La finanza europea contro la Catalogna

Perché la Catalogna è una grana anche per Bruxelles e non solo per Madrid

Da Formiche.

E fu così che in Spagna, alla fine, nessuno dei due contendenti frenò la propria corsa: lo stato centrale madrileno da una parte, e gli organi di governo della Catalogna dall’altra, sono finiti per precipitare entrambi nel baratro. Una conclusione inevitabile, per un popolo il cui motto preferito è: “Lo cortés no quita lo valiente”. Nessuno deve illudersi: il rispetto delle forme, la cortesia, non fa venir meno la determinazione assoluta nel sostenere le ragioni del proprio ruolo.

Volteggiano entrambi ora nell’incertezza, nel vuoto della razionalità, alla ricerca di una soluzione: stando alle dichiarazioni del premier spagnolo Mariano Rajoy, domenica 1° ottobre il referendum sulla indipendenza non si è tenuto, non è successo nulla che abbia avuto rilievo dal punto di vista legale; di converso, a conclusione degli scrutini il presidente catalano Carles Puigdemont ha annunciato che ne comunicherà l’esito al Parlamento della Catalogna per la proclamazione dell’Indipendenza e della Repubblica.

La questione non è di legalità formale, sia da una parte che dall’altra, bensì di effettività: non basta negare che il referendum sia avvenuto o proclamarne il successo per fermare un processo politico in corso o portarlo alle estreme conseguenze. Il diritto costituzionale, come quello internazionale vivono della realtà: per riportarla nell’alveo della legalità costituzionale spagnola, Rajoy ha annunciato che convocherà subito le forze politiche, auspicando il dialogo nel quadro della legge e della democrazia; per dare seguito alla proclamazione di Indipendenza della Catalogna nell’alveo della legalità internazionale, Puigdemont si è appellato all’Europa, “che non può girarsi dall’altra parte”.

Rajoy vuole una mediazione a Madrid, ripartendo da zero; Puigdemont vuole una mediazione a Bruxelles, per andare avanti.

Per la Unione europea, quella spagnola è una crisi ancora peggiore delle precedenti. Dimostra ancora una volta che l’Unione europea si fonda sugli squilibri tra gli Stati e sulla mancanza di solidarietà. Il boom spagnolo non ebbe uguali: fra il 2000 ed il 2007, il pil crebbe del 30%; il debito pubblico scese dal 59,9% al 35,5%, migliorando di 22,4 punti; il bilancio pubblico era stato complessivamente in avanzo del 3%, considerando che nel solo 2006 era stato del 2,6% e nel 2007 del 2%. L’Italia, per fare un paragone, aveva ridotto il rapporto debito/pil dell’11%, ma aveva accumulato deficit per il 24% del pil.

Sul versante internazionale, i conti spagnoli andavano a picco: tra il 2000 ed il 2007 il deficit delle partite correnti era stato complessivamente del 48% del pil, accumulando un passivo di 520 miliardi di dollari. L’indebitamento bancario della Spagna verso l’estero non conosceva soste: dai 434 miliardi di dollari del 2005 passò ai 1.078 miliardi di dollari del 2008. La exit strategy decisa dalla Bce nel 2011 indusse le banche del nord Europa a ritirare di corsa i prestiti alla Spagna, che crollarono a 569 miliardi di dollari nel primo trimestre del 2012. L’intervento europeo, attraverso l’Esm, non fece che sostituire crediti privati con denari pubblici.

La eredità è pesantissima: in Spagna, il rapporto debito pubblico/pil è arrivato quest’anno al 98,5%. La posizione finanziaria netta verso l’estero a fine 2016 era passiva per 950 miliardi di euro, pari all’85,7% del pil. Tra i dodici Paesi che risultano in fondo della classifica mondiale del Fmi per passività internazionali nette, ben dieci sono aderenti alla Ue: a scendere, troviamo Slovacchia, Lituania, Ungheria, Polonia, Croazia, Spagna, Portogallo, Cipro, Grecia ed Irlanda. Stanno fuori dall’Ue solo Nuova Zelanda ed Islanda. Sul versante opposto, con una posizione attiva pari al 54,4% del pil, troviamo la Germania, che l’ha accumulata a partire dal 2000.

Questa è l’Europa dei forti, quella a cui la Catalogna aspira, lasciandosi alle spalle la Spagna: se occupa appena il 6% del territorio spagnolo, in essa vive il 16% della popolazione che produce il 20% del pil ed esporta il 26% del totale. Oltre all’industria, ha il turismo: Barcellona è il primo porto crocieristico del Mediterraneo, e la regione catalana è meta di ben 8 milioni di persone sui 20 totali della Spagna, potendo contare sulla ricettività delle Isole Baleari e della Costa Brava.

Le élite sociali, non solo quelle burocratiche e finanziarie, dominano i processi politici: non solo a Bruxelles, ma ormai anche a Madrid ed a Barcellona. Mentre evaporano le famiglie politiche tradizionali, popolari e socialisti, fondate sulla solidarietà territoriale e sociale, emergono formazioni incapaci di un consenso ampio e diffuso, che vanno allo scontro senza tentennamenti.

È una Europa fatta a morsi, uno dopo l’altro: c’è chi ha già deciso di uscire dall’Unione pur avendo una sua moneta, come la Gran Bretagna; chi, come Marine Le Pen candidata alla Presidenza della Repubblica francese avrebbe vorrebbe abbandonare l’Eurozona ma non l’Unione; c’è chi non rispetta i Trattati di Schengen e chi non accetta i ricollocamenti degli immigrati; chi, come la Catalogna, ora chiede l’appoggio per la secessione mantenendo l’euro e divenendo membro dell’Unione.

Questa fa continuamente prevalere le ragioni del mercato ed i principi indefettibili di libertà di movimento ad esso funzionali, rispetto ai valori fondativi degli Stati moderni, rappresentati dalla solidarietà e dai doveri derivanti dalla comune appartenenza. L’obiettivo più ambizioso è quello di essere un’area monetaria ottimale, mentre quello minimo è solo evitare le crisi finanziarie sistemiche. A nessuno importa più avere un Continente in cui i valori e le culture tradizionali convivano in modo equilibrato per promuovere la prosperità comune.

Barcellona pensa che, abbandonando Madrid, sarà più libera e più prospera. Si illude: è già isolata in Spagna, e non avrà alcun aiuto europeo. Madrid è andata allo scontro come alla corrida.

Quella del 1° ottobre è stata, per tutti, una notte di incubi. Senza solidarietà e senza equilibrio, precipitiamo tutti.

Perché la finanza internazionale non tifa per l’indipendenza della Catalogna

Da Formiche, pubblicato due giorni dopo.

È ancora una volta dalla Spagna, ad ottanta anni dalla guerra civile, che emergono le risposte più dirompenti ai conflitti profondi che dilaniano l’intera Europa da ormai un decennio. Il conflitto tra Madrid e Barcellona, latente da sempre, è stato rinfocolato dai costi della crisi: economica, finanziaria, politica e sociale. Niente è stato risparmiato dalla crisi. L’indipendenza della Catalogna avrebbe conseguenze inimmaginabili, non solo istituzionali sulle statualità e le sovranità in Europa, quanto sulle garanzie dei creditori internazionali nei confronti dei debiti sovrani e dei privati all’interno dei singoli Stati. Gli Stati sono i grandi esattori. Gli interessi economici e finanziari saranno quindi ancora una volta determinanti: allora a favore del Franchismo, ora dello Stato centrale.

Ottanta anni fa, il conflitto era tra capitale e lavoro, per la redistribuzione del reddito e delle fonti di creazione della ricchezza. Nello schieramento repubblicano, accanto alle tradizionali forze socialcomuniste e sindacali, militavano consistenti gruppi anarchici e libertari. Barcellona fu cruciale su questo fronte. Si contrapponevano i falangisti, dietro cui si schieravano proprietari terrieri e capitalisti. La sinistra repubblicana era profondamente divisa al suo interno sulla questione della proprietà privata e degli espropri: la sua sconfitta fu determinata da questi dissidi e dal venir meno dell’appoggio sperato delle forze che si richiamavano all’internazionalismo proletario.

Le pulsioni autonomiste della Catalogna non si sono mai sopite: il nuovo Statuto, approvato nel 2006 dopo una lunghissima procedura, fu pesantemente amputato anche dal Tribunale costituzionale, nel 2010, dopo anni di ricusazioni incrociate nei confronti dei giudici. Furono i popolari guidati da Mariano Rajoy a richiedere il giudizio di costituzionalità, ed è sempre Rajoy oggi ad opporsi con fermezza alla deriva sovranista catalana.

Non basta però richiamarsi a questa radicata voglia di identità per spiegare ciò che sta accadendo in questi giorni. L’istanza anarchica e libertaria catalana riemerge, cavalcando stavolta l’onda dell’indipendentismo. Come si conviene ad una guerra rivoluzionaria, usa solo i temi unificanti dal punto di vista emotivo, tralasciando tutti quelli che sono politicamente e soprattutto razionalmente divisivi: l’uso della bandiera, dell’inno tradizionale, e della lingua, sono i segni di comune appartenenza cui nessuno può sentire estranei. Si crea un guscio, una testuggine.

Rimanere in Europa, come futura Repubblica di Catalogna, rappresenta per gli indipendentisti una sponda, una condizione fondamentale così come lo era stata l’appartenenza all’internazionalismo proletario. Stavolta è la sovranità sul territorio, non la proprietà del capitale, ad essere l’oggetto della contesa rivoluzionaria. L’Europa incarna l’internazionalismo che dovrebbe favorire l’obiettivo dell’indipendenza: da sempre, infatti, l’abbattimento degli Stati nazionali ed il contemporaneo sostegno dato alla rappresentanza delle comunità regionali è stato considerato funzionale alla creazione del super-Stato europeo. Non è casuale che la principale politica di riequilibrio dell’Unione sia svolta attraverso i Fondi di sviluppo regionale.

Siamo giunti al nodo: Barcellona sogna di costituirsi in una sorta di Città-Stato, una ambizione lontanissima da ciò che fu per secoli la Repubblica di Venezia. Si ispira piuttosto all’esempio di Hong-Kong: un piccolo territorio in grado di attrarre enormi moli di traffico, di turismo, di capitali. Ad imitazione di altri Stati europei dal territorio esiguo o infinitesimo, come l’Irlanda o il Lussemburgo, farebbe della politica fiscale un cavallo di battaglia per attirare imprese. Liberata dagli oneri e dai vincoli di solidarietà con il resto della Spagna, volerebbe.

Anche stavolta, nel conflitto tra lo Stato centrale madrileno e le istanze rivoluzionarie della catalogna, la storia si ripete. A Madrid, il Psoe è spaccato: metà sostiene il governo del Pp guidato da Mariano Rajoy, e metà sta all’opposizione. A Barcellona, non vi è alcuna certezza che si arrivi alla Dichiarazione di Indipendenza già lunedì prossimo.

L’Unione europea, chiamata in causa non fosse altro che per la difesa dei diritti umani che sarebbero stati violati dallo Stato spagnolo facendo intervenire la Guardia Civil nei confronti di manifestanti inermi, non ha alcuna voglia di giocare un ruolo di mediazione in quello che considera a ben ragione una questione interna spagnola.

“Sono sovente le regioni più ricche che vogliono l’indipendenza, e questo solleva il problema del trattamento delle ineguaglianze territoriali. La convergenza non è un problema che può essere risolto solo dagli Stati, anche l’Europa ha un ruolo da giocare”. Con queste parole, dopo aver sottolineato che la Catalogna non sarà ammessa nell’Unione Europea anche se dovesse divenire una Repubblica indipendente, il Commissario europeo Pierre Moscovici ha descritto le ragioni profonde della tentazione secessionista della Catalogna.

A voler essere sinceri, avrebbe potuto semplicemente affermare che i creditori internazionali non hanno alcuna voglia di aprire quel vaso di Pandora rappresentato dalla Spagna, visto che la Catalogna vale da sola il 16% del suo pil, ed il 26% dell’export. Non solo il debito pubblico spagnolo si è quadruplicato a partire dal 2007, arrivando quest’anno al 98,5% del Pil, ma il passivo della posizione finanziaria netta sull’estero è da record mondiale, negativo per 950 miliardi di euro, pari all’87,5% del Pil a fine 2016. Sta in fondo alle classifiche mondiali, insieme ad Irlanda, Portogallo, Grecia e Cipro.

È questo il macigno che i Catalani non si vogliono tenere al collo, e che peserà per molti decenni sull’economia spagnola, di cui si sentono il fiore all’occhiello.

Come accadde dopo la prima guerra mondiale e la depressione dei primi anni Trenta, anche stavolta si pone il problema della distribuzione dei costi della crisi, ormai decennale. Si è deciso innanzitutto che il costo della crisi dovesse essere sopportato dai Paesi Mediterranei, colpevoli per avere le finanze pubbliche fuori controllo ed uno sbilancio strutturale dei conti con l’estero. Le politiche di deflazione salariale, ottenute con manovre fiscali tremende, hanno fatto fallire decine di migliaia di imprese marginali provocando milioni di disoccupati. Si è versata altra benzina sul fuoco. Si è escluso, invece, di addossare una parte dei costi ai Paesi più efficienti dal punto di vista economico prevedendo trasferimenti correnti di risorse.

I costi sono stati poi ribaltati da un’area all’altra, attraverso i fenomeni migratori. Le dinamiche sono state violente, come le reazioni: il referendum sulla Brexit nasce dalle conseguenze della libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione in un contesto di grave e lunga crisi economica, correlato alla particolare generosità del welfare britannico nei confronti dei disoccupati. Si andava in Inghilterra con la speranza di trovare lavoro e la certezza di ottenere comunque un sussidio.

Non solo abbiamo assistito al crollo delle due principali famiglie politiche europee, Popolari e Socialisti, ed all’emergere di nuove e talora stravaganti formazioni, ma all’emergere di tensioni continue tra gli Stati dell’Unione europea ed all’interno degli stessi Stati: il referendum del 1° ottobre sulla indipendenza della Catalogna si aggiunge alla Brexit, alle posizioni dei Paesi del Gruppo di Visegrad sull’immigrazione, alle diffuse resistenze ai ricollocamenti di coloro che hanno ottenuto asilo, ed al recentissimo voto tedesco in cui non solo i Lander occidentali ed orientali hanno votato in modo assai difforme.

I fascismi, in tutte le loro declinazioni, rappresentarono una alternativa alla rivoluzione comunista, la risposta alle crisi economiche e sociali determinate dalla prima guerra mondiale e dai riflessi in Europa della crisi americana del ’29. Si decise così chi doveva pagare il loro costo.

Stavolta, la crisi sta determinando divari territoriali crescenti. Le tensioni territoriali riflettono le strategie messe in atto per sottrarvisi: si ridisegnano, così, non solo geograficamente, i processi di allocazione, produzione e segregazione della ricchezza. Sono gli interessi finanziari internazionali a volere ancora che gli Stati rimangano integri, ma solo perché danno maggiori garanzie sui debiti enormi che si sono formati. Sono loro il vero baluardo alla frammentazione statuale, non le forze politiche. Queste, al contrario, hanno perso coscienza di sé: la Cittadinanza non è lo status di chi vive nelle città rimaste fiorenti. E’ invece il diritto di tutti, di poter studiare, lavorare, curarsi, avere giustizia ed invecchiare dignitosamente in ogni territorio. Questa è la funzione pubblica cui ora si abdica in continuazione. L’Italia, soprattutto a Settentrione, è una distesa ininterrotta di cittadine, di paesi operosi, con capannoni, fabbriche, casolari, villette, campagne coltivate. Ora, intere aree si stanno desertificando, con danni sociali, economici e politici irreparabili.

Qui sta il nodo: se la ricchezza, il benessere, gli investimenti tornano a concentrarsi in aree sempre più ristrette, i divari si accrescono e le tensioni aumentano fino ad essere ingovernabili. L’indipendenza della Catalogna è una prospettiva dirompente, perché sfrutta una sua lingua e tradizioni antiche. Non solo Castigliani contro Aragonesi. Torneremmo al Medio Evo, alla civiltà comunale, ai conflitti tra Città e Città. Anche quella, in fondo, era Europa.

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