Da Giovine Italia.
Nell’analizzare l’operato e le idee di una personalità storica ci si scontra sia con incontrastati meriti sia con limiti dettati dal contesto o dalla stessa persona. Giuseppe Mazzini non è un caso differente, ed è necessario quanto dovuto saper riconoscere i “punti deboli” del suo pensiero, le sue contraddizioni ed errori. Il suo ruolo nella storia dell’Italia moderna e la sua importanza nel movimento rivoluzionario sono indiscussi, la sua fede e la genuinità della sua lotta a favore del popolo e per una sua totale e completa emancipazione altrettanto. Si deve però convenire che non sempre il patriota genovese seppe avere una visione chiara su determinati eventi o situazioni, o formulare soluzioni concrete a problemi concreti.
Indice
Mazzini precursore
Fra i più grandi meriti di Giuseppe Mazzini vi è sicuramente quello di essere stato un precursore delle lotte sociali e democratiche contemporanee. A lui va il merito di aver tentanto di veicolare alle masse un messaggio di liberazione, seppur in maniera misticheggiante ed evangelica. Altri prima di lui avevano promosso le medesime idee, anche esprimendole in maniera più violenta e diretta, ma nessuno era mai riuscito ad uscire dalle anguste mura di una setta, un cenacolo di pochi intellettuali che per quanto volenterosi mancavano totalmente della preparazione pratica alla vita politica. E’ il caso di Filippo Buonarroti, giacobino in Francia, sostenitore della “Congiura degli Eguali” e poi delle sette degli “Apofasimeni” (alla quale aderirà Mazzini) e dei “Sublimi Maestri Perfetti”. Nello specifico, il pensiero di Buonarroti vedeva già in una prospettiva di classe la problematica sociale, ma ad egli mancava il legame pratico con la classe stessa. Fondò sette iniziatiche dedite alla preparazione di complotti e congiure a favore del popolo, ma di questo mancò sempre non solo il supporto, ma persino l’attenzione.
Mazzini sin dal 1931 volle creare, senza riuscirci, un’organizzazione che potremmo dire “di massa”, rivolta al popolo, ed in particolare al popolo minuto, non ad un ristretto gruppo di intellettuali. per questo si premurò di diffondere il contenuto sociale della Rivoluzione, cercando sempre però di non allontanare con estremismi verbali la borghesia che tramite le sue donazioni rendeva possibile la preparazione delle insurrezioni e la vita clandestina e che, secondo lui spaventata dai socialisti, aveva permesso il colpo di stato di Luigi Napoleone. “Proclamate l’intento SOCIALE della rivoluzione, enunciatelo al popolo: chiamate le moltitudini all’opera: l’onnipotenza sta nelle moltitudini: convincetele che voi non operate se non per migliorare il loro destino: scrivete sulla vostra bandiera: EGUAGLIANZA E LIBERTÀ da un lato, e dall’altro DIO È CON VOI: fate della Rivoluzione una religione: un’idea generale che affratella gli uomini nella coscienza di un destino comune, ed il martirio. Ecco i due elementi eterni di ogni religione”. E possiamo leggere come sul giornale “Apostolato Popolare” si affermi come “il lavoro attuale tende a far sì che la prima insurrezione porti carattere politico e sociale ad un tempo”, da realizzarsi tramite un “programma particolare” degli operai, che devono combattere anche in quanto tali. Per questo sono necessarie strutture associative e la capacità di sottrarsi alla tirannia dell’analfabetismo.
Così lo stesso Mazzini, esule a Londra, nel 1840 convinse degli operai italiani a fondare una scuola gratuita ed aperta a tutti avente come scopo l’educazione dei figli dei proletari, nella quale insegnò lo stesso Mazzini senza richiedere compenso alcuno. La stessa scuola, oramai casa per centinaia di studenti, arrivò a patrocinare gli incontri e gli eventi di associazioni operaie. La carità, seppur bizzarra, era sopportabile dall’Inghilterra reazionaria, ma il permettere al proletariato di parlare di politica in termini progressisti e rivoluzionari no, ed iniziarono ad arrivare le prime proteste da parte dell’alta società e gli aperti atti d’ostilità. Mazzini si stava scontrando con una realtà che lui, forse per educazione, non sembrava comprendere: la borghesia osteggiava ogni rivendicazione reale del proletariato perché timorosa di perdere il proprio potere, di vedere intaccati i propri privilegi. Per lui la questione era intimamente morale, fondata sull’educazione e sui principi sui quali essa si basava, non materiale. La borghesia si comportava in un tale modo, applicava determinate leggi e non si curava delle sorti del popolo perché “avvelenata” dall’ideologia dei diritti individuali. Con la Repubblica e il rovesciamento del paradigma dei valori sarebbe stata spontanea una rinuncia attiva a tutti i privilegi economici di questa classe, con una collaborazione con gli elementi proletari per arrivare ad una società senza classi, priva di egoismi e conflitti. Da un lato l’educazione, dall’altro l’associazione sindacale e produttiva degli operai, il tutto guidato da solidi principi morali che vedevano in Dio la sorgente stessa di un piano che indiscutibilmente tende all’uguaglianza e al progresso, ma che dal lato pratico pecca di ingenuità e di messianico ottimismo. D’altronde lo stesso Mazzini, questa volta in “Fede ed Avvenire”, testo del 1835, afferma come sia controproducente aspettarsi un aiuto genuino e sincero da parte dei monarchi, poiché essi giammai potrebbero rinunciare al potere faticosamente conquistato a favore della plebe. Perché dunque pensare che la borghesia, in specie la potentissima borghesia industriale o creditizia, possa fare altrettanto? La visione del genovese era limitata alla sua città natale, da sempre città mercantile, dove tutti, o quasi, erano in qualche modo “borghesi”. Pensando a questa classe la sua mente immaginava principalmente le botteghe delle sue vie natali, i farmacisti, i dottori come suo padre, i notai: quella piccola borghesia da secoli presente in Italia che condivideva aspirazioni, problemi e ricchezze con la stragrande maggioranza dei concittadini. Venutosi a scontrare con il terribile mondo industriale fatto di workhouses, criminalizzazione della povertà, interi quartieri composti da nauseabonde catapecchie abitati dal sottoproletariato londinese lui non poté che condannare ed osteggiare tale stato di cose, ma la soluzione da lui proposta era troppo “italiana” per un mondo del genere. Se gli appelli alla moralità e alla giustizia potevano, forse, animare il dottore del nord Italia (come successe a suo padre, capitano della Guardia Nazionale), erano lettera morta per il magnate petrolifero o ferroviario, l’industriale o il proprietario di miniere.
Fu il 1948 il vero punto di svolta: la borghesia iniziava ad avere paura, a temere che le rivendicazioni “liberali” diventassero “democratiche”, che si passasse da una critica ai dazi doganali ad una alle disuguaglianze sociali. Gli scioperi operai di Parigi avevano fatto alzare la guardia a tutti i ceti abbienti, in Italia preoccupati sopratutto perché questi avvenivano anche in solidarietà alla Repubblica Romana, che di per sé, con le sue stramberie sull’eguaglianza, i prestiti forzosi, l’educazione pubblica e l’assistenza sociale, era comunque fonte di turbamento per l’ala più liberale e moderata dello schieramento politico. Caduta la repubblica, Mazzini si trovò solo: da una parte moltissimi sedotti, volenti o nolenti, dalle sirene dei Savoia, oramai percepiti come unica speranza per l’unità nazionale, dall’altra i rubinetti dei tradizionali finanziatori ermeticamente chiusi, come altrettanto chiuse erano le porte delle case di persone che erano a lui state amiche. Testimonianza di ciò è l’insurrezione milanese del 6 febbraio 1853, organizzata completamente da operai guidati dallo stesso Mazzini, i quali assalirono gli austriaci praticamente privi di armi ed invisi alla cittadinanza agiata. La lista dei 16 insorti fucilati dopo la repressione del moto è eloquente sulla partecipazione al moto: garzoni, falegnami, maestri , facchini, venditori di latte. Karl Marx stesso ammirò questo tentativo rivoluzionario, ma condannò fermamente l’impreparazione e la scarsa organizzazione imputate a Mazzini, da lui chiamato sarcasticamente Teopompo: ” «L’insurrezione di Milano è significativa in quanto è un sintomo della crisi rivoluzionaria che incombe su tutto il continente europeo. Ed è ammirevole in quanto atto eroico di un pugno di proletari che, armati di soli coltelli, hanno avuto il coraggio di attaccare una cittadella e un esercito di 40.000 soldati tra i migliori d’Europa […] Ma come gran finale dell’eterna cospirazione di Mazzini, dei suoi roboanti proclami e delle sue tirate contro il popolo francese, è un risultato molto meschino. È da supporre che d’ora in avanti si ponga fine alle revolutions improvisées, come le chiamano i francesi […] In politica avviene come in poesia. Le rivoluzioni non sono mai fatte su ordinazione.»
Mondi sconosciuti: le campagne
Tornando indietro di due anni un altro tentativo rivoluzionario era stato tentato, la Spedizione di Sapri, dove troveranno la morte Carlo Pisacane e molti altri patrioti. Nato nella parte d’Italia più di tutte ancora legata al latifondo e ad un’economia totalmente agricola, Pisacane conosceva benissimo, o almeno pensava di conoscere, un mondo che a Mazzini restò sempre lontano: quello rurale. Le società di metà ‘800, pur ad industrializzazione in corso, era ancora sopratutto una società rurale. Questo vale come norma generale, poi andando ad analizzare il caso particolare si riscontrano situazioni di urbanizzazione e di industrializzazione già molto avanzate, pensiamo all’Olanda o all’Inghilterra, con Manchester e Londra in testa. Anche se le masse operaie erano di discendenza contadina, originatesi dal pauperismo cinquecentesco, il loro ambiente d’origine non perse d’importanza. Le masse rurali erano la chiave di volta per la Rivoluzione, e Pisacane questo lo sapeva. Quello che però non si aspettava era la constatazione dell’immensa presa che, a dispetto di fame e soprusi, avevano ancora le autorità ecclesiastiche e i vari notabili locali sui poveri contadini. Fu così che dipinto come brigante Pisacane venne assalito dalla stessa plebe che voleva liberare. La perdita dell’amico e compagno rattristò molto Giuseppe Mazzini, che vide in questo fatto una conferma del suo pensiero maturato già decenni prima: i contadini non riescono a recepire il nostro messaggio, sono ora impermeabili ad ogni propaganda politica. Tentativi erano stati fatti, e si contano consigli da parte sua alle società operaie affinché estendessero l’opera di propaganda al contado, ma non ci furono mai tentativi più energici. Antonio Gramsci terrà conto di questo in una critica al movimento democratico risorgimentale, che generalmente non seppe farsi portatore di una “riforma agraria” che avrebbe potuto essere il punto di svolta in una battaglia contro la monarchia che sarà poi persa.
Il rapporto con la proprietà e la lotta di classe
“Non bisogna abolire la proprietà perché essa oggi è di pochi, bisogna aprire le vie perché i molti possano acquistarla”. Questa frase tratta dal “Dei Doveri dell’Uomo”, del 1860, potrebbe apparire in contraddizione con altri elementi del pensiero sociale di Mazzini, come il passaggio alla proprietà sociale delle aziende e il conseguente decadimento di quella che lui stesso definiva “tirannia” del Capitale sul lavoro e del salariato, schiavitù moderna. La concezione della proprietà che egli ebbe non permette un paragone fra le sue affermazioni in merito e quelle di altri pensatori politici. Quando Marx parlava di abolizione della proprietà privata, Mazzini, che Marx non lo lesse mai se non tramite articoli di giornale (“Giuseppe Mazzini” di Roland Sarti), era convinto di trovarsi difronte all’idea di uno Stato assoluto proprietario di tutto dalle fabbriche agli effetti personali, uno stato più che totalitario. Visione distorta e anch’essa ingenua del pensiero marxista? Certamente. Mazzini, come anche Pisacane, fece proprio il motto “Associazione e Libertà”, dove entrambi i concetti erano indispensabili al progresso umano. Difendendo la proprietà, dove per questa si intendeva, e i suoi testi lo confermano, la proprietà dei frutti del proprio lavoro e i propri personali possessi, il genovese difendeva la libertà del singolo e delle comunità. “Padrone libero della totalità del valore della produzione che esce da voi”: questo è l’indirizzo del progresso sociale prospettato ai lavoratori, coniugazione, seppur vaga, di eguaglianza e di libertà. ma come ottenere questa emancipazione? Qui, purtroppo, ritorna l’ingenuità idealista e la Provvidenza. E’ proprio questa ad essere garante del moto libertario della condizione del proletariato: la sua emancipazione è progetto divino, ineluttabile. Noi uomini dobbiamo unicamente incamminarci lungo questa strada associando il capitale e il lavoro, ponendo nelle mani dei lavoratori, oramai tutti eguali, la gestione dei vari mezzi di produzione, creati dall’impegno degli stessi lavoratori o ceduti da una borghesia che non vuole più essere tale. L’educazione e la morale tornano ad avere un ruolo primario e privilegiato: alla lotta di classe si oppone una metafisica assunzione di tutte le persone, ora “gente” slegata ed egoista, al “Popolo”, con conseguente abbattimento di ogni classe sociale, in una società dove le uniche distinzioni sarebbero state quelle generate dall’inclinazione personale e dalla volontà. Una situazione da raggiungersi “gradatamente e pacificamente”, perché il vero problema risiede nella moralizzazione dell’Italia. Si ripetono le nostre conclusioni già prima esposte: buonissimi propositi di una società socialista e libertaria resi nella prassi irraggiungibili da un pacifismo evangelico che più che malizioso potremmo definire miope, poiché focalizzato unicamente all’ideale e solo di riflesso impegnato nella materialità. Occorre dire che, seppur senza trarne le dovute conseguenza, Mazzini constatò e seppe rispondere energicamente alle posizioni antidemocratiche ed antipopolari della borghesia, e ciò avvenne sempre all’interno della Repubblica Romana, unica esperienza in cui egli poté tentare la costruzione di un progetto statale, seppur soggetto alle contraddizioni di un’assemblea eletta a suffragio universale composta da un ampissimo spettro di parlamentari, dai socialisti come Quirico Filipanti ai reazionari monarchici. Si tratta dei forzosi “prestiti” che la Repubblica obbligò ricchi borghesi e latifondisti ad erogare, ed un poco conosciuto decreto, firmato da Mazzini stesso, che così commentava Antonio Gramsci sull’Avanti! il 26 luglio 1917:
“Mazzini offrì al popolo non il vano nome di libertà, che può anche essere il morir d’inedia, bensì la redenzione del pane e del lavoro: e fra i primi provvedimenti fu diminuito il prezzo del sale […] e specialmente fu bandito un decreto 15 aprile 1849, che è ancor oggi il maggior documento che Mazzini abbia elevato a se stesso nel cuore di ogni cosciente proletario! Con grato animo verso il suo ideatore rileggiamo insieme il breve e rivoluzionario decreto, che porta precisamente la sua firma e fu probabilmente da lui stilato <<Articolo 1°- Ogni famiglia povera, composta di almeno 3 individui, avrà a coltivazione una quantità di terra capace del lavoro di un paio di buoi, corrispondenti ad un buon rubbio romano, cioè due quadrati censuari, pari a metri quadri 20.000. Articolo 2°- I vigneti saranno dati a coltura all’individuo senza che sia richiesta famiglia, e verranno divisi in ragione della metà dell’indicata misura>>. Oggi i socialisti non potrebbero accettare un simile provvedimento perché lo stimerebbero inefficiente nella pratica ed inadeguato allo sviluppo economico della società, ma esso ha segnato allora la negazione aperta del diritto di proprietà, un tentativo di dare la terra e gli strumenti del lavoro ai lavoratori. Per questo può essere ricordato come esempio e come monito.”
Un rapporto ambiguo, dunque, sottomesso più alla mala-interpretazione delle idee straniere che ai miraggi di una pacifica ed ordinata società utopica, Il Mazzini reale ci svela come la borghesia stessa possa essere “punita” e la sua proprietà violata se essa non accetta l’avvenire di eguaglianza e libertà congruo alle idee da lui esposte, ma tutto non riesce ad avere ricadute pratiche, e i principi vengono proclamati nell’astratto, ed affidati nella realtà alla Provvidenza e all’interpretazione di Mazzini stesso. Bolton King osserva: “Mazzini pare che mai si domandasse quale sarebbe il destino ultimo del suo piano cooperativo; se l’avesse fatto avrebbe dovuto avvedersi che, sia pure per via diversa, sarebbe finito di necessità nel collettivismo”.
Conclusione
Giuseppe Mazzini, con i suoi limiti e il suo limitato spazio d’azione, rappresenta ancor oggi un esempio a cui guardare non solo per la sua opera sociale e politica, ma anche per le sue qualità di instancabile rivoluzionario, capace di cadere mille volte e sempre di rialzarsi. Nemmeno con la morte venne meno la sua opera ed il suo esempio, che venne raccolto dalle migliaia di società operaie evolutesi poi in sindacati e del Partito Socialista, dai suoi più giovani amici come Aurelio Saffi, dai volontari garibaldini in Grecia nel ’92, nel ’98, in Francia nel ’14 e in Spagna nel ’36. Ancora attuali sono i suoi moniti nei confronti del materialismo, poiché l’interesse materiale, se non posto alla tutela di un più ampio disegno, che lui dipingeva come morale e religioso ma di cui altre interpretazioni sono possibili, è soggetto alla degenerazione in egoismo, in ricerca dell’utile materiale. Corretti con una sana dose di realtà, che possiamo dire bilanci il suo idealismo, i suoi scritti sono fonte d’inestimabile valore per la crescita politica, e la sua biografia patrimonio di tutti gli oppressi e gli uomini che anelano alla libertà, convinti che l’avvenire debba avere il libero sviluppo di ciascuno come condizione per il libero sviluppo di tutti.