Da Dissipatio.
La Repubblica Islamica dell’Iran per molti rimane ancora un Paese avvolto nel mistero. Tuttavia, il sistema instaurato dagli Ayatollah, per quanto ispirato anche ad altri esperimenti rivoluzionari del Novecento, ha le sue radici profonde nella storia, nella cultura e nella tradizione di uno spazio della terra in cui la metafisica si incontra con la metageografia.
Racconta lo Zaratusht-Nameh (il Libro di Zoroastro) che quando il Profeta ebbe trent’anni compiuti, gli venne il desiderio di Eran-Vej (in pahlavi o medio persiano; “Airyanem Vaejah” in persiano antico) e, così, si mise in cammino con alcuni compagni, uomini e donne, verso questa terra. Avere il bisogno di Eran-Vej significa desiderare la Terra delle visioni celesti. Significa raggiungere il centro del mondo: l’obiettivo di ogni vero e proprio homo religiosus. Eran-Vej è il luogo dove si incontrano i Santi Immortali; è il “centro sacro” in cui comunicano Celesti e Terrestri. Gli accadimenti di questa terra non hanno “date storiche”: sono episodi ierofanici che, di conseguenza, appartengono all’ambito della ierostoria. E lo spazio ierofanico è sempre e ogni volta al centro. I paesaggi di Eran-Vej, anche se perfettamente reali, non rientrano nell’ambito della topografia materiale. Non appartegono ad una dimensione geografica spaziale ma ad una dimensione geografica sacrale. Questa è una geografia immaginale e l’ingresso in Eran-Vej, che ha luogo l’ultimo giorno dell’anno (alla vigilia di Now-Ruz), segna la rottura con le leggi del mondo fisico. Ed è sempre in Eran-Vej che Zoroastro si ritirerà in una grotta tra le montagne “adorna di fiori e sorgenti zampillanti”: luogo che offrirà alla sua meditazione un perfetto imago mundi.
Eran-Vej si trova in Xvaniratha, al centro del keshvar centrale. Eran-Vej, infatti, è allo stesso tempo il centro e l’origine; è la culla degli Ariani (Iranici). È la che furono creati i Kayanidi, gli eroi leggendari, ed è là che fu creata la religione mazdea, da dove si diffuse negli altri keshvar. All’origine, la terra fu instaurata come un tutto continuo, ma in seguito all’oppressione delle potenze demoniache si trovò ad essere divisa in sette keshvar. I keshvar, afferma il grande iranista Henry Corbin, più che “climi”, sono zone della terra secondo una rappresentazione analoga a quella dell’orbis latino. Il già citato keshvar centrale è chiamato Xvaniratha (“ruota luminosa”); quello orientale Savahi; quello occidentale Arezahi; quelli meridionali sono rispettivamente Fradadhafshu e Vidadhafshu; mentre i due a nord si chiamano Vourubareshti e Vourujareshti.
Quanto alla loro posizione essa è dedotta astronomicamente in rapporto al keshvar che è il centro, e la cui presenza è in tal modo situativa dello spazio prima di essere essa stessa situata nella spazio. In altri termini si tratta non di regioni distribuite in uno spazio dato preliminarmente, spazio omogeneo o quantitativo, ma della struttura tipica di uno spazio qualitativo.
Henry Corbin
Xvaniratha rappresenta la totalità dello spazio geografico accessibile all’uomo. Questo è stato a sua volta diviso in sette regioni secondo uno schema costruito, tra gli altri, dallo studioso iraniano al-Biruni (970-1050 d. C.). Secondo questo schema, il cerchio centrale è costituito dal paese iranico intorno al quale vengono raggruppati altri sei cerchi, tangenti tra loro e di raggio uguali, rappresentanti, a nord, il mondo slavo-bizantino ed il Turkestan; a sud, l’Arabia e l’India; ad ovest, la Siria e l’Egitto; ad est, la Cina e il Tibet. L’Iran, dunque, viene figurato come il centro del mondo. Una convinzione estremamente diffusa nella cultura iranica che ha trovato notevoli riscontri nella poesia persiana sia mazdea-zoroastriana che in quella di epoca islamica. Recita lo Sad-Dar (o libro delle Cento Porte): “Il paese dell’Iran è più prezioso di ogni altro perché si trova al centro del mondo”. Lo stesso concetto è ripetuto nel testo medievale Haft Peikar (Le sette principesse) di Nizami Ganjavi in cui si afferma: “Il mondo è il corpo e l’Iran ne è il cuore”.
Questa idea, in tempi più recenti, ha assunto anche dei connotati più propriamente geopolitici. Infatti, un importante hojjatoleslam (Prova dell’Islam) iraniano, intervistato da Claudio Mutti sulla rivista di studi geopolitici “Eurasia”, ha dichiarato:
Il movimento religioso e strategico della Rivoluzione Islamica ha assegnato all’Iran una funzione geostrategica. (…) L’Iran si è trasformato nell’heartland geostrategico.
L’impatto della Rivoluzione Islamica si valuterà nel proseguo di questo lavoro. Ora, è bene concentrarsi sull’idea dell’Iran quale “centro del mondo”.
L’essere ariano (iranico) si è costruito in rapporto/contrasto con l’essere turanico. Iranismo e turanismo, di fatto, rappresentano due differenti interpretazioni del logos indoeuropeo. Turan è la madrepatria della cultura nomade indoeuropea. Questa, parola antichissima, è l’antico nome iranico con il quale si identificava lo spazio geografico dell’Asia centrale. Il termine indica nell’Avesta la “Terra dei Tur”: ovvero, del popolo nomade dei Tuirya, nemico per antonomasia degli Irani, sedentari e stanziali. Solo con lo Shahnameh (Il libro dei Re) di Firdusi il termine “turanici” inizierà a riferirsi ai popoli turchi; sebbene non vi fosse una reale connessione tra la cultura turanica e la cultura degli antichi turchi. L’area turanica, dunque, è il centro eterno dal quale si sono diffusi i popoli che abitano parte dell’immensa dimensione spaziale eurasiatica. L’Iran, invece, è la terra abitata da tribù provenienti dal medesimo spazio turanico che, col passare del tempo, si sono sedentarizzate perdendo l’originaria caratteristica nomadica e pastorale della cultura indoeuropea. Iran (o Airyana – terra degli ariani), infatti, deriva dal termine “arya” che significa “aratore”. Questo, derivato a sua volta dalla radice “ar”, presente anche in diversi termini latini dal medesimo significato, designa un particolare titolo onorifico legato indissolubilmente alla terra come espressione di stabilità, fissità e di spazio sacralizzato. In Iran, gli indoeuropei hanno costruito per la prima volta il loro diritto prettamente “terraneo”.
Questa “opposizione” tra mondo nomade e mondo sedentario si è riproposta anche nel momento in cui venne ad imporsi, nell’area iranica, une religione “estranea” originatasi tra le tribù nomadi del deserto della Penisola Arabica: l’Islam. Il grande pensatore arabo Ibn Khaldun (1332-1406), nella sua monumentale opera Kitab al-ibar (Libro degli esempi storici) preceduto dalla lunga introduzione al-Muqaddimah (Prolegomeni), dimostrò come le popolazioni nomadi, maggiormente disposte ad atti di coraggio e ad uno stile di vita lontano dal lusso rispetto a quelle sedentarie, vivessero una condizione esistenziale più pura, improntata al solo soddisfacimento dei bisogni primari, e, dunque, compartecipe del sacro. Tale idea venne fatta propria anche dal pensatore tradizionalista francese René Guénon che considerò la sedentarizzazione come una espressione di quel processo di “solidificazione” che, nella sua prospettiva, si collegava inesorabilmente al progressivo allontanamento dell’uomo dalla Tradizione. Ma il teorico della asabiyyah (traducibile come “solidarietà di spirito”), a differenza di Guénon, interpretò la sedentarizzazione sì come un passaggio successivo al nomadismo (origine della civiltà) ma non necessariamente come una sua deviazione sotto ogni aspetto “negativa”.

Ibn Khaldun, nella sua opera, fa espressamente riferimento alla condizione dell’uomo di fronte al deserto (as-sahra in arabo) inteso come uno spazio vuoto e disabitato. Un vuoto fisico e metafisico che lo rende particolarmente adatto alle “visioni” ed alle “folgorazioni”: come per San Paolo sulla via di Damasco o come per il Profeta dell’Islam Muhammad. Il deserto è il luogo del risveglio dell’anima. Per questo si è prestato così mirabilmente a divenire luogo d’elezione di una religiosità che mira a colmare il vuoto col “Verbo” e con il “Libro rivelato” (il Corano). Il determinismo geografico, dunque, può in qualche modo anche fornire una prima chiave di lettura alla principale divisione settaria dell’Islam, quella tra sunniti e sciiti: ovvero, tra l’Islam dei beduini nomadi e quello degli arabi acculturati e stanziali; tra gli arabi del deserto e quelli della Mezzaluna fertile. Kerbala, luogo del martirio di Hussein (nipote di Muhammad), nella geografia sacra dell’Islam rappresenta il confine tra due modi diversi di concepire l’Islam stesso. Ma, al contempo, rappresenta una linea di confine tra due contesti geografici differenti. Oltre il Tigri e l’Eufrate, infatti, inizia l’altopiano iranico: la terra indoeuropea in cui il mazdeismo influenzerà in modo determinante lo sviluppo della teologia sciita.
Questo spazio esistenziale, già prima dell’avvento dell’Islam, era contraddistinto da una concezione spirituale del mondo fondata sull’interdipendenza tra l’uomo e la natura e tra l’ordine fisico e quello metafisico. In questa dimensione la morte e il male non esistevano. L’uomo era un prodotto della Luce che si sprigiona dall’Eterno e la morte era concepita solo come un ritorno alla Luce originaria. L’anima discendeva sulla terra solo in vista dell’ascensione futura. Tutto era verticalità e gerarchia. Una verticalità ben espressa nello schema trifunzionale (Re/Sacerdoti – Guerrieri – Contadini) attraverso il quale Georges Dumézil descrisse la società tradizionale indoeuropea. In questa prospettiva il male veniva inteso essenzialmente come lontananza dal bene; come rifiuto dell’ordine gerarchico o come uscita dal sistema delle caste per ciò che concerne l’induismo.

A differenza della visione “turanica” del mondo (tipicamente nomade) come ipostasi terrena, estranea al male, della sorgente eterna di luce; la cosmovisione iranica si fondava su di un principio dualistico in cui luce e oscurità, bene e male, si contendevano reciprocamente il dominio sull’uomo e sul mondo. Dunque, il male non solo esisteva e minacciava l’uomo e il mondo con le sue lusinghe ma, cosa ancor più sorprendente, esso, seppur temporaneamente, poteva addirittura avere la meglio sul bene. È attraverso il logos filosofico e religioso iranico (una vera e propria metafisica della luce) che il tempo assume il valore dell’attesa e della speranza nella resurrezione; nel trionfo definitivo del bene sul male. La luce a cui qui si fa riferimento è la “Luce di Gloria” con la quale l’anima dell’uomo, una volta portata al massimo della sua incandescenza, si identifica in modo da poter percepire l’essenza stessa della Terra come “angelo”.
L’Arcangelo Spenta Armaiti, figlia prediletta di Ahura Mazda ed espressione della sapienza divina, ha come antagonista il demone Taromati; impersonificazione del pensiero sregolato, del tumulto e della violenza. L’attività mentale del fedele che accoglie in sé Spenta Armaiti definisce la natura puramente sofianica della “figlia” del Dio di luce. Egli riproduce in se stesso il pensiero di pura sapienza che è l’essenza dell’Angelo della Terra. Egli, dunque, fa esistere dentro di sé Spenta Armaiti. Questa è il Pensiero. Ma nel pensiero c’è una Parola: qui ha sede Ashi Vanuhi. E in questa Parola vi è un’Azione: là ha sede Daena, la figlia di Spenta Armaiti. Pensiero, Parola e Azione rappresentano la trinità dello zoroastrismo. In questa prospettiva si inscrive il mito zoroastriano del Saoshyant: colui che nella redenzione cosmica finale guiderà le schiere del bene nella battaglia contro le forze del male e condurrà alla rinnovazione del mondo. Di fatto, in questa “geosofia” che si compie attraverso gli Angeli femminili della terra (Ahura Mazda è circondato da sei Arcangeli: tre femminili e tre maschili), l’immaginazione religiosa mazdea, puramente indoeuropea (non sarà sfuggito al lettore attento il fatto che Spenta Armaiti altro non è che l’Atena greca), ha configurato una storia immaginale in cui la visione dell’Arcangelo della Terra che genera un essere umano ancora preterrestre tipifica già la generazione sovrannaturale del Salvatore, l’ultimo Saoshyant venturo.
Gayomart, l’Uomo primordiale fu creato in Eran-Vej, al centro del mondo. Le forze del male, impersonificate da Ahriman, fecero penetrare in lui la morte. Caduto sul suo fianco sinistro, dal corpo di puro metallo di Gayomart uscirono sette metalli, ognuno dal corrispondente “organo”, più l’oro: l’ottavo metallo che procede dall’anima stessa. Spenda Armaiti raccolse quest’oro e lo conservò per quarant’anni. Al termine di questo periodo germogliò dal suolo una pianta che costituì la prima coppia umana Mahryag – Mahryanag, sebbene in essi fosse ancora difficile distinguere il maschile dal femminile. Da qui deriva la professione di fede zoroastriana:
Ho per madre Spenta Armaiti, devo la mia condizione umana a Mahryag e Mahryanag.
Gayomart, Zoroastro ed il Saoshyant rappresentano l’inizio, il centro e la fine dell’uomo. Zoroastro è Gayomart redivivo, così come lo Saoshyant sarà Zoroastro redivivo. Tutti nascono in Eran-Vej, dove si compirà la “liturgia” finale che infiammerà il mondo.
Queste convinzioni, al contempo filosofiche e religiose, verranno in qualche modo fatte proprie dalla teologia islamica sciita nella sua corrente imamita; quella ancora oggi maggioritaria in Iran. Secondo questa particolare branca dell’Islam, la cui separazione dalla corrente letteralista sunnita viene troppo spesso ridotta a mere motivazioni politiche, i dodici Imam che hanno assunto la funzione profetica dopo la morte di Muhammad (a cui si aggiungono sua figlia Fatima, dalla quale discende il lignaggio di suddetti Imam, e lo stesso Profeta) costituirebbero il pleroma dei “Quattordici Immacolati”: delle vere e proprie entità eterne precosmiche che rappresentano i Nomi e gli Attributi divini. Alì, cugino e genero del Profeta Muhammad nonché primo Imam, è il Logos. Sua moglie Fatima è la Sophia. Essa diviene, per la gnosi sciita, Fatima la Splendente: una versione “islamizzata” di Spenta Armaiti. L’ultimo Imam, occultatosi in attesa della sua finale parusia, sta col Profeta Muhammd in un rapporto analogo a quello di Zoroastro con l’ultimo Saoshyant: Zoroastro redivivo.
Tutti insieme rappresentano il Cielo dell’Iniziazione. Fatima/Sophia è il cuore del mondo spirituale. È per merito suo che la creazione è di natura sofianica e che gli Imam sono investiti della sofianità che essi comunicano ai loro adepti. Con la parusia finale del dodicesimo Imam Muhammad al-Mahdi, che si compirà il primo giorno dell’anno (Now-Ruz), si giungerà alla restaurazione di tutte le cose nel loro splendore e nella loro primordiale integrità. Ma il suo nuovo avvento non giunge dal nulla. Egli si è occultato perché gli uomini si sono resi incapaci di vederlo. Essi si sono autoprivati del mondo intermedio dove i Celesti comunicano con i Terrestri. Il mundus imaginalis, luogo delle visioni teofaniche, non ha più luogo. E, con la sua sparizione, sono iniziati il nichilismo (il niente che nichilisce, per usare un’espressione heideggeriana) e l’agnosticismo. Così, il disoccultamento dell’Imam del “nostro tempo” non può che essere un processo graduale. Il fedele sciita deve essere un cooperatore dell’Imam occulto per fare in modo di preparne la sua venuta. Fattosi pellegrino dello spirito, il fedele si innalza verso il mondo di Hurqalya: il luogo delle realtà immaginali instauratosi come mediatore tra le pure essenze intelligibili e l’universo sensibile che, nella prospettiva “islamizzata” del mondo iranico, a differenza di Eran-Vej, non solo è centro del mondo ma anche centro tra i mondi. Qui, il pellegrino dello spirito, alla pari del fedele mazdeo che ospita in sé Spenta Armaiti, produce in se stesso l’avvento dell’Imam atteso.
Sempre in ambito indoeuropeo, la ricerca/preparazione dell’avvento dell’Imam occulto può essere paragonata a quella che nella tradizione vedica è definita la caccia ad Agni (divinità che rappresenta le forze della luce) che, talvolta, è detto “occultarsi nel suo rifugio”. Ma il tema dell’occultamento del divino è diffuso in tutta l’enorme dimensione spaziale in cui si sono stanziati i popoli indoeuropei. Zeus nacque e visse i primi istanti della sua vita nel diktaion antron di Creta, nutrito dalla ninfa Amaltea sotto forma caprina, in modo che potesse sfuggire alla furia divoratrice del padre Kronos; dio titanico del tempo e della fertilità, figlio di Urano e Gea, atterrito dalla profezia che vedeva il suo trono vacillare per mano del suo stesso figlio. Ed in quella stessa grotta, centro sacro fuori dal tempo all’interno del quale nessun altro poteva nascervi o morirvi, il giovane Epimenide, in cerca delle sue greggi, si addormentò, nell’istante del meriggio, risvegliandosi cinquantasette anni dopo, non mutato nell’aspetto fisico dall’esperienza atemporale sotterranea ma ferrato nelle arti divinatorie. Lo stesso Epimenide, secondo Diogene Laerzio, accompagnò nella medesima grotta il filosofo Pitagora che lì vi rimase per ventisette giorni. Alla figura di Pitagora è spesso associata quella del presunto “dio” dei Daci Zalmoxis. Questi, ritenuto dalle fonti greche come uno schiavo al quale Pitagora insegnò la dottrina della trasmigrazione delle anime, una volta riapparso di fronte al suo popolo dopo un occultamento di oltre quattro anni in una dimora sotterranea, divenne oggetto di vero e proprio culto.
Ma vi sono anche altri esempi temporalmente più vicini. Il più famoso è indubbiamente quello legato alla tradizione ghibellina. Il “mito”, in questo caso, è legato alla “stirpe divina” degli Hohenstaufen. Federico I Barbarossa, infatti, continuerebbe a vivere avvolto in un “sonno magico” assieme ai suoi cavalieri nell’attesa di ridiscendere a valle dal simbolico monte Kiffhauser, quando i corvi finiranno di girare attorno al monte e l’Albero Secco germoglierà di nuovo, per combattere la battaglia decisiva che determinerà il sorgere di una nuova era del mondo. E non si può dimenticare un’altra credenza ampiamente diffusa nell’area carpatico-danubiana. Ovvero, quella che vede il Voivoda di Moldavia Stefano il Grande ancora vivente ed in stato di occultamento fino ad una sua nuova apparizione dal carattere escatologico.
Queste evidenti similitudini tra il mondo europeo e quello asiatico non devono affatto meravigliare. La comune radice indoeuropea dei molti popoli che condividono il grande spazio eurasiaitico è solo uno dei non pochi aspetti che li accomuna. Aspetti che, a più riprese, vennero notati sin dall’antichità e che, ancora una volta, hanno parte della loro origine in quel “mito” attraverso il quale l’uomo interpreta il suo essere nel mondo.
Nella Teogonia di Esiodo, ad esempio, Europa ed Asia, generate da Oceano e Teti, vengono descritte come due sorelle appartenenti alla “sacra stirpe di figlie che sulla terra allevano gli uomini fino alla giovinezza, insieme col Signore Apollo e coi Fiumi”. Questo sarebbe il compito che ad esse ha affidato Zeus. Tra le sorelle di Europa ed Asia figura anche Perseide, il cui nome è strettamente connesso con quello di suo figlio Perse e del greco Perseo; entrambi ritenuti progenitori dei Persiani. Perseo, figlio di Zeus e Danae, giunto presso Cefeo, figlio di Belo, ne sposò la figlia Andromeda dalla quale ebbe un figlio che prese il nome di Perse. Da questo, rimasto presso Cefeo, privo di figliolanza maschile, presero nome i Persiani. Europa ed Asia, Grecia e Persia, sin dall’antichità erano dunque ritenute come sorelle, distinte ma inseparabili, provenienti da una medesima stirpe divina. Questo era ciò che affermava Eschilo, reduce della battaglia di Maratona, nella sua tragedia I Persiani. Un’opera in cui il grande drammaturgo greco, come afferma il già citato Claudio Mutti, assunse anche una posizione decisamente “simpatetica” nei confronti del sovrano persiano Serse: una posizione niente affatto rara nell’antichità.
Lo stesso termine “barbaro”, utilizzato nell’antichità dai Greci per riferirsi ai vicini asiatici, non implicava alcuna accezione negativa. Tale termine indicava semplicemente un Paese in cui non si parlava la lingua greca. Anzi, i Persiani venivano spesso presentati in un rapporto di notevole affinità con il mondo greco. Lo strorico Erodoto, ad esempio, non poté fare a meno di identificare Ahura Mazda con lo Zeus ellenico. Tuttavia, è bene ricordare che i “Persiani” si sono sempre riferiti a se stessi come “iraniani” (Irani). L’Impero persiano, a sua volta, venivano identificato nell’Iranshar o Aryana Khashatra (Impero iranico o ariano). Questo, prima ancora di essere un’entità politica era un’entità spirituale. Ed il concetto di Iran come “terra degli ariani” era considerato alla stregua di “idea immortale”. A dimostrazione di ciò si potrebbe citare l’episodio che il pensatore russo Konstantin Leont’ev descrisse nella sua opera Bizantinismo e mondo slavo citando un passaggio tratto da un testo di Aleksandr I. Herzen. In queste pagine, il precursore dell’eurasiatismo racconta di quell’avvenimento che viene definito, a torto o ragione, come le “Termopili persiane”. Colti in mare da una violenta tempesta, alcuni nobili persiani, in modo da alleggerire la nave e porre in salvo il loro sovrano (Serse), si gettarono di proposito in mare dopo essersi inchinati di fronte all’Imperatore. Tale gesto, nella prospettiva di Leont’ev, costituirebbe un atto d’amore ben più gigantesco e terribile di quello compiuto da Leonida e dagli spartani alle Termopili. Infatti, è molto più semplice sacrificarsi nel cuore della battaglia che scegliere a sangue freddo di immolarsi per un’idea. Questa idea era l’“Iran eterno”.

Ora, Europa ed Asia, come riporta il già ampiamente citato Erodoto, seppur indistinguibili alla radice, non poterono non muoversi guerra. Di fatto, l’originaria comunione spirituale del mondo eurasiatico andò lentamente ad affievolirsi fino a sancire una separazione tra “Occidente” ed “Oriente” ben distinguibile anche in termini geofilosofici. Separazione a sua volta riscontrabile anche all’interno delle medesime religioni; con il Cristianesimo diviso tra Cattolicesimo ed Ortodossia e l’Islam diviso tra l’averroismo “occidentale” ed il misticismo orientale. Se il percorso della religiosità occidentale si è perduto nei meandri della modernità e del razionalismo; lo stesso non si può affermare per quella dell’Oriente. Qui, l’uomo, nonostante le pericolose derive antitradizionali di marca fondamentalista, non ha ancora totalmente perduto il contatto col sacro. Qui, l’uomo è ancora essenzialmente homo religiosus che aspira a vivere il più possibile vicino al centro del mondo. Ed in Iran, questo tipo umano, estraneo alle forme messianiche secolarizzate e contraffatte dell’Estremo Occidente, come si è cercato di spiegare in precedenza, è realmente conscio di trovarsi nel cuore del mondo.
La Rivoluzione Islamica, dopo l’intossicazione occidentale dell’era Pahlavi, ha innegabilmente svolto un ruolo fondamentale sia nel restituire all’Iran questa “centralità geostorica” perduta, sia nel garantire una reale salvaguardia del sacro. Restituendo al Divino la sovranità che Gli era stata usurpata dall’uomo, questa ha ricostruito la connessione tra mondo fisico e mondo metafisico. La Rivoluzione ha fatto dell’Iran un modello: un polo geopolitico che sprigiona le sue potenzialità ideologiche lungo le direttrici dell’ampiezza e dell’esaltazione. L’Iran è il simbolo dell’umanità che non si arrende al materialismo ed all’individualismo. E la Rivoluzione è il mito “rifondante” di una Nazione e di un popolo pronto all’estremo sacrificio pur di difendere la propria sovranità. La stessa difesa dei propri confini, identificati dalle Guardie rivoluzionarie come la “linea rossa” che non deve mai essere oltrepassata dalle potenze straniere, in questo senso, assume un valore sacrale. Questo, infatti, affonda le sue radici nella tradizione indoeuropea: in quella operazione magico-riutuale che il sovrano/pontefice (inteso nel senso letterale di “costruttore di ponti” tra l’umano e il divino) compiva nel momento in cui, indicando sul terreno lo spazio consacrato dalla sua autorità, delimitava il regno del sacro da quello profano.
L’ossessione delle cancellerie occidentali per l’Iran deriva dal suo essere antitesi (ancora di più del socialismo confuciano cinese) ad un modello di civilizzazione che ha posto a suo fondamento quel materialismo che, come afferma Ruhollah Khomeini, mai potrà far
Uscire l’umanità da una crisi determinata proprio dalla mancanza di fede nello Spirito.
Ruhollah Khomeini