Dalla parte dell’Iran

Da diversi giorni in molte città iraniane hanno luogo violente manifestazioni che sono già costate la vita a decine di persone fra manifestanti e forze di sicurezza. Acclamate dai media e dai politici occidentali come episodi di lotta contro la pretesa “oppressione” governativa, queste hanno avuto origine dopo la morte della ventiduenne Mahsa Amini, avvenuta il 16 settembre dopo due giorni di coma. La giovane ragazza era stata presa in custodia dagli agenti del ‘gašt-e eršād’, la “polizia morale” della Repubblica Islamica, dopo una loro reprimenda riguardante l’utilizzo dell’hijab il 13 settembre. La giovane sarebbe dovuta essere portata negli uffici del corpo di polizia per una “lezione di moralità”, come prevedono i regolamenti del paese, e qui sarebbe poi collassata al suolo.

Subito l’opposizione filo-occidentale e i media dell’Impero delle menzogne hanno ripreso la notizia attribuendo la morte della ragazza a supposti pestaggi della polizia, a modello di quanto avviene quotidianamente negli Stati Uniti. Ma per sfortuna dei propagandisti di Washington e dei loro servi europei, le telecamere dell’edificio hanno ripreso in maniera nitida Mahsa Amini entrare in questo tranquillamente e senza impedimenti, arrivare nella sala centrale per poi, improvvisamente, accasciarsi a terra. Le riprese proseguono con il tentativo di soccorso delle persone in loco, seguito dalla purtroppo inutile corsa in ospedale.

Poco importano le evidenza: l’Occidente ha dichiarato Mahsa Amini morta per le percosse ricevute, e il colpevole non potrebbe che essere l’intrinsecamente brutale Repubblica Islamica dell’Iran.

Si potrebbe dire molto sulla brutalità dei “nostri” corpi di polizia, dalle decine di morti durante le proteste dei Gilets Jaunes a quelle in seguito all’assassinio di George Floyd, ma è importante invece concentrarsi su come battaglie che per la nostra sensibilità possano apparire più che legittime, come quella contro l’obbligo di indossare l’hijab in pubblico per le donne iraniane, vengano sistematicamente ridotte ad armi nell’arsenale dell’imperialismo.

In un paese fortemente religioso come l’Iran è naturale che si creino frizioni di natura “morale” ed estetica attorno all’osservanza delle regole di “buon costume”, e la nostra formazione laica ci fa sentire più vicini alle donne che chiedono di poter girare per le città a capo scoperto piuttosto che alle forze governative intente ad imporre questa legge. Ma così si rischia di perdere di vista il dato complessivo, che è quello realmente importante.

Le proteste che infuriano nel paese non sono manifestazioni spontanee di dissenso, ma un tentativo di rivoluzione colorata in piena regola. La lotta contro l’obbligo di hijab è unicamente il pretesto che le agenzie segrete occidentali, già attive in Iran da decenni con opere di sabotaggio e omicidi, hanno sfruttato per sguinzagliare nelle piazze del paese i propri collaboratori e mercenari. Non è infatti un caso che fra i numerosi arrestati e i colpevoli di agguati letali alle forze di polizia vi siano militanti dello Stato Islamico, secessionisti curdi e turcofoni. E non è nemmeno un caso che quest’ondata di violenza esploda poco dopo la fornitura della Repubblica Islamica alla Federazione Russa di droni suicidi Shahed-136, che si stanno rivelando particolarmente efficaci contro un esercito ucraino già fortemente indebolito da mesi di bombardamenti e dal dissanguamento delle “controffensive” recenti.

Se è giusto problematizzare il rapporto fra norma religiosa e disposizioni civili, ciò non può certamente essere fatto certamente dal centro dell’Impero e a favore di questo. Il fatto che l’Occidente si erga a campione della difesa dei diritti delle donne stride prepotentemente con la realtà di fatto sia all’interno di esso, dove, per esempio, i congedi per maternità sono progressivamente cancellati, sia dove decide di far valere la propria violenza. In che misura una donna vittima di bombardamenti a Belgrado o a Donetsk, di sanzioni a Caracas e Minsk può dirsi più “libera” rispetto ad una donna iraniana? E, sopratutto, cosa è più lesivo per la libertà di questa: l’obbligo di hijab o il regime sanzionatorio, i frequenti assassini ed attentati che piagano la vita del paese? Nonostante questo, a differenza anche di diversi alleati occidentali, una donna iraniana può accedere a carriere accademiche e politiche di alto livello. Sono numerose le donne iraniane ai massimi gradi della Repubblica, e queste compongono il 60% del corpo studentesco universitario. Dati alla mano, dalla Rivoluzione Islamica del 1979 si sono visti aumentare in maniera costante i dati relativi all’alfabetizzazione femminile, al completamento dei cicli scolastici delle alunne, al numero di donne nella forza lavoro, dell’età media delle spose e dell’uso dei contraccettivi. https://iranprimer.usip.org/blog/2020/dec/09/part-5-statistics-women-iran

E’ legittimo che in Iran vi siano donne contrarie all’uso obbligatorio del velo, non è legittimo che questo sia sfruttato da chi, al di fuori del paese, vorrebbe ridurre l’Iran al livello della Libia incitando separatismi e disordini.

Il fatto che le mobilitazioni abbiano una regia occulta non è segreto. Il modus operandi è lo stesso già visto all’opera in Siria, Libia, nella provincia cinese di Hong Kong e in Venezuela. E, infatti, puntualmente è arrivato l’appoggio tanto della Open Society di George Soros quanto del NED, il National Endowment for Democracy, vero e proprio organo di promozione di golpe del Dipartimento di Stato americano.

La strumentalizzazione dei diritti delle donne non è l’unica arma di destabilizzazione utilizzata dall’imperialismo. I movimenti LGBT svolgono una funzione analoga, anche se dai risultati reali meno riscontrabili, in paesi come Serbia, Russia e Bielorussia. La rivendicazione di pari trattamento per i cittadini a prescindere dalle preferenze sessuali, fatto ostacolato non già da leggi ma, al limite, da certa mentalità insita in parti della popolazione, viene utilizzata per rivolgere accorati appelli all’Occidente e per sobillare i giovani, particolarmente esposti alla propaganda a causa dei social e di internet, contro le istituzioni nazionali. Non è un caso che le ONG collegate alle battaglie LGBT mediaticamente più rilevanti siano legate sistematicamente a doppio filo con le centrali geo-strategiche occidentali, e che proprio gli enti governativi e para-governativi europei ed americani non manchino mai di orientare soldi, sostegno ed attenzione alle loro mobilitazioni.

E’ questo il caso della sfilata LGBT organizzata a Belgrado che, nonostante il divieto delle autorità per motivi di ordine pubblico, si è tenuta sotto la benedizione, e la partecipazione, dell’ambasciata statunitense locale. I manifestanti, al posto di cacciare chi si è reso colpevole di innumerevoli morti, hanno accolto calorosamente l’ambasciatore Christopher Hill, mostrando scarsissima considerazione per i diritti, “civili” e non, della stragrande maggioranza dell’umanità e dei serbi stessi, che hanno subito in prima persona gli effetti della “libertà” occidentale.

Le campagne ideologiche connesse al mondo LGBT e a quello “femminista” vengono sfruttate dall’imperialismo anche sul piano interno. Proprio ora, in periodo elettorale, possiamo vedere come Giorgia Meloni sia messa all’indice in quanto “omofoba”. Non per aver preso le parti del regime nazista di Kiev, non per essersi schierata con l’apartheid israeliano, non per rivendicare quotidianamente le parti dei ricchi e degli sfruttatori contro gli interessi reali della stragrande maggioranza degli italiani…ma in quanto contraria all’adozione a coppie “omogenitoriali”. Ma tutto questo avviene anche con una certa complicità della Meloni, la quale per prima pone il suo scontro con il centrosinistra mettendo al centro temi identitari: “l’italianità”, la “tradizione”, la lotta alla sempre presente “ideologia gender”…E’ chiaro che quindi il campo del dibattito politico deve essere ridotto drasticamente: si può mettere in discussione l’idea astratta di “famiglia”, riconducendola o a quella etero-nucleare, o a categorie “fluide” più o meno comprensibili. Quello che non si può fare è mettere in discussione i paradigmi sociali, politici ed economici che impediscono alla stragrande maggioranza degli italiani di avere una famiglia, di poter avere dei figli ed un’esistenza serena. E ovviamente ancor meno in discussione può essere l’appartenenza al blocco occidentale, rivendicata tanto dai meloniani (et similia) quanto dai manifestanti arcobaleni, che prescrive, fra le altre cose, l’odio atavico per un paese come l’Iran, che ha la terribile colpa di non essersi piegato all’imperialismo, di essersi sviluppato nonostante le sanzioni e di contribuire attivamente alla costruzione di un mondo multipolare.