Non avrai altro Dio all’infuori di me

Da La Fionda.

La tecnica richiede senza tregua che tutto il realizzabile venga realizzato, secondo il rispettivo stadio di sviluppo. Dico “richiede” dato che oggi il possibile è quasi sempre accettato come obbligatorio, ciò che si può fare come ciò che si deve fare.

Günther Anders

Sono in diversi, ultimamente, a chiedersi che cosa sta accadendo. Non è facile – forse nemmeno possibile – cogliere le dinamiche dominanti del periodo storico che si sta vivendo. L’impresa risulterà certo più agevole ai posteri, che potranno guardare a questo inizio di  millennio con quel distacco che permette un minimo di obiettività. Il senno di poi, tuttavia,  giungerà quando saremo ormai fuori gioco, quando non potremo più trarne alcun giovamento. Pertanto, col presente contributo provo a delineare una chiave di lettura che – a mio parere – può interpretare almeno in parte la fenomenologia politica e sociale del nostro tempo.

«Tutto scorre» secondo il noto aforisma attribuito ad Eraclito. «Tutte le cose hanno origine l’una dall’altra e periscono l’una nell’altra», così per Anassimandro. Dai batteri alle stelle, passando per noi comuni mortali, prima o poi tutto ciò che è generato perisce. È solo questione di tempo. Le civiltà conoscono una fase di ascesa seguita da una fase di declino. Le nuove teorie scientifiche mettono in disparte quelle che le hanno precedute. I paradigmi si succedono: quanto sosterrò nel seguito prende le mosse proprio da quest’ultimo dato di fatto.

Come paradigmi di riferimento considererò quello cristiano e il suo successore, quello scientifico, il nostro «spirito del tempo». Naturalmente, le transizioni di paradigma non comportano una cesura netta e repentina tra due visioni del mondo. Il passaggio è graduale, quasi senza soluzioni di continuità. Ciò che era prima sfuma a favore di ciò che sopravviene. Alcuni aspetti del vecchio paradigma sopravvivono a lungo nel nuovo, pur non configurando più, nel loro complesso, un sistema di riferimento privilegiato. Così, alcune pratiche e certi tratti tipici del paradigma cristiano rivestono ancor oggi un ruolo tutt’altro che marginale, seppur non più di primo piano. Ancora: certi aspetti soggiacenti al paradigma fuori corso si ritrovano, pressoché immutati, nel sottostante di quello corrente. Come osserva Umberto Galimberti, la scansione teleologica del tempo caratteristica del cristianesimo è stata ripresa pari pari dalla scienza: se  per il primo il passato era peccato, il presente redenzione e il futuro salvezza, per la seconda il passato è errore, il presente ricerca e il futuro progresso.      

Come al paradigma cristiano è subentrato quello scientifico, così quest’ultimo farà il suo tempo e, prima o poi, verrà rimpiazzato dal suo successore: quando avverrà il trapasso, e quali saranno le caratteristiche specifiche del nuovo paradigma, non è dato a sapersi. Quello che è certo è che il paradigma scientifico, come tutte le altre cose di questo mondo, non sarà per sempre. Il fattori che hanno decretato la sua ascesa sono noti, non mi ci soffermo. Resta da capire quali determineranno il suo declino, e se questo sia già in atto o debba ancora venire. Su questi due punti mi permetto di avanzare qualche congettura.

Comincio con una distinzione, sommaria e provvisoria, tra tecnica e scienza. La tecnica, qui intesa come manipolazione del mondo, è molto più datata della scienza. La prima risale almeno a quando l’uomo cominciò a levigare la prima selce per farne un coltello rudimentale o la punta di una lancia. Per la scienza, se vogliamo intenderla come implementazione del metodo scientifico, occorrerà invece attendere Galileo, sebbene alcuni aspetti cruciali della mentalità scientifica possano rinvenirsi già nella filosofia naturale dell’antica Grecia.

La scienza ha impresso un impulso formidabile allo sviluppo tecnico e, non essendo in vista alcun capolinea all’impresa scientifica, si può ritenere che questa spinta possa protrarsi indefinitamente. In altri termini, pare ragionevole ritenere che il paradigma scientifico non cederà il passo per esaurimento della sua carica propulsiva, potenzialmente illimitata. Questa, a mio avviso, una delle ragioni per cui in genere le persone, pur consapevoli che niente è per sempre, ragionano come se il paradigma scientifico fosse imperituro. La mia impressione è che, a dispetto della crescente vitalità che sta dimostrando, e della incontenibile creatività che sta esibendo, il paradigma scientifico abbia già imboccato la via del tramonto.

Un paradigma si articola a partire da un criterio di verità. E i criteri di verità non risiedono nei risultati tangibili che riescono a rendere disponibili. I criteri di verità nascono, vivono e muoiono nella testa delle persone. È sotto gli occhi di tutti che, ormai da diversi decenni, una minoranza della popolazione ha cominciato a nutrire una certa diffidenza nei confronti dell’impresa scientifica, e che questa minoranza sta crescendo, sta diventando sempre meno trascurabile. Questo, a mio avviso, il primo e chiaro segnale che il paradigma scientifico sta entrando progressivamente in crisi. Non ha alcuna rilevanza, in questa sede, chiedersi se questa diffidenza stia insorgendo a torto o a ragione. Forse non è nemmeno possibile proprio perché, per attribuire torto o ragione occorre, per l’appunto, adottare un certo criterio di verità.

Fatto sta che l’insofferenza nei confronti dell’egemonia scientifica sta progressivamente prendendo piede e questa, a mio modo di vedere, è l’unica cosa che conta qualora si voglia valutare lo stato di salute del paradigma scientifico. Da che cosa origina il crescente sospetto che serpeggia sempre più vistosamente nei confronti della scienza?

A ben vedere, questo sentimento non prende ad oggetto la scienza, o perlomeno non direttamente. Si rivolge piuttosto a certi risultati che la tecnica – qui intesa, lo ribadisco, come manipolazione del mondo – ha potuto ottenere in ordine a quelli conseguiti dalla scienza. Penso, ad esempio, ad una delle prime circostanze che hanno visto nascere – e insinuarsi nell’immaginario collettivo – la diffidenza nei confronti degli scienziati: lo sviluppo delle armi nucleari. Fu nell’immediato secondo dopoguerra che, per la prima volta nella sua storia, l’umanità si ritrovò in grado di annientare sé stessa. Scusate se è poco. Scusate se, in quel frangente, qualcuno ha cominciato a vedere gli scienziati come una sorta di “stregoni” pericolosi, perlomeno nella misura in cui investono i comuni mortali di poteri che non sono in grado di gestire, di esercitare saggiamente. Sebbene sia fuori discussione il fatto che la scienza e la tecnica hanno per molti versi migliorato le nostre condizioni di vita, qualcuno in quegli anni ha cominciato a usare la bilancia a piatti, mettendo sull’uno i problemi che il paradigma scientifico è riuscito a risolvere e, sull’altro, quelli che gli è capitato di creare. Scusate se qualcuno ha cominciato a soppesare i pro e i contro.

Nei decenni successivi, in piena guerra fredda, sul piatto dei problemi creati è andato ad aggiungersi quello ambientale, innescato dagli effetti collaterali dell’impiego massiccio di idrocarburi e di prodotti chimici di sintesi. Il dritto e il rovescio della medaglia tecno-scientifica cominciavano a farsi vedere entrambi. La bilancia dei pro e dei contro, prima decisamente sbilanciata a favore,  cominciava ad oscillare attorno alla posizione di equilibrio. Chi legge queste righe può avere l’impressione che chi le ha scritte abbia qualche problema con la scienza e con la tecnica. Mi corre allora il dovere di tagliare per un attimo, prima di riannodarlo, il filo del discorso. Con questo nodo voglio fissare il secondo fulcro del ragionamento che mi appresto a riprendere. 

Ho dedicato la mia vita alla scienza, per metà da studente e per la restante parte da insegnante. Questo non ha certo fatto di me uno scienziato, ma continuo a pensare che l’esercizio sistematico del dubbio – il cuore pulsante dell’impresa scientifica – sia il motore della ricerca. Chi non ha dubbi, chi vive di certezze, non ha alcun bisogno di impegnarsi in nessuna ricerca. Per come lo vedo io, il problema non sta tanto nella scienza, quanto nella tecnica.

Ecco levarsi le tipiche obiezioni che vengono mosse a chi osa mettere in discussione la tecnica. “Che vuoi dire? Intendi forse di tornare sugli alberi a far compagnia alle scimmie?” Vero che «la tecnica è l’essenza dell’uomo» perché, come disse qualcuno, l’uomo è l’unico «animale non specializzato». Ma ciò non implica che l’uomo non possa, quando necessario, porvi un freno. Nell’antica Grecia aveva una certa importanza il concetto di misura: «chi non conosce i propri limiti tema il destino» ammoniva Aristotele. La hybris, la tracotanza, la dismisura era il peccato capitale. Più tardi, con Hegel, occorrerà riconoscere che la variazione quantitativa di un fenomeno ne comporta una variazione qualitativa. Un farmaco, se assunto secondo misura, può essere un toccasana. Ma quando viene assunto a dismisura può diventare un veleno. La variazione quantitativa si traduce in una variazione qualitativa: lo ribadisco perché, a mio modo di vedere, questo è un punto tanto importante quanto sottovalutato quando si parla di tecnica, e della tecnologia che rende disponibile.

Che cos’è la tecnica, la nostra capacità di manipolare il mondo, se non una sorta di “farmaco” che a volte funge da “integratore” e altre da “antidolorifico”? Che cos’è la tecnica se non il rimedio che abbiamo messo in atto per lenire tanto la fatica quanto la sofferenza del vivere? Come tutti i rimedi, anche la tecnica richiede di essere dosata, di essere assunta secondo misura. Se non teniamo conto di questo semplice fatto, la tecnica creerà – come a mio parere sta già facendo – più problemi di quanti potrà risolverne. Se non siamo in grado di agire secondo misura, se ci lasciamo andare alla dismisura, il toccasana della tecnica si trasforma in un veleno, la benedizione tecnica in una maledizione, il rimedio alla fatica e alla sofferenza del vivere nella condanna agli stessi mali. I denti e la pelliccia del lupo – un animale specializzato – gli conferiscono un certo vantaggio solo se si sviluppano secondo misura. Se i canini crescono fino a perforare il palato, se la pelliccia cresce fino ad intralciare il passo, il vantaggio vitale si tramuta in uno svantaggio potenzialmente letale. Così per la tartaruga: se il suo guscio cresce a dismisura, anziché difenderla dai predatori diventa la sua stessa tomba.

La mia impressione è che, in fatto di tecnica, abbiamo passato il segno. Siamo ben oltre la misura, ci siamo da tempo addentrati nelle lande desolate della hybris, e in esse ci aggiriamo mesti e grigi senza interrogarci sulla condizione deplorevole in cui ci siamo incautamente infilati. Gli incrementi iperbolici dello stress, delle ansie, delle depressioni, delle psicosi, dei suicidi, del malcontento che attanagliano e divorano in particolare gli abitanti dei paesi tecnicamente sviluppati sono, a mio avviso, chiari sintomi dell’avvelenamento tecnico che ci siamo procurati con le nostre stesse mani, della maledizione tecnica verso la quale stiamo correndo con le nostre stesse gambe. E siccome oggi, a differenza di quanto avveniva in passato, la scienza e la tecnica si sono saldate in un unicum che solo la speculazione accademica può pretendere di separare, ecco che sempre più persone cominciano ad avere qualche riserva, e a nutrire qualche dubbio, sulle «magnifiche sorti e progressive» del mondo, a più riprese promesse – ma non ancora realizzate – dai sostenitori a oltranza del paradigma scientifico. Ciò considerato, riprendo a trafficare con la bilancia a piatti, mettendo in luce un ulteriore aspetto da soppesare accuratamente, vuoi perché affacciatosi di recente sulla scena del tecno-barocco, vuoi perché trattasi davvero di un peso massimo.

Avendo insegnato sempre e solo nel primo biennio degli istituti tecnici, non posso dire di avere una visione complessiva delle scuole “superiori”, come venivano chiamate un tempo. Per contro, ciò mi ha messo a disposizione uno storico di risultati relativi al medesimo ordine scolastico. Nel corso dell’ultimo ventennio ho osservato un calo apprezzabile del livello al quale riuscivo a portare i miei studenti, e ho avvertito l’esigenza di interrogarmi su quali potessero esserne le cause. Mi chiedevo se avessi perso autorevolezza come docente, se la qualità del mio insegnamento stesse scemando, se cominciasse a farsi sentire lo scarto generazionale tra chi stava in cattedra e chi sedeva nei banchi. A me sembrava di no: nel corso degli anni mi ero fatta un po’ d’esperienza su come si mantiene l’attenzione di una classe, col tempo avevo messo insieme un bagaglio di esempi, metafore e analogie che avrebbero dovuto aiutare gli studenti a far propri i concetti più ostici della chimica, e all’epoca in cui cominciavo a pormi questo problema ero ancora trentenne. Oltretutto, avevo osservato che nell’ultimo decennio gli studenti con difficoltà certificate (dislogici, dilessici, disgrafici, discalculici) non rappresentavano più un’eccezione: stavano diventando la regola, il ché non dipendeva certo da me. Così mi decisi a confrontarmi con quei miei colleghi dell’area scientifica che, essendo più avanti con l’età, disponevano non solo di un’esperienza, ma anche di uno storico più significativi dei miei. Ricordo che appresi, non senza un certo sgomento, come pure molti di loro avessero rilevato questa tendenza al ribasso, e l’aumento di studenti in difficoltà. Ecco cosa scriveva Marco Lodoli nei primi anni del millennio, gli stessi in cui Letizia Moratti, allora Ministro all’Istruzione nel governo del Cavaliere, inaugurava la “scuola delle 3I” (Informatica, Inglese, Impresa), poi ripresa dalla sedicente “buona scuola” di renziana memoria, che ancor oggi illumina il sistema scolastico italiano.

A me sembra che sia in corso un genocidio di cui pochi si stanno rendendo conto. A essere massacrate sono le intelligenze degli adolescenti, il bene più prezioso di ogni società che vuole distendersi verso il futuro. […] La mia non è una sparata moralistica di chi rimpiange i bei tempi in cui i ragazzi leggevano tanti libri e facevano tanta politica. Io sto notando qualcosa di molto più grave, e cioè che gli adolescenti non capiscono più niente. I processi intellettivi più semplici, un’elementare operazione matematica, la comprensione di una favoletta, ma anche il resoconto di un pomeriggio passato con gli amici o della trama di un film sono diventati compiti sovrumani, di fronte ai quali gli adolescenti rimangono a bocca aperta, in silenzio […] In ogni classe ci sono almeno due o tre studenti che hanno bisogno di insegnanti di sostegno, non per qualche handicap fisico o qualche grave disturbo mentale. Semplicemente non capiscono niente, non riescono a connettere i dati più elementari, a stabilire dei nessi anche minimi tra i fatti che accadono davanti a loro, che accadono a loro stessi. Sono appena più inebetiti degli altri, come se li precedessero di qualche metro appena nel cammino verso il nulla. Loro vengono considerati ragazzi in difficoltà, ma i compagni di banco, quelli della fila davanti o dietro, stanno quasi nelle stesse condizioni. […] Non riescono a ragionare su nessun argomento perché qualcosa nella testa si è sfasciato. Vi prego di credermi, non sono un apocalittico, sono semplicemente un testimone quotidiano di una tragedia immensa.

Tuttavia i miei colleghi, che peraltro si facevano in quattro nel tentativo di individuare i possibili rimedi e di supplire a questo stato di cose, non sembravano interessati a indagarne le cause, né a denunciare la cosa alle autorità scolastiche. Come se i medici, vedendo aumentare il numero dei casi e la gravità dei sintomi di una nuova patologia, si prodigassero a reperire i farmaci e a curare i pazienti, ma non si occupassero di indagare l’origine del fenomeno, né si assumessero la bega di denunciarlo alle autorità sanitarie.  

Fu così che cominciai a chiedermi quali fattori ambientali potessero avere avuto un effetto tanto deprimente sull’apprendimento, e sulle facoltà intellettive degli studenti. Che cos’era cambiato significativamente, nelle abitudini degli adolescenti, nel corso dell’ultimo ventennio? Una cosa su tutte: l’esposizione agli schermi. Parlando con i ragazzi in classe, e con i genitori in occasione delle udienze, mi ero reso conto di quante ore giornaliere gli studenti trascorrevano in compagnia di videogiochi e cellulari. Quella che inizialmente era solo una mia congettura, divenne qualcosa di più con la pubblicazione del testo “Demenza digitale” del neuro-scienziato tedesco Manfred Spitzer, seguito a distanza di qualche anno dal suo omologo e collega francese Michel Desmurget, che dava alle stampe “Il cretino digitale”.

«Per quel che riguarda l’uso ricreativo degli schermi, infatti, la scienza evidenzia una lunga lista di influenze deleterie, tanto per il bambino quanto per l’adolescente. Influenze che colpiscono tutti i capisaldi dello sviluppo, da quello somatico, ossia il corpo (con effetti, per esempio, sull’obesità o la maturazione cardiovascolare), fino a quello emotivo (per esempio l’aggressività o la depressione), passando per quello cognitivo, detto anche intellettuale (per esempio il linguaggio o la concentrazione). Le ripercussioni sono tantissime e influiscono anche sul rendimento scolastico. Sembrerebbe infatti che l’uso del digitale fatto in classe, con fini educativi, non sia più benefico degli altri. Le famose indagini internazionali PISA ce lo confermano con risultati a dir poco spaventosi.»

Così, negli stessi anni in cui tra i giovani esplodeva la sovra-esposizione a schermi a fini ricreativi, la scuola la promuoveva a iper-esposizione digitalizzando la didattica: per la prima volta sui banchi comparivano quegli schermi chiamati “tablet”, e alle pareti delle aule venivano appesi quei maxischermi che vanno sotto il nome di “lavagne multimediali”.

Anche a fronte delle evidenze presentate dai due autori sopra menzionati nei rispettivi testi – supportate da una nutrita bibliografia di pubblicazioni scientifiche – decisi di sensibilizzare la mia scuola su questa problematica. A più riprese portai la questione nei Collegi dei Docenti. Il risultato fu nullo. Persino in Consiglio d’Istituto, del quale fanno parte anche i rappresentanti dei genitori degli studenti, non riuscii minimamente a incidere sulla piega che stavano prendendo le cose. Non solo: mi accorsi che, in entrambe le sedi, i miei interventi su questo tema indisponevano visibilmente i presenti. Come se gli effetti avversi dell’eccessiva esposizione a schermi fossero una mia opinione personale che non condividevano affatto.

Perché rimanevo sistematicamente isolato ogni volta che mettevo in discussione l’impiego didattico dei dispositivi cui la scuola aveva spalancato il portone, persino quando era scientificamente provato che provocavano disturbi fisici, neurologici, cognitivi e comportamentali agli studenti? Constatato in diverse occasioni che nessuno era disposto ad appoggiarmi, lasciai perdere e continuai sommessamente a fare il mio lavoro. «Don Chisciotte non è contento, ma lavora in un mulino a vento» cantava Augusto Daolio. Non potevo immaginare che, appena qualche anno dopo, gli stessi che allora ignoravano deliberatamente gli esiti della ricerca scientifica, si sarebbero riempiti la bocca di scienza da salotto televisivo, e mi avrebbero messo alla porta perché privo di “green pass”.

A settembre dello scorso anno, quando sono stato sospeso, era già chiaro che il possesso del “green pass da vaccino” non garantiva niente e nessuno, perché era già ampiamente noto che anche i “vaccinati” potevano infettare. Del resto, bastava andarsi a leggere il foglietto illustrativo del farmaco per scoprire che era indicato per curare la malattia “Covid-19”, non certo per prevenire il contagio da Sars-CoV-2. Bastava non negare l’evidenza, bastava un banale ragionamento per smascherare le menzogne che venivano diffuse a reti unificate.

Ma l’evidenza è stata negata, e l’uso della ragione è stato anch’esso sospeso, esattamente come a fronte dei miei tentativi di mettere in discussione la didattica digitale. Tutto questo non solo nelle banche o nelle chiese, ma persino nella scuola, dove l’onestà intellettuale dovrebbe mantenere il primato sulla convenienza personale e sulla fede di ciascuno.  

Quando portavo i miei studenti nel laboratorio di chimica, chiedevo loro di stendere una relazione su quello che avevano osservato, e sulle conclusioni che se ne potevano trarre, come fanno i miei colleghi dell’area scientifica. Siamo tutti bravi a predicare bene, a raccomandare agli studenti di attenersi all’evidenza e di ragionarci sopra. Peccato che, quando ci si è presentata l’occasione di mettere in pratica i nostri stessi insegnamenti, abbiamo razzolato decisamente male. Non è andata meglio ai colleghi dell’area umanistica. I quali, mentre si attardavano a chiedere agli studenti se il fine giustificasse i mezzi, non avevano domande da fare a chi sosteneva che il “green pass” era un incentivo alla “vaccinazione”. I quali, mentre interrogavano sulla categoricità dell’imperativo morale kantiano, non avevano alcunché da obiettare mentre i colleghi che sentivano e pensavano diversamente venivano espulsi dalle scuole. Del resto, già Günther Anders aveva capito che, nell’età della tecnica, sono i mezzi a giustificare i fini. Del resto, la massima di Draghi «non ti vaccini, ti ammali, contagi, qualcuno muore» aveva già assunto il valore di legge universale.

Mi sono concesso questo intermezzo non già per lanciarmi in una sterile invettiva nei confronti della scuola, ma per mostrare una volta di più come persino coloro che parlano in continuazione di senso critico, di rispetto reciproco, di tolleranza, di inclusione, siano disposti a rimangiarsi tutto pur di non mettere in discussione le avanguardie tecnologiche, siano essi i dispositivi digitali ad uso didattico o i “vaccini” a mRNA.

Come si può spiegare questo atteggiamento? Come lo si può ricondurre nel novero dell’intellegibile? Prima di arrischiare un’interpretazione ritengo opportuno considerare sommariamente un fenomeno di cui non tutti sono al corrente: gli hikikomori.

Il termine, di origine giapponese, da noi e nel resto del mondo viene usato per indicare persone – in genere adolescenti – che hanno sviluppato una dipendenza da videogiochi, da social media e da internet talmente forte che non riescono più ad affrontare il mondo reale: se ne stanno chiusi nelle loro stanze davanti agli schermi, in genere dormendo di giorno e “navigando” la notte, e non c’è modo di convincerli ad uscire, tant’è che molti abbandonano la scuola. Spesso non escono nemmeno per mangiare, tanto che i genitori, in preda alla disperazione, lasciano il piatto fuori dalla porta. Se tirati fuori con la forza, in genere diventano aggressivi e violenti nei confronti dei famigliari. Chiunque abbia dei figli può provare ad immaginare quale sofferenza comporti, per una famiglia, trovarsi in una situazione del genere, ma dubito che ci riesca.

Secondo le ultime stime, solo in Italia vi sarebbero circa 120.000 casi accertati di hikikomori. Lo ripeto: 120.000 casi accertati, e il numero è in aumento. Si tenga presente che non c’è una vigilanza attiva sul fenomeno, e che in genere la vigilanza passiva accerta dall’uno al dieci per cento dei casi effettivi. Non credo occorra spendere troppe parole per convincersi che, considerate la gravità e la dimensione del fenomeno, si tratta di una piaga sociale di proporzioni apocalittiche.

Ora io chiedo: qualcuno ha mai sentito Roberto Speranza occuparsi di questa faccenda? Io no, ma forse mi è sfuggito qualcosa. Mi si potrebbe far notare che l’ex-Ministro della Sanità aveva ben altro di cui occuparsi. Ben altro? Fatemi capire: in Italia ci sarebbero 120.000 casi accertati di giovani – altrimenti presumibilmente sani – che stanno morendo dentro. Non dentro la loro stanza, dentro il loro animo. Perché un adolescente che non riesce più ad uscire dalla sua stanza, non è poi così diverso da un adolescente sepolto nella sua bara. E il Ministro della Sanità non avrebbe avuto il tempo di occuparsene, aveva ben altro da fare?

L’ordine di grandezza del numero di hikikomori è lo stesso dei presunti morti per Covid-19. Lascio a voi l’onere di stabilire se, in termini di sanità pubblica, occorreva limitare al più presto l’uso di dispositivi che spengono persone con tutta la vita davanti, e che spesso non si riesce a riportare alla luce, o se doveva ritenersi più urgente intervenire sulla diffusione di un virus che rappresentava un rischio quasi esclusivamente per persone con scarsa aspettativa di vita. Qualunque persona ragionevole, presumo, direbbe che si tratta di due priorità. Peccato che in ordine alla prima, non è stata spesa una parola e non è stato mosso un dito, mentre per quanto riguarda la seconda è stata messa a ferro e fuoco un’intera nazione per anni, e non è ancora finita. Non riuscendo a farmi una ragione plausibile di una tale discrepanza, mi sorge spontanea la seguente domanda: ma davvero il “Governo dei migliori” aveva così a cuore la salute della collettività? Non solo: quale futuro può attendersi una società indifferente al fatto che le sue forze vitali, i giovani, sono a grave rischio di sviluppare forme irreversibili di demenza? Anche qui, ognuno risponda da sé. Preferisco provare a rispondere a una domanda che mi sembra anche più pressante, quella che ho posto  sin dall’inizio: che sta accadendo?

Le due tendenze che ho appena descritto, quella istituzionale a digitalizzare la didattica, e quella dei giovani a seppellirsi vivi nelle loro stanze, non mostrano solamente che siamo ben lungi dal riconoscere che lo sviluppo tecnico ha passato il segno, che ci siamo trasferiti ormai da tempo nel regno della dismisura, che abbiamo interiorizzato la tecno-tracotanza come condizione esistenziale naturale. Queste tendenze rendono anche oltremodo chiaro che non c’è alcuna disponibilità a denunciare e mettere in discussione questo stato di cose, nonostante il danno ingente che – dati alla mano – sta arrecando al genere umano. Come si può spiegare questa omertà? Come si può render conto del fatto che, a fronte dell’evidenza scientifica disponibile, non vi sia da parte delle istituzioni alcuna intenzione di intervenire per cercare, se non proprio di debellare,  almeno di contenere questo morbo che sta infettando sempre più giovani? Non conosco una risposta semplice. Il problema, per come lo vedo io, è poliedrico, presenta una molteplicità di sfaccettature. Provo ad elencarne alcune.

Coma prima cosa, dal momento che il consenso politico dipende in maniera cruciale dalla visibilità mediatica, e che quest’ultima, a sua volta, dipende oggi più che mai da se e quanto certi social media sono disposti a concederla, non c’è da aspettarsi che siano le istituzioni a porre delle limitazioni al proliferare degli schermi, tanto nelle scuole quanto nelle case. Mettersi contro la connessione perpetua equivale al suicidio politico.  Recentemente il nuovo Ministro all’Istruzione ha fatto sapere che intende intervenire sull’uso dei cellulari nelle scuole. Stiamo a vedere se dalle parole passerà ai fatti, o se qualcuno gli farà cambiare idea. La mia non è certo una teoria scientifica ma, con Karl Popper, gli sviluppi di questa vicenda politica offrono un “falsificatore potenziale” a quanto vado sostenendo.

In secondo luogo, pensando al paradigma cristiano e a quello scientifico, è del tutto evidente  come i rispettivi criteri di verità siano stati alla lunga distorti a fini di controllo e di potere. Questo per mano di quei portatori di interesse che hanno tutto da guadagnare a mantenere lo status quo, e tutto da perdere dal suo venir meno. Anzi, forse sono proprio queste distorsioni ad accelerare quei processi degenerativi che condannano un paradigma al suo declino.

Pur non essendo credente, trovo che il messaggio cristiano originale – con ciò intendo riferirmi a quel poco di autentico che è sopravissuto alla storia – abbia un grandissimo valore per il genere umano. Ci vuole genio e coraggio per disinnescare una situazione esplosiva invitando chi è senza peccato a scagliare la prima pietra, per riconoscere che gli uccelli del cielo e i fiori del campo conducono esistenze piene e libere senza troppo dannarsi l’animo.

Ma, come è noto, la chiesa non ha tardato a oscurare questi messaggi luminosi per mantenere e accrescere il proprio dominio e i propri privilegi. E l’ha fatto al punto tale da ardere vivi gli infedeli in nome di Dio. Allo stesso modo i poteri attualmente in carica, avendo fiutato l’autorità e l’autorevolezza di cui la scienza gode nel nostro tempo, l’anno piegata a loro uso e consumo, ne hanno snaturato quello spirito autentico che, non meno del messaggio cristiano originale, aveva in sé la forza per liberare l’uomo dai gioghi dell’oppressione. E l’hanno fatto al punto tale da condannare all’indigenza e all’esclusione chi si è permesso di esercitare il dubbio, il motore della ricerca scientifica. Non servirà una riforma della scienza, e nemmeno una sua controriforma, ad arrestare la degenerazione del paradigma scientifico messa in moto da questi riuscitissimi intenti distorsivi. Ecco cosa scriveva il “fisico controcorrente” Giuliano Preparata qualche anno prima di morire, in una memoria intitolata “Un’altra rivoluzione tradita: la fisica dei quanti”.

«Ci possiamo chiedere come mai una teoria così difficile da comprendere, così articolatamente contestata da Einstein, come la MQ abbia mantenuto fino ad oggi in modo talmente rigido il monopolio della descrizione dei fenomeni atomici e subatomici. La risposta, come vedremo, sta nel fatto che nella MQ c’è una parte di vero, quello che invece non sta assolutamente in piedi è “l’interpretazione di Copenhagen”, basata sull’idea balzana di “complementarietà”. Ma, forse, c’è di più: la rinuncia della MQ a comprendere la realtà, limitandosi a formulare ricette per agire sulla materia in senso tecnico ed economico, per il potere politico ed economico è di fatto una benedizione, che permette l’assoggettamento della scienza, senza gli impopolari roghi e scomuniche che furono necessari alla Chiesa al nascere della scienza moderna.»

Infine, la cappa di omertà che dilaga quando qualcuno si azzarda a mettere in discussione certe tecnologie d’avanguardia può forse essere spiegata anche in altro modo, certo un po’ suggestivo: dal momento che «Dio è morto», la salvezza ultraterrena non è più alla nostra portata, e allora ci aggrappiamo mani e piedi alla sua sorella povera, quella terrena. E guai a chi si permette di mettere in discussione persino chi indica la strada che conduce alla pseudo-salvezza, alla mera sopravvivenza a tempo determinato.

Per rendersi conto di quanto attuale, potente e operativa sia la fede nell’iper-sviluppo tecnologico come unica strada percorribile da chi ambisce alla salvezza terrena del genere umano, è sufficiente andarsi ad ascoltare il recentissimo discorso che l’economista tedesco Klaus Schwab, fondatore e attuale direttore esecutivo del World Economic Forum, ha tenuto ai capi di Stato riuniti al G20 in Indonesia. Mentre lo sentivo parlare, ho avuto un déjà vu.

Il portamento, il tono della voce. La fermezza di chi ha una visione chiara. La sicurezza di chi ha in testa un progetto  incontestabile. Lo sguardo diretto di chi agisce in perfetta buona fede, perché la salvezza dell’uomo sulla terra passa precisamente per la strada che sta indicando. Mi ci è voluto un po’ per capire chi mi ricordava. Certo, se invece che l’inglese avesse parlato la sua madrelingua, ci sarei arrivato subito. Come il suo illustre connazionale di un tempo, non ha lasciato margini al dubbio e non ha tradito alcuna esitazione. La sua fede integra come una fortezza inespugnabile.

Naturalmente, se questo è lo stato dell’arte, chi non vuole avere grane, chi vuole mantenere la propria posizione sociale o ambisce a superarla, si guarda bene dal sollevare certi veli o dal commettere il reato di lesa maestà, oggi tornato più in auge che mai, e in genere non disdegna affatto quel perbenismo bigotto che è stato innalzato al rango di virtù sociale per eccellenza.

Sempre più persone vedono che “il Re è nudo”, ma evitano accuratamente di dirlo perché, nell’età della tecnica, mettere in discussione l’avanguardia tecnologica non è meno blasfemo di quanto non fosse stato, nel tardo medio evo, dubitare dell’esistenza di Dio. Una bestemmia. Un peccato mortale dal quale nessun sacerdote del clero tecnocratico è disposto ad assolvere perché, se lo facesse, macchierebbe di eresia pure sé stesso. Anche per questo, credo, in una sua recente pronuncia la Corte Costituzionale è arrivata a dire che non ritiene «irragionevoli, né sproporzionate, le scelte del legislatore adottate in periodo pandemico sull’obbligo vaccinale»: evidentemente, rifiutare i “vaccini” a mRNA è la più grave delle colpe, perché nemmeno ai peggiori criminali vengono negati i mezzi di sostentamento. Una condanna che non si discosta poi tanto da certe manifestazioni del fondamentalismo di matrice religiosa, per l’appunto. Una pena che, non fosse per la singolare congiuntura venutasi a creare, ognuno sarebbe disposto a giudicare non meno severa di quelle comminate agli infedeli dall’integralismo religioso.

E così, anche chi lo vede nudo, si affretta ad unirsi al coro di coloro che si compiacciono dei vestiti del Re. Come è successo di recente in occasione del convegno “Poli-Covid-22” che doveva tenersi al Politecnico di Torino, al quale erano stati invitati, oltre ad esperti di rilevanza internazionale, alcuni membri del CTS e dell’ISS. Questi ultimi, che inizialmente avevano accettato l’invito, l’hanno poi declinato, sostenendo che il livello della controparte non era tale da scomodarli. Tanto per capirci, Peter Doshi, senior editor del British Medical Journal, e John Ioannidis, epidemiologo dell’Università di Stanford, non sarebbero stati alla loro altezza. E allora, in ordine alla ritirata a gambe levate dei nostri, il Politecnico torinese ha ritirato il suo patrocinio, e l’evento si è dovuto trasferire in altra sede all’ultimo momento. Non stupisce questo fuggi fuggi generale perché, mentre il clero medioevale poteva dormire sonni tranquilli – nessun esperto può dimostrare che Dio non esiste – i nostri luminari rischiavano una magra figura, oltretutto in una sede scientificamente prestigiosa, il ché difficilmente sarebbe passato inosservato. Meglio andare a predicare dai pulpiti protetti dei salotti televisivi, con interlocutori accuratamente selezionati – quando sono ammessi – e con il presentatore che, appena annusa la malaparata, irrompe nel discorso o manda la pubblicità. È comunque interessante e istruttivo seguire queste sceneggiate. Lo faccio raramente, giusto per rendermi conto dello stato di salute in cui versa il paradigma scientifico e, di converso, la società che lo prende a riferimento. L’ultima volta che ho seguito una trasmissione di quel tenore il presentatore di turno, interrompendo uno dei due medici che, da soli, dovevano vedersela con la platea dei colleghi allineati, se ne è uscito con una frase del tipo: “Scusate ma – diciamocelo – vi ostinate a sostenere tesi che non solo i qui presenti esperti, ma pure la stragrande maggioranza degli addetti ai lavori considera insostenibili. Non è forse il caso che vi facciate qualche domanda?” Dunque, per il nostro, il criterio di maggioranza è un criterio di verità, ignaro il fatto che, come si suol dire, “la scienza non è democratica”. Di più: Hannah Arendt, dal suo libro “La banalità del male”, ci ricorda che «la grande maggioranza del popolo tedesco credeva in Hitler, e continuò a credervi anche dopo l’aggressione alla Russia». Ragionando come il nostro, dunque, dovremmo concludere che i nazisti avevano visto giusto perché erano in larga maggioranza, e che alla rimanente parte dei tedeschi, un’esigua minoranza, non restava che farsi qualche domanda. Pochi minuti dopo, ecco che il conduttore, interrompendo l’altro dei due malcapitati, ci regala un’altra perla di saggezza: “Beh, se lei non crede nel vaccino, allora non crede nella scienza. Ma allora, che medico è?”. Secondo il nostro, dunque, chi crede nella scienza deve necessariamente mangiarne i frutti. Se non lo fa, è l’antiscienza in persona. Dovremo andare di corsa a riferirlo a Putin, o a Biden, per finire di convincerli a usare le armi nucleari, a mangiare i frutti proibiti della tecno-scienza prima che qualcuno li accusi di terrapiattismo.

Discorsi di cotanta levatura, negli ultimi due anni, se ne son sentiti a non finire. Evidentemente il “grande pubblico” li trova convincenti, altrimenti questa farsa sarebbe morta sul nascere. Mi chiedo se li trovino convincenti pure gli esperti di regime, quelli che stanno dalla parte giusta della storia, quelli che stavano seduti nelle altre poltrone dello studio televisivo. Delle due l’una: o li trovano anch’essi culturalmente imbarazzanti, ma non hanno l’onestà intellettuale per farlo presente al conduttore, o li trovano sensati al pari di coloro che seguono da casa. Ancora una volta, lascio a voi l’onere di dirimere la controversia, perché mi è difficile anche solo capire quale delle due alternative sia meno deprecabile dell’altra.

Se questo è il livello del discorso, sul quale i nostri massimi esperti – quelli che sanno per davvero che cos’è la scienza – non hanno alcunché da ridire, mi pare di poter concludere che il paradigma scientifico è effettivamente un malato allo stadio terminale. E se è malato il nostro paradigma, non può goder di miglior salute la società che ad esso fa riferimento. La cosa non è sfuggita allo psicoanalista statunitense James Hillman.

Ogni giorno, multinazionali e apparati statali senza volto prendono decisioni che sconvolgono intere collettività, rovinano centinaia di famiglie e distruggono la natura. Ci sono psicopatici che si accaparrano il favore delle folle e vincono le elezioni. Lo schermo del televisore, con la sua camaleontica versatilità nel mostrare qualsiasi cosa faccia audience, favorisce il distanziamento, l’indifferenza e il fascino di facciata, e altrettanto fanno i luccicanti e ben oliati meccanismi del successo propri della struttura politica, giuridica, religiosa e finanziaria. Chiunque salga in alto in un mondo che genera il successo dovrebbe riuscire sospetto, perché questa è l’età della psicopatia. Oggi lo psicopatico non si aggira furtivo come un topo di fogna nei vicoli bui, come nei film di gangster degli anni Trenta, ma sfila nelle macchine blindate durante le visite di Stato, amministra intere nazioni, invia rappresentanti alle Nazioni Unite. 

Se una società sana è amministrata da persone sane, una società malata non può che essere in balia di amministratori malati. Presumo che, in quanto psicanalista, Hillman usi il termine “psicopatici” nel senso tecnico del termine, non per recare gratuitamente offesa ai vertici della nostra società. In una società malata come la nostra, la psicopatia di cui parla non rappresenta solo la condizione normale dei suoi esponenti, ma configura pure la condizione necessaria alla scalata del potere, un requisito che chi vuole comandare non può non avere. Un tratto chiaramente funzionale al “sistema”, come viene chiamato questo stato di cose patologico. Per tale ragione, credo, agli apici della nostra società troviamo sistematicamente personaggi, come dire, piuttosto “singolari”, mettiamola così. Forse per questo ultimamente, ai massimi livelli, tra le altre cose hanno preso ad aggirarsi nervosamente nei paraggi dei pulsanti nucleari. Non si può escludere che, per le ragioni addotte da Hillman, prima o poi qualcuno venga premuto senza ragione. Del resto, come narra «Il deserto dei Tartari» di Dino Buzzati, quando l’attesa e la tensione si protraggono a oltranza, prima o poi anche le persone sane di mente comincerebbero a vedere ciò che gli altri non vedono, o ciò che si aspetterebbero di vedere. Col missile caduto in Polonia ci è andata bene, ma ci siamo andati vicini.

Non che in passato i regnanti siano stati tutti saggi, non che abbiano agito sempre nell’interesse del popolo: ne hanno fatte di tutti i colori pure loro, anche se la tecno-tracotanza era ancora lontana da venire. Basti pensare al tribunale dell’inquisizione, e ad altre mille nefandezze dell’era prescientifica. Ma la ricerca scientifica indirettamente, e l’abuso tecnologico direttamente, oltre ad aver inaugurato «l’età della psicopatia» di cui parla Hillman hanno investito gli psicopatici di poteri che manco le persone sane di mente dovrebbero avere. Il ché, a mio avviso, è un bel problema.

Insomma, a me pare che il paradigma scientifico stia perdendo le acque e cominci ad avere qualche contrazione. Non so dire quanto avverrà il parto, né cosa ne verrà fuori. La sensazione è che – fatte salve cause di forza maggiore, come quella sopra accennata – il travaglio andrà per le lunghe, e sarà piuttosto doloroso. Soprattutto per chi non se la sentirà di accodarsi a celebrare la magnificenza del Re, e a cantare le virtù del suo nuovo vestito. Soprattutto per chi non accetterà di buon grado i nuovi frutti avvelenati della tecno-scienza. Sarà dura per chi, seppur con garbo e gentilezza, risponderà “No grazie, ne ho abbastanza.” Sarà dura procedere «in direzione ostinata e contraria», come suggeriva di fare Fabrizio De André, ma ho l’impressione che questa sia la strada da percorre se vogliamo avere un futuro. Se invece ci sta bene che la dismisura tecnologica finisca di ridurci a un ammasso di androidi neoprimitivi, andiamo pure avanti così.

Spero che la scuola esca dalla cattiva pedagogia e dal degrado nel quale è caduta, e dunque spero in una scuola atta a contrastare quel post-pensiero che sta invece aiutando.