Da InsideOver.
Miti da sfatare. Dati da analizzare con dovizia di causa. Visione a lungo termine. Quando parliamo di economia green è necessario adottare un approccio quanto più obiettivo possibile e, soprattutto, è fondamentale ignorare la propaganda derivante dalle crescenti tensioni internazionali. La Cina, per esempio, è in prima linea nell’affrontare il delicato tema della transizione energetica globale. Nel corso di pochi anni, Pechino ha letteralmente rivoluzionato la mobilità, puntando sulle auto elettriche, si è affidata alle energie rinnovabili e modificato radicalmente il proprio paniere energetico. La sostenibilità è una delle parole chiave dell’agenda politica cinese, i cui obiettivi sono per altro in linea con quelli stabiliti dall’Onu.
Eppure, tra analisti e addetti ai lavori, c’è chi continua ad avere un’idea sbagliata di un Paese che continua a ottenere risultati confortanti. Ne abbiamo parlato con Demostenes Floros, analista del CER (Centro Europa Ricerche), che parlerà di questo tema nel corso del Secondo seminario sui contributi della Cina nelle relazioni internazionali, in programma a Roma il prossimo 3 ottobre.
Federico Giuliani: A che punto è la transizione energetica della Cina?
Demostenes Floros: “Per poter rispondere a questa domanda bisogna in primo luogo evidenziare una data precisa, che il gruppo dirigente cinese ha già indicato da qualche anno: l’obiettivo, di lungo periodo, della transizione energetica della Cina è stato fissato al 2060. Se facciamo un confronto con l’orizzonte che si sono dati Usa e UE, vediamo che questi due attori hanno indicato una data più prossima: 2050. Altre grandi economie, come quella dell’India, ne hanno indicata una terza ancora: il 2070.
Queste differenze di date hanno evidentemente a che fare con molte motivazioni, in primis economiche ma anche geopolitiche. Per quanto riguarda la Cina, possiamo dire che il Paese si trova nel primo stadio del suo lungo percorso, caratterizzato sia da elementi fortemente positivi – e che riguardano in particolar modo lo sviluppo, negli ultimi anni, di fonti rinnovabili – che da limiti e contraddizioni, a partire dal peso ancora significativo del carbone. Quindi, per tornare alla domanda: la transizione energetica della Cina presenta numerosi aspetti positivi, ma anche contraddizioni e limiti”.
Come è cambiato il paniere energetico della Cina negli ultimi anni?
“Prendendo come orizzonte temporale l’ultimo decennio, osserviamo la seguente evoluzione qualitativa e quantitativa della Cina. In primo luogo, è bene evidenziare come i consumi di energia primaria del Paese asiatico siano incrementati di oltre il 35% nel decennio preso in esame. Siamo di fronte a un cambiamento quantitativo straordinario che coinvolge un Paese in via di sviluppo come la Cina, ma che non riguarda minimamente le economie occidentali a capitalismo avanzato (alcune delle quali hanno anzi evidenziato un calo di consumi di energia primaria). Dal punto di vista qualitativo, sempre osservando il lasso temporale citato, notiamo un calo in termini relativi di almeno 10-12 punti percentuali del peso del carbone, passato dal coprire il 66% dei consumi di energia primaria della Cina di dieci anni fa a meno del 55% del 2023. Di pari passo, abbiamo avuto uno straordinario incremento delle rinnovabili, che 10-12 anni fa erano quasi inesistenti nel paniere cinese, e che in un decennio sono aumentate arrivando quasi a coprire il 9-10% dei consumi di energia primaria del Dragone (un cambiamento epocale).
È altrettanto importante, per due ragioni, evidenziare come sia cresciuto il peso, sia in termini assoluti che relativi, del gas naturale. Intanto perché, tra le fonti fossili, questa è quella che emette meno CO2, e poi perché la transizione energetica cinese si fonda per lo più sul ruolo ponte del gas naturale insieme alle rinnovabili. Notiamo, poi, che il peso del carbone è tuttavia aumentato significativamente in termini assoluti, ma l’incremento percentuale nell’ultimo decennio è stato infinitamente minore rispetto all’incremento di altri combustibili fossili (petrolio e gas naturale), nonché dei consumi di energia primaria del Paese. Da evidenziare, infine, anche il ruolo dell’energia idroelettrica – la Cina ne è il più grande produttore al mondo – così come il crescente peso del nucleare”.
La rivoluzione delle auto elettriche aiuta la Cina a raggiungere i suoi obiettivi?
“Bisogna fare una piccola premessa quando parliamo di auto elettriche. Un conto è parlare di veicoli del genere in Cina, tutt’altra cosa è farlo negli Usa e in UE…”.
Cosa intende dire?
“La capacità di penetrazione del mercato delle auto elettriche in Usa e UE sta subendo un arresto particolarmente significativo, e lo abbiamo visto negli ultimi mesi. Questo è dovuto a vari fattori: al prezzo elevato dei veicoli ma anche a motivazioni che riguardano la filiera produttiva sino alla ricarica. Quando invece parliamo di Cina, sia per quanto concerne la citata filiera produttiva (il Paese possiede tutti i tasselli che servono), sia per quanto riguarda i prezzi (una cosiddetta utilitaria elettrica oltre la Muraglia ha un prezzo notevolmente inferiore rispetto allo stesso modello in UE o Usa), osserviamo un tasso di penetrazione che non è minimamente paragonabile a quello registrato in Occidente. E questo è, in estrema sintesi, frutto di una serie di immensi investimenti da parte dello Stato cinese che hanno almeno due decenni alle spalle.
Parliamo, insomma, di due mondi completamente diversi: la Cina e l’UE/Usa. È evidente che la rivoluzione delle EV in Cina sta contribuendo alla realizzazione degli obiettivi green. Attenzione però, perché se nel 2026 si stima, a proposito di penetrazione del mercato, che in Cina una nuova auto su due sarà elettrica – con ricadute ambientali positive – dall’altro non bisogna dimenticare che il 60% dell’elettricità che arriva dalle colonnine cinesi che servono per caricare le auto elettriche (ve ne sono 2,5 milioni rispetto alle circa 25mila presenti in Italia) viene ancora oggi prodotta bruciando carbone. Per cui, fin quando le batterie dovranno essere prodotte ex novo, più che essere riciclate, sarà probabilmente prematuro parlare di vera e propria sostenibilità ambientale”.
Tante persone pensano che la Cina sia ancora un Paese che inquina, e che in proporzione lo faccia più di Usa e UE.
“Stiamo parlando di un tema, quello delle emissioni di CO2, particolarmente spinoso e che viene spesso strumentalizzato da gran parte dei politici, nonché dagli stessi giornalisti e analisti, che forse per non conoscenza, oppure per volontà politiche, presentano il problema in termini errati. Sostengono quanto segue: la Cina è il Paese che emette più CO2 e quindi è quello che inquina di più. Tralasciando per un attimo la discussione concernente emissioni e inquinamento, stiamo parlando di un Paese che ha oltre 1,4 miliardi di abitanti e che, secondo quanto ha dichiarato il Governo cinese nel 2020, ha fatto sì che tutti quanti i suoi cittadini fossero sollevati dalle esigenze dalla fame e dalla sete. È dunque evidente che, in termini assoluti, la Cina sia il Paese che emette più CO2 del mondo. Dobbiamo però approfondire questo aspetto…”.
Prego.
“Dovremmo anzitutto calcolare le emissioni di CO2 pro capite. Già facendo questo, si evince che ogni abitante cinese emette poco più di 8 tonnellate di CO2 all’anno, e cioè poco meno della metà delle emissioni medie di ogni cittadino statunitense, che invece ne emette più di 15 tonnellate. La percentuale di un cittadino dell’UE è di poco inferiore a quella cinese, siamo attorno ai 7-7,2 tonnellate di CO2, per non parlare di un abitante dell’India – il Paese più popoloso al mondo da febbraio 2024 – che invece si ferma a poco più di 2 tonnellate. Il calcolo in termini pro capite ci presenta una situazione diversa rispetto a quella “venduta” dalla maggior parte dei media. Ma c’è dell’altro”.
Prosegua nel suo ragionamento
“Le emissioni dell’1% più ricco della popolazione mondiale sono state superiori a quelle registrate, in totale, dai 5 miliardi di abitanti del pianeta più poveri. Il dato è di un’organizzazione no profit svedese, Oxfam, e risale al 2019, l’ultimo a nostra disposizione. Oltre all’analisi pro capite e alla redistribuzione del reddito, c’è poi un altro aspetto da considerare e che ha a che fare col metodo di calcolo delle emissioni. Quest’ultime vengono calcolate sulla produzione e non sul consumo. O, per meglio dire, vengono calcolate al netto dei beni di consumi importati. Questo vuol dire che i Paesi che producono più materie prime e beni di consumo sono evidentemente quelli che emettono di più rispetto a quelli che invece sono soliti importare quei beni.
Facciamo un esempio: si stima che il 40% delle emissioni di CO2 della Cina faccia riferimento alla produzione di beni che poi vengono consumati da Usa e UE. Esiste insomma una chiara relazione tra emissioni di CO2 e distribuzione della manifattura (e del lavoro), che ha visto negli ultimi decenni una redistribuzione dell’industria verso l’Asia, a discapito delle economie occidentali. La Cina oggi rappresenta il 30,1% della manifattura mondiale, gli Usa sono al 15,1%, la Germania al 4,5%, l’Italia all’1,8%. Bisogna quindi considerare per lo meno i tre aspetti citati – consumo pro capite di CO2, reddito e divisioni internazionali della manifattura (tralascio le condizioni climatiche, l’inverno canadese è particolarmente più rigido di quello greco) – per approfondire veramente il tema delle emissioni e capire chi emette più anidride carbonica”.
La Cina è uno dei pochi Paesi in linea con gli obiettivi di sostenibilità dell’Agenda Onu: è davvero così?
“Se nella prima risposta ho fatto riferimento a un obiettivo strategico di lungo periodo, in questo caso parliamo di obiettivi intermedi, in particolare fissati al 2030. Nel giugno 2023, il Global Energy Monitor aveva previsto che la Cina fosse sulla buona strada per raddoppiare la propria capacità eolica e solare con 5 anni di anticipo rispetto all’obiettivo del 2030. L’ipotesi è stata confermata dall’International Energy Agency che ha stimato addirittura 6 anni di anticipo. Tra qualche mese vedremo dunque se questo obiettivo intermedio sarà stato raggiunto. Un altro dato interessante fa riferimento all’intensità carbonica del reddito: la Cina si era impegnata a ridurla di oltre il 65% entro il 2030 rispetto al 2005. I dati ci dicono che, al 2021, la riduzione del rapporto tra emissioni e PIL era stata del 47% rispetto al 2005. Mantenendo lo stesso ritmo di riduzione – circa il 4% medio annuo – il calo raggiungerebbe il 63% nel 2030. Quindi basterebbe un minimo sforzo aggiuntivo da parte del Paese per essere totalmente in linea con quanto dichiarato. Dal punto di vista politico, l’aspetto più importante è però un altro: è fondamentale che il Paese rispecchi l’obiettivo pubblicamente indicato dalla compagnia nazionale Sinopec, secondo la quale il picco della domanda del carbone avverrà intorno al 2025. Il rispetto o meno di tale obiettivo avrà infatti una ricaduta politica rilevante sull’intera comunità internazionale, oltre che sul riconoscimento della stessa comunità internazionale dell’enorme sforzo implementato dalla Cina nell’ambito della transizione energetica”.
Su quali energie rinnovabili sta puntando la Cina?
“Un’altra piccola premessa. Quando parliamo di rinnovabili stiamo fondamentalmente facendo riferimento all’energia solare ed eolica. Ebbene, i dati che fanno riferimento al solare e all’eolico cinese, soprattutto quelli registrati nel 2023, sono a dir poco straordinari. In termini assoluti, sono superiori a quelli registrati dalla somma del resto del mondo”.
Pechino potrebbe aiutare l’Occidente a essere più green mettendo a disposizione il suo know how?
“Riporto una dichiarazione del direttore esecutivo dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, il turco Fatih Birol. Nel gennaio 2024, ha affermato: “La Cina non solo ha prodotto molta capacità rinnovabile a livello nazionale, ma ne ha anche abbassato i costi distinguendo le fonti di energia pulita, rendendo le tecnologie verdi più economiche e accessibili, e fornendo il servizio all’intera comunità. La Cina ha reso un doppio servizio alla transizione energetica pulita del mondo”. Mi pare che le parole di Birol rispondano in maniera molto chiara all’interrogativo posto. Faccio però un’ultima considerazione in merito al rapporto tra Occidente e Cina, e a cosa aspettarsi dal futuro. Riporto il dato relativo alla distribuzione geografica dei brevetti sull’energia rinnovabile al 2023: il 52,5% è made in China (nel 2022, era al 42,5%). Gli Usa seguono con il 12,2% e l’UE con il 9,7%. Questo dato parla da solo, e fornisce all’Occidente un’indicazione su cosa sarebbe meglio scegliere tra una collaborazione con la Cina – che presenta ovviamente anche una serie di contraddizioni da risolvere – rispetto invece ad una contrapposizione frontale, se non una vera e propria competizione (rispetto alla quale Usa e UE scontano ormai un ritardo difficilmente colmabile, a mio modesto giudizio). Forse, soltanto Donald Trump ha chiaro questo concetto, nonché rapporto di forze, viste le sue considerazioni degli ultimi mesi, quando – tra lo sconcerto degli addetti ai lavori – ha invitato le imprese cinesi che operano nelle energie rinnovabili a produrre direttamente negli Stati Uniti”.