente”.
Scholz, che proviene dallo stesso SPD di Schroder e nel 2019 aveva denunciato le sanzioni USA contro NordStream come “una seria interferenza negli affari interni e nella sovranità di Germania e Europa” – dunque presumibilmente sostiene anche dal punto di vista politico l’esistenza di legami con la Russia – si trova subito davanti ad un dilemma ancora più difficoltoso: Come bilanciare l’esistenza di – sempre più inconfessabili – pesanti interessi economici e quindi geopolitici che legano Germania e Russia, con una guerra per procura della NATO in Ucraina in cui non solo la partecipazione di Berlino è “fortemente richiesta” (e facilitata, facendo letteralmente saltare in aria i ponti che la legano con Mosca per prevenirne la riapertura) ma che rischia anche di sottrarre alla Germania il suo prezioso ruolo di organizzatrice dell’Unione Europea, soppiantata da una Polonia in ascesa e supportata da UK, USA, Francia e anche Italia. Il ruolo di dominus – che di fatto decide le regole – dello spazio economico più ricco al mondo costituisce il perno del suo successo commerciale, insieme al gas russo a basso prezzo (ora non più disponibile) e alla sinergia industriale con la Cina (ancora in vita ma con molti punti di domanda e, nel primo anno di guerra, inficiata dall’embargo anche noto come “zero covid”).
La situazione della Germania è oggettivamente difficile, la condotta di Scholz sarà ondivaga e a tratti apparirà patetica, rendendo Berlino bersaglio di invettive da Kiev, Mosca, Varsavia, Londra allo stesso tempo. Non riuscirà ad essere abbastanza filoucraina da garantire la posizione tedesca in Europa (di più su questo punto nei prossimi paragrafi) ma neanche abbastanza filorussa da parare l’urto di una guerra commerciale con un (ex) partner economico fondamentale.
No significa… sì
E’ il caso qui di riassumere la condotta tedesca durante la guerra in Ucraina con alcuni dati ed episodi.
Prima dell’invasione russa su larga scala il 24 febbraio, fluiscono già verso l’Ucraina armi dall’intermarium, dal Regno Unito, dalla Francia, dagli Stati Uniti. Un flusso che la Germania si rifiuta di alimentare – forse addirittura negando lo spazio aereo ai C-130 britannici che a gennaio trasportano armi in Ucraina – acconsentendo all’invio dei primi sistemi d’arma (leggeri) solo a deflagrazione ormai iniziata.
Lo stesso 24 febbraio, Scholz – con supporto italiano, ungherese e cipriota, riporta l’agenzia di OSINT legata all’intelligence britannica Bellingcat – dichiara la sua opposizione all’estromissione dal sistema di messaggistica finanziaria SWIFT di alcune banche russe, che però cadrà nel giro di pochi giorni.
Scholz inizialmente si rifiuta di visitare Kiev, a causa dello “schiaffo” ricevuto dal Presidente della Repubblica, Steinmeier – ex ministro degli esteri dell’SPD che per ultimo cercò di salvare gli accordi di Minsk con l’omonima formula – da parte di Zelensky, che rifiuta di riceverlo nella capitale ucraina ad aprile 2022, ritenendolo un politico troppo vicino a Mosca. Il moto d’orgoglio del Cancelliere tedesco dura però solo poche settimane: A giugno Scholz visita la capitale ucraina, dismettendo per l’occasione anche il “veto” tedesco alla concessione dello status di paese candidato per l’entrata nell’UE.
Già ad aprile Scholz sarà costretto a frenare sulle parole del suo ministro degli esteri (la verde, super-atlantista, Annalena Baerbock) riguardo la fornitura di veicoli corazzati all’Ucraina, in un dibattito che andrà avanti per mesi, per poi risolversi – ancora una volta – in un assenso.
Ancora il 19 gennaio 2023, ci chiedevamo su telegram quanto sarebbe durato il veto tedesco sui carri armati Leopard, considerando l’esito di quelli precedenti. La risposta arriva appena 5 giorni dopo, quando la Germania sbloccherà l’invio di centinaia di carri Leopard 2 a fronte del gesto simbolico americano di promettere l’invio di una manciata di Bradley, in data da definirsi.
Prevedibile, anche l’esito del medesimo dibattito sui caccia da combattimento, occasione peraltro di una curiosa volata in avanti del Presidente del Consiglio Meloni.
Questa condotta del governo tedesco non è dovuta all’opposizione dell’opinione pubblica – che almeno inizialmente è in maggioranza favorevole all’invio di armi, anche se la maggioranza diminuisce ad ogni gradino dell’escalation e con il passare del tempo – che invece era stata un fattore importante per la Merkel riguardo le avventure nel mondo islamico di Bush e Obama; ma ad interessi geopolitici più radicati, che consigliano prudenza a Berlino.
La logica della Zeitenwende…
Quella che sembra delinearsi è una situazione in cui Berlino – almeno inizialmente – spera in una rapida fine del conflitto (se tramite mediazione, congelamento o capitolazione di uno dei due contendenti in fondo non importa) e in attesa dell’esito cerca di accreditarsi presso entrambi gli schieramenti. Da una parte la Russia – aldilà delle fantasie in voga da questo lato della cortina – non andrà da nessuna parte, come non andranno da nessuna parte i suoi depositi di materie prime, le ferrovie che la attraversano e raggiungono la Cina, il suo immenso spazio aereo cruciale per l’aviazione e nel prossimo futuro la sua lunga costa artica, che diventerà sempre più importante nella logistica globale. Anche nel caso limite in cui dovesse perdere Donbass e Crimea, non sarebbe verosimilmente governata da un Navalny che propugna resa incondizionata, controllo estero sulle dogane e riparazioni perpetue, ma invece da un Prighozhin, un Surovikin o un Kurenkov. Dunque necessario tutelarsi, anche se ormai solo con dichiarazioni di circostanza come l’invito a Kiev di non usare le armi a lungo raggio per colpire territorio russo.
D’altra parte, la guerra in Ucraina rappresenta oggi per la NATO quello che rappresentarono 100-150 anni fa la guerra di Crimea e la repressione dei Qing: Un barometro degli assetti di potenza interni all’alleanza nonché un’occasione per guadagnare posizioni all’estero anche in un’ottica di competizione con i propri alleati. L’attitudine di Berlino qua ricalca quella italiana rispetto all’intervento militare in Libia: Fosse dipeso dall’Italia, non si sarebbe fatto, ma messa davanti al fatto compiuto Roma ha ritenuto opportuno partecipare, per ottenere/mantenere delle posizioni in un paese strategicamente importante anche dopo la caduta di Gheddadfi.
Con un importante corollario: La Germania in Ucraina e nella competizione con la Russia nell’Est Europa ha interessi antichi. La condizione normale della Germania (posto che esista qualcosa del genere in geopolitica) va ricordato – a dispetto di una visione semplicistica che vede i due paesi come partner naturali – non è necessariamente quella di cooperazione con Mosca. Come ci insegnano due guerre mondiali, spesso i due paesi sono stati in aspra competizione per organizzare l’Est Europa. Come ci insegna Mackinder, la politica anglosassone non è sempre stata necessariamente volta ad impedire la cooperazione tra la nazione tedesca e quella russa – come avviene oggi – ma piuttosto a mantenerle separate e bilanciate, impedendo anche la sopraffazione di una sull’altra (come nelle guerre mondiali) con alleanze ed interventi militari.
Non è quindi fuori discussione che Berlino – che ormai è il terzo fornitore di armi all’Ucraina dopo US e UK, ed ha abbandonato quasi ogni sua riserva nel campo delle sanzioni alla Russia – abbia deciso di abbandonare sinceramente l’ipotesi di cooperazione con Mosca, per perseguire invece una strategia di penetrazione aggressiva nella sua sfera d’influenza, facilitata dalla cornice dell’impegno complessivo della NATO.
L’importanza della Russia per il modello economico tedesco può – o almeno questa è la speranza di Berlino – essere sostituita dall’integrazione dell’Ucraina, dalle spoglie multi-miliardarie della sua ricostruzione (posto che avvenga o che qualcuno la finanzi) ma anche – nell’ambito di una politica di più ampio respiro – da entrature nel Caucaso fondamentali dal punto di vista energetico, se l’influenza russa in quella regione dovesse retrocedere ulteriormente, o addirittura in Bielorussia o in una Moldavia integrata nell’Unione Europea, risolta manu militari la questione della Transnistria.
In effetti, la Germania ha sempre – usando le parole di Kissinger – “manovrato liberamente tra est e ovest” anche quando la sua amicizia con la Russia sembrava essere molto più forte di quanto non lo sia adesso: Si ricordi ad esempio il fatto che il pesante riarmo georgiano ordinato da Sakaashvili, in previsione del (fallito) tentativo di reintegrazione forzata dell’Ossezia del Sud, avvenne con il contributo fondamentale di addestratori ed armamenti tedeschi. Si pensi anche alla figura di Vladimir Klitschko, l’ex campione di box poi diventato sindaco di Kiev: La sua entrata in politica risale al periodo dell’Euromaidan; con il contributo fondamentale della Fondazione Konrad Adenauer e di vari viaggi “di accreditamento” in Germania. Forse l’elemento di prova più cristallino del suo debito politico verso Berlino è la sua brutale esclusione dal primo governo maidanista da parte degli Stati Uniti, immortalata nella famosa telefonata tra Victoria “fuck the EU” Nuland e l’ambasciatore statunitense a Kiev. La Germania coltiva quindi interessi propri in Ucraina, in competizione sì con quelli russi, ma anche con quelli angloamericani e polacchi, e li sostiene tramite il supporto a Kiev.
Del resto, i primi due prototipi di stato nazionale moderno ucraino nascono proprio grazie all’avanzata di armate tedesche: con il trattato di Brest-Litovsk prima, con l’armata insurrezionale del famigerato Bandera durante la seconda guerra mondiale poi.
La stessa cosa che a ben vedere avvenne in Yugoslavia, la cui crisi post-sovietica fu persino aperta dalla Germania – con il riconoscimento dell’indipendenza di Slovenia e Croazia – che sostenne poi con convinzione lo sforzo bellico della NATO (insieme, peraltro, all’Italia) per perseguire interessi nazionali propri a discapito di quelli russi, in uno spazio geografico in cui – neanche un secolo prima – iniziava la prima guerra mondiale nell’ambito di una sfida tra il “mondo tedesco” (Germania e Austria) e Mosca .
Non vi è nulla di particolarmente nuovo, quindi, nella Zeitenwende – la “svolta epocale” dichiarata da Scholz – della politica estera e militare tedesca: Si tratta “semplicemente” di un’oscillazione (lenta, ma sempre più decisa) del pendolo tra cooperazione russo-tedesca e aspra competizione tra Berlino e Mosca.
Astenendosi da giudizi di merito, questa sembra essere la ratio della politica estera di Scholz, apparentemente così difficile da decifrare.
… E i suoi limiti
La posizione della Germania sembra essere ora ben definita, almeno fino alla fine delle ostilità attive, dopo le quali andranno fatte necessarie considerazioni, a seconda dell’esito. Rimane però una grossa incognita, potenzialmente un limite.
La Zeitenwende è stata ampiamente incoraggiata da Washington, che ha bisogno del sostegno del più importante paese dell’Unione Europea nella sua guerra per procura in Ucraina. E’ stata anche “aiutata” – se così si può dire – tramite il sabotaggio del gasdotto Nordstream (che toglie alla Germania la possibilità di una “pace separata” con Mosca, accettato dal mite cancelliere come fatto compiuto) e l’accensione di altri dossier come lo scandalo Wirecard – degenerato proprio nel 2019/20, quando Scholz è ministro delle finanze nel gabinetto Merkel – una compagnia tech tedesca posta sotto pesante inchiesta dal quotidiano londinese Financial Times (con anche il leak di documenti interni) e infine rivelatasi al centro di un’operazione d’influenza russa, con la fuga del COO, l’austriaco Jan Marsalek – uomo con importanti contatti con il GRU e il Gruppo Wagner – in Bielorussia.
C’è però sicuramente un limite a quanto Washington possa permettere alla Germania di ottenere dal suo convinto impegno in Ucraina. Secondo la visione strategica americana, il paese deve far parte di quella “cintura di stati indipendenti” tra il Mar Nero e il Mar Baltico, argine sia all’influenza russa che a quella tedesca, che rappresenta il vero baricentro strategico anglosassone sul continente. Non sarà possibile accettare – un domani – un’Ucraina governata da “un Klitschko” (ricordiamo: Escluso dalla Nuland dal primo governo maidanista) e rivolta verso Berlino. Non sarà possibile accettare che la ricostruzione del paese venga “commissariata” dalla Germania: In effetti, di questo Washington si è già assicurata, con la messa a contratto – completamente “gratis” – del potente fondo d’investimento Blackrock da parte di Kiev in un ruolo di coordinazione dei finanziamenti e degli investimenti esteri nel paese.
Dal riuscito rovesciamento violento di Yanukovich nel 2014 e successiva guerra civile/annessione della Crimea – che segna l’uscita di gran parte dell’Ucraina dalla sfera d’influenza russa – la retrocessione di Mosca non deve dunque essere viatico per un’eccessivo avanzamento di Berlino, pena quell’egemonia tedesca in Europa Orientale che da sempre la strategia anglosassone teme.
Fino a dove potrà arrivare quindi la Zeitenwende? Proseguirà anche dopo la fine delle ostilità? Riuscirà a superare l’opposizione sia russo(cinese) che polacco-statunitense ad una maggiore penetrazione tedesca nelle storiche aree di competizione con Mosca?
Scholz sembra piuttosto convinto di aver scelto il corretto corso d’azione, ed è stato disposto a subire umiliazioni come il terrorismo verso un’infrastruttura strategica, la prodigalità verso un paese che rifiuta di ricevere il Presidente tedesco e il cui ambasciatore chiama il cancelliere “permalosa salsiccia di fegato”, la (finta) alleanza con una Polonia – dove, significativamente, Scholz compie il suo primo viaggio da Cancelliere – che pretende, strumentalmente e offensivamente, 1000 miliardi di euro in riparazioni per la seconda guerra mondiale.
Ai posteri l’ardua sentenza.