La lezione di Haushofer

Da 2righe.

Il lungo studio di Haushofer, per la prima volta concretizzato nel gennaio 1924 con la creazione della celebre Zeitschrift für Geopolitik (Rivista di Geopolitica), destinata a fornire ai diplomatici tedeschi una conoscenza pratica dei movimenti politici, economici e sociali che animano il mondo; questa vide la collaborazione dei più grandi specialisti di relazioni internazionali. Parallelamente a questa attività, egli organizzò un’associazione, la Verein für das Deutschtum im Ausland (Associazione per i Tedeschi all’estero), che si poneva come obiettivo difendere e illustrare la cultura delle minoranze tedesche al di fuori del Reich. Dal 1923, Haushofer accettò di organizzare i lavori preparatori per la fondazione di una “Accademia tedesca”, modellata delle accademie francese, italiana e svedese, che sarà ufficialmente fondata il 5 maggio 1925. I suoi studi sistematici sulle dinamiche politiche, culturali e umane vedranno la messa in ordine attraverso diversi numerosissimi testi, quali Le frontiere nel loro significato geografico e politico (Grenzen in ihrer geographischen und politischen Bedeutung 1927), Geopolitica delle Pan-idee (Geopolitik der Pan-Ideen, 1931) Politica mondiale attuale (Weltpolitik von heute, 1934) e Mari del mondo e potenze mondiali (Weltmeere und Weltmächte, 1937).

Redatto dopo il Patto von Ribbentrop-Molotov (23 agosto 1939), il lavoro di analisi di Haushofer persegue due obiettivi: 1) gettare le basi di un’alleanza germano-italo-sovietico-nipponica, che riorganizzi la massa continentale eurasiatica e africana; e 2) rivendicare per la Germania la restituzione delle sue colonie africane, tolte dopo Versailles, al fine di trasformarle non già in fonti di sfruttamento, ma piuttosto di riequilibrio spaziale e fonte di ridistribuzione delle risorse. Analizzando i testi editi dagli istituti britannici e americani, Haushofer vi scopre un timore ricorrente, specialmente in Lord Palmerston e nel geografo Homer Lea, di veder nascere un’alleanza tra Germania, Russia e Giappone. Una tale alleanza sfuggirebbe totalmente al controllo delle talassocrazie britannica e statunitense: queste, scrive Haushofer, praticano la politica dell’anaconda, espressa concordemente dalle due potenze anglosassoni già nel 1851: esse stringono le loro prede e le soffocano lentamente. La massa territoriale eurasiatica, se debitamente organizzata, costituisce una preda troppo grande per l’anaconda anglo-americana, tale da sfuggire ad ogni blocco. L’idea di una tale alleanza è germogliata nelle menti russe e giapponesi già nel 1901-1902 e poi nel 1909-1910, piuttosto che in quelle tedesche o europee: al momento della guerra russo-giapponese del 1905 infatti, quando Britannici e Giapponesi unirono le loro forze per tenere i Russi in scacco, una parte del corpo diplomatico giapponese, tra cui l’Ambasciatore a Londra Hayashi, il Principe Ito, il Primo Ministro Katsura e il Conte Goto, sostenne un’alleanza tra Tedeschi, Russi e Giapponesi contro i tentativi britannici di controllare tutto il traffico marittimo mondiale. Di fronte a tali propositi, la Germania di Guglielmo II, deplorando Haushofer, restava prigioniera del mito del “pericolo giallo”, non avvertendo che gli Asiatici erano meno pericolosi per l’avvenire della Germania dei Britannici e degli Americani. In Russia, l’idea eurasiatica venne impersonata dal Ministro Witte, creatore della Transiberiana e sostenitore di una pace separata con la Germania nel 1915 e, in Giappone, dal medico dell’imperatore von Baelz. Il Conte Goto parlava della necessità di una “troika”, il cui cavallo centrale, più focoso e robusto, sarebbe stato la Russia, fiancheggiata dai due cavalli più snelli, la Germania e il Giappone. In Africa Meridionale e Orientale (es. Tanganika), la pessima gestione britannica, aveva infatti lasciato andare a rotoli l’opera costruttrice degli agricoltori coloniali basso-tedeschi (Boeri nederlandesi); alla volontà di sviluppare culture alimentari, i Britannici sostituirono lo sfruttamento capitalista, provocando da un lato l’urbanizzazione delle masse africane che, abbandonando l’agricoltura, portò da un lato a un processo desertificazione e carestie (creando uno “spazio senza popolo”) e, dall’altro, attraverso l’intrusione dell’ondata demografica indiana con la sua “dinamica eurasiatica”, a un ostacolo all’idea di Eurafrica. L’economia predatoria del Nord America e dei paesi monsonici era infatti in opposizione a quanto fatto dai Giapponesi che, invece, gestirono –almeno fino al 1941 – molto bene la Micronesia ex tedesca, a differenza dei possedimenti ex tedeschi nei Mari del Sud, allora in mano britannica (con l’eccezione della Nuova Guinea, iper-sfruttata). La “troika”, completata dall’Italia fascista e dal suo peso nell’Adriatico e Mediterraneo orientale (grazie all’IsMEO, Istituto Italiano per Medio ed Estremo Oriente) di Giuseppe Tucci (fondamentale nella diffusione di conoscenza tanto teorica che pratica – finalizzata alla realizzazione della visione strategica antimperialista in politica estera – del Giappone, della Cina e dell’India, oltre che dell’Egitto e della Siro-Palestina) doveva sostenere gli indipendentisti arabi e indiani (tanto hindu quanto musulmani), questi ultimi aiutati militarmente nella loro lotta per l’indipendenza anche dai Sovietici attraverso i passi del Pamir. La Russia, in particolare, si sarebbe dovuta porre come garante in Vicino Oriente, in modo da collegare l’Alta Mesopotamia al blocco continentale, tenendo un atteggiamento non pregiudizialmente ostile verso il Giappone e, nonostante lo scontro militare avvenuto tra il luglio 1938 e il settembre 1939 in Manciuria e Mongolia (che vide la vittoria sovietica – e mongola – di Potapov, Žukov, Štern e Choibalsan contro l’Armata del Guandong e la VI Armata giapponese a Nomonhan e Khalkhin-Gol) decidendo, insieme alla Germania, di non commettere lo stesso errore di preservazione suicida – attraverso la lotta per l’esistenza – commesso da Polonia, Inghilterra e Francia. Ricordava infatti che “Se è in atto una megalomane politica suicida tra Oriente ed Occidente e si dà spazio alla discordia interna anziché ad una stretta unita, l’Occidente non può preservare la Polonia contro i due popoli più numerosi d’Europa; ciò rientra nella costante esperienza geopolitica europea proveniente dalle prime tre divisioni dell’ibrido Stato polacco, che il suo popolo non ha mai saputo realizzare in termini di spazio.” Il dato di fatto è che “l’Eurasia non può essere accerchiata se i suoi due popoli più grandi, che insieme ne occupano la parte maggiore, non possono essere messi l’uno contro l’altro come nella guerra di Crimea o nel 1914.” Menzionando il discorso tenuto da Molotov all’inizio di novembre del 1939, il mondo seppe che Gran Bretagna e Francia, “per ragioni puramente imperialiste, sono gli aggressori e i distruttori di una pace mondiale onestamente cercata su basi geopolitiche dalla Germania e dalla Russia, prima e dopo il crollo della Polonia; non spinti da ragioni ideali, per rendere il mondo più sicuro per la democrazia e solo incidentalmente per distruggere la Mitteleuropa, per un morboso bisogno di prestigio e per invidia commerciale, e per distruggere poi il Giappone e, prima o poi, l’Italia, per poter continuare a sfruttare la terra ed a compiere indisturbati le loro rapine sul mare”. A tal riguardo, sottolinea come la Polonia fosse stata davvero la chiave per una nuova Europa: tutto dipendeva dalle intenzioni, ossia se si voleva un equilibrio instabile in cui giocare Europei continentali contro Europei continentali nel cosiddetto balance of power, o se si cercava un equilibrio stabile, come l’avevano in mente Tedeschi e Russi, “uniti in una sola volontà da un altalenante sistema polacco, per porre fine a questa eterna inquietudine.” A lungo termine, avrebbero potuto tollerare tra loro soltanto una struttura stabile, fissa, salda, come era o poteva essere la Polonia di Piłsudski o di Sławek, non un giocattolo delle potenze occidentali. Proprio quando era consapevole delle sue difficoltà geopolitiche, dei suoi confini fluidi, del suo delicato rapporto con l’accesso al mare, delle aspirazioni centrifughe dei connazionali sottratti ai due grandi Stati vicini, di un’urbanizzazione ebraica dell’ottanta per cento in un paese agricolo, la Polonia avrebbe dovuto lottare per essere un luogo di quiete e di stabilità, anziché lasciarsi trasformare in uno strumento britannico di disturbo, come lo furono gli Armeni, i coloni israeliti, i Greci o i Cecoslovacchi. In quest’ottica di saldatura russo-tedesca, fa notare che se Tedeschi, Russi e Giapponesi si alleano gran parte di quella che un tempo era la forza britannica è stata svalutata in modo analogo e nuove fessure e crepe si stanno aprendo nella costruzione del più grande impero mondiale, a partire dalle sue basi esterne (es. Hong Kong o Gibilterra). “D’altra parte, molte isole periferiche (…) sono diventate bersagli fissi, raggiungibili per via aerea ed a lunga distanza, che nessuna flotta può più tenere in sicurezza. Allo stesso modo ricorda come le fonti di produzione petrolifera, come la linea Kirkuk-Haifa, fossero esposte all’azione sulla terraferma più di quanto si pensasse al momento della loro acquisizione e, semplicemente, ad un micidiale accesso continentale”. In questo contesto, constatando che nel 1940 la Germania “entra nello spazio dell’Atlantico così come in quello del Pacifico con una grande ed imprescritta rivendicazione della propria quota legale delle materie prime tropicali nelle sue antiche colonie.”, menziona il lavoro di ricerca di Heske sulle foreste tropicali, “sintesi di estetica e di economia, e una dichiarazione di guerra contro lo sfruttamento eccessivo e la desertificazione di cui sono colpevoli le potenze coloniali vecchio stile, per esempio in Africa”, e incita – se vogliamo – la nuova generazione totalmente impegnata nel servizio di salvaguardia dell’inalienabile diritto dei tedeschi a partecipare al miglioramento della terra in tutto il suo ciclo; un diritto, questo, che deriva dalle sue capacità di realizzazione, non dal fatto che vi sia un bottino rimasto libero dopo “audaci azioni di rapina compiute in momenti passati della storia mondiale.” Queste azioni non devono costituire un diritto permanente, anche se traggono origine dalla temeraria pirateria di “predoni del mare o della steppa”. Con lungimirante visione di eventi già allora in fieri e oggi in rapida realizzazione, constata come la visione anglosassone di Mackinder “giustifica ogni spesa per gli armamenti all’interno della zona di tensione tedesca e rivela le cause della frammentazione del Vicino Oriente, nell’oppressione dell’India – che probabilmente giungerà a termine nel prossimo futuro – e della riorganizzazione dell’Asia orientale. Ciascuno di questi spazi di tensione si sta emancipando a modo proprio dalle angherie della Gran Bretagna! Prima o poi i popoli si renderanno conto di chi li sta sfruttando, di chi sta imponendo loro costi altissimi di sangue e di suolo! La piccola Europa ingannerebbe se stessa in maniera catastrofica, qualora trascurasse il fatto che fuori da essa già si stanno profilando ulteriori cambiamenti geopolitici della massima portata. Per il momento, le naturali premesse di tali cambiamenti si limitano alla guerra d’odio delle potenze occidentali contro lo spazio vitale della Mitteleuropa e la sua possibilità di estendere il proprio respiro a nord e a sud est, nonché contro le acquisizioni di spazio territoriale da parte dell’Unione Sovietica. Rientra in questo quadro non solo l’imponente ritorno in Europa dell’Unione Sovietica in tutta la sua estensione”. Allo stesso modo, il Giappone del 1940, stava costruendo verso la Mongolia Interna un tratto di 580 chilometri di una ferrovia carbon mineraria (solo parzialmente completata) verso ovest attraversando la Cina occidentale, il Pamir, l’Afghanistan e l’Iran, e ampliando le sue rotte commerciali verso il Sudamerica e l’America centrale. Quasi fosse un veggente, e con i dovuti caveat (es. sostituendo il Giappone con la Cina o la Germania con la Russia), verificava come “Le risse nella piccola Europa indeboliscono tutti coloro che sono coinvolti nei combattimenti a lunga distanza, anche se l’Inghilterra ascrive il Mar Baltico (…) alla sfera d’influenza tedesca, così come l’intero corridoio marittimo costiero dell’Asia orientale e diventato un mare privato giapponese.” 

In quest’ottica di pragmatismo strategico, e duttilità politica, ripercorre le fasi che impedirono di perseguire l’ulteriore sviluppo delle relazioni russo-giapponesi per una politica eurasiatica di collaborazione, riavviata in parte nella seconda metà del 1939. “Dal 1901 al 1939 infatti, più pensiero spaziale e geopolitico e meno ideologia spesso avrebbero potuto risparmiare molti sacrifici ed attriti del tutto inutili lungo l’intero asse Berlino-Mosca-Tokyo” mostrando di avere “l’acume necessario per comprendere questo vantaggio geopolitico mettendo da parte i pregiudizi ideologici; ed e sempre possibile stringere un patto con qualcuno che sia abbastanza intelligente per vedere il proprio vantaggio.” Per Haushofer infatti, “L’associato deve solo essere sicuro di poter respingere le esportazioni ideologiche indesiderate e non congeniali. Ma questa è una questione interna di stabilità spirituale e di struttura dell’anima nazionalpopolare. Con motivato ottimismo, constata che “Nel 1940 i tre associati eurasiatici hanno soprattutto il compito di assicurare una nuova stabilità attraverso una suddivisione degli spazi conquistati, che anche i loro avversari riconosceranno come migliore; infatti ogni vittoria in ultima analisi si esprime nello spazio e il premio della vittoria e lo spazio conquistato. Ma deve essere conquistato. In questo l’Unione Sovietica ha svolto finora la parte del leone (…)”. Quasi a descrivere il futuro, spiega che “la prognosi politico-spaziale dipende innanzitutto dall’alta qualità della riorganizzazione politico-spaziale e dal suo miglioramento strutturale in termini di politica nazionalpopolare, dalla capacità di eliminare definitivamente gli eterni rischi di attrito degli insediamenti sparsi su piccola scala sui grandi corpi spaziali della terraferma del Continente antico. Ciò non può essere realizzato in anni, ma solo in decenni. Ma anche allora rimarranno dei residui che richiederanno buona volontà. Questi, fatto di non scarso rilievo, ruotano intorno ai fenomeni di urbanizzazione. Il pericolo geopolitico-militare dell’urbanizzazione per ogni tipo di lotta per l’esistenza, l’impotenza di una grande città e l’impossibilità di difenderla sono evidenti nel destino di Varsavia. (…) Se è vero che la storia ha un senso, il destino di Varsavia deve costituire un avvertimento per tutti i capi militari: non trasformino le città aperte in campi fortificati, se vogliono risparmiare alla popolazione civile inutili sacrifici e gli orrori della guerra.” Prendendo in considerazione il fenomeno dell’inurbamento in massa, ancora oggi in corso, nota che “i territori urbanizzati sono, più che non l’aperta campagna, terreni di coltura favorevoli all’isteria e ad altre malattie mentali di massa, nonché i principali oggetti dell’igiene di guerra per le malattie contagiose pandemiche ed endemiche.” Notando poi come l’Unione Sovietica si stesse rapidamente urbanizzando (“la pressione demografica e solo dell’8 per chilometro quadrato, 70 al massimo in Ucraina”), fa notare che l’unico modo che negli imperi con un’alta pressione demografica, le parti urbanizzate siano a prova di crisi (demografica), cosa che invece non si verificò (e non si verifica nel momento degli eventi in corso) in Polonia, che stava “lottando per ottenere condizioni d’esistenza più simili a quelle della piccola Europa che non a quelle dell’Eurasia”. Spostando a oriente la linea di proiezione militare napoleonica (“al di là del Njemen, del Wilia e del Bug”) sulla “vecchia linea ferroviaria e strada militare Cracovia-Lemberg-Czernowitz-Costanza lungo il Bug e Dnestr che per tanto tempo era stata la “via coperta” della Mitteleuropa di fronte al bastione della Transilvania e presso le trincee fluviali della Vistola, del San, del Dnestr e del Prut.”, denuncia la dirigente britannica, che  “combatte contro la Mitteleuropa arrogandosi il diritto di prendere a ciascuno ciò che gli appartiene (…)” ricordando come nel suo incontro con il Generale Kitchener questi “mi disse che Inghilterra e Germania avrebbero combattuto la guerra solo per Americani e Giapponesi e che alla fine ne avrebbero fatte le spese entrambe, quantomeno nel Pacifico.” Allo stesso modo con la sua lucida visione del quadro generale, riconosceva che se il Giappone avesse trovato un suo compromesso con l’Unione Sovietica, i Russi sull’Oceano Pacifico non avrebbero dovuto preoccuparsi del “terzo incomodo”; allora l’impero insulare dell’Estremo Oriente si sarebbe potuto occupare di tutto ciò che può accadere in Cina e in Oceania a scapito delle due potenze imperialiste. Qualora si fosse potuto rendere più duttile “l’audace triangolo Berlino-Roma-Tokyo” e la massa sovietica di spazio e materie prime, conferendo a quest’ultima una profondità ed una stabilità inattaccabili dall’entroterra, allora tutti gli sforzi delle “terze potenze si sarebbero esaurite; l’Eurasia ed il Pacifico si sarebbero potute liberare dalla tutela anglosassone e conseguire quella vera autodeterminazione che anche l’India, e forse il suo ambito più ampio, hanno conseguita per conto proprio. Il capillare “oscuramento dei percorsi per arrivarci” era (e in parte è stato fino a poco tempo fa, ndr.) un compito importante della propaganda culturale ed economica britannica e francese. Infatti un effetto finale della politica stupratrice praticata dalle potenze antieuropee dell’Occidente potrebbe essere anche la loro autoespulsione dall’Asia. In questa prospettiva, però, le vedute del Giappone e perfino della Cina sulla riorganizzazione dell’Asia orientale, della Russia come potenza asiatica, della giovane India nelle sue avversioni euroamericane e nei suoi desideri di autodeterminazione, degli Arabi e dell’Islam circa le auspicabili soluzioni delle questioni asiatiche, come preludio ai loro successivi conflitti reciproci, in gran parte si potrebbero unire in una direzione comune contro i padroni delle “frange d’oro sul mantello da mendico dell’Asia. Lì come in Africa, si cammina sotto le palme senza nessun’altra protezione che un misero perizoma e si vedono le ricchezze di quella terra – pietre preziose, spezie, stagno, cotone – che vengono inviate in altre parti del mondo per essere usate dagli stranieri.” A suo giudizio, i padroni di quelle terre avrebbero dovuto evitare di intraprendere quella che non era altro che una “guerra dell’avidità contro gli indigenti, guerra molto mal camuffata, la più imperialista di tutte, guerra preventiva d’aggressione scatenata dalle grandi potenze contro i poveri della terra; una guerra mascherata con la maschera della virtù, che Molotov ha strappata dal volto del pirata. Nel rapporto dello spazio indo-pacifico e dei suoi abitanti con la seconda guerra aperta imperialista delle potenze predatrici questa e la differenza rispetto al primo progetto di saccheggio, camuffato da guerra mondiale, che gli Asiatici spesso hanno servito contro il loro interesse, senza rendersene conto”, e non potendo più nascondere i veri obiettivi come nella Grande Guerra, tanto più che “A Mosca, a Roma e a Tokyo si sa come trovare la strada per arrivare, con la stampa e la radio, anche alle opinioni pubbliche meno sviluppate dello spazio indo-pacifico e dei suoi miliardi di individui; almeno si riuscirà a far sì che essi non servano più i loro sfruttatori in maniera passiva e meno che mai in maniera attiva. Un tale sviluppo tiene anche lontano dai teatri di guerra europei i rinforzi che altrimenti affluirebbero dai domini bianchi dello spazio indo-pacifico, ma non gli strumenti omicidi che vengono fabbricati laggiù e negli Stati Uniti insieme con le sottili ed untuose “Parole del Signore”. Se non altro, adesso il mondo di colore ne sta facendo esperienza e, a quanto pare, ci sta riflettendo”. Se per le potenze occidentali dell’Europa il processo di ampliamento della Germania e del Giappone nei loro spazi vitali e ancora più incomprensibile che non quello dell’Impero 34 che sta in mezzo a loro, ma risulta più intelligibile ai Russi, ciò è dovuto all’idea di missione che infiamma tale processo, nonché all’unitarietà spaziale in cui essa inizialmente si irradia; e ciò in contrasto con ogni possesso politico puramente esterno e disseminato nello spazio terrestre, come quello che caratterizza al massimo grado l’impero mondiale britannico e in misura minore l’impero francese, che si basa essenzialmente sull’Eurafrica”, dove la presenza italiana sarebbe stata utile a controbilanciarne la continuità in senso assiale. In questo la proiezione giapponese in Asia orientale e il concetto politico-spaziale che avevano aiutato (e aiutano) a comprendere, sempre con i dovuti distinguo del caso, citando lo studioso Yamasaki-Seijun e il suo studio The New East Asia and Capitalism come “(…) i metodi di puro sfruttamento delle materie prime adottati dal Giappone in Cina sono duramente condannati come un abuso di manodopera a basso costo e di procedimenti di tipo monopolistico nel mercato interno cinese e trovandovi chiaramente riconosciuta l’acredine mortale di mezzo miliardo di Cinesi che inevitabilmente ne deriva, (…). Sono tutti argomenti con cui le demoplutocrazie lavorano molto duramente contro il Giappone.” Per Haushofer, il nazionalismo indica la grande necessità di una riforma del capitalismo”, e dunque ne conclude che il Giappone (come oggi la Cina, ndr.) “ritiene che non potrebbe sentirsi al sicuro qualora i burattinai plutocratici trasformassero la Cina in uno strumento del più selvaggio super-capitalismo; analogamente, nella Mitteleuropa la Germania non sarebbe stata al sicuro finché le potenze plutocratiche dell’Occidente potevano preparare, con mezzi plutocratici, basi d’attacco e mine di sbarramento sia contro la Germania sia contro la Russia in tutti i piccoli Stati successori della fascia intermedia europea, che solo apparentemente erano indipendenti come Stati nazionali. In quest’ottica constata la necessità per l’Asia orientale, di trovare una nuova forma di nazionalismo, così come “Il saccheggio imperialista mondiale, che non è sostanzialmente diverso dalla razzia, è una cosa che appartiene al passato citando sempre Yamasaki-Seijun. In questa visione, ricorda come (in pieno conflitto mondiale, sebbene al momento della stesura del testo limitato nella sua fase europea) “la guerra delle potenze occidentali contro l’Europa che si rinnova ha proprio lo scopo di mantenere questo principio imperialistico su cui si fondano i loro Stati pirateschi”. Le allora due potenze dell’Asia orientale (Giappone e Cina) non avevano ancora trovato “soluzioni diverse da quelle delle vecchie potenze coloniali per i loro tentativi di sistemazione degli spazi, nemmeno se vogliono provare a farlo seguendo linee continentali o marittime” aprendo istituti dedicati allo studio dell’Indo-pacifico in Giappone (e, negli decenni successivi, anche in Cina, ndr.); Haushofer, sempre divinatorio, vedeva in questo un preludio alla ricerca di un orientamento che “inevitabilmente si sarebbe imposto, quanto meno per il Pacifico occidentale e i suoi arcipelaghi, se non altro per sottrarre il concetto di Asia orientale agli strumenti di propaganda americana”, vedendo in questo la fase preliminare di una dottrina di “autodeterminazione dell’Asia Orientale”, che avrebbe dovuto “escludere l’America dal Continente Antico, almeno così come essa ha estromesso il Continente Antico dal destino e dal tessuto economico del Nuovo Mondo.” Questo sviluppo geopoliticamente inevitabile spinge il Giappone (oggi diremmo la Cina, ndr.), lo voglia o meno la sua attuale classe dirigente, dalla parte dei campioni dell’idea eurasiatica di autodeterminazione, contro l’eterna ingerenza delle potenze periferiche occidentali dell’Europa e delle loro affiliazioni transatlantiche. Ricordando l’inquietante e arrogante espressione degli “haves” contro gli “have nots” del colonnello House, democratico e grande elettore di Woodrow Wilson, Haushofer constatava come fatto che “la durezza di una lotta di classe dei popoli derubati o depredati aumenti di intensità contro i ricchi satolli ha la sua ragione fondamentale proprio nell’espressione citata, che trovò rapidamente accesso “nei circoli predatori delle grandi città mercantili del mondo” e che ancora è in voga nelle stesse. Il risveglio dell’Asia e la presa di consapevolezza dell’India (e oggi anche del Pakistan, ndr.), così come i cambiamenti nei comportamenti politici mondiali in aree come l’India, a dire di Haushofer, non potevano avvenire in Oriente “con una velocità fulminea”, tanto più che “dove gli errori mettono con le spalle al muro ad una distanza così ravvicinata come quella tra Kabul e la frontiera nordoccidentale dell’India” e “che anni di preparativi militari britannici per la guerra hanno trasmesso anche alle guide radicali dell’opinione pubblica in India, ma pure in Egitto ed in Iraq, un’immagine completamente falsa delle potenze dell’Asse” tanto che in India (British Raj, ndr.) “(…) si trovano disposti a collaborare con Mosca più che con Berlino, Roma o Tokyo (…) all’autodeterminazione indiana. Questa veduta però può essere trasmessa (…) solo attraverso Mosca”. Con l’invasione dell’Unione Sovietica nello stesso giugno 1941 e l’arrestarsi dell’avanzata tedesca, Haushofer realizzò che le prospettive di vittoria erano esigue, dacché Hitler non soltanto aveva scatenato una guerra contro l’Impero britannico e le masse continentali americana ed eurasiatica, ma aveva creato in Europa una egemonia coercitiva basata sullo lo sfruttamento di intere popolazioni, anziché una comunità sovranazionale eurasiatica orizzontalmente responsabile dello spazio continentale. Mentre suo figlio Albrecht si avvicinava alla resistenza conservatrice, venendo fucilato per aver partecipato alla congiura contro Hitler del giugno 1944, il nostro si rifugiò nell’idea imperiale europea e nelle fantasie eurafricane, pur prevedendo come il conflitto si sarebbe risolto con una nuova “catastrofe” tedesca e la suddivisione della Mitteleuropa tra potenze talassocratiche e quella russa. Del testo, qui sommariamente riassunto nelle sue parti più salienti e, visto ex post, foriere di processi geopolitici e culturali futuri, colpisce al netto degli sviluppi seguiti alla Guerra Fredda, la sua stupefacente lucidità, dettata da un’analisi fredda e, sostanzialmente, scevra da ideologie suprematiste o razziste (quantomeno non in senso anglosassone), dove il destino dell’Eurasia sembra essere già stato definito e, sempre con i dovuti distinguo e sostituzioni – parziali – degli attori, ma non dei ruoli che questi interpretano, stabilito; in questo il ruolo di della Germania e della Russia (allora sovietica), legato a doppio filo con l’Asia orientale e meridionale (ieri il Giappone imperiale e l’India britannica in fase di liberazione dal giogo coloniale, oggi la Cina Popolare e l’India di concerto con il Pakistan) è oggi leggibile già in alcuni passaggi dello studio di Haushofer, facendone una sorta di specchio del Mondo di oggi.