Gustave Le Bon

Gustave Le Bon (Nogent-le-Rotrou, 7 maggio 1841 – Marnes-la-Coquette, 13 dicembre 1931) è stato uno psicologo sociale, sociologo e antropologo francese, noto soprattutto per i suoi studi sulla psicologia delle folle. Le Bon analizzò il comportamento collettivo, descrivendo le folle come entità irrazionali e facilmente manipolabili, dominate da emozioni primitive e suggestionabili da leader carismatici. Le sue teorie, sebbene criticate per il loro determinismo e per l’approccio elitista, ebbero un impatto significativo sulla sociologia e sulla politica del ‘900.

Pagina a cura di Eros Rossi Fomìn

Bibliografia

Libri

Psicologia delle folle

1895

Raccolte

Vita

Le origini

Nato nel 1841 a Nogent-le-Rotrou, in una famiglia della piccola borghesia conservatrice, Gustave Le Bon intraprese inizialmente la carriera medica, laureandosi a Parigi nel 1866. Tuttavia, la sua curiosità lo spinse ben oltre l’ambito clinico. Gli anni della giovinezza coincisero con un periodo turbolento per la Francia: il crollo del Secondo Impero, la Comune di Parigi (1871) e l’ascesa della Terza Repubblica. Questi eventi alimentarono in lui un interesse ossessivo per i meccanismi del potere e il comportamento delle masse, temi che avrebbero dominato la sua produzione intellettuale.

I primi studi razziali

Dopo aver servito come medico durante la guerra franco-prussiana (1870-71), Le Bon viaggiò a lungo in Nord Africa, India e Asia, pubblicando studi antropologici come Les civilisations de l’Inde (1887). Le sue osservazioni, però, erano intrise di pregiudizi coloniali: classificava le culture in gerarchie basate su supposta “superiorità razziale”, teorizzando che le società “primitive” fossero destinate a soccombere a quelle “evolute”. Queste idee, oggi screditate, riflettevano il darwinismo sociale dell’epoca e avrebbero influenzato il suo lavoro successivo.

Il successo arrivò nel 1895 con La psicologia delle folle, un’analisi cupa e cinica del comportamento collettivo. Le folle, per Le Bon, erano entità irrazionali, guidate da istinti primitivi e capaci di violenza incontrollata. «Nella folla», scriveva, «l’individuo perde ogni senso critico, diventando un automa in balia del capopopolo». Il libro, sebbene privo di rigore scientifico, divenne un bestseller, apprezzato da politici e dittatori. Mussolini lo definì “una bibbia”, e persino Freud ne riprese concetti ne La psicologia delle masse. Le Bon, però, non era un democratico: sosteneva che solo un’élite illuminata potesse governare le masse, viste come una minaccia all’ordine.1

Il declino e l’eredità negativa

Negli ultimi anni, Le Bon si dedicò a teorie ancora più controverse, come i cicli storici determinati dalla “purezza razziale” (Les lois psychologiques de l’évolution des peuples, 1894). Morì nel 1931, lasciando un’eredità ambivalente: pionieristico nello studio dei gruppi, fu anche un veicolo di idee razziste e antidemocratiche. Le sue opere, strumentalizzate dal fascismo, sono oggi lette con cautela, ma restano un monito sul legame tra scienza e ideologia.

Pensiero

La folla come entità primitiva

Le Bon costruisce la sua teoria attorno a un’idea radicale: la folla non è la somma degli individui, ma un organismo nuovo, dotato di una “anima collettiva”. Quando le persone si aggregano, sostiene, subiscono una trasformazione psicologica: l’intelletto si offusca, le emozioni si esaltano e prevale l’istinto. Nella folla, «l’individuo discende di parecchi gradini la scala della civiltà», diventando un essere impulsivo, violento e suggestionabile.

Questa visione, esposta in Psicologia delle folle (1895), riflette il timore borghese verso le rivolte popolari (es. Commune di Parigi) e le prime mobilitazioni di massa della classe operaia. Le folle, per Le Bon, sono pericolose perché sfuggono al controllo delle élite, ma possono essere dominate attraverso simboli, immagini ripetute e parole-chiave che attivano l’inconscio collettivo.

Il leader: ipnotizzatore delle masse

Al centro della sua teoria c’è la figura del capopopolo, un leader carismatico che esercita un’influenza quasi ipnotica. Per Le Bon, le folle hanno bisogno di un “condottiero” che incarni le loro aspirazioni confuse, trasformandole in azione. Questo leader deve possedere tre qualità:

  • Fede assoluta nelle proprie idee (anche se false),
  • Volontà ferrea per imporsi,
  • Semplificazione del messaggio (slogan, immagini emotive).

Le Bon anticipa qui le tecniche della propaganda moderna, influenzando direttamente figure come Mussolini e Goebbels. «La ripetizione è l’unica figura retorica che la folla comprende», scrive, prefigurando l’uso dei media di massa nel Novecento.

Razzismo e gerarchie “scientifiche”

Oltre alla psicologia delle folle, Le Bon elabora teorie razziali che mescolano darwinismo sociale e pregiudizi coloniali. In opere come Les lois psychologiques de l’évolution des peuples (1894), sostiene che:

  • Le razze superiori (es. europei) dominano per diritto naturale, grazie a una supposta “energia creativa”,
  • Le razze inferiori (africane, asiatiche) sono destinate a scomparire o a essere asservite.

Queste idee, presentate come “scienza”, giustificavano il colonialismo e l’imperialismo europeo. Le Bon arriva a teorizzare che «un negro istruito alla Sorbona rimane sempre un negro», sintetizzando il razzismo biologico dell’epoca.

Eredità e critiche

Le Bon è un pensatore paradossale: da un lato, ha contribuito a fondare la psicologia sociale; dall’altro, ha fornito strumenti ideologici al fascismo e al razzismo.
Ha influenzato la psicanalisi, con Freud che lo riprende nella sua analisi dell’ipnosi sociale ne La psicologia delle masse (1921), così come è anche stato studiato da Lenin, e ammirato invece da Mussolini, che definì Psicologia delle folle «il mio breviario politico», usando le teorie di Le Bon per costruire il culto del Duce.
I marxisti lo accusano di aver “demonizzato” le masse per legittimare il dominio borghese, mentre studiosi come Franz Boas hanno usato le opere di Le Bon come modello di analisi per le teorie razziali che erano diffuse in occidente prima della metà del XX secolo, smontandole con l’antropologia moderna, mentre Edward Said, nel suo Orientalismo (1978), ne critica le rappresentazioni coloniali.

Galleria

Foto
Arte
  1. Robert A. Nye, The Origins of Crowd Psychology (1975), analizza il contesto storico delle sue teorie.[]
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