La democrazia dove non si vota

La decisione delle autorità europee di procedere, su spinta statunitense, a sempre più restrittivi “pacchetti” di sanzioni contro la Federazione Russa e di forniture belliche al regime di Kiev, sta avendo, e avrà sempre di più, effetti devastanti sul tessuto produttivo e sociale del nostro Continente. Nel pieno di una vorticosa spirale inflazionistica e già colpita da fallimenti a catena, l’economia europea rischia di essere compromessa, forse definitivamente, trascinandosi dietro non solo capitali e imprese, ma lavoratori e famiglie, che a milioni saranno gettati fra miseria e povertà. I dati sono già eloquenti riguardo ai fallimenti, ai costi dei beni di consumo e all’inflazione reale (anche detta da loro ambiguamente “percepita”), e soprattutto in merito ai costi dell’energia e del gas.

Per le conseguenze mastodontiche su tutta la società, sarebbe stato ragionevole presupporre un certo livello di consapevolezza e partecipazione popolare a queste decisioni: alla fine si tratta del futuro, prossimo e lontano, di milioni di cittadini. 

E invece no. Le sanzioni e gli aiuti militari sono stati autorizzati senza corretta informazione, senza possibilità di coinvolgimento popolare, e senza nemmeno consentire un serio dibattito parlamentare. Nottetempo i nostri onorevoli deputati e senatori, per obbedire al diktat di Washington, hanno deciso di condannare l’Italia a forse la peggiore crisi socio-economica della sua Storia.

Questo modus operandi non è stato tipico della sola Italia, ma di tutti i paesi dell’Unione Europea. Quasi tutti: l’eccezione dell’Ungheria appare meritevole di lode. Questo paese, che l’Unione considera alla stregua di un’autocrazia impegnata nel minare i pretesi “valori europei”, non solo ha rifiutato l’appoggio militare, annunciando la propria neutralità e l’impegno per il dialogo, ma ha, con somma rabbia di Bruxelles, proposto che siano i cittadini ungheresi a decidere se applicare o meno le sanzioni contro la Federazione Russa. Una posizione assolutamente comprensibile e logica: su un fatto dalle conseguenze così grandi non si può decidere in un paio d’ore a porte chiuse.

Borrell, vertice della diplomazia europea che da mesi mostra più fascinazione per il “tintinnar di sciabole” che per le trattative, ha sentenziato che la proposta “indecente” di Orbán mette a rischio l’unità europea. In poche parole: visto che centinaia di milioni di europei potrebbero non essere pronti a morire di freddo e di fame per permetterci di scatenare la Terza Guerra Mondiale, in nessun modo deve essere dato a questi lo spazio per esprimersi in merito.

Parrebbe strano che nel campo delle autoproclamate “democrazie” vi sia tanta antipatia -e paura!- per elezioni e referendum. Parrebbe strano se questa ostilità non fosse congenita al progetto unitario europeo. D’altronde tutti dovremmo ricordarci del “pilota automatico”, che Draghi nel 2013 considerava inserito per le “riforme” a prescindere da qualsiasi esisto elettorale, o ancora dei più recenti “strumenti” ventilati dalla Von Der Leyen per mettere in riga qualsiasi velleità anche solo blandamente polemica del prossimo governo italiano. Insomma, non solo la democrazia, al di là delle belle parole, non ha spazio nel nostro continente, ma è vista come un vero e proprio pericolo, nella “migliore” tradizione liberale. In merito suonano ancor più chiare le parole di Mario Monti sulla natura “al riparo dei processi elettorali” delle istituzioni europee: la democrazia non è un fine, non è un mezzo, ma è un pretesto al più retorico, utile per giustificare interventi bellici e sanzioni. 

E’ però anche un pericolo, perché non è per nulla improbabile che milioni e milioni di persone possano organizzarsi, e votare, per aver rispettati i propri diritti, e tutelati i propri interessi. Per far fronte a questo si agisce in due modi: si annulla ogni velleità di partecipazione popolare alla gestione della Cosa Pubblica dal punto di vista materiale, passando per la decomposizione di sindacati e partiti di massa e la costruzione di impedimenti legali e formali ad ogni progetto di democrazia sostanziale; si attacca culturalmente ed ideologicamente ogni forma di interesse e rispetto per le masse, bollato come populismo, demagogia o ancora come caratteristica intrinseca di pretese “autocrazia”.

La pratica dello “stato d’eccezione” a cui si è stati abituati progressivamente negli ultimi decenni non è che funzionale a tutto ciò, ponendo al riparo della necessità pratiche oggettivamente anti-democratiche e, qui sul serio, autocratiche.

Un Occidente che teme e condanna le consultazioni elettorali, che ha mostrato storicamente e attualmente ben poco rispetto per i principi fondanti dell’ONU, si accinge a muovere guerra a tutto il resto dell’Umanità sulla base della “democrazia” e del “rispetto delle regole internazionali”. Il comico però si aggiunge al tragico, essendo in primis noi italiani ed europei ad essere messi sulla linea del fuoco come pedine sacrificabili, mentre il nostro capitale si dilegua dall’altro lato dell’Atlantico e i nostri politici ci rendono fattivamente co-belligeranti nel conflitto ucraino. 

Questa visione del mondo promossa dalla classe dirigente occidentale, lo scontro fra democrazie dell’Occidente e autocrazie “asiatiche”, è un qualcosa di pericoloso oltre che di falso. E’ pericoloso per ovvie ragioni, di ordine sia economico che bellico. E’ pacifico affermare che la prosperità dell’Europa è stata resa possibile, oltre che dal saccheggio dell’Africa, dagli accordi commerciali con Russia e Cina per materie prime ed energia a basso costo. Ora, in anni non certo di crescita, ci viene ordinato di rinunciare a tutto ciò in nome della crociata per salvare l’Occidente. Crociata che ovviamente, come 100 anni fa, dovremmo combattere noi mandando ondate su ondate di armi e uomini (per ora solo Ucraini) all’invasione delle terre russe e al “contenimento” cinese nel Pacifico. Ma la menzogna non potrebbe essere più lampante: per Russia e Cina, e per i loro alleati, lo scontro militare è assolutamente da evitare. Ne abbiamo avuto prova ripetuta con i tentativi di accordo di Minsk I e Minsk II, con il comportamento freddo e cauto della RPC davanti alle provocazioni americane a Taiwan e davanti alle minacce di invasione delle Isole Salomone da parte dell’Australia, con le risposte misurate dell’Iran ad ogni sabotaggio ed omicidio…E questo per tacere della necessità strategica per il processo d’integrazione eurasiatica, fondamento del multipolarismo, di uno scenario internazionale quanto più pacifico e aperto al commercio possibile. 

Ma per chi ragiona in termini di egemonia tutto questo è semplicemente inconcepibile. Ed essendo la partita chiusa a livello dell’economia reale, con un dollaro che non è carta straccia unicamente perché difeso dai cannoni della NATO, l’unica speranza è di far saltare il tavolo, facendo valere il diritto della forza. E’ facile capire da quale parte provengano le minacce alla pace mondiale, e non si tratta di quella delle “autocrazie”.

Ma queste “autocrazie” appaiono veramente una cosa strana. Mentre i governi occidentali fanno il conto con una progressiva e celere perdita di autorevolezza e credibilità presso i loro stessi cittadini e gli altri Stati, le pretese “autocrazie” vedono partiti e organizzazioni di massa al centro della vita politica, promuovono la creazione di relazioni paritarie a livello internazionale, e godono di sempre maggiore appoggio da parte dei loro cittadini. Le decisioni non avvengono nel segreto e nel silenzio, ma in dialettiche politiche complesse, pluridirezionali, rappresentative del paese e delle sue componenti.

Insomma, se crociata sarà, come lasciano presagire tutti i segni, questa non sarà in nome della “democrazia” contro il sempiterno “dispotismo asiatico”, ma in nome del tentativo da parte delle élite statunitensi di preservare la propria egemonia, messa in crisi dalla ribellione dei ⅘ dell’Umanità, anche a costo di trasformare l’Europa in un cimitero sociale nel migliore dei casi, atomico nel peggiore.