Una introduzione al pensiero marxista di Gianfranco La Grassa

Articolo tratto da Rosso XXI.

1. Nato nel 1935, e giunto così alle soglie dei suoi settant’anni, Gianfranco La Grassa sta ora lavorando ad un’opera complessiva su Karl Marx che avrà probabilmente come titolo, Marx in Sé e che sarà una sistematica resa dei conti integrale con il pensiero marxiano. Ma qui parleremo invece del suo più recente lavoro, pubblicato (Cfr. Gianfranco La Grassa, Il capitalismo oggi. Dalla proprietà privata al conflitto strategico, Editrice CRT, Pistoia 2004).

Per capire il significato e la direzione dei lavori di Gianfranco La Grassa è necessario collocarlo nel contesto storico e teorico del marxismo internazionale ed italiano della seconda parte del novecento e di questo inizio di secolo. Per questa ragione, in base al principio della storicità del pensiero critico, inizierò con la segnalazione delle tre principali correnti di pensiero marxista in Italia (storicismo, operaismo, althusserismo), continuerò con alcune riflessioni sul maoismo marxista-leninista italiano come fenomeno politico e teorico, ricorderò sommariamente i tre principali momenti evolutivi del pensiero di Gianfranco La Grassa e concluderò infine con alcune note di riflessione sul libro che intendo segnalare al lettore. Cominciamo.

2. Il pensiero di Gianfranco La Grassa si forma all’interno di una gigantesca tragedia storica. La Russia di Stalin esce vincitrice dalla seconda guerra mondiale, ma questo non comporta una ripresa della pratica socialista di Lenin, quanto la formazione di un “campo socialista”, per cui di fatto il progetto comunista si riduce ad un “campismo”, che semplicemente allarga la pratica della cosiddetta “costruzione” statuale e partitica del socialismo (che già Marx nella sua polemica con Lassalle aveva esplicitamente dichiarato senza ombra di dubbio essere impossibile). A partire dal 1949 inizia la storia della Cina socialista, che ben presto prenderà una via diversa da quella dell’URSS di Krusciov dopo il 1956. Inizia anche un ciclo di lotte di liberazione coloniale, che la semplice esistenza militare del “campo socialista” favorisce (anziché “tradirle”, come dice assurdamente la scolastica trotzkista).

In Italia, dopo il 1945, Palmiro Togliatti prende atto saggiamente e realisticamente della assoluta impossibilità “militare, politica e sociale” di una rivoluzione socialista, per cui a mio avviso solo i poco informati possono parlare di una “rivoluzione tradita”. In Italia non ci fu nessuna rivoluzione tradita, per il semplice fatto che, dati i rapporti di forza esistenti sul campo, la rivoluzione era semplicemente impossibile. Nello stesso tempo, Togliatti era comunista, non socialista, ed il problema era allora quello di costruire un partito comunista di massa in un contesto storico di assoluta impossibilità di una rivoluzione socialista.

Il dilemma era oggettivo. Era oggettivo, e fu risolto a due livelli. A livello politico, costruendo uno strano ibrido, socialdemocratico nella sua pratica elettorale, amministrativa e sociale, e stalinista nella sua struttura partitica, ideologica ed identitaria. Lungi dall’essere un punto avanzato del movimento comunista mondiale, questo ibrido metà socialdemocratico e metà stalinista era un puro prodotto del gesuitismo controriformistico e dell’arretratezza italiana, già diagnosticata in vari modi da italiani controcorrente come Dante, Macchiavelli, Leopardi e Gramsci. Questo mostro identitario, in base al detto per cui un albero si giudica dai suoi frutti, doveva infine produrre frutti come Occhetto, D’Alema e Fassino.

A livello teorico, questo ibrido doveva legittimarsi con una ideologia di tipo storicista, per cui il tempo lavorava per lui, ed il progresso storico lo avrebbe infine portato senza bisogno di dolorose rotture rivoluzionarie al socialismo. I capitalisti erano visti come soggetti incapaci di sviluppare le forze produttive, la borghesia come classe in “decadenza”, ed il socialismo era inteso come una forza lenta, ma irresistibile. Si trattava, come è del tutto evidente agli studiosi del marxismo, di una teoria di legittimazione politica che non risaliva affatto a Lenin, ma a Kautsky. Era però un Kautsky molto peggiorato politicamente e moralmente, perché nella socialdemocrazia tedesca kautskiana regnava la massima libertà di dibattito, mentre nell’ibrido picista metà socialdemocratico e metà stalinista si cumulavano i difetti delle due componenti (senza i rispettivi pregi), e plebi identitarie rabbiose erano periodicamente istigate dai vertici contro ogni tipo di dissenzienti.

Questo è il quadro storico in cui la generazione di Gianfranco La Grassa dovette fare il suo apprendistato politico. I giovani oggi non ne possono avere minimamente l’idea. E’ allora necessario dedicare un piccolo spazio rispettivamente allo storicismo, all’operaismo e all’althusserismo, perché Gianfranco La Grassa è un frutto maturo dell’althusserismo italiano, più esattamente di una deriva feconda partita dall’althusserismo.

3. Lo storicismo è dunque stato contemporaneamente l’ideologia politica di legittimazione del partito di Palmiro Togliatti e la forma teorica egemone nel marxismo italiano 1945-1991. Questa doppia natura non deve mai essere dimenticata. Non si tratta affatto di una presunta egemonia della “tradizione” italiana (Antonio Labriola, Antonio Gramsci, eccetera). Questo è un mito elaborato da intellettuali cortigiani ad uso e consumo di anime semplici. Lo storicismo italiano era l’ideologia di legittimazione obbligata della linea politica di un partito non-rivoluzionario a retorica identitaria rivoluzionaria, con pratica amministrativa e parlamentare socialdemocratica e gestione di partito stalinista.

In un recente dibattito cui ho assistito nell’agosto 2004, ho notato due oratori, l’uno stalinista e l’altro trotzkista, usare lo stesso apparato teorico storicista basato sull’idea per cui il tempo storico è una linea in cui si può essere avanti o indietro. I due oratori davano giudizi diametralmente opposti sulle cause delle vittorie e delle sconfitte del comunismo storico novecentesco (1917-1991) ma li davano all’interno dello stesso apparato teorico storicistico. Per costoro le critiche alla concezione unilineare della storia non erano mai esistite, ed essi mostravano non solo di ignorare l’esistenza teorica di Preve (pur presente al dibattito), ma anche la ben più importante esistenza teorica di Bloch, Benjamin, eccetera. Ma è inutile farsi illusioni. La sola cosa che stalinisti e trotzkisti non capiranno mai è il segreto della loro base teorica e filosofica comune.

Lo storicismo, o più esattamente la concezione storicistica (cioè progressistico-lineare) della storia, portava necessariamente con sé il politicismo parlamentaristico e l’economicismo tecnologico. La politica era di fatto ridotta a mobilitazione di massa in funzione di una pressione sulla “lotta” (?) parlamentare, e veniva messo al primo posto lo sviluppo delle forze produttive come via privilegiata al socialismo.

Il nostro Gianfranco La Grassa conobbe bene la triade storicismo-politicismo-economicismo perché la vide plasticamente incarnata nel suo maestro universitario di economia Antonio Pesenti. Ancora una volta, è l’uccisione psicanalitica del padre la genesi di una produzione teorica originale e di opposizione. Questo non deve certamente stupire. La molla dell’innovazione teorica marxista non può che essere la decostruzione della propria tradizione.

4. L’operaismo può essere definito, da un lato, come una formazione ideologica specifica che sorge sul terreno del marxismo per poi allontanarsene radicalmente sia nella lettera sia nello spirito, e dall’altro come una manifestazione della volontà di potenza e di affermazione di settori della piccola borghesia colta italiana in cerca di un soggetto sociale (in questo caso, l’operaio fordista) che potesse fare da portatore delle proprie aspirazioni egemoniche. In termini storici, quantitativi, l’operaismo è stato il solo vero concorrente dello storicismo togliattiano, ed è anche stato il tessuto ideologico fondamentale delle formazioni dette extra-parlamentari del decennio 1968-1978 (Lotta Continua, Potere Operaio, Avanguardia Operaia, eccetera). Il fatto che esso, nelle sue varie metamorfosi successive, duri da più di quaranta anni, fa dell’operaismo un fenomeno degno del massimo studio e della massima attenzione storiografica (anche se per me ripugnante).

Nato originariamente come metodologia di ricerca sociale per l’intervento politico-sindacale in fabbrica (il “marxismo come sociologia” di Vittorio Rieser, l’allievo di Raniero Panzieri), l’operaismo si costituì negli anni sessanta come vera e propria formazione ideologica organica, ad opera soprattutto di Mario Tronti e di Toni Negri. I due punti teorici su cui l’operaismo soprattutto insisteva erano il fatto che il capitalismo come sistema unitario pianificava la propria riproduzione attraverso l’estorsione di plusvalore, da un lato, ed il fatto che erano le lotte operaie il fattore decisivo per le innovazioni di processo. In questo modo spariva quasi completamente la natura concorrenziale dei vari capitali in lotta per le innovazioni di processo e di prodotto, e la nozione marxiana di modo di produzione era di fatto ridotta alle sole forme di estorsione del plusvalore relativo, per cui tutto il marxismo si concentrava nella sola quarta sezione del primo libro del Capitale.

Per quasi cinquanta anni Gianfranco La Grassa è stato uno dei pochi avversari italiani dell’operaismo, ed ovviamente lo ha pagato caro, per il semplice fatto che la stragrande maggioranza degli apparati ideologici del cosiddetto “popolo di sinistra” (giornali, riviste, eccetera) è stata di fatto lottizzata fra la componente storicista e la componente operaista. La ferocia silenziatrice dei dissidenti veri (e non di quelli finti del gioco pluralistico delle parti), ereditata dal costume staliniano-togliattiano, ha fatto di Gianfranco La Grassa (ma non solo di lui) un pensatore escluso dal gioco delle segnalazioni e delle recensioni. Il “politicamente corretto” è una divinità più crudele di quelle assiro-babilonesi di biblica memoria.

5. L’althusserismo è stato un fenomeno internazionale, che ha preso il nome dal marxista francese Louis Althusser (1918-1990). Per esprimerci in termini politici, esso non ha assolutamente influenzato nè le ortodossie storiciste ufficiali (il PCI di Togliatti e Berlinguer), nè tantomeno le eresie di tipo trotzkista e bordighista. Ortodossie ed eresie sono state concordi ed unanimi nel respingerlo, dal momento che entrambe avevano come minimo comun denominatore lo storicismo, l’economicismo, la teoria degli stadi, eccetera.

Nato come formazione ideologica politica e militante, ma ben presto respinto dagli apparati politici e sindacali dei partiti comunisti e socialisti, l’althusserismo è necessariamente diventato (ma non per colpa sua) una delle tante innocue forme di marxismo universitario, ed in questa forma vivacchia ancora, sia pure in forma sempre più residuale.

Il nostro Gianfranco La Grassa è stato forse il maggiore prodotto dell’althusserismo italiano. Contro lo storicismo, Gianfranco La Grassa ha maturato una concezione del processo storico di tipo discontinuistico, e quindi non progressistico-lineare, e contro l’economicismo una concezione della dinamica capitalistica come ciclica e non stadiale. Contro l’operaismo, Gianfranco La Grassa ha sempre rifiutato una concezione della nozione marxiana di modo di produzione che la riducesse al semplice cosiddetto “processo di lavoro”, e dunque alla sola quarta sezione del primo libro del Capitale di Karl Marx.

6. E’ stato necessario inserire il cinquantennale pensiero di Gianfranco La Grassa nel triangolo costituito dallo storicismo, dall’operaismo ed infine, dall’althusserismo, perché senza questo inserimento sarebbe impossibile cogliere la sua specificità e la sua originalità. Bisogna ora ricordare anche un fattore politico oggi pressoché dimenticato, e cioè che l’althusserismo (o almeno una sua parte significativa) fu in Italia una formazione ideologica prevalente (anche se non unica) nel cosiddetto movimento maoista, o filo-cinese, o marxista-leninista, di cui Gianfranco La Grassa fu indubbiamente un esponente teorico, anche se non militante. Può allora essere utile ricordarne brevemente alcuni tratti storici e teorici.

7. In termini storici il movimento detto filo-cinese durò un ventennio circa, dal 1956 al 1976, e cioè dalla destalinizzazione decretata da Krusciov nel XX congresso del PCUS, fino alla morte di Mao Tse Tung ed alla fine della sua linea politica, sostituita da quella assolutamente opposta di Deng Hsiao Ping.

In Italia è bene distinguere fra il maoismo di tipo “teorico” ed il maoismo di tipo “militante”. I due non si incontrarono mai, e questo mancato incontro a mio avviso non fu dovuto solo a spiacevoli situazioni soggettive, ma è la prova provata della sostanziale impossibilità di “trapiantare” in Italia un fenomeno esotico trapiantabile solo ideologicamente e non socialmente e politicamente. I maoismi di tipo “militante”, ormai di fatto spariti da tempo, possono essere a loro volta divisi in due classi: il “maoismo” di tipo ortodosso, nostalgico, residuale, staliniano (i vari PCDI-ML, Linee rosse, Linee nere, eccetera), ed il “maoismo” di tipo populistico, più esattamente catto-comunista (Servire il Popolo di Aldo Brandirali, oggi esponente politico di Forza Italia). Infinitamente più interessante fu il maoismo teorico, di cui storicamente Gianfranco La Grassa resta il principale esponente (un altro notevole esponente, il romano Augusto Illuminati, è oggi approdato ad una variante sofisticata della teoria operaista delle moltitudini di Toni Negri – c’è di peggio, ma c’è anche molto di meglio). Il maoismo teorico italiano non presenta comunque aspetti di vera originalità, neppure in Gianfranco La Grassa, perché si tratta in gran parte di una traduzione del maoismo francese contemporaneo, di cui Louis Althusser fornì la parte filosofica e Charles Bettelheim le parti storica ed economica.

Ed ora passiamo alla periodizzazione tripartita del pensiero di Gianfranco La Grassa.

8. Il primo Gianfranco La Grassa, attivo soprattutto fra gli anni sessanta e gli anni settanta, si distingue come ridefinitore accurato e preciso dei concetti originali di Karl Marx (modo di produzione, forze produttive, rapporti di produzione, eccetera). All’interno del vecchio (ed orrendo) PCI se si contestava la linea politica si era espulsi con disonore, mentre era tollerata una catacombale filologia per addetti ai lavori (nello stesso modo la vecchia chiesa medioevale bruciava vivi coloro che predicavano in volgare, mentre era più tollerante con chi si limitava a scrivere indigesti trattati di teologia in latino). In questo modo i primi lavori di Gianfranco La Grassa sono pubblicati dalla casa editrice ufficiale del vecchio PCI, gli Editori Riuniti. Ovviamente, il dire che la sola struttura reale di un modo di produzione è la natura conflittuale e classista dei rapporti sociali di produzione, laddove lo sviluppo delle forze produttive non è un dato esogeno, progressistico e “neutrale”, equivale a sostenere, in linguaggio cifrato (ma non poi troppo!), che Mao ed i cinesi hanno ragione, mentre i comunisti sovietici ed italiani hanno torto.

Il primo Gianfranco La Grassa, all’inizio degli anni settanta, quando nessuno lo diceva ancora, sostenne che la dinamica evolutiva oggettiva del personale politico del PCI “revisionista” (si usava allora questa ambigua categoria polemica), non lo portava affatto verso una sorta di opportunismo piccolo-borghese ed interclassista, come allora fantasticava l’estremismo gruppettaro operaistico, ma lo spingeva progressivamente verso l’assunzione diretta di responsabilità politiche di gestione e di rappresentanza dei gruppi dirigenti del grande capitale. Allora questo sembrava quasi un delirio. Oggi, con l’esperienza dell’Ulivo, del PCI-PDS-DS, di D’Alema e di Fassino, eccetera, questa è ormai una ovvietà storica.

Ma allora non lo era.

9. Il secondo Gianfranco La Grassa, che è anche il meno interessante ed il più caduco, è lo studioso della divisione tecnica del lavoro come vera e propria struttura riproduttiva portante del modo di produzione capitalistico. E’ il periodo della stretta collaborazione di Gianfranco La Grassa con la Turchetto, la Manacorda, eccetera, tutti studiosi seri ed accurati della tecnologia capitalistica.

Non che in questo approccio ci fosse qualcosa di sbagliato. E’ vero infatti che nel modo di produzione la divisione tecnica del lavoro sovradetermina, e quindi di fatto dirige, la vecchia divisione sociale del lavoro, che esiste fin dai primordi dell’umanità. Ma l’insistenza su questo porta ad una sorta di inesistente “capitalismo lavorativo”, che finisce poi con l’assomigliare in modo inquietante alla maniacale fissazione sulla quarta sezione del Capitale della setta operaista. Gianfranco La Grassa seppe svincolarsi da questo vicolo cieco. E qui, mi si perdoni l’immodestia, la collaborazione con il sottoscritto, peraltro sempre polemica e conflittuale, ebbe la sua parte, salvo smentite dell’interessato.

10. Il terzo Gianfranco La Grassa, quello che ci interessa e che mi sembra quello “definitivo” (ma solo Dio lo sa!), è proprio quello del libro del 2004 che qui segnaliamo, ed ancora di più quello del monumentale lavoro che sta ora scrivendo. Per questa ragione, anziché riassumere analiticamente il libro (il lettore se lo leggerà da sé), segnalerò i punti teorici di maggiore rilevanza “discontinuistica”. Se poi sbaglio e cado in equivoci, Gianfranco La Grassa potrà sempre intervenire a chiarire, visto che è collaboratore fisso della rivista in cui esce questa mia recensione-introduzione.

11. Chi cerca dati economici sul capitalismo attuale non deve naturalmente rivolgersi al libro di Gianfranco La Grassa. Il libro di Gianfranco La Grassa propone un modello teorico di interpretazione del modo di produzione capitalistico al più alto livello di astrazione, che pertanto esclude per principio ogni statistica economica, il che non significa però che non ne tenga implicitamente conto. Si tratta, come del resto è indicato nel sottotitolo, di una proposta teorica di passaggio da un modello di modo di produzione capitalistico basato sulla centralità della categoria di proprietà privata ad un modello di modo di produzione capitalistico basato sulla centralità della categoria di conflitto strategico. In proposito, farò qui una serie di osservazioni.

Primo, questa proposta di modificazione categoriale di Gianfranco La Grassa non sarebbe probabilmente stata fatta se il modello precedente di centralità della categoria di proprietà privata dei mezzi di produzione, in presenza ovviamente di un mercato del lavoro ad un tempo libero e sfruttato, avesse funzionato o mostrato di funzionare con ragionevoli modifiche. Ma il modello di costruzione del socialismo come espropriazione dei mezzi di produzione privati e loro “statalizzazione” sotto il comando dello stato-partito comunista non ha storicamente funzionato, ed ha dato vita alle due varianti di restaurazione capitalistica differenziata in Russia ed in Cina. Questo è un fatto grande come una montagna, non un’opinione “revisionista”. La stessa sostituzione della pianificazione imperativa partitico-statuale al posto della cosiddetta “anarchia del mercato” non ha saputo o potuto condurre ad uno stabile sistema sociale post-capitalistico. Chi intende criticare Gianfranco La Grassa può ovviamente farlo, ma non può farlo dimenticando la dura lezione della dissoluzione del socialismo reale, che personalmente preferisco chiamare comunismo storico novecentesco (1917-1991), per differenziarlo anche terminologicamente dal comunismo teorico di Marx, che a mio avviso presenta mescolati insieme in modo quasi inestricabile elementi scientifici ed elementi utopici (e non è dunque per nulla perfettamente “scientifico”, come opinava erroneamente in modo positivistico l’amico di Marx Federico Engels).

Secondo, questa proposta di modificazione categoriale di Gianfranco La Grassa implica una particolare scelta epistemologica, per cui ogni presunto Essere è come tale in via di principio inesistente e/o inconoscibile, e possiamo conoscere solo le Funzioni che mettono in relazione reciproca i fenomeni sociali. Si tratta di una scelta in favore di Kant contro Hegel, ennesima dimostrazione che dal punto di vista filosofico i “marxisti” possono solo essere o kantiani o hegeliani, e di fatto non esiste un terzo punto di vista possibile. Più esattamente, la scelta di Gianfranco La Grassa di escludere la “sostanza” e di concentrarsi sulla “funzione” si rifà implicitamente a Ernst Cassirer, il più grande kantiano del novecento.

Terzo, la proposta categoriale di Gianfranco La Grassa rompe con ogni possibile forma di storicismo marxista. Lo storicismo marxista, non importa se togliattiano, trotzkista, stalinista, bordighiano, eccetera, si basa su di una teoria stadiale e non ciclica della dinamica capitalistica, e non intende rinunciare ad una visione teleologica, e quindi deterministica e necessitata, della cosiddetta “transizione” dal capitalismo al comunismo. Dal momento che in genere i militanti sono fortificati da questa garanzia religiosa, ed i dirigenti cinici, corrotti e dotati di stipendi e pensioni d’oro sfruttano questa dimensione religiosa dei militanti per i loro scopi più abbietti, è ovvio che Gianfranco La Grassa venga silenziato, in quanto il suo disincanto storico, una volta che fosse conosciuto e apprezzato, potrebbe essere pericoloso per Cofferati, Cossutta, Bertinotti e per la numerosa folla dei loro cortigiani.

Quarto, la proposta categoriale di Gianfranco La Grassa rompe con ogni possibile forma di operaismo. Nei quasi cinquant’anni della sua vita parassitaria, l’ideologia operaista si è mostrata capace di adattamento metamorfico travestendosi da un soggetto all’altro, dall’operaio-massa fordista all’operaio sociale disperso nel territorio, fino alla sua ultima onirica incarnazione, le moltitudini desideranti in lotta contro un impero deterritorializzato. L’insistenza di Gianfranco La Grassa sul conflitto strategico intercapitalistico è ovviamente incompatibile con la concezione operaistica di una polarità fra impero capitalistico da un lato, e moltitudini, dall’altro.

Quinto, la proposta categoriale di Gianfranco La Grassa, pur provenendo da una genesi althusseriana, rompe di fatto con la concezione althusseriana del primato degli apparati politici ed ideologici su quelli economici propriamente detti. Il conflitto strategico di Gianfranco La Grassa, almeno secondo il concetto che me ne sono fatto (e se sbaglio lo stesso Gianfranco La Grassa mi corregga), rifiuta una classificazione di livelli in ordine di importanza (prima l’economia, seconda la politica, terza l’ideologia), secondo la topologia strutturale marxista tradizionale, ma recupera l’unità dinamico-funzionale del sistema capitalistico rifiutando questa topologia. E’ evidente che ogni approccio di tipo più classicamente economicistico (Gianfranco Pala, eccetera) rifiuterà radicalmente questo tipo di approccio.

12. Chi scrive conosce e frequenta regolarmente Gianfranco La Grassa dal 1978 e dunque da ventisei anni, e fra noi c’é amicizia ed affetto. Abbiamo assistito insieme alla dissoluzione ingloriosa degli stati del cosiddetto “socialismo reale”, ed al riciclaggio del ceto politico professionale dei partiti comunisti occidentali in gestori subalterni delle oligarchie capitaliste. Abbiamo assistito insieme alla formazione della nuova feroce ortodossia del “politicamente corretto” che non poteva che emarginare e silenziare due politicamente scorretti come noi. Abbiamo anche “firmato” insieme dei libri comuni, ma non è mai nata, e non poteva purtroppo nascere, una “scuola” La Grassa-Preve. Sebbene questo non sia l’oggetto diretto di questa segnalazione, può essere interessante per alcuni lettori chiarire il mio personale punto di vista sull’impossibilità di formare una “scuola” comune. In proposito, è bene dividere la questione in due parti, e dire prima che cosa abbiamo fortemente in comune, e che cosa ci divide irrevocabilmente.

13. Chi scrive condivide nell’essenziale il modello, conflittuale, antagonistico, ciclico e non stadiale, di modo di produzione capitalistico, così come è stato progressivamente elaborato da Gianfranco La Grassa. Condivide anche le formulazioni essenziali di quest’ultimo libro qui segnalato. Forse prima ancora di Gianfranco La Grassa, chi scrive ha rotto definitivamente con il mito consolatorio ed infondato della funzione rivoluzionaria intermodale della classe operaia della grande fabbrica moderna, ed ha ovviamente condiviso la tesi per cui i comportamenti rivoluzionari di massa della classe operaia stessa sono tipici del primo periodo della sua integrazione conflittuale nella disciplina capitalistica di fabbrica, e rimandano non ad un futuro di classe generale universalistica, quanto ad un passato di comunità precapitalistiche, bracciantili, contadine ed artigiane. Grazie a Gianfranco La Grassa, chi scrive ha potuto capire che comunque il soggetto intermodale di cui parlava Karl Marx non era la semplice classe operaia e proletaria (tesi paradossalmente “estremistica” del moderato Kautsky), quanto il lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all’ultimo manovale, alleato con le potenze mentali, tecniche e scientifiche, evocate dalla produzione capitalistica, e connotate da Marx con la parola inglese general intellect. Senza Gianfranco La Grassa chi scrive non avrebbe mai potuto capire da solo che la mancata formazione di questo lavoratore collettivo doveva essere ricercata a livello di conflitto inter-imprenditoriale e non a livello di produzione coordinata di fabbrica, in cui invece (ma non è sufficiente) un lavoratore collettivo cooperativo in qualche modo si forma. E così, grazie a Gianfranco La Grassa, la mia diffidenza per lo storicismo progressistico lineare e la mia antipatia per l’operaismo (soffocante a Torino, città in cui mi è toccato di vivere) hanno finalmente trovato un fondamento razionale di spiegazione. Se dunque non fossi grato a Gianfranco La Grassa di questo, sarei veramente un ingrato, e considero l’ingratitudine uno dei vizi peggiori.

14. A dividermi da Gianfranco La Grassa è invece la concezione, polarmente opposta, sullo statuto della filosofia, e più esattamente della conoscenza filosofica all’interno delle più generali forme di conoscenza umana (che per me sono fondamentalmente quattro, quotidiana, artistica, scientifica e filosofica, laddove le conoscenze di tipo religioso ed ideologico sono per natura conoscenze parziali, perché sono organicamente intessute con la cosiddetta “falsa coscienza necessaria” degli agenti storici). A mio avviso, ovviamente, Gianfranco La Grassa segue la cattiva impostazione di Althusser, che riduce lo spazio della conoscenza filosofica a semplice spazio gnoseologico ed epistemologico, e non si rende neppure conto, in questo modo, che la riduzione della filosofia a teoria della conoscenza è proprio una caratteristica storica “borghese” (e non comunista), in quanto la borghesia doveva ridurre le pretese conoscitive della religione (vedi Kant, eccetera), appunto perché queste infondate pretese conoscitive erano anche normative di comportamenti individuali e sociali di tipo signorile e feudale.

In sostanza, fra Kant e Hegel il nostro Gianfranco La Grassa sceglie Kant, mentre io scelgo decisamente Hegel. Non si tratta di una semplice scelta personale di “gusto”, come fra il mare o la montagna, la vaniglia o il pistacchio, eccetera. Si tratta di una scelta qualitativa che non può che influenzare profondamente la rispettiva concezione del marxismo in generale. E qui mi limiterò a soli due punti (ma sarebbero molti di più, ovviamente), il punto della alienazione ed il punto della scienza.

Mentre Gianfranco La Grassa è avverso, io sono (moderatamente) favorevole alla nozione di alienazione. Io penso che la teoria per cui l’essere umano è antropologicamente un ente naturale generico (il che fa di me uno “specista” convinto, e non un “anti-specista” come ad esempio gli animalisti, eccetera), ed il capitalismo aliena questo ente naturale generico trasformandolo in un ente ad una sola dimensione (Marcuse, eccetera), e sia questa la vera base universalistica di un anticapitalismo razionalmente fondato, sia una teoria ottima, e che Karl Marx non l’ha affatto abbandonata (come ha opinato erroneamente Althusser), ma l’ha solo incorporata e metabolizzata nella sua successiva produzione teorica. In proposito, occorre anche distinguere due aspetti del cosiddetto “umanesimo”, l’aspetto ideologico e l’aspetto filosofico. L’umanesimo occidentale è certamente stato in gran parte una ideologia borghese interclassista, e così è stato anche il cosiddetto “umanesimo marxista” degli anni 1956-1968 (Schaff, Garaudy, eccetera). Ma l’umanesimo è anche una filosofia universalistica, degna di essere ripensata e ripresa, sia pure tenendo conto delle geniali critiche a suo tempo fatte da Martin Heidegger.

Per quanto concerne la scienza, le mie divergenze con Gianfranco La Grassa sono effettivamente profonde. Per Gianfranco La Grassa, che su questo punto segue Max Weber contro Dilthey, esiste una sola scienza, di tipo ovviamente costruttivistico, probabilistico e funzionalistico, e bisogna rifiutare recisamente e senza appello la distinzione “storicista” fra scienze naturali e scienze sociali. La mia posizione è in proposito radicalmente diversa, perché per me le scienze sono addirittura tre, le scienze naturali, le scienze sociali e le scienze filosofiche (ad esempio il marxismo). In proposito, sicuro che al lettore tutto questo interessi, cercherò di essere il più possibile sintetico e chiaro.

15. Le scienze naturali moderne sono indubbiamente frutto della rivoluzione scientifica del seicento europeo, e sono nate nel contesto di una rottura consapevole (la “rivoluzione scientifica” di Kuhn) con i due modelli precedenti della fisica aristotelica e del panteismo materialistico (Giordano Bruno, eccetera). I loro pilastri sono il metodo matematico della quantificazione del cosmo naturale ed il metodo sperimentale sistematico. Fra le scienze naturali vi sono certamente la fisica, la chimica e la biologia, ma anche la medicina, sia pure nata posteriormente (nel senso moderno del termine, perché in quanto tale la “medicina” è stata la prima “scienza” dell’umanità, fin dal tempo delle caverne), ed a un diverso livello di certezza probabilistica. Sebbene l’influsso delle varie “metafisiche influenti” (vedi in proposito la scuola parigina di Koyré) sia stato forte, ad un certo punto del loro sviluppo e sistematizzazione le scienze naturali diventano appunto le cosiddette “scienze dure”, e la loro durezza consiste appunto nella formazione di un canone unitario accettato da tutti gli addetti alla disciplina (con gli ovvi disaccordi sulle ipotesi nuove). Le diagnosi cardiologiche ed urologiche sono le stesse per Bush e per Osama Bin Laden. La comunità dei fisici non è divisa fra liberali, comunisti e fascisti. In proposito, per non farla lunga (ma si può ritornare sul problema in modo più sistematico, se interessa al lettore), mi limito a due richiami sul tema del rapporto fra scienze naturali e storia del marxismo italiano. Primo, mi sembra del tutto bloccata e fuoristrada l’ipotesi della scuola di Galvano Della Volpe, che pensava che il marxismo fosse una sorta di nuova scienza galileiana applicata alla società studiata con “astrazioni determinate” (il cosiddetto, ed a mio avviso illusorio ed inesistente, “galileismo morale”). Chi si mette su questa strada senza uscita (ad esempio Lucio Colletti) o si caccia in contraddizioni scientistiche insanabili, o deve abbandonare semplicemente il marxismo. Secondo, mi sembra che solo alle scienze naturali si possa applicare la cosiddetta teoria del rispecchiamento progressivo ed asintotico fra verità relative successive e verità assoluta intesa come concetto limite kantiano, nella versione sostenuta da Ludovico Geymonat, erroneamente definito “marxista”, laddove si trattava di un comunista politico filosoficamente kantiano. E per ora basta su questo punto.

Le scienze sociali moderne si costituiscono storicamente dopo le scienze naturali, e presuppongono ovviamente la delegittimazione della religione come fonte di conoscenza scientifica, delegittimazione compiuta in forma diversa ma convergente da David Hume, Immanuel Kant e Auguste Comte (per ragioni di spazio non posso qui richiamare le tre diverse strategie di delegittimazione impiegate dai tre filosofi ricordati). E’ vero che anche le scienze sociali moderne (economia politica, sociologia, ed in forma diversa anche diritto, psicologia sociale ed antropologia culturale) hanno una fondazione costruttivistica e funzionalistica (e su questo punto si basa Gianfranco La Grassa per sostenerne l’unità con le scienze naturali), ma è anche vero che nelle scienze sociali l’influsso delle premesse di valore è infinitamente superiore a quanto avviene nelle scienze naturali.

Su questo seguo la lezione di Gunnar Myrdal, incompatibile con quella di Gianfranco La Grassa. Lo “sguardo” sul cosmo umano non è lo stesso di quello sul cosmo naturale. I meccanismi selettivi delle scelte conoscitive non hanno solo una diversità quantitativa di grado con quelli delle scelte conoscitive delle scienze naturali, ma hanno una diversità qualitativa. Non mi interessa qui riprendere le vecchie discussioni sulla differenza fra scienze nomotetiche e scienze ideografiche. Su questo punto sono largamente disposto ad ammettere che anche le scienze sociali sono di tipo nomotetico. Ma su questo sono un seguace di Gunnar Myrdal. La cosiddetta “oggettività” delle scienze sociali non ha nulla a che fare con l’oggettivazione matematico-sperimentale delle scienze naturali. Essa è intrisa di premesse di valore di tipo morale, religioso ed ideologico, in modo qualitativamente diverso da quanto avviene nelle scienze naturali.

Il marxismo, però, ammesso che abbia un lato scientifico e non sia solo una costruzione utopistica che si traveste con i panni di uno scienziato (cosa che sono disposto largamente ad ammettere), non è né una scienza naturale né una scienza sociale. E’ una terza cosa, che possiamo tranquillamente definire con Fichte e con Hegel una “scienza filosofica”. E cosa significa “scienza filosofica”? Non significa soltanto scienza intesa come conoscenza dotata di premesse filosofiche, perché se così fosse anche le scienze naturali e quelle sociali sarebbero scienze filosofiche, in quanto le scienze naturali sono filosoficamente condizionate dalla premessa pitagorica della matematizzazione del mondo e le scienze sociali sono filosoficamente condizionate dalla scissione fra soggetto ed oggetto, soggetto che conosce in modo “neutrale” (nel linguaggio di Max Weber, “libero dai valori”) ed oggetto che ne viene conosciuto. Il marxismo, almeno nel progetto di Marx (ma non nella forma deterministica posteriore) era una scienza filosofica per una ragione molto più forte e profonda, in quanto nel marxismo il soggetto trasforma l’oggetto sulla base di un progetto teleologico a sua volta dotato di premesse morali di valore. Questo, per quanto mi consta, non avviene né nelle scienze naturali né nelle scienze sociali, in cui la trasformazione c’è, ma c’è solo come applicazione tecnica, cioè come separazione fra scienza e tecnica. Separazione che non c’è invece nel marxismo, in quanto non si può dire che si conosca prima il capitalismo per così dire “neutralizzato” (e cioè né buono né cattivo), e poi lo si trasforma in base ad una posteriore valutazione politico-morale.

16. Ecco, questo per ora è tutto. Il lettore ha certamente capito che si tratta da parte mia di un atto di stima e simpatia per Gianfranco La Grassa, ed ha anche capito le ragioni per cui una “scuola di pensiero unitaria” non è assolutamente possibile. Poco male. Per concludere, a proposito del pensiero di Gianfranco La Grassa, segnalo una magnifica intervista di Agostino Santisi a Gianfranco La Grassa pubblicata sul n°16, aprile-luglio 2004, della rivista “Indipendenza”, in cui tutti gli elementi portanti del libro qui segnalato sono compendiati con estrema chiarezza.