Da La Città futura.
Recensione a Fabio Vander, La logica delle cose. La rivoluzione in occidente nel carteggio Marx-Engels (1844-1883), Mimesis, Milano 2021, p. 112, 10 euro. La logica delle cose è quanto risulta dal confronto con uno dei carteggi più importanti del pensiero moderno e contemporaneo.
La logica delle cose è dialettica, dialettico è, in effetti, il discorso sulle cose e la loro logica. Così si apre il libro di Vender dedicato alla maturazione del concetto di politica rivoluzionaria nel carteggio Marx-Engels. Al centro dell’opera vi è la svolta che sarebbe avvenuta dopo la tragica esperienza della Comune di Parigi e che avrebbe portato Marx ed Engels a rompere con gli anarchici maturando una posizione che avrebbe portato ai partiti socialdemocratici che sarebbero divenuti i protagonisti della Seconda Internazionale. Di tale svolta “politica” l’autore ricerca le tracce nel carteggio, a suo avviso non adeguatamente studiato. A tale proposito muove citando una tarda lettera di Marx del novembre 1880, il cui autore spinge per la creazione di un partito autonomo dei lavoratori salariati sfruttati, necessario a rompere con le attitudini anarcoidi, che sarebbero indizio della perdurante egemonia sul proletariato della borghesia radicale.
Tale svolta sarebbe evidente per il rifiuto da parte di Marx dell’azione diretta e immediata tipica degli anarchici e della loro illusione di poter creare così, come d’incanto, una società compiutamente libertaria.
Vander utilizza il concetto gramsciano di Rivoluzione in occidente, richiamandosi a una lettera di Engels del 1882 in cui sostiene la centralità della lotta per la liberazione del proletariato occidentale rispetto al sostegno ai movimenti di lotta per il diritto dei popoli all’autodeterminazione.
Da una prima lettera di Engels a Marx di fine 1844, la critica rivolta a pratiche di lotta che potremmo definire luddiste, ad azioni violente individualiste e spontaneiste, implicherebbe secondo Vender innanzitutto il fissare un punto fermo nella teoria della rivoluzione: il rifiuto della violenza tout court.
A dimostrazione di quanto sia ideologica e priva di fondamento una tale posizione, è l’autore stesso del volume che ricorda come in una lettera dell’ottobre 1846 Engels, nel riassumere il programma del partito comunista, citava fra i punti dirimenti una “rivoluzione violenta”1. Peraltro Vander non può fare a meno di riconoscere che Marx ed Engels hanno sempre considerato centrale il conflitto sociale e la lotta di classe. Come scrive Vander, esprimendo un aspetto decisivo della concezione di Marx ed Engels, “la lotta di classe restava un presupposto ineliminabile, incomponibile” (20). Sottolineando, per giunta, l’impossibile conciliazione fra borghesia e proletariato. Anzi l’autore ribadisce che per Marx la Weltgeschichte, cioè la storia universale, debba essere intesa nella prospettiva della lotta di classe, anzi “come storia di lotte di classe” (21). Come se non bastasse l’autore ricorda come Marx nel 1856 sostenesse che “la rivoluzione degli operai avrebbe dovuto saldarsi con una rinnovata versione della guerra dei contadini” (23). Ora, come la dimensione sempre richiamata della centralità del conflitto, della rivoluzione, della lotta e persino della guerra di classe possa sposarsi con una posizione apologetica della non violenza è davvero difficile da spiegare, tanto che l’autore non ci prova neppure.
Ciò non toglie che Vander, subito dopo, a partire dal fallito attentato di Orsini a Napoleone III, arrivi a concludere: “l’ennesima illusione rivoluzionaria foriera di esiti reazionari e repressivi. Illusione nella quale però erano caduti anche Engels e in misura minore Marx” (24). Dunque l’autore confonde l’attentato terroristico individualista di un mazziniano, democratico, con la rivoluzione proletaria per la quale si battevano Marx ed Engels. L’autore arriva a dire che le illusioni rivoluzionarie, cioè l’attentato terroristico di Orsini, avrebbero reso “la via moderata (in Italia in primis) (…) l’unica di fatto praticabile” (24). Così si chiude peraltro il capitolo intitolato “La Revolution im Westen di Marx”.
Nelle pagine successive l’autore, senza nemmeno avvedersene, smentisce la sua stessa precedente frettolosa tesi secondo la quale Marx ed Engels sarebbero interessati solo alla rivoluzione in occidente, riportando come Marx intuiva i significativi eventi che avrebbero portato allo sviluppo della rivoluzione in Russia.
Ancora più in contraddizione con la presunta posizione non violenta di Marx, sarebbe poi la sottolineata, anche da Vender (cfr. 30-31), grande stima per il guerrigliero eroico Garibaldi, di cui si loda la volontà si sguainare la sua spada anche contro Napoleone III.
Del resto per l’autore la non violenza va ribadita con forza nel momento in cui si tratterebbe di mettere in discussione gli irrazionali e ingiusti privilegi della borghesia fondati sullo sfruttamento, ma non quando si tratta di esaltare la eroica resistenza contro l’invasore russo del popolo ucraino2, anche se sta combattendo una guerra per procura della Nato contro l’unico paese in grado di tenere testa al suo strapotere militare. Come non ricordare, a questo proposito, Fausto Bertinotti che predicava la assoluta non-violenza, ma giustificava l’utilizzo delle bombe atomiche a guerra di fatto conclusa da parte degli Stati Uniti, che hanno fatto strage della popolazione civile giapponese, in funzione, peraltro, anticomunista.
Tornando al libricino l’autore, dopo aver sottolineato che Marx naturalmente era dalla parte della via rivoluzionaria garibaldina e mazziniana contro quella moderata di Cavour, ne conclude: “anche qui sappiamo come finì la storia, quale via finì per prevalere” (31), occultando naturalmente che la via “moderata” intendeva risolvere la questione italiana con le guerre tradizionali, per evitare la rivoluzione sociale. Non pago l’autore aggiunge, non si sa su quali basi, che “per Marx si sarebbero dovuti battere sia i moderati reazionari, sia i rivoluzionari autoritari” (31), giungendo così a una conclusione quanto mai ideologica, forzata e, naturalmente, eurocentrica e apologetica dell’occidente: “anche questa una lezione di politica rivoluzionaria nell’accezione peculiarmente marxiana europea, occidentale, realista” (31). Dove persino la politica rivoluzionaria nell’accezione propriamente marxiana dovrebbe portare acqua al mulino dell’europeismo, dell’occidentalismo, che dovrebbero essere a loro volta imparentati, naturaliter, con il realismo.
Peraltro, la tanto esaltata “logica delle cose” avrebbe dimostrato secondo Marx, “che ogni forma di collaborazione del movimento operaio con forze moderate (…) sarebbe stato per esso esiziale” (35). Ancora più assurdo è che secondo l’autore “questo […] era il modo marx-engelsiano di fare politica. Politica rivoluzionaria in Occidente. Sociale, istituzionale, internazionalista al tempo stesso” (40). Resta un mistero in che senso si possa definire “istituzionale” il modo rivoluzionario di far politica di Marx ed Engels.
In modo altrettanto arbitrario, come del resto l’intero volume, l’autore sostiene che la rivoluzione in occidente di Marx ed Engels consisterebbe nel fare riforme, sotto l’egemonia del movimento operaio, e nell’unità di proletariato e ceto medio per cancellare le sopravvivenze feudali.
Vander continua a insistere sulla grande svolta per cui “la rivoluzione in Occidente doveva essere «politica». Non spontaneista, non insurrezionalista, non anarchica”. Qui il trucco consiste nel mettere insieme, in modo del tutto arbitrario, lo spontaneismo e l’anarchia, criticati da posizioni comuniste da Marx ed Engels, con l’insurrezione, senza naturalmente portare a sostegno di tale tesi nemmeno una citazione. Allo stesso modo l’autore stabilisce un’ennesima forzata e tranchant equazione sul rifiuto del terrorismo nichilista di Marx ed Engels e il rifiuto della violenza tout court.
Vander si lascia poi prendere la mano accusando, isolando alcuni scambi del carteggio, Marx ed Engels di sostenere posizioni scioviniste teutoniche. Negando, ancora una volta senza nemmeno accorgersene, quanto aveva osservato poco prima sull’importanza di superare i residui feudali, arriva a interpretare delle considerazioni di Engels sul fatto che l’unità tedesca, anche se conquistata da Bismarck, aveva un significato progressista, come delle riflessioni con cui il rivoluzionario “si rivelava […] come un nazionalista e un guerrafondaio” (50). Il commento di “francamente sconcertante” rivolto da Vender a Marx e a Engels andrebbe rivolto proprio alle sue considerazioni. Discorso analogo vale quando afferma “che la guerra costituiva un grosso problema per entrambi” (50), osservazione fatta proprio da chi oggi di fatto sostiene lo sciovinismo ucraino reazionario.
Anche sulla Comune di Parigi, al contrario di quanto è capace di intendere Vander, la posizione di Marx ed Engels è dialettica. L’insurrezione e la violenza non possono essere scartate a priori. Naturalmente se si riuscisse a conquistare l’emancipazione degli sfruttati pacificamente tanto di guadagnato per tutti. Al contrario se la democrazia “si trasformasse in una faccenda della borghesia”, cioè per dirla con Vander “se la democrazia non è democratica” (54), sarebbe necessaria un’insurrezione naturaliter violenta da parte di sfruttati e oppressi. Sarebbe interessante sapere se per Vander la nostra democrazia “è democratica” o se si è trasformata “in una faccenda della borghesia”.
La terza repubblica nata in Francia dalla sconfitta militare, fu proclamata dai lavoratori di Parigi, ma presto completamente egemonizzata dalla borghesia liberale, che però non fu in grado neanche di tutelare gli interessi nazionali. Senza contare che, dopo aver abbandonato Parigi ai prussiani, quando il popolo era insorto, i liberali a capo della Repubblica si erano subito accordati con i prussiani per schiacciare nel sangue la Comune.
Paradossalmente l’autore, dopo averci raccontato la fiaba di Marx ed Engels non violenti, scopre ora che nella posizione di Marx sulla Comune, vi era “ancora un vizio «militarista»” (58). Il problema sembra essere che Marx sostiene che la Comune non aveva portato a termine la rivoluzione non instaurando la dittatura del proletariato per realizzare la rivoluzione economica. Vander deve inoltre ammettere che anche in seguito, nella Critica al programma di Gotha, Marx rivendicasse la necessità della dittatura del proletariato. Anzi deve ammettere che pure le pratiche terroristiche dei rivoluzionari russi fossero agli occhi di Marx giustificate dal terribile regime dello zar. Cerca, però, di aggirare il problema, facendo riferimento all’ultimo Engels che avrebbe lodato le conquiste del proletariato tedesco senza dover ricorrere alla violenza. Ma anche qui emerge che tale posizioni resta dialettica, in quanto nel momento in cui il proletariato tedesco era divenuto troppo forte e la classe dominante era ricorsa alla repressione, i rivoluzionari tedeschi dovevano difendersi e, quindi, la questione della violenza tornava a riproporsi.
Le tesi occidentaliste di Vander reggono sempre meno, dal momento che non può negare che Marx era arrivato a sostenere che “la Russia poteva costituire «l’avanguardia del movimento rivoluzionario in Europa»” (65). La penosa giustificazione di Vander è che ciò dipendeva dal fatto che la Russia si stava occidentalizzando in quanto si stava affermando anche lì il capitalismo. Da qui la sconcertante conclusione che Marx ed Engels “erano due ideologi dell’Occidente. La loro prospettiva è sempre stata integralmente europea, occidentale, moderna” (65-6). Proprio al contrario, è lo stesso Vander che deve ricordare che per Marx ed Engels “le due rivoluzioni, russa e occidentale” si dovranno completare a vicenda. La conclusione davvero deprimente di Vander è che “Marx era un nazionalista tedesco e un internazionalista europeo” (67).
- Vander, Fabio, La logica delle cose, Mimesis, Roma 2021, p. 17. D’ora in poi citeremo tanto i brani di Marx ed Engels citati in quest’opera, quanto le considerazioni del suo autore rinviando al numero della pagina direttamente nel testo fra parentesi tonde.[↩]
- A questo proposito confronta ad esempio, Id., Gramsci, Clausewitz e una riflessione non solo militare, in “Il manifesto” del 29 marzo 2022. Anzi, il non violento Vander, arriva ad esaltare la difesa ucraina di Mariupol alla decisiva battaglia di Stalingrado, un altro grande esempio, come noto a tutti, di lotta non violenta. Cfr., Id., La Stalingrado di Grossman e la Mariupol di oggi, in “Il manifesto” del 20 aprile 2022.[↩]