L’arco del contenimento

Da Inimicizie.

Asia Centrale

Nel cuore dell’Eurasia, una regione formata da repubbliche post-sovietiche che la maggior parte della popolazione non saprebbe indicare su una mappa; relativamente disabitata e povera, sede di conflitti di lungo corso caduti nel dimenticatoio, tranne per qualche notizia da seconda pagina quando la temperatura si alza particolarmente.

Eppure, una delle regioni più importanti in assoluto dal punto di vista geopolitico, in questo momento storico. Non a causa del suo valore “intrinseco” – come direbbe il celebre architetto del containment George Kennan – non essendo una “base di potenza” degna di nota, ma in luce invece del suo valore “relativo”: La sua posizione centrale nella massa continentale, che rende il controllo della regione indispensabile per la potenza – o le potenze – che cercassero di integrare l’Eurasia politicamente, economicamente, militarmente. Ma anche le sue risorse energetiche, fondamentali per Cina, Europa e India. E la sua vasta estensione territoriale, che rischia di creare un problema ingestibile nel ventre molle della Russia.

Questa importanza geopolitica è certificata dal fatto che l’Asia Centrale sia stata la prima regione in assoluto in cui l’influenza statunitense – nel momento unipolare – sia stata seriamente contrastata e combattuta da altre grandi potenze continentali. Ci si riferisce a Cina e Russia che – non a caso, poco dopo il recesso unilaterale statunitense dal trattato ABM, condannato come tentativo egemonico in un comunicato congiunto – muovono i primi passi di quella che diventerà una partnership strategica sempre più profonda intimando ufficialmente – tramite la neonata Shangai Cooperation Organization – il ritiro statunitense dalla regione, in seguito alle tensioni tra Uzbekistan e USA dovute ai fatti di Andijon del 2005. Un ritiro che avverrà gradualmente nei successivi 10 anni – a causa della crescente ostilità dei governi locali sostenuti da Mosca e Pechino – complicando notevolmente la posizione strategica statunitense in Afghanistan.

Il condominio sino-russo

Oggi in Asia Centrale l’influenza russo-cinese non è esclusiva (come vedremo tra poco) ma è sicuramente preponderante.

I due paesi hanno mostrato di saper collaborare nella regione, e di saperla gestire congiuntamente nonostante i vari elementi di tensione che potrebbero in teoria affiorare. Questo perché Mosca e Pechino perseguono obiettivi diversi ma assolutamente compatibili tra loro.

La Russia ha obiettivi molto estesi nella regione: Integrarla per costruire un blocco autarchico dal punto di vista industriale e monetario, con massa critica sufficiente da conferire un maggior peso a Mosca nell’arena internazionale di quanto ne fornisca il solo territorio russo. Ma anche controllarne i legami con l’estero e le risorse naturali, rafforzando il suo ruolo di partner obbligato sia nei confronti degli altri paesi europei che nei confronti di Pechino. Fare della regione un ponte verso gli alleati indiani ed iraniani (tramite l’International North South Transport Corridor) con cui è legata da forti legami strategici ed economici. In ultima istanza, assicurare che i lunghi confini tra la disabitata Siberia e i vari stan non diventino suscettibili a minacce esterne, sia portate da alleanze con potenze ostili, sia da fattori endogeni di instabilità (ad esempio l’estremismo islamico, che nella regione ha uno dei suoi maggiori bacini di reclutamento).

La Cina ha invece obiettivi più limitati: Assicurare il ruolo dell’Asia Centrale come ponte infrastrutturale per l’Europa – nell’ambito della “nuova via della seta” – ottenere accesso alle sue risorse energetiche ed alle sue terre rare, fondamentali per la strategia globale di Pechino.

Queste due strategie complementari possono essere perseguite parallelamente e congiuntamente, in un “condominio” che vuole in un qualche modo imitare quello anglo-francese sull’Africa sub-sahariana, instituito informalmente dopo l’incidente di Fashoda, alla fine della spartizione del continente.

Con una differenza: Un condominio vero e proprio – dunque incontestato – ancora non esiste.

Ben conscia dell’importanza strategica dell’Asia Centrale, la strategia anglosassone mira a rompere questo condominio in nuce, ad incunearsi nella regione per ostacolare sia la strategia russa che quella cinese, a perseguire l’eterna missione di evitare la formazione di un blocco continentale in Eurasia, che eclisserebbe in quanto a potenza anche la ricca e sicura “isola” nordamericana, costringendo gli USA a trasformarsi – questa la vera paura di pensatori americani come Mahan e Spykman, piuttostoché un’invasione transoceanica – in un garrison state in cui l’american way of life dovrebbe essere totalmente sacrificata, uno stato caserma a difesa dell’emisfero occidentale. Importanza sovente rimarcata da iniziative come il viaggio di Anthony Blinken in Kazakistan (dove è stato ringraziato per il suo supporto all’autonomia kazaka) o la recente proposta del ministro degli esteri britannico Cleverley di aiutare il paese a “trovare rotte alternative [alla Russia N.d.R.] per i suoi export petroliferi

Per veicolare la propria influenza nella regione, la strategia anglosassone utilizza un ponte fragile e sottile, che attraversa il Mar Caspio e il Caucaso affacciandosi sul Mar Nero, circondato da potenze ostili che – metaforicamente e fisicamente – cercano in ogni modo di abbatterlo.

Le potenze locali, gli Stan, sono comprensibilmente in balia di questo grande gioco – che ricalca in tutto e per tutto quello vissuto dalla regione 100 anni fa, ai tempi della competizione anglo-russa sfociata anch’essa in condominio – ma ne sono anche artefici: Consce della loro posizione di estrema debolezza, gestiscono le pressioni esterne – e le bilanciano una contro l’altra – per tutelare la propria sovranità, per estrarre massime concessioni dalle grandi potenze che hanno un grande bisogno del loro appoggio.

Dell’architettura geopolitica russa e cinese nella regione però – che Putin e Xi Jinping hanno dichiarato di voler proteggere da ogni intrusione esterna nel loro ultimo summit, sulla base della “dottrina Yi-Lavrov” – tra CSTO, SCO, EEU, via della seta e basi militari, ci siamo già occupati estensivamente. Volgiamo adesso lo sguardo alle strategie anglosassone ed europea (diverse, ma anche in questo caso in gran parte complementari) nel corridoio che congiunge il Mar Baltico (attraverso l’Europa e il Caucaso) all’Asia Centrale.

Soldati russi durante un esercitazione in Kyrgyzstan
Soldati russi durante un esercitazione in Kyrgyzstan

Intermarium

Come ormai ben sappiamo, il baricentro della strategia anglosassone in Europa – da prima che Halford Mackinder ne sottolineasse l’importanza nero su bianco nel suo lavoro – è l’”Intermarium“, la fascia di stati che congiunge il Mar Baltico al Mar Nero (due mari in cui deve essere garantita la proiezione di potenza anglosassone, sostiene il geografo) e nella sua versione più estesa anche l’Adriatico, occupata da stati nati (o rinati, nella loro accezione nazionale moderna) dopo la prima guerra mondiale e in seguito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Gli stati chiave di questo “cordone sanitario” – la cui ragion d’essere è quella di eliminare/indebolire sia l’influenza russa che quella tedesca in Europa Orientale – sono i baltici, la Polonia, l’Ungheria (che ultimamente sta dando problemi in tal senso) l’Ucraina (specialmente ad ovest del Nipro, con il porto di Odessa) e infine la Romania, con il suo accesso al Mar Nero e il porto di Costanza – sede, non a caso, di una batteria SAMP-T italiana in quota NATO – collegato al delta del Danubio, dunque ad un importante tessuto connettivo dell’economia europea.

Concretamente, questo Intermarium è declinato nell’istituzione della Three Seas Initiative, un progetto di sviluppo infrastrutturale lanciato nel 2016 – finanziato dai paesi membri e anche dagli Stati Uniti – che comprende progetti come la realizzazione di terminal LNG, il Rail2Sea – una ferrovia tra Costanza e Danzica – e Rail Baltica, che mira a sostituire la ferrovia a scartamento largo dei paesi baltici – integrata con quella russa – con quella a scartamento ristretto della Polonia e del resto d’Europa. Integrare la regione, ma anche scollegarla da altre.

L’Intermarium prende forma anche in seno alla NATO, con il formato dei “9 di Bucarest“, instituito nel 2015 con l’obiettivo di formare un “comitato” più apertamente anti-russo, opposto alla linea conciliatoria favorita da Berlino e Parigi al tempo degli accordi di Minsk.
E in una certa misura anche con il Gruppo Visegrad in UE.


I due paesi cardine a presidio dei due mari – Polonia e Romania – ospitano inoltre gli importantissimi siti anti-missile americani Aegis Ashore, già in grado di intercettare ICBM russi (altro che missili iraniani) con i nuovi SM-3 Block IIA, convertibili al bisogno in siti missilistici a corto/medio raggio, essendo i lanciatori MK-41 perfettamente in grado di ospitare missili Tomahawk.

Questo dunque è il primo tratto dell’”arco” che idealmente permette la proiezione di potenza anglosassone in Asia Centrale. Una fascia continentale che ha – come abbiamo detto – il duplice obiettivo di contenere ed integrare, di gestire flussi di energia, materie prime, merci provenienti da oriente in un modo più funzionale agli interessi anglosassoni (oltreché, ma questo è ovvio, agli interessi dei paesi che lo compongono).

Una mappa dell'intermarium, nelle sue varie componenti
Una mappa dell’intermarium, nelle sue varie componenti
Mar Nero

Usciti dal delta del Danubio, sede di una disputa sotterranea ma molto seria tra Romania e Ucraina, con quest’ultima che ha ricominciato nel 2023 la costruzione del nuovo canale di Bystroye – attività a cui aveva rinunciato con un trattato nel 2010, dopo minacce di ritorsioni da parte di Bucarest – lesiva per gli interessi commerciali romeni, ci troviamo nel Mar Nero, in particolare “davanti” all’Isola dei Serpenti, sede di feroci combattimenti che sono terminati con il ritiro russo dall’isola.

L’importanza di questo mare – dove più volte negli ultimi anni ci sono state schermaglie tra NATO e Russia – ci viene nuovamente ricordata dall’incidente di marzo 2023, in cui due Su-24 intercettano un drone Reaper americano, ricoprendolo di carburante e forse urtandolo, finendo per abbatterlo.

Nel Mar Nero ci sono tre attori fondamentali: La Romania – che Mackinder indicava come la potenza che avrebbe dovuto garantire all’Inghilterra l’accesso a questo mare – la Russia e, il più importante, la Turchia. Ankara, nella NATO ma non allineata – perseguendo una strategia propria – sfrutta al massimo il suo ruolo di guardiacancelli del Mar Nero: Lo chiude persino alle navi da guerra dei suoi alleati, per evitare pericolose tensioni con la Russia e soprattutto per mantenere forte la sua posizione di mediazione; raggiunge un accordo per il corridoio del grano (coinvolgendo anche la Romania) e lo difende dalle perplessità russe sul rinnovo, mettendo sotto embargo per pochi giorni le importazioni parallele vitali per l’economia e lo sforzo bellico di Mosca.

Questo mare è ferocemente conteso, ed è sede di progetti di integrazione in competizione: Il gasdotto turkstream tra Russia e Turchia, che – stando alle dichiarazioni ufficiali russe, ognuno decida quanto attendibili – sarebbe stato anch’esso obiettivo di un tentativo di sabotaggio durante la guerra in Ucraina. Il petrolio russo si unisce a quello dell’Asia Centrale alla stazione di pompaggio di Novorossysk, punto finale del Caspian Pipeline Consortium, per essere trasportato via nave attraverso il Bosforo, e da lì verso l’Europa e non solo.
Dall’altre parte abbiamo invece un cavo elettrico dalla capacità di 1000MW in fase di progettazione, che (affiancato ad una linea di fibra ottica) dovrebbe collegare l’Azerbaijan (esportatore) con la Romania – e dunque con la rete elettrica dell’UE – attraversando la Georgia.

Attraverso il Mar Nero passa inoltre il Middle Corridor della Via della Seta cinese, la via secondaria (sia per volumi, che per praticabilità) che però permette ai mercati cinesi ed europei di congiungersi attraverso la massa eurasiatica saltando la Russia. Un progetto caro sia a Washington che a Bruxelles, per motivi diversi: L’UE vede la necessità di non trasformare il decoupling con la Russia (già molto costoso) in un (catastrofico) decoupling con la Cina, gli USA vedono la possibilità di riorientare una via commerciale a cui gli europei non sono (ancora) disposti a rinunciare su un binario più limitato – dalla sfida logistica di un trasporto multimodale rotaia/nave – più controllabile – essendo imperniato su due paesi instabili come Georgia e Azerbaijan – e nel frattempo più lucrativo per gli alleati di intermarium, avendo in Romania e Ucraina i suoi nodi di smistamento verso i mercati UE, a detrimento della Germania, punto di arrivo del Northern Corridor.
Ecco spiegato il perché di un evento che potrebbe apparire sorprendente e controintuitivo, come una conferenza di promozione del Middle Corridor tenuta a Baltimora nientemeno che da USAID, in collaborazione con la camera di commercio USA – Azerbaijan. Gli USA – a detta di Anthony Blinken – dovrebbero elaborare una nuova strategia per il Mar Nero entro il luglio 2023, e il Middle Corridor ne farà sicuramente parte.

Navi da pattuglia fluviale romene, delta del Danubio
Navi da pattuglia fluviale romene, delta del Danubio

Caucaso

La Georgia e le proteste di marzo

Muovendoci ancora verso est, approdando dall’altra sponda del Mar Nero, ci imbattiamo nel più critico in assoluto – in quanto insostituibile – degli anelli di questa “catena del contenimento”: La Georgia.

Il piccolo paese caucasico è il centro nevralgico di due progetti di integrazione in competizione e – nell’ottica delle potenze che li promuovono – mutualmente esclusivi tra loro: L’integrazione est-ovest patrocinata da Washington e Bruxelles, e quella nord-sud (parte dell’INSTC, che interessa anche all’India) tra Russia e Iran.

Una feroce battaglia per influenzare questo paese infuria tra Mosca, Washington e Berlino (che persegue obiettivi propri, come in Ucraina) da almeno vent’anni: Nel 2003 la “rivoluzione delle rose” porta la Georgia nel campo euroatlantico, nel 2008 una mal concepita operazione militare – sostenuta dalla NATO – per riportare la regione separatista dell’Ossezia del Sud sotto la sovranità di Tblisi fallisce a causa dell’opposizione russa, che però non si traduce in un cambio di regime o in un’occupazione dell’intero paese.

La presidenza di Saakashvili (che “vince” le elezioni post-rivoluzione colorata come unico candidato) si sgretola negli anni successivi a causa di duri scontri con l’opposizione – senza dubbio sostenuta da Mosca – che termineranno nella fuga dal paese e in un’incriminazione in contumacia nel 2014, con l’ex presidente che andrà a rimpolpare i ranghi dell’Ucraina maidanista, venendo nominato da Poroshenko governatore dell’oblast di Odessa nel 2015.

La Georgia post-Saakashvili è caratterizzata da un sistema politico in fragile equilibrio, che arriverà alla prova della guerra in Ucraina con un governo neutralista, di stampo potremmo dire “post-sovietico” – come quelli di Yanukovich in Ucraina e di Shevarnadze prima della rivoluzione – del partito “Sogno Georgiano” fondato e (si dice, ancora) controllato dal miliardario Bidzina Ivanishvili, titolare di un’ingente fortuna accumulata in Russia negli anni ’90, che vinse le elezioni contro Saakashvili promettendo di “normalizzare” le relazioni con Mosca.
D’altra parte, una Presidente – Salome Zurabishvili – nata e cresciuta in Francia, fino al 2003 funzionaria pubblica con ruoli sia al Quay d’Orsay – in stretto contatto con i servizi francesi – sia in ambito NATO, nominata cittadina georgiana e subito ministro degli esteri, ex officio, da Saakashvili appena dopo la rivoluzione.

A completare il quadro, una popolazione in larghissima parte favorevole all’integrazione con l’Unione Europea, ma per la maggior parte contraria all’imporre sanzioni alla Russia – per pragmatismo – nonostante una larga simpatia pro-Ucraina, secondo i sondaggi.

Si può dire che il governo – lungi peraltro dall’essere “filo russo”, come è stato caratterizzato dalla nostra stampa ultimamente – abbia in gran parte rispettato l’orientamento della sua popolazione, non imponendo sanzioni alla Russia, ma allo stesso tempo proseguendo sulla via dell’integrazione europea, chiedendo a inizio marzo 2022 l’accesso al blocco dei 27 insieme alla Moldavia, un gesto in gran parte simbolico, non avendo il paese neanche lontanamente i requisiti per l’accesso.

Il problema con Bruxelles – e con Washington – risiede principalmente nella “riforma del sistema giudiziario” chiesta a gran voce dall’UE. In particolare, è contestata l’incriminazione dell’ex presidente Saakashvili e di membri del governo di quel periodo. A Saakashvili – attualmente incarcerato, con campagne in suo favore da parte di Ucraina, USA, UE ed Amnesty International – si contesta il pestaggio di un parlamentare di opposizione nel 2005, la repressione violenta di una protesta su Rustaveli Avenue nel 2007, e l’appropriazione indebita di beni statali a beneficio della sua famiglia allargata, oggi una delle più ricche della Georgia.

L’Unione Europea ha usato il sentimento pro-integrazione della popolazione georgiana come strumento di coercizione per dare man forte al “campo” pro-Saakashvili (quello, chiaramente, della guerra del 2008) e di fatto mettere in difficoltà quello neutralista: Nel 2021, un prestito da 75 milioni di euro viene rifiutato da Tblisi, essendovi inserita la condizionalità della famosa “riforma giudiziaria” ( = l’amnistia per Saakashvili e i suoi alleati). E’ proprio questo che avviene a metà marzo 2023, quando Bruxelles avverte i georgiani che la legge sugli “agenti stranieri” è incompatibile con l’integrazione europea, causando proteste oceaniche che metteranno in seria discussione la tenuta del governo e che, sostenute anche dalla Presidente in un messaggio da New York, termineranno con il ritiro della legge. Durante le proteste, gli Stati Uniti proveranno a dare una spallata definitiva al governo: Con l’assistente segretario di stato Todd Robinson a sorvegliare la situazione sul campo a Tblisi – arrivato un giorno prima delle proteste, per un evento sulle “donne nelle forze dell’ordine” – il Dipartimento di Stato, rispondendo durante una conferenza stampa, minaccerà di sanzionare membri del governo laddove non avesse ceduto alle richieste della protesta.

Una legge – quella sugli agenti stranieri – studiata dal governo per mettere un freno all’enorme apparato delle rivoluzioni colorate presente nel paese (caratteristica di molti stati post-sovietici), facente capo agli ormai noti National Endowment for Democracy, USAID, Open Society Foundation, Atlas Network etc etc e coadiuvata da iniziative meno trasparenti come quelle del Foreign Office britannico. Una legge, quindi, che mira a rafforzare l’autonomia di Tblisi e proteggerla da destabilizzazioni esterne, in vigore nelle più diverse – grandi e piccole – potenze mondiali: Stati Uniti, Russia, India, Cina. Mentre critica a gran voce l’iniziativa georgiana, persino l’Unione Europea si sta dotando di uno strumento analogo (alla buon ora) in seguito all’imbarazzo procurato dal Qatargate.

Eliminata facilmente l’obiezione sostanziale – una legge sugli agenti stranieri non è contraria in alcun modo ai valori dell’UE – resta solamente la possibilità che la pressione di Bruxelles (e Washington) fosse proprio destinata a mantenere una capacità: Quella di destabilizzare la Georgia, se necessario, tramite una vasta rete d’influenza politica ed economica. Una rete che ora acquista/acquisterà anche una notevole componente militare, con il ritorno in patria di centinaia di combattenti stranieri dall’Ucraina, inquadrati nella “Legione Georgiana”.

Proteste a Tblisi per la legge sugli agenti stranieri, marzo 2023
Proteste a Tblisi per la legge sugli agenti stranieri, marzo 2023
La questione logistica

Ma perché nel concreto la Georgia è così importante? E’ il passaggio obbligato di merci ed energia che dall’Asia Centrale si vogliono muovere verso il Mar Nero senza passare dalla Russia. Oltre che dal sopracitato collegamento elettrico pianificato e dal Middle Corridor logistico, la Georgia è già attraversata dal gasdotto South Caucasus e dall’oleodotto BTC (Baku-Tblisi-Ceyhan) che – questa volta dobbiamo invece scegliere se fidarci dell’intelligence USA – sarebbe stato fatto saltare nel 2008 da un team del GRU, il servizio segreto militare di Mosca. Un sistema di pipeline rivale al CPC russo con enormi implicazioni geopolitiche, sostiene Brzezinski: “La Russia trarrebbe un enorme vantaggio geopolitico ed economico dal reclamare il suo quasi-monopolio sulle rotte energetiche verso l’Europa se i legami degli Stati Uniti con la Georgia fossero interrotti.” Se eliminato, permetterebbe alla Russia di porsi come unico interlocutore dell’UE per la fornitura di idrocarburi azeri, kazaki, turkmeni, uzbeki. E di riflesso, metterebbe la Russia in una posizione di forza maggiore nei confronti di questi paesi affacciati sul Mar Caspio.

Sia la Russia che la NATO (che in questo caso agisce di concerto) vogliono il controllo esclusivo sulla Georgia, e sono determinate ad ottenerlo usando tutti i mezzi a disposizione: Separatismi, colpi di stato, rivoluzioni, destabilizzazione, finanziamenti. Questo piccolo paese agisce – e agirà – da vero e proprio termometro della tensione geopolitica.

Le infrastrutture chiave dell'integrazione est-ovest presenti in Georgia
Le infrastrutture chiave dell’integrazione est-ovest presenti in Georgia
L’Azerbaijan e la guerra nel Caucaso

Facendo un ulteriore passo verso est, e arrivando finalmente al Mar Caspio – tessuto connettivo con l’Asia Centrale – giungiamo in Azerbaijan, un paese (meno instabile della Georgia) assurto alla ribalta delle cronache con la sua decisione di risolvere militarmente il conflitto congelato del Nagorno-Karabakh nel 2020 (impulso peraltro della creazione di questo blog) vinto con moderne armi turche ed israeliane, poi riaccesosi ad intermittenza negli anni successivi, e durante la guerra in Ucraina. A sud un Iran apertamente ostile (pesano la questione della minoranza azera nel paese e l’alleanza di Baku con Israele) che minaccia di intervenire militarmente a difesa dell’Armenia e finanzia l’Husaynyun, la piccola Hezbollah del paese laico a maggioranza sciita. A nord una Russia con cui i rapporti sono basati sul pragmatismo, sulla scia della potenza di riferimento per l’Azerbaijan, la Turchia.

Un importantissimo fornitore energetico dell’UE – che in questo caso non sembra preoccuparsi minimamente del rapporto aggressore/aggredito con l’Armenia – specialmente dopo la riduzione dei legami energetici con Mosca, da cui Baku trae profitto: E’ stato evidenziato come l’Azerbaijan esporti più gas di quanto ne produca, di fatto comprando gas russo e poi vendendolo all’UE, o sostituendolo con quello di produzione domestica.

Se il conflitto con Yerevan dovesse riaccendersi, come avverte l’intelligence iraniana e come suggeriscono le schermaglie di confine – con conseguenze potenzialmente catastrofiche, che abbiamo provato a sviscerare – la posta in gioco sarebbe molto più alta dell’insignificante (dal punto di vista geopolitico) Nagorno-Karabakh: Il possibile ricongiungimento dell’Azerbaijan con l’exclave del Nakichvan, dunque con la Turchia. Simultaneamente, si aggiungerebbe un ulteriore corridoio strategico dal Mar Nero al Mar Caspio, e si taglierebbe sul nascere un ramo dell’INSTC. Uno sviluppo estremamente negativo per la Russia, estremamente positivo per la NATO, sia nei grandi disegni della sua potenza egemone – appunto l’arco del contenimento dal Mar Baltico al Mar Caspio – sia nei disegni delle sue medie potenze: Quello turco (e in parte anche ungherese!) di aumentare l’influenza del Consiglio Turco – e del “mondo turco” in generale – in Asia Centrale, quello tedesco di ottenere maggiore accesso alle risorse del Caucaso e del Caspio, esautorando la Russia.

L’arco del contenimento andrà osservato attentamente, e la sua tenuta nel Caucaso sarà sicuramente decisiva per la grande geopolitica del 21esimo secolo.

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