Stati Uniti d’Europa? Impossibili o reazionari

Da L’AntiDiplomatico.

Recentemente Marco Travaglio ha pubblicato un editoriale sul Fatto quotidiano, giornale di cui è direttore, intitolato “Il regalo di Trump”. Nell’articolo Travaglio tocca il tema della costituzione di un unico esercito europeo, da porre al servizio di una politica estera europea indipendente dagli Usa. In pratica non sarebbe altro che la riduzione ulteriore della sovranità degli stati europei in un campo, quello delle Forze Armate e della politica estera, che rappresenta il nocciolo stesso dell’esistenza di uno Stato. Infatti, secondo i maggiori filosofi e sociologi, tra cui Max Weber e Frederick Engels, lo Stato si caratterizza in primo luogo per il monopolio della forza su un dato territorio. Di conseguenza, la formazione di Forze Armate europee, unitamente a una politica estera comune, prefigurano la costruzione di un nuovo super-Stato europeo, gli Stati Uniti d’Europa.

L’opinione di Travaglio è particolarmente interessante perché il direttore del Fatto quotidiano ha assunto sulla guerra tra Russia e Ucraina una posizione molto più equilibrata della stragrande maggioranza dei direttori dei quotidiani nazionali. Travaglio, inoltre, viene considerato di “sinistra”, malgrado il fatto che sia un liberale, che come giornalista si sia formato con Indro Montanelli e che si sia sempre collocato ideologicamente a destra. Ma questa sorta di confusione è del tutto naturale in un mondo in cui la maggior parte della sedicente sinistra, a partire dal Pds-Ds-Pd, ha attuato politiche di destra sul piano economico, comprendenti privatizzazioni e liberalizzazioni del mercato del lavoro (dal “pacchetto Treu” al jobs act), che hanno prodotto una diffusa precarizzazione. Un analogo spostamento a destra è stato attuato anche riguardo alla politica estera: il Pds-Ds-Pd è stato in Italia il maggiore paladino della Nato e delle regole del Patto di stabilità europeo, incluso il pareggio di bilancio, anche più di Berlusconi.

Ma torniamo all’editoriale di Travaglio. Il giornalista parte da due dichiarazioni recenti, una di Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato, e una di Donald Trump. Stoltenberg pensa che ci sia la possibilità di una invasione russa nei confronti dell’Europa e, quindi, che ci sia la necessità di “passare da una produzione bellica lenta da tempi di pace a una veloce da tempi di guerra”. Trump, invece, a un capo di governo europeo, che chiedeva se gli Usa a guida Trump sarebbero corsi in difesa del suo Paese anche nel caso in cui non mantenesse l’impegno Nato di alzare la spesa al 2% del Pil, ha così risposto: “Non ti proteggerei e incoraggerei i russi a fare quel diavolo che vogliono. Paga i tuoi conti se no sei un delinquente.” Secondo Travaglio, lo scenario Trump conviene all’Europa molto più dello scenario Stoltenberg. Le ragioni sono semplici: “Se ora Trump vuole sciogliere la Nato, l’Europa dovrebbe approfittarne per creare una propria difesa (un esercito al posto di 27, risparmiando con le economie di scala) e una propria politica estera autonome dagli Usa”. Inoltre, Travaglio auspica una nuova conferenza “che garantisca la sicurezza di tutti, incluse Russia e Cina. Che non sta scritto da nessuna parte che siano nostre nemiche. Se gli Usa vogliono continuare a combatterle affari loro. Noi europei potremmo finalmente iniziare a farci gli affari nostri.”

Il punto però è proprio questo: gli “affari nostri” non sarebbero quelli della stragrande maggioranza dei cittadini europei, ma di chi comanda realmente e di chi, quindi, guiderebbe il processo di maggiore integrazione a livello militare e di politica estera, cioè le élite economiche, rappresentate dal grande capitale, cioè dalle multinazionali e dalle grandi banche internazionalizzate. Il tema per la verità non è affatto nuovo. Nel 1915, mentre infuriava già da un anno la Prima guerra mondiale e centinaia di migliaia di morti si accumulavano nelle trincee, tra la socialdemocrazia europea cominciò a diffondersi un certo favore verso la parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa, che, costituendo un unico grande stato europeo, avrebbero evitato conflitti sanguinosi come quello in corso. Si trattava di una parola d’ordine apparentemente progressiva. Sul tema intervenne anche Lenin, leader del partito bolscevico, con un articolo, intitolato “Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa” sul n.44 del Sotsial-Democrat (23 agosto 1905). Lenin – coerentemente con una impostazione materialistica, sosteneva che non si poteva dare un parere senza considerare il lato economico. In pratica si trattava di partire dalla struttura dei rapporti di produzione e dalle relazioni economiche internazionali esistenti, cioè dal modo di produzione capitalistico e dal sistema imperialistico, che si basava (e si basa tutt’ora) sulle relazioni ineguali tra un centro sviluppato e dominante, costituito all’epoca soprattutto dai Paesi dell’Europa occidentale, e da una periferia arretrata e subordinata, che comprendeva Africa e Asia. 

È partendo da questo contesto socio-economico che Lenin arriva alla sua conclusione: “Dal punto di vista delle condizioni economiche dell’imperialismo, ossia dell’esportazione di capitale e della spartizione del mondo da parte delle potenze coloniali <<progredite>> e <<civili>>, gli Stati Uniti d’Europa sarebbero o impossibili o reazionari.”

Secondo Lenin, gli Stati Uniti d’Europa sarebbero impossibili, perché le potenze europee detengono il controllo di colonie e semicolonie (Cina, Turchia e Persia) che comprendono gran parte della superfice terrestre e della popolazione mondiale e lottano per spartirsi questo ricco bottino. L’esistenza delle colonie rende impossibile il superamento degli stati nazionali e la costruzione di uno stato europeo unitario: “Così è organizzata, nel periodo del più alto sviluppo del capitalismo la spoliazione di circa un miliardo di uomini da parte di un gruppetto di grandi potenze. E nessun’altra forma di organizzazione è possibile in regime capitalistico. Rinunciare alle colonie, alle <<sfere d’influenza>>, all’esportazione di capitali? Pensare questo, significherebbe mettersi al livello del pretonzolo che ogni domenica predica ai ricchi la grandezza del cristianesimo e consiglia di far dono ai poveri…se non di qualche miliardo, almeno di qualche centinaio di rubli all’anno.” L’unico principio che le potenze europee conoscono per spartirsi il mondo è la forza, quella economica innanzi tutto e poi quella militare. Nel capitalismo non è possibile uno sviluppo uniforme né delle aziende né dei singoli Stati, che crescono in modo differente: alcuni rallentano la loro crescita, mentre altri, gli outsiders, la aumentano. Di conseguenza non sono possibili altri mezzi per ristabilire di tanto in tanto l’equilibrio spezzato, al di fuori della crisi nell’industria e della guerra nella politica. 

Tuttavia Lenin non esclude a priori che le potenze europee possano addivenire a un accordo, ma un tale accordo avrebbe implicazioni reazionarie: “Certo, fra i capitalisti e fra le potenze sono possibili degli accordi temporanei. In tal senso sono anche possibili gli Stati Uniti d’Europa, come accordo fra capitalisti europei…ma a qual fine? Soltanto al fine di schiacciare il socialismo in Europa e per conservare tutti insieme le colonie accaparrate contro il Giappone e l’America, che sono molto lesi dall’attuale spartizione delle colonie e che, nell’ultimo cinquantennio, si sono rafforzati con rapidità incomparabilmente maggiore dell’Europa arretrata, monarchica, la quale comincia a putrefarsi per senilità. In confronto agli Stati Uniti d’America, l’Europa, nel suo insieme, rappresenta la stasi economica. Sulla base economica attuale, ossia in regime capitalistico, gli Stati Uniti d’Europa significherebbero l’organizzazione della reazione per frenare lo sviluppo più rapido dell’America.”

È passato più di un secolo dalle parole di Lenin, eppure continuano a contenere un nocciolo di verità. Gli Stati Uniti d’Europa sono impossibili anche oggi, perché i vari Stati hanno interessi spesso contrapposti. Le colonie non esistono più ma la competizione per le sfere d’influenza non è per questo finita. Pensiamo all’aggressione contro la Libia nel 2011, voluta in primo luogo dalla Francia, che mirava a sostituire l’influenza italiana in quel paese, subentrando con le sue multinazionali petrolifere e industriali all’Eni e a Leonardo. 

Anche l’integrazione dell’industria bellica, base per la costruzione di un esercito europeo, appare tutt’altro che facile. Mario Draghi ha avvertito più volte che c’è necessità di una difesa unica europea, perché “nessuno può raggiungere da solo la sicurezza militare”, a partire dalla collaborazione europea per la progettazione dei costosi sistemi d’arma moderni. A questo proposito sono significative le parole di Adriana Cerretelli: “La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha declassato il green deal, il blasone impallidito del suo primo mandato, e messo la costruzione dell’eurodifesa in cima alle priorità del suo prossimo quinquennio a Bruxelles. Con tanto di Commissario alla Difesa. <<Spendere di più, meglio ed europeo>>, lo slogan della grande svolta.”vi L’obiettivo della Commissione europea è quello di dare luogo a appalti pubblici integrati che favoriscano l’acquisto di sistemi d’arma prodotti a livello europeo. Tuttavia, la realtà va in un’altra direzione: per la costruzione dell’aereo da caccia di sesta generazione, l’Italia sta in un progetto (il Tempest) insieme con due potenze situate fuori della Ue, il Regno Unito e il Giappone, mentre la Francia e la Germania stanno progettando un altro caccia di sesta generazione per conto loro. Inoltre, sempre secondo la Cerretelli, la divergenza tra atlantisti (Germania e Italia in primis) e autonomisti (Francia) rallenta il processo di realizzazione della difesa europea. Senza contare che la Francia mira a “francesizzare” l’industria bellica europea sollevando le preoccupazioni degli altri stati, come l’Italia, per il futuro delle proprie aziende belliche. 

Ma anche nel caso in cui si riuscisse a realizzare un esercito comune e una industria militare veramente europea, ciò sarebbe diretto verso la realizzazione di un polo imperialista europeo orientato a contrastare la Cina e la Russia non solo in Europa ma anche in Africa e altrove. L’Europa odierna è caratterizzata ancora di più di quella di un secolo fa dal dominio del grande capitale e da una tendenza imperialista, e, anche più di un secolo fa, si trova in una condizione di stagnazione economica e di arretramento non più nei confronti degli Usa e del Giappone, ma nei confronti dei cosiddetti emergenti, a partire dalla Cina. A differenza dell’epoca di Lenin, non c’è un grande movimento dei lavoratori che cresce e che si pone l’obiettivo della realizzazione del socialismo, ma, oggi come allora, gli Stati Uniti d’Europa avrebbero un contenuto reazionario anche a livello interno perché l’Europa attuale è fatta a immagine e somiglianza degli interessi delle sue élite e non certo dei lavoratori e dei popoli del continente. Perciò gli Stati Uniti d’Europa avrebbero come risultato quello di ridurre ancora di più i risicati margini di democrazia formale che sono rimasti. Per concludere e ritornare alle parole di Travaglio, appare con estrema chiarezza che l’idea che la costruzione di un unico esercito europeo possa avere risvolti positivi, tra i quali rapporti più equilibrati con Cina e Russia e maggiore autonomia dagli Usa, è quantomeno ingenua se non reazionaria, oggi come cento anni fa.