Giuseppe Mazzini

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Pagina a cura di Leonardo Sinigaglia

Bibliografia

Libri

Dei Doveri dell’Uomo

1860

Raccolte

Cosmopolitismo e Nazione

1831-1871

Vita

Giuseppe Mazzini nacque a Genova il 22 giugno 1805 da Giacomo Mazzini, medico di simpatie rivoluzionarie, membro della Guardia Nazionale durante il periodo della Repubblica Ligure, e di Maria Drago, ricca borghese fortemente influenzata dal pensiero giansenista nella sua istruzione. Mazzini fu particolarmente legato alla madre, rimanendone influenzato anche da un punto di vista ideale, cosa rafforzata anche dagli insegnamenti dei suoi precettori, Luca Agostino De Scalzi, amico d’infanzia del padre, e Stefano De Gregori, entrambi giansenisti.

A seguito della sconfitta dell’Impero napoleonico Genova vide soppresse le proprie pluri-secolari istituzioni repubblicane, venendo annessa al Regno di Sardegna. Fu nell’oppressivo clima della Restaurazione che Giuseppe Mazzini, allora studente universitario, si interessò alla lotta politica. I moti del 1821, e soprattutto la visione dei patrioti costretti all’esilio, gli fecero una profonda impressione, tanto che nel giugno dello stesso anno fu tratto in arresto a seguito di una rissa scoppiata con un gruppo di gesuiti e di membri della Real Accademia davanti alla Basilica della Santissima Annunziata.

Laureatosi in giurisprudenza nel 1827, si dedicò inizialmente alla critica letteraria sulle pagine di un giornale locale, prendendo al contempo contatti con i gruppi carbonari genovesi. Coinvolto in una cospirazione per uccidere Klemens von Metternich, venne arrestato e detenuto prima a Genova, poi a Savona presso la fortezza del Priamar, venendo rilasciato il 9 gennaio 1831. A seguito di questa detenzione Mazzini riparò in Francia, dove si mise in contatto con le comunità di rivoluzionari italiani. Tra di loro vi era Filippo Buonarroti, in passato seguace di François-Noël Babeuf durante la sua Congiura degli Eguali, che in quel periodo era alla guida di una nuova setta, detta degli “Apofasimeni”, ossia dei “condannati a morte”. Rispetto sia a questa, sia alla vasta galassia carbonara, Mazzini crebbe sempre più critico: la forma associativa della setta, spesso accompagnata da ritualistiche esoteriche e pittoresche, si manifestava sempre più come incapace di spingere masse più o meno numerose alla mobilitazione rivoluzionaria, e destinata unicamente a condannare alla morte o alla galera patrioti generosi. Mazzini vedeva dei parolai negli esponenti delle vecchie generazioni più affezionati ai dibattiti e alle armi, e incapaci di azioni veramente risolutive. Fu a partire dalla critica della prassi carbonara e cospirativa, elaborata nei primissimi Anni ‘30, che nacque a Marsiglia il progetto della Giovine Italia, associazione politica rivoluzionaria di nuovo tipo, promotrice di un nuovo metodo di lotta, non più rivolto a poche sette di iniziati, o basato sulla necessità dell’intervento militare straniero, ma fondamentalmente democratico, rivolto alle masse, che si voleva chiamare all’azione nella convinzione che “venti milioni di uomini, forti di giustizia, e di una volontà ferma, sono invincibili1. Obiettivo concreto della Giovine Italia era quello di federare i numerosi rivoluzionari italiani in un’unica organizzazione indirizzata alla conquista di un’Italia unita, repubblicana e indipendente tramite la mobilitazione popolare. Questa però sarebbe stata possibile solo dopo la “scoperta di un principio”, solo dopo l’opera “apostolica” di rivoluzionari integerrimi capaci di risvegliare le masse soprattutto tramite il loro esempio, tramite il sacrificio di sé: “Oggi ancora la nostra religione è la religione del martirio: domani sarà la religione della vittoria2.

La rivoluzione era così concepita esclusivamente in termini di atto di volontà collettiva mosso da una crescita morale della nazione italiana, che passava così da essere semplice “gente” a popolo. Il messaggio era interclassista, rivolto alla totalità del popolo, ma, anche in contrapposizione rispetto alla dirigenza liberlale che aveva in gran parte governato i moti dei decenni precedenti in Italia, non si limitava ad esprimere la necessità di un cambiamento politico e istituzionale, ma univano a ciò forte richieste sociali. “Avevate una parola, che proferita al popolo potea suscitarlo all’opre del braccio. -Era la parola onnipotente- […] la parola che creava i quattordici eserciti della Convenzione […]– la parola che Dio scrisse nella prima pagina della creazione, il cuore. L’avete voi detta? Avete voi gittato in mezzo alle turbe quel nome magico, che annunciando all’uomo la propria dignità, crea dallo schaivo l’eroe, quella parola d’EGUAGLIANZA, che Cristo avea pronunciato diciannove secoli additro, e che in un mondo corrotto, anarchico, egoista, incredulo, lacerato da’ barbari avea pur bastato a fondare una religione? Avete voi detto al popolo: noi veniamo a stringere il patto d’amore: veniamo a portare a termine le vostre miserie? No, avete tremato del popolo -del popolo senza il quale mai farete nulla- del popolo, PRIMO ELEMENTO DELLE RIVOLUZIONI […]. Proclamate l’intento SOCIALE della rivoluzione, enunciatelo al popolo: chiamate le moltitudini all’opera: – l’onnipotenza sta nelle moltitudini: convincetele che voi non oprate se non a migliorare il loro destino: scrivete sulla vostra bandiera: EGUAGLIANZA E LIBERTÀ da un lato, dall’altro: DIO È CON VOI: fate della rivoluzione una religione: una idea generale che affratelli gli uomini nella coscienza d’un destino comune, e il martirio: ecco i due elementi eterni d’ogni religione. Predicate la prima, slanciatevi sublimi verso il secondo”3. La questione sociale assumeva per Mazzini una particolare importanza in quanto come il secolo passato aveva messo al centro l’individuo e la libertà, l’epoca ventura di cui avvertiva la nascita avrebbe messo al centro l’associazione degli uomini, e il dovere come legge. Da qui ne discendeva un’opposizione netta al liberalismo e all’individualismo, esemplificato soprattutto dall’utilitarismo britannico.

La morte di Vittorio Emanuele I e la successiva salita al trono di Carlo Alberto avevano accresciuto le speranze del partito liberale e moderato per le giovanili simpatie carbonare del nuovo sovrano. Per sgombrare il campo da ogni ambiguità, Mazzini, pur non nutrendo nessuna fiducia, volle scrivergli una lettera aperta in cui l’invito a servire la causa nazionale veniva mischiato a nemmeno troppo velate minacce di ribellione. Per questo venne condannato a morte in contumacia nel 1833. Nello stesso periodo, a causa della pressione internazionale e della crescente repressione politica Mazzini dovette lasciare la Francia, riparando nell’estate del ‘33 a Ginevra, in Svizzera. Da qui organizzò un tentativo insurrezionale che avrebbe visto come primo atto l’invasione della Savoia. Il 3 febbraio 1834 circa 150 fuoriusciti italiani e rivoluzionari di diversi paesi europei penetrarono nella regione da più direttrici, sfaldandosi però dopo la prima notte tra diserzioni, delazioni e la fredda accoglienza della popolazione. Neanche quelli che avrebbero dovuto essere i simultanei moti a Genova andarono a buon fine, con la partecipazione di un pugno di marinai, tra cui Giuseppe Garibaldi, che dovette darsi alla fuga e alla clandestinità.

Nonostante la sconfitta subita in Savoia, Mazzini continuò in Svizzera la sua attività politica, arrivando a concepire il paese come la possibile base dalla quale lanciare sollevazioni di portata continentale, con la creazione nello stesso anno della Giovine Europa. Nel 1835 scrisse il saggio Fede e Avvenire, nel quale espresse una propria dottrina politico-religiosa in cui sono riscontrabili gli influssi di Vico, Hegel e Saint-Simon, per la quale la Legge di Dio si rivela progressivamente all’Umanità nel corso della Storia, mostrando a ogni generazione un brandello di verità: “La nostra missione non è conchiusa. Noi ne sappiamo appena l’origine; ne ignoriamo l’ultimo fine: il tempo e le nostre scoperte non fanno che allargarne i confini. Essa sale di secolo in secolo verso fati che ci sono ignoti: cerca la propria legge della quale noi possediamo solo le prime linee. D’iniziazione in iniziazione, attraverso le serie delle tue incarnazioni successive, essa purifica ed amplia la formola del Sagrificio: studia la propria via: impara la tua fede, eternamente progressiva. […] Chi può dirci quante stelle, pensieri secolari liberi da ogni nube, dovranno salendo collocarsi nel cielo dell’Intelletto, perché l’uomo, fatto compendio vivente del Verbo terrestre possa dire a se stesso: io ho fede in me: i miei fati sono compiti?”4. L’Umanità è vista come sola interprete della Legge di Dio, che si manifesta attraverso differenti “missioni” assegnate a ciascuna nazione, interpretabili solo dal popolo, “solo sovrano […] uno e indivisibile, che non conosce caste o privilegi […] né proletariato né aristocrazia di terre o finanza, ma solamente facoltà e forze attive consacrate per utile di tutti all’amministrazione del fondo comune che è il globo terrestre5. L’unità e l’eguaglianza del genere umano sono così strettamente collegate a quelle in seno ai singoli popoli, alla scomparsa di ogni barriera sociale ed economica fonte di privilegi e generatrice di vere e proprie caste.

Nel maggio del 1836 Mazzini fu arrestato a Grenchen, dove aveva trovato rifugio negli anni precedenti, e a seguito di ciò fu costretto a lasciare la Svizzera, giungendo nel 1837 a Londra. In questa città capofila della modernità industriale e capitalistica Mazzini trascorrerà una parte significativa della sua vita, frequentando gli esuli italiani, gli operai, rivoluzionari da tutta europa ma anche borghesi e aristocratici politicamente attivi, scrivendo d’attualità, letteratura e musica su giornali locali. Il soggiorno londinese contribuì enormemente alla crescita politica di Mazzini, che poté collegarsi alle tendenze sociali più avanzate del tempo e acquisire uno sguardo sempre più europeo, mentre in Italia prendevano piede il neoguelfismo, tendenze liberal-monarchiche e federaliste, anche a seguito dell’ennesimo fallimento di una spedizione da lui ispirata, quella dei fratelli Bandiera, che vennero martirizzati il 25 luglio 1844, e dell’elezione al soglio pontificio di Pio IX, attorno al quale in breve tempo si addensarono speranze liberali e riformiste. Sarà il divampare dell’insurrezione europea del 1848-49, la Primavera dei Popoli, a cancellare ogni dubbio sulla natura politica del papato e a riaccendere speranza per la soluzione democratica e rivoluzionaria.

A partire dai moti siciliani del gennaio, il fuoco della rivoluzione si diffuse in tutta la penisola e in Europa. A febbraio, mentre dalla Sicilia al Piemonte i sovrani italiani si affrettavano a concedere carte costituzionali per tentare la riconciliazione con i rivoltosi, in Francia cadeva il trono di Luigi Filippo, preparando così la costruzione della Seconda Repubblica francese, nata nel maggio dello stesso anno. Le diffuse insurrezioni in Lombardia e in Veneto, tra cui le celebri Cinque giornate di Milano, furono colte dalla monarchia sabauda come occasione per dichiarare guerra agli Asburgo e mettersi così idealmente a guida del moto nazionale. Ad essa si aggregarono, tiepidamente, gli altri sovrani italiani, che presto però ritirarono il loro appoggio per evitare un eccessivo rafforzamento di quello che era percepito comunque come un rivale. Pio IX aveva permesso l’invio di un nutrito corpo pontificio di soldati regolari e volontari. Egli però, frenando ogni entusiasmo, condannò la guerra all’Austria e raccomando alle sue truppe di limitarsi a compiti esclusivamente difensivi. L’esercito non lo ascoltò, aiutando a presidiare i territori veneti liberati coordinandosi con la Repubblica di San Marco, Stato insurrezionale guidato dal patriota Daniele Manin. Il clima di sconforto a seguito dell’armistizio ottenuto da Carlo Alberto dopo alcuni rovesci bellici e lo sconfinamento di truppe austriache nei territori pontifici contribuì ad esacerbare la crisi politica a Roma, con costanti agitazioni della popolazione e della Guardia Civica. L’apice si ebbe il 19 novembre con l’assassinio di Peregrino Rossi, capo del governo nominato da Pio IX come figura conciliante per le sue posizioni moderatamente patriottiche. Cinque giorni dopo il papa fuggì da Roma, riparando a Gaeta, sotto la protezione del Regno delle Due Sicilie. L’Assemblea Nazionale Costituente convocata a fine dicembre nella città rimasta priva di governo proclamò nella notte tra l’8 e il 9 febbraio, su proposta del socialista Quirico Filopanti, la nascita della Repubblica Romana.

Il famoso telegramma inviato lo stesso giorno da Goffredo Mameli, giovanissimo patriota genovese, contenente le tre parole “Roma Repubblica Venite!” segnò per Mazzini una nuova fase della sua vita. Mentre gli austriaci battevano a più riprese le forze sarde a seguito di una momentanea riapertura delle ostilità e si accingevano a sottomettere la Toscana, anch’essa insorta, e i territori delle legazioni pontificie, Mazzini, accolto trionfalmente in Roma, veniva nominato a capo della Repubblica Romana come parte di un triumvirato composto anche da Aurelio Saffi e Carlo Armellini. Con questa carica Mazzini affrontò l’invasione austriaca, quella parallela ispano-napoletana e l’assedio francese della Capitale. Rispetto a quest’ultimo, Mazzini promosse una linea d’apertura diplomatica che gli sarà duramente rimproverata da Giuseppe Garibaldi, tra i comandanti militari della difesa della città. Dopo mesi di strenua e valorosa resistenza, la città cadde in mano ai francesi senza una formale resa da parte delle autorità repubblicane il 4 luglio 1849 dopo che, simbolicamente, venne proclamata la Costituzione della repubblica. Da tribuno, assieme a molti altri provvedimenti quali la redistribuzione delle proprietà ecclesiastiche e l’approvazione di prestiti forzosi per consentire lo sviluppo del progetto democratico e rivoluzionario, Mazzini si fece portatore di un abbozzo di “legge agraria”, ricordato per altro con vivo interessa da parte di Antonio Gramsci sulle pagine dell’Avanti! del 26 luglio 1917. Si tratta di un breve decreto del 15 aprile 1849, con il quale Mazzini «offrì al popolo non il vano nome di libertà, che può anche essere il morir d’inedia, ma la redenzione del pane e del lavoro». Tale decreto, composto da due articoli, assegnava «ad ogni famiglia povera» una quantità di terra pari a 20.000 metri quadri, e ad ogni individuo la metà di tale misura in vigneti6.

La conclusione italiana della stagione rivoluzionaria del 1848-49, con l’occupazione di Venezia e Roma e il brutale saccheggio di Genova, teatro di un’insurrezione repubblicana, fece ancora una volta vacillare la fiducia nel partito democratico-rivoluzionario e aumentare il prestigio di Casa Savoia, cosa rafforzata dal fatto che Torino, unico caso in Italia, non ritirò lo Statuto concesso nel ‘48. Questa tendenza continuò per tutti gli Anni ‘50, soprattutto dopo la rivolta di Milano del 1853, animata soprattutto dagli operai, e il fallimento della spedizione di Sapri tentata nel 1857 dal patriota socialista Carlo Pisacane, che sperava di poter accendere un focolaio rivoluzionario nel Meridione appoggiandosi ai contadini. Il Partito d’Azione, fondato in Inghilterra da Mazzini lo stesso anno, nonostante i tentativi insurrezionali e la grande attività a sostegno dell’associazionismo operaio, artigiano, e anche, sebbene con un certo scetticismo, anche contadino, non riuscì a riprendere l’iniziativa, che ormai apparteneva stabilmente alla fazione filo-sabauda, raccolta attorno alla Società Nazionale Italiana, presieduta inizialmente da Manin e in stretti rapporti con lo stesso Garibaldi.

Sarà infatti compiuta all’ombra dei Savoia la Spedizione dei Mille, portando però alla frustrazione delle speranze garibaldine, prima con la quasi preventiva discesa degli eserciti monarchici lungo la Penisola atta ad intercettare i volontari, poi con le pallottole e le esecuzioni dell’Aspromonte.

E’ in questo contesto che si venne pubblicata l’opera “Dei doveri dell’Uomo”, esposizione più completa ed unitaria del pensiero politico-morale del Mazzini. Indirizzata agli operai italiani, il testo si configura come lettera agli stessi segnata da un “catechismo civile” fondato sulla concezione del dovere, non già di natura contrattualistica ma richiamato in chiave religiosa. E’ infatti Dio la sorgente suprema del Dovere, figura immanente e trascendente allo stesso tempo la cui essenza si manifesta nel progresso storico e nell’evoluzione morale dell’uomo. Ma se Dio ne è la sorgente, il Dovere non si incarna solo in lui, ma da lui si diffonde alle varie costruzioni sociali umane, strumento del progresso dell’uomo stesso. E così si creano doveri egualmente fondamentali ed importanti verso se stessi, la famiglia, la patria e l’Umanità. Il dovere verso il prossimo porta alla lotta a favore di questo. Qui vi è la grande differenza fra i pensatori liberali illuministi, fautori della “filosofia dei diritti”, e Mazzini: il diritto dev’essere garantito all’altro, prima che questo possa essere appannaggio del singolo. Vi è ancora una volta un sostanziale rifiuto delle sperequazioni nella fruizione dei diritti, il che lo porterà su posizioni totalmente critiche verso gli apologeti del laissez-faire e del libero mercato, e più generalmente verso tutta la compagine liberale. All’individuo ripiegato in se stesso e disinteressato al benessere altrui Mazzini contrapponeva l’Associazione, principio anch’esso di natura religioso-comunitaria individuabile come fil rouge dell’intero sistema concepito dal rivoluzionario, sia da un punto di vista delle relazioni sociali, che politiche, che economiche. Sarebbe difficile definire precisamente cosa intendesse Mazzini per Associazione, se non come fondamento ideale dei vari progetti materiali. Abbiamo già accennato parlando dei doveri il progresso comunitario che porta il singolo ad arrivare all’Umanità, e anche in questo è visibile l’Associazione, come progressiva dinamica inclusiva, che porta la singola entità non già ad annullarsi ma a completarsi in un contesto più grande che a sua volta è fine e mezzo per raggiungere qualcosa di ancora maggiore. Sono gli stessi principi a guidare l’aspetto economico del pensiero di Mazzini: riconosciuto il salariato come un istituto ingiusto e simil-schiavile, egli propone l’associazione di liberi lavoratori in strutture egualitarie e fondate sulla cooperazione: “V’è progresso nella condizione della classe alla quale voi appartenete: progresso storico, continuo, che ha superato ben altre difficoltà. Voi foste schiavi, voi foste servi, voi siete in oggi assalariati. V’emancipaste dalla schiavitù, dal servaggio; perché non v’emancipereste dal giogo del salario per diventare produttori liberi, padroni della totalità del lavoro della produzione ch’esce da voi? Perché tra l’opera vostra e l’opera della Società, che ha doveri sacri verso i suoi membri, non si compirebbe pacificamente la più grande, la più bella rivoluzione che possa idearsi, quella che, dando come base economica al consorzio umano il lavoro, come base alla proprietà i frutti del lavoro, raccoglierebbe, sotto una sola legge d’equilibrio tra la produzione e il consumo, senza distinzione di classi, senza predominio tirannico d’uno degli elementi del lavoro sull’altro, tutti i figli della stessa madre, la PATRIA?7. La trasformazione della società capitalista in questa rinnovata struttura non sarebbe il risultato di una sovversione sociale violenta, ma del progressivo sviluppo delle associazioni dei lavoratori e l’intervento educativo/legislativo dello Stato democratico. Questa prospettiva gradualista e l’ostilità alla negazione del valore progressivo della lotta di classe lo posero ovviamente in netto contrasto non solo rispetto al nascente socialismo scientifico, ma anche a diversi “socialisti utopici” d’impronta materialista, sistemi che definì come fondati su idee in massima parte buone ma invalidate moralmente dai mezzi d’attuazione. Lo scontro tra il socialismo scientifico, le varie dottrine a varia impronta socialista, dall’anarchismo al proudhonismo, e il pensiero mazziniano, definito da Lenin come una forma di “socialismo non proletario, pre-marxista8, caratterizzò il decennio d’esistenza della Prima Internazionale. L’apice dell’ostilità si ebbe poco prima della morte di Mazzini rispetto agli eventi della Comune di Parigi, visti con riprovazione da parte sua per le violenze e per i pericoli che egli sosteneva di vedere nell’ordinamento comunardo per l’unità nazionale.

Rientrato in Italia sotto falso nome, Mazzini si spense a Pisa il 10 marzo 1872. I suoi ultimi anni di vita furono segnati dall’ambigua situazione di eroe nazionale formalmente ricercato dalle nuove istituzioni unitarie, incapace di promuovere completamente le tendenze politiche allora nascenti e vitali, ma fermissimo nella sua volontà di non cedere a compromessi con la monarchia sabauda e rinunciare quindi al suo grande progetto di rinnovamento politico e sociale dell’Italia. Rivendicato da numerose correnti politiche dopo la sua morte, dalla sinistra repubblicana poi confluita nel movimento socialista al fascismo, dai liberal-democratici atlantisti al PCI, a Mazzini si deve la fondamentale comprensione della centralità dell’indipendenza nazionale come obiettivo inseparabile da qualsiasi trasformazione progressiva, posizione rivendicata tanto contro chi sosteneva la dominazione straniera quanto contro chi nel campo rivoluzionario sottometteva l’azione italiana all’intervento salvifico di una potenza straniera. L’armonizzazione dei concetti di individuo, patria e Umanità lo rende più che mai attuale e per nulla scontato nelle intuizioni. Sempre in campo politico, Mazzini fu tra i primi in Italia a concepire la necessità di un programma autonomo della classe operaia, aprendo le porte alla sua presa di coscienza e allo sviluppo di quello che diverrà il suo strumento di lotta più efficace, il Partito Comunista: “Braccia d’operai conquistarono la Bastiglia: che cosa ottennero dalla rivoluzione francese? Braccia d’operai rovesciarono il trono di Carlo X: cosa ottennero le moltitudini dall’insurrezione del 1830? Le associazioni, che prepararono in Italia il terreno ai movimenti del 1831, erano popolate d’operai: quali provvedimenti furono, non dirò presi, ma indicati da lungi alla speranza delle classi operose, perchè i padri si confortassero nell’idea che sorriderebbe ai figli un migliore avvenire? Gli operai delle città di provincia decisero in Inghilterra nel 1831 la questione della riforma: perché i pochissimi miglioramenti che originarono dal bill conquistato non fruttarono che alle classi medie? Mancava agli operai un ordinamento speciale; mancava quindi l’espressione regolare, insistente, imponente de’ loro bisogni. L’operaio si frammise a movimenti originati e diretti dalle classi medie, si confuse nelle vaste fila della Carboneria, scese in piazza a combattere, com’uomo, come cittadino, non come operaio. Venne in ajuto, come cifra numerica aggiunta alla lotta, non come elemento dello Stato, a classi che erano col fatto ordinate da secoli, e considerate da secoli come elementi della società. Accettò quindi necessariamente il loro programma, non diede il suo. S’anche, avvedendosi che i diritti politici senz’altro non gli fruttava, egli avesse, il dì dopo aver combattuto, esposto i proprî bisogni, era tardi: voce non collettiva ma d’individui, il rumore che menavano le classi ordinate istigatrici del movimento doveva disperderla, e la disperse.”9

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Note
  1. G. Mazzini, Manifesto della Giovine Italia, in Cosmopolitismo e Nazione, Roma, Eliot, 2011, p. 53.[]
  2. Ibidem, p. 55.[]
  3. G. Mazzini, D’alcune cause che impedirono finora lo sviluppo della libertà in Italia, in Scritti Politici, Vol. I, Einaudi, Torino, 1976, p. 106-115.[]
  4. G. Mazzini, Fede e Avvenire, Mursia, Milano, 2006, p. 144.[]
  5. Ibidem, p. 159.[]
  6. A. Gramsci, Briciole mazziniane, in Avanti!, 26 luglio 1917, citato in A. Bocchi, D. Menozzi, Mazzini e il novecento, Pisa, Edizioni della Normale, 2010, p. 186.[]
  7. G. Mazzini, Dei doveri dell’uomo, Mursia, Milano, 2006, pp. 100-101.[]
  8. V. Lenin, Marx ed Engels, Shake Edizioni, Milano, 2013, p. 18.[]
  9. G. Mazzini, “Necessità dell’ordinamento speciale degli operai italiani”, in “Apostolato popolare”, 15 aprile 1842.[]
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