A duecento anni dalla morte di Immanuel Kant (1804-2004)

Articolo tratto da Rosso XXI.

Duecento anni fa (1804-2004) moriva il grande filosofo tedesco Immanuel Kant. La sua influenza nella storia della filosofia moderna e contemporanea è stata determinante, ed in questa sede manca purtroppo lo spazio per analizzarne la portata. Ma la sua influenza è stata grande anche per quanto riguarda il marxismo ed il pensiero rivoluzionario. Cento anni fa (1904), quando esisteva ancora un dibattito filosofico serio nella comunità dei marxisti, la commemorazione del centenario della sua morte fu l’occasione per lo sviluppo della corrente di pensiero del cosiddetto neo-kantismo socialista, di cui personalmente non condivido le tesi. ma che fu una cosa estremamente seria. Oggi (2004) è stata distrutta alle radici ogni discussione filosofica fra i marxisti, per ragioni che non è il caso di riassumere qui, e che ho comunque  analizzato molte volte in altri contesti.

In questo breve saggio, tuttavia, farò finta di niente. Farò finta, infatti, che vi sia ancora una comunità di studiosi marxisti di filosofia interessati a ritornare criticamente e dialogicamente sul grande Kant. Ed ecco allora una breve traccia per la discussione.

1. Che cosa significa esattamente essere stato un “grande filosofo”?

Ecco una domanda apparentemente banale ma che può dar luogo a riflessioni. In prima “battuta”, tutti diranno che sono stati certamente grandi filosofi Platone, Aristotele, Spinoza, Kant e Hegel, mentre lo statuto della “grandezza” filosofica di Marx è controverso, ed in quanto a pensatori come Schopenhauer, Nietzsche o Heidegger alcuni diranno che sono stati grandi come i più grandi, ed altri lo negheranno. In realtà, molti diranno che i più grandi filosofi sono stati quelli che i manuali di storia della filosofia affermano essere stati i più grandi filosofi. La prima mossa critica fondamentale che propongo al lettore è quella di non credere automaticamente e senza esame a quanto dicono i manuali di storia della filosofia.

I manuali di storia della filosofia, infatti, offrono in genere una versione “normalizzata” della storia della filosofia stessa, e tendono a “nascondere” le contraddizioni più inquietanti. Platone, ad esempio, è stato sicuramente il sostenitore dell’esistenza della verità ed anche della sua conoscibilità mediante la dialettica, ma può essere interessante sapere che i suoi successori (gli accademici) furono per almeno tre secoli i sostenitori del più rigoroso e totale scetticismo relativistico. Kant fu un distruttore ai suoi tempi della filosofia universitaria di allora, ma circa mezzo secolo dopo la sua morte la filosofia universitaria tedesca si ricostruì proprio in base al suo pensiero (neocriticismo, eccetera). In quanto a Hegel, egli dichiarò esplicitamente che la filosofia si occupa di ciò che è, ed è eternamente, eppure dopo la sua morte ciò che passa sotto il nome di “hegelismo” afferma l’esatto contrario, e cioè che solo il successo storico determina ciò che è vero e ciò che è falso. Insomma, potremmo continuare con questi paradossi. La pratica filosofica, infatti, contiene in se stessa il paradosso dialettico del proprio rovesciamento. A ragione, Bertolt Brecht scrisse che chi non possiede senso dell’umorismo non deve occuparsi di filosofia.

La filosofia provoca irritazione e vero e proprio fastidio nei caratteri rigidi e leggermente paranoici, e questo non è un caso, perché essa per sua propria natura non dispone di un oggetto e di un metodo univocamente determinabili come avviene per le scienze naturali (ed anche, in parte, ma solo in parte, per le scienze sociali). Se la prima mossa critica consigliata è quella di non credere automaticamente e senza esame ai manuali di storia della filosofia, e la seconda è quella di non illudersi che i filosofi possano mettersi d’accordo una volta per tutte sull’oggetto e sul metodo della filosofia stessa (se potessero farlo, ovviamente, la filosofia non sarebbe più filosofia, ma diventerebbe una scienza come le altre), la terza mossa critica è quella di non confonderla assolutamente con la scienza o con l’ideologia. Dal momento che la tradizione marxista ha fatto in proposito per un secolo una grande confusione, è bene dedicare in proposito una breve riflessione chiarificatrice.

Per quanto riguarda il rapporto fra filosofia e scienza, si risponde in genere che la differenza sta nel fatto che la filosofia non può produrre enunciati univocamente verificabili e/o falsificabili, come ad esempio i protocolli medici sulle terapie chirurgiche o farmacologiche, oppure i metodi matematici e sperimentali come nel caso della fisica, della chimica e della biologia. Questo è vero, naturalmente, ma non è ancora sufficiente. In realtà, almeno a mio avviso, la vera differenza fra la filosofia e le scienze naturali (a differenza del mio amico Gianfranco La Grassa, non credo nella cosiddetta unità metodologica fra scienze naturali e scienze sociali, perché considero determinante nelle seconde il punto di vista ideologico dello scienziato sociale stesso) consiste in ciò che nelle scienze esiste un progresso delle conoscenze, mentre nella pratica filosofica non esiste propriamente nessun progresso.

In quanto permanente interrogazione sulla verità della condizione umana e pratica sia riflessiva che dialogica non è possibile dire seriamente che Hegel è più avanti di Platone o Croce più avanti di Epicuro, mentre è possibile dire questo per un fisico, un chimico, un biologo, eccetera. Certo, oggi un filosofo è “informato” di Darwin, Freud, Einstein, eccetera, mentre Platone non lo era. Ma questa informazione tocca l’elemento “esogeno” dell’informazione scientifica, non l’elemento endogeno della riflessione sulla condizione umana e sul suo significato individuale e sociale. Alle Olimpiadi di Atene del 2004 d.C. si sono fatti risultati migliori nella corsa che alle Olimpiadi di Olimpia del 776 a.C., ma questo “progresso” riguarda lo sport, non la filosofia. Un fisico contemporaneo lascerebbe tutti a bocca aperta se una macchina del tempo lo portasse al Liceo di Aristotele, mentre io non avrei alcun vantaggio a causa dei due millenni di informazioni scientifiche ulteriori se una macchina del tempo mi portasse a dialogare con Socrate. Certo saprei che esiste il continente americano, e la teoria della gravitazione universale, ma non per questo potrei sfuggire alle aporie socratiche sulla corretta definizione filosofica del buono, del vero e del giusto.

Questo non è generalmente capito dai marxisti che parlano incongruamente di “filosofia scientifica”, confondendo la filosofia con la sistematizzazione disciplinare della scienza stessa (più esattamente, delle differenti scienze).

Posso ammettere che esista una “visione scientifica del mondo”, in cui la comunità internazionale dei fisici è più avanti dei credenti negli UFO, nei tarocchi e nella New Age. Ma l’oggetto della pratica filosofica resta qualitativamente diverso da quello della pratica scientifica, così come il gioco delle carte non ha le stesse regole del gioco degli scacchi.  Un discorso analogo si può fare per il rapporto fra filosofia ed ideologia, e qui la questione per i marxisti si fa particolarmente delicata, perché i marxisti sono specializzati nella confusione fra i due piani, al punto che si sono accumulati per un secolo gli equivoci più spiacevoli, che è necessario qui confutare, sia pure brevemente.

Da Lenin a Althusser, passando per tutte le strutture scolastiche ed universitarie del comunismo storico novecentesco recentemente defunto (1917-1991), l’abitudine ad incorporare nella pratica ideologica la cultura, la letteratura, l’arte e la filosofia è stata il cancro mortale e la malattia incurabile del marxismo. Chi continua a parlare oggi della tripartizione, di economico, politico ed ideologico non si rende probabilmente ben conto che in questo modo incorpora nel cosiddetto “ideologico” anche la cultura, la letteratura, l’arte e la filosofia. Questa frenesia cannibalesca dell’economicismo marxista, basata sull’idea del carattere di “classe” di tutte le manifestazioni della vita umana, non si rende conto che certamente il condizionamento classista si inserisce dentro i prodotti culturali, ma non li esaurisce, e del resto Marx lo sapeva, quando parlava dell’arte greca e delle ragioni per cui essa continua a piacere anche oggi, quando sono ormai del tutto tramontate le condizioni storiche classiste che l’hanno generata. Io ritengo che lo stesso discorso che Marx fa a proposito dell’arte valga anche per la filosofia. La pratica filosofica comporta certamente condizionamenti classisti ma non si esaurisce nella determinazione classista. E’ tuttavia inutile dire questo ai seguaci di Lenin, di Althusser, della coppia litigiosa Stalin-Trotzky, e dei tripartitori impenitenti di tutte le istanze del mondo in economico, politico ed ideologico. Detto questo, il momento ideologico certo esiste, ed è addirittura a mio avviso ineliminabile ed addirittura positivo, perché è attraverso il momento ideologico che gli uomini prendono consapevolezza della loro collocazione in rapporti sociali classisti e costituiscono identità individuali e collettive di resistenza. Non sono dunque per nulla un nemico del momento “ideologico”. Non lo si confonda però con la pratica filosofica, e soprattutto non si riduca tutta la filosofia a lotta di classe nella teoria, come propose in un momento di delirio estremistico il pur meritevole Althusser. Non c’è dubbio che il pittore Tiziano, lo scultore Michelangelo, lo scrittore Balzac ed il filosofo Kant sono stati “influenzati” dal momento ideologico, ma nello stesso tempo il valore delle loro opere si misura proprio dal modo in cui essi hanno saputo “liberarsi” di questo momento stesso.

Sono molto pessimista sulla capacità della comunità dei marxisti rimasti di ridefinire il rapporto fra la filosofia, la scienza e l’ideologia. Come ho scritto poco sopra, lo ritengo una malattia incurabile del marxismo propriamente detto, in quanto riguarda anche i classici. Ma ora veniamo alla breve segnalazione di che cosa a mio avviso fa di un filosofo un “grande filosofo”, riconoscimento che indubbiamente Kant si merita.

Per dirla in modo sintetico, il “grande” filosofo non è quello che dice cose più simili a quelle che pensiamo noi per nostro conto, e soltanto le dice in forma più persuasiva, stringente e sistematica, per cui gli altri filosofi diventano sempre più piccoli mano a mano che si allontanano da noi. Questa concezione del grande filosofo è narcisistica, ombelicale ed autoreferenziale, e confonde i filosofi con i guru carismatici di cui hanno bisogno i deboli di spirito e di intelletto. Paradossalmente, il grande filosofo è quello che “resiste” di più alle nostre possibili obiezioni, fino a farci indirettamente capire (anche se è ormai morto da secoli) che noi non abbiamo ancora affatto “risolto” un problema, ma esso permane aperto. Trasferito nello scenario trimillenario della storia della filosofia occidentale, i “grandi filosofi” sono appunto quelli che ci insegnano di più perché “resistono” di più alle nostre confutazioni, e dunque per estensione alle confutazioni di milioni di persone simili a noi.

Come è noto, l’insegnamento classico italiano della filosofia la identifica con la storia della filosofia, e questo dura almeno dal 1923 (riforma Gentile, eccetera). Giovanni Gentile, naturalmente, non si è inventato questa concezione, ma l’ha presa da Hegel, che peraltro credeva al “progresso” della  filosofia (in cui invece io, come ho detto prima, non credo). Ma questo sistema, all’atto pratico, può giungere ad effetti paradossalmente negativi, provocando un risultato finale di scetticismo, relativismo, inutilità ed impotenza, che ho personalmente verificato nei miei trentacinque anni di lavoro come insegnante di filosofia nella scuola secondaria italiana. Dal momento che, infatti, si può ragionevolmente ipotizzare che tutti i filosofi segnalati nella lunga storia della filosofia occidentale siano migliori di noi (in caso contrario, è improbabile che vengano segnalati, mentre noi probabilmente non arriveremo ad esserlo), ne consegue un senso di frustrazione e di impotenza, nel caso migliore, e di scetticismo, relativismo ed inutilità nel caso peggiore. Se infatti nel corso di venticinque secoli tanti spiriti eletti non sono riusciti a mettersi d’accordo, si può ragionevolmente ipotizzare che abbiano solo perso il loro tempo inutilmente. La radice della diffusa antipatia verso la filosofia nasce anche e soprattutto da qui.

In realtà non è affatto detto che lo scopo della filosofia sia quello di mettersi d’accordo. Lo scopo è anzi quello di farci prendere coscienza della inevitabilità e della opportunità di formulare in modo dialogico e razionale i nostri dissensi, che in questo modo diventano fisiologici e non più patologici. E così, di fatto, la pratica della filosofia porta ad una pratica della democrazia e della pace. I “grandi filosofi” sono allora quelli che meglio praticano questo terreno.

2. L’aspetto filosofico della teoria della conoscenza di Kant

Il contributo immortale della teoria della conoscenza di Kant sta nell’aver fondato in modo particolarmente acuto ed intelligente l’autonomia del soggetto razionale. Il soggetto “irrazionale” non ha mai avuto autonomia, ed ha al massimo l’arbitrio scambiato per libertà di fare sacrifici umani, erigere roghi inquisitori, preferire il responso dei tarocchi alle pratiche scientifiche, sostenere che si è liberi soltanto sottomettendosi integralmente alla Chiesa e/o al Partito, eccetera. La razionalità comincia solo con la messa in discussione critica dell’arbitrio. Naturalmente, Kant non è stato affatto il primo grande filosofo ad aver sostenuto l’autonomia del soggetto razionale, ma si può dire che lo ha fatto ancora meglio di altri. Prendiamo ad esempio, fra i molti possibili, Epicuro, gli stoici e Spinoza. Epicuro ha certamente fondato l’autonomia del soggetto razionale, ma lo ha fatto all’interno di una comunità protetta di amici. Gli stoici antichi (e moderni) hanno certamente difeso l’autonomia del soggetto razionale, ma lo hanno fatto incorporando questo soggetto stesso in una struttura provvidenziale del mondo che identifica di fatto la libertà con l’accettazione della necessità (ed il marxismo novecentesco è stato in larga parte una forma moderna di stoicismo rivestito di formule economiche assolutizzate). Spinoza ha ripreso in forma moderna il vecchio programma stoico, arricchendolo con la pregevole teoria della critica alle concezioni antropomorfiche della divinità monoteistica, concezioni che fanno da denominatore comune al cristianesimo, all’Islam ed all’ebraismo. Ma ci è voluto Kant per dare una fondazione ancora migliore all’autonomia del soggetto umano razionale.

Questa fondazione consiste nella teoria dell’ “io penso”, che in quanto categoria (o più esattamente “appercezione trascendentale”) è una semplice funzione della conoscenza universalizzante, e non la semplice dimensione conoscitiva di un’anima immortale. Le storie della filosofia generalmente insistono sul fatto, a mio avviso del tutto secondario, per cui la teoria “funzionalistica” kantiana dell’ “io penso” ha come scopo principale la critica delle teorie “sostanzialistiche” dell’anima tipiche della metafisica medioevale (Tommaso d’Aquino) e moderna (Cartesio). Ma a mio avviso questo è solo un dettaglio, confinato da Kant in quel capitoletto della terza parte della sua grande opera in cui critica il cosiddetto “paralogismo” di ogni psicologia razionale, e cioè lo scambio della funzione conoscitiva con la sostanza conoscente (e qui, nonostante i dinieghi kantiani, fa capolino la teoria di Hume, e dell’empirismo inglese). Il vero aspetto importante ed immortale della teoria kantiana dell'”io penso” sta nel fatto che ogni individuo pensante, in quanto autonomo soggetto razionale, ha una sua propria libertà di coscienza, intesa sia come consapevolezza (Bewusstsein) che come coscienza morale (Gewissen), in quanto è in rapporto diretto e senza mediazioni con la funzione trascendentale unica dell’ “io penso”.

Questa non è assolutamente la libertà “borghese” destinata ad essere sostituita e “superata” da una fantomatica libertà “proletaria” e “comunista”. Chi dice questo è del tutto fuori di senno. Questa di Kant è semplicemente la libertà unica dei moderni, il minimo comun denominatore sia dei borghesi sia dei proletari, sia dei liberali che dei comunisti. L’idea che un soggetto collettivo chiamato “partito comunista” o “stato socialista” possa pretendere una sovranità filosofica maggiore sul nesso coscienza-conoscenza non è un superamento virtuoso dei limiti della teoria di Kant, ma è un penoso regresso a forme di metafisica religiosa premoderne. Per questa ragione è particolarmente penosa la secolare posizione “comunista” (ma non certo di Marx, ovviamente, che non avrebbe mai sottoposto le sue opinioni al gioco delle minoranze e delle maggioranze in comitati centrali cooptati e burocratizzati), per cui la rivendicazione integrale della più assoluta libertà di coscienza, che è un fondamento indivisibile della libertà dei moderni, viene diffamata come “anarchica”, “borghese”, “piccolo-borghese”, semplicemente “liberale”, ed altre stupidaggini che divertono se si è di buon umore ed irritano se si è invece di cattivo umore. L’autonomia del soggetto razionale (a quello irrazionale lasciamo i riti satanici) si basa sul suo rapporto indiviso e diretto con l'”io penso” come funzione trascendentale di conoscenza comune a tutti.

Con questo non intendo negare che in particolari congiunture storiche di tipo rivoluzionario non si possano sospendere temporaneamente alcuni diritti di espressione pubblica di opinioni politiche. Non sono così ingenuo. Ma queste sospensioni, che anch’io certamente approverei in congiunture rivoluzionarie o semplicemente di mobilitazione difensiva, non possono che essere eccezionali e temporanee in quanto sono sempre patologiche e non fisiologiche. Quando queste sospensioni diventano fisiologiche (in Russia sono durate 74 anni, l’intera vita del comunismo storico novecentesco), allora si è di fronte ad una patologia sociale.

In definitiva, un po’ di pudore. Smettiamola di dire che la rivendicazione integrale della libertà di pensiero e di coscienza, fondamento dell’autonomia del soggetto razionale moderno, è qualcosa di “limitato”, “borghese”, “classista”, “anarchico”, “piccolo-borghese”, eccetera. Se c’è o ci potrà essere in futuro qualcosa chiamato “comunismo”, questa libertà dovrà essere uno dei fondamenti del legame sociale. E Kant dovrà essere sempre ringraziato.

3. L’aspetto ideologico della teoria della conoscenza di Kant

Dal momento che ho sempre saputo contare fino a sei (scienza, filosofia, religione, arte, ideologia e pensiero quotidiano, che resta il più importante di tutti), e non ho mai creduto con i positivisti ed i loro nipotini che la scienza sacralizzata potesse fagocitare tutto, ammetto apertamente che c’è anche un aspetto “ideologico” del pensiero di Kant. Ideologico, ovviamente, nel senso di un pensiero che legittima e giustifica teoricamente pretese ed esigenze sociali che sono in un certo senso il “committente” (quasi sempre solo semi-consapevole) di una teoria, e ne decretano il successo o l’insuccesso.

Il successo ideologico della teoria kantiana della conoscenza sta nella ferrea limitazione delle pretese conoscitive della religione propriamente detta. E dal momento che al tempo di Kant le pretese conoscitive vincolanti della religione (nel caso di Kant il cristianesimo protestante luterano, ma il ragionamento può essere ovviamente esteso a tutte le religioni del mondo) erano anche pretese di normatività sociale e giuridica obbligatoria dei comportamenti individuali e collettivi, automaticamente la critica delle pretese conoscitive si identifica di fatto con la delegittimazione delle pretese normative.

Indubbiamente, tutto questo può essere definito “borghese”, a differenza del caso della funzione conoscitiva dell’ “io penso”, che non è borghese ma è assolutamente “universale” come la fisica di Newton e la penicillina. Ed è “borghese” perché la borghesia capitalistica, essendo interessata alla sovranità incontestata della produzione, della circolazione e del consumo delle merci, fra cui la più importante delle merci, la forza-lavoro umana in “libera” vendita sul mercato, non è disposta ad accettare normatività estranee al suo dominio, ed è dunque orientata a far ripiegare la religione nella cosiddetta “sfera privata” dell’individuo. La sfera pubblica alle merci, la sfera privata alla coscienza.

Tutto questo, diciamolo pure, non è né filosofico né scientifico, ma solo ideologico, ed ideologico in quanto manifestazione culturale sublimata di rapporti di forza storici all’interno di rapporti sociali di produzione classisti. La principale critica che viene rivolta oggi all’Islam, sia religioso sia soprattutto “politico”, è quella di non voler accettare la soluzione kantiana dell’integrale delegittimazione delle pretese normative della religione nei comportamenti giuridici e sociali. Quanta ipocrisia! Si vorrebbe che la cosiddetta “religione” non avesse pretese normative, e poi si dà per scontato che l’economia neoliberale globalizzata la sostituisse con le sue proprie pretese normative. In questo modo, ovviamente, le pretese “leggi” dell’economia capitalistica sostituiscono integralmente i pretesi “dogmi” delle vecchie religioni. Ma di questo il vecchio Kant, defunto da duecento anni (1804-2004) non ha proprio colpa. Il kantismo universitario, invece (un solo nome – Jurgen Habermas), è invece colpevole. Non ci vuole poi molto a dire chiaramente in buona lingua inglese comprensibile a tutti che l’economia neoliberale ha sostituito la religione precapitalistica nella pretesa di normatività dei comportamenti individuali e sociali. Ma il kantismo universitario non lo dirà mai, perché in questo modo sarebbe finita la pacchia del grasso che cola dei finanziamenti delle oligarchie finanziarie alle sempre più esangui facoltà di filosofia politicamente corrette.

4. L’aspetto filosofico della teoria della morale di Kant

La teoria della morale di Kant universalmente nota nella sua proposta di trattare il nostro prossimo come fine e non come mezzo (anche se Kant ne ha dato una formulazione più cauta, e cioè non solo come mezzo ma anche come fine, in questo mostrandosi concreto e realista), e di far sì che il canone del nostro comportamento individuale possa essere elevato a canone di legislazione universale. Si tratta, come è del tutto evidente al primo sguardo, di una secolarizzazione laico-illuministica dei valori morali tradizionalmente sostenuti dalle religioni universali. Non è questo, tuttavia, l’aspetto più rilevante della morale kantiana. L’aspetto più rilevante, a mio avviso, sta nel fatto che all’universalismo etico viene data solo una base formale, e non si ritiene invece possibile darne un fondamento sostanziale (come nei tradizionali “dieci comandamenti” ebraico-cristiani, eccetera). Come è noto, Kant intendeva proporre solo una morale “autonoma”, cioè autofondata sulla propria norma, rifiutando ogni morale “eteronoma”. Le morali eteronome, all’atto pratico, sono poi tutte casi particolari di un unico modello morale “utilitaristico”, in quanto è sempre in ultima istanza “utilitario” l’essere buoni per poter poi andare in Paradiso ed evitare l’Inferno, l’essere buoni per essere simpatici agli altri ed evitarne l’ostilità, l’essere buoni per non essere emarginati dal gruppo, l’essere buoni per essere in pace con la propria coscienza e/o con il proprio narcisismo, eccetera. In questo, Kant resta un maestro impareggiabile dell’anti-utilitarismo. Ma non è questo l’aspetto che mi preme di sottolineare qui.

Ritengo infatti errata, anche se a prima vista comprensibile, l’accusa di “moralismo” che si può facilmente fare a Kant. Il vero “moralista”, figura a me sostanzialmente odiosa (il Bene, infatti, è a mio avviso prodotto dalla conoscenza della verità, e non dall’astrazione morale), punta di fatto ad una elencazione di norme “contenutistiche”, e questo è inevitabile se si vuole affermare la cosiddetta Sovranità della Morale. Ma in questo modo si apre la via ad un totalitarismo livellatore delle differenze fra individui, popoli e nazioni. Il moralismo vuole imporre gli stessi numeri sia al numeratore che al denominatore di una frazione. In modo più sobrio, di fatto Kant propone solo un minimo comun denominatore, e lascia alle singole sovranità comunitarie la pratica delle differenze nelle forme di vita. E’ esattamente il contrario di quanto fa oggi l’americanismo, che si pone come canone non solo formale ma anche contenutistico del comportamento sociale universale. 

La debolezza formalistica della proposta morale kantiana è dunque in un certo senso anche la sua forza. In questo modo viene posta la legittimità dell’universalismo contro ogni relativismo differenzialistico presupposto, ma nello stesso tempo se ne delegittimano le pretese cannibaliche di estensione di un singolo modello particolaristico al mondo intero.

5. L’aspetto ideologico della teoria della morale di Kant

La teoria della morale di Kant ha ovviamente, e non avrebbe potuto essere diversamente in una società divisa in classi, una”ricaduta” ideologica. Essa non consiste tuttavia, come si usa ripetere, nella semplice secolarizzazione laica del vecchio motto cristiano “tratta il prossimo tuo come te stesso”. La natura ideologica della teoria della morale di Kant consiste proprio nel suo essere assolutamente inapplicabile. Su questo punto è bene essere molto chiari. Il successo secolare, ed ormai bisecolare, della morale kantiana, è dovuto proprio al fatto di essere inapplicabile, e non certo al fatto che è idealmente magnifica nonostante sia inapplicabile. Kant ha avuto successo non certo nonostante sia inapplicabile, ma proprio perché è inapplicabile. Chi si ferma imbarazzato davanti a questo scandaloso paradosso mostra di non essere informato sul funzionamento delle ideologie di legittimazione sociale.

La coscienza ideologica, infatti, resta nell’essenziale una forma di falsa scienza. Se gli agenti storici si rappresentassero adeguatamente la totalità dei propri comportamenti è probabile che vivremmo da molti secoli in società senza classi con gradi accettabili di eguaglianza e di solidarietà sociale. Ma le diverse strutture classistiche della società (schiavistiche, feudali, capitalistiche, socialistico-burocratiche, eccetera) richiedono fisiologicamente la formazione di ideologie di legittimazione, resistenza, contestazione, rassegnazione, eccetera. Le diverse teorie cosiddette “morali” fanno parte integrante di questa costellazione classistica.

Seguendo una prospettiva evoluzionistica alla Darwin, che personalmente condivido, ritengo che quelle che sono chiamate “norme morali” sono progressivamente sorte all’interno dei gruppi sociali detti impropriamente “primitivi” per tutelare l’autodifesa, la solidarietà, la coesione e la mutua assistenza nel gruppo, e che perciò il cosiddetto processo di “universalizzazione” delle stesse norme morali sia un fenomeno piuttosto tardo. All’inizio (ma in fondo anche adesso) c’erano solo i “nostri” ed i “loro”. Non è stata la religione a fondare la morale, ma è stato esattamente il contrario. I fatti “morali”, sorti come norme per tutelare la sopravvivenza e la riproduzione del gruppo, hanno avuto bisogno di una fondazione religiosa, perché solo la religione si inventa una “origine” eterna sottratta allo scorrimento dissolutore del tempo, che farebbe inevitabilmente dissolvere questa normatività stessa. A questo punto dello sviluppo sociale, morale e religione cominciano ad interagire reciprocamente in modo dialettico. Secondo l’ipotesi di Max Weber, che considero la meno peggiore esistente sul mercato delle teorie storiche e sociologiche, le religioni sorte al tempo del “periodo assiale” di cui parla Karl Jaspers (600-300 a.C.) iniziano con un momento messianico di rigenerazione globale assoluta, e poi evolvono necessariamente in un secondo momento di stabilizzazione e consolidamento, in cui rinunciano al primitivo programma prometeico di rigenerazione totale del mondo (regno di Dio, eccetera), e razionalizzano in forma nuova la vita quotidiana, le sue norme morali ed i suoi “riti di passaggio” (nascita, matrimonio, morte, eccetera). La considero una teoria sensatissima. Se il comunismo fosse riuscito a fare lo stesso non sarebbe probabilmente decaduto e crollato così in fretta.

Ma torniamo appunto a Kant. La morale kantiana è la religione astrattamente ideale per il capitalismo, non certo nonostante sia inapplicabile, ma appunto perché è inapplicabile. Il capitalismo è la società che, per definizione, tratta gli uomini come mezzi e non come fini, ed appunto per questo deve dotarsi di una religione che predichi astrattamente il contrario. Tutte le religioni metafisiche tradizionali si basano sul dualismo trascendente fra Dio ed il mondo, e Kant trasforma questo dualismo trascendente in dualismo trascendentale in cui al fenomeno reale si contrappone il noumeno ideale. E’ bene capire, ancora una volta, che questa scissione fra “reale” ed “ideale” è costitutiva e consustanziale a tutte le società classiste, ed infatti la ragione per cui l’idealismo di Hegel è tanto odiato (anzi, è ancora più odiato di Marx) consiste appunto in ciò, che questo  idealismo cerca di pensare radicalmente l’unità dialettica di reale ed ideale. 

Ma su questo punto cruciale mi soffermerò nei due prossimi decisivi paragrafi.

6. Perché il passaggio dal criticismo di Kant all’idealismo di Fichte e di Hegel non è affatto un “regresso” e tantomeno un “ritorno verso la metafisica”, ma è anzi stato una cosa ottima e mai abbastanza lodata

La stima e l’elogio per il grande Kant non devono però fare dimenticare un fatto essenziale, e cioè che il passaggio dal criticismo all’idealismo all’interno dell’unico processo di sviluppo della filosofia classica tedesca non è stato affatto un regresso e tantomeno un ritorno verso la metafisica, ma è stato anzi una cosa molto buona. Non uso la categoria di “progresso” perché come ho detto prima in filosofia non esiste un progresso interno alla disciplina, a differenza di quanto avviene nelle scienze naturali e nella medicina. Ma di “progresso” si può invece parlare se pensiamo alle ricadute politiche, sociali ed ideologiche (in una parola, “storiche”) connesse al passaggio dal criticismo all’idealismo, che si consuma in circa un ventennio di intensissima attività filosofica (1790-1810).

Il dominio del kantismo nella filosofia universitaria e del positivismo nel marxismo volgare hanno creato nell’ultimo cinquantennio un clima di diffamazione generale dell’idealismo di Fichte e di Hegel, per cui è diventato un “luogo comune” ripetere che Kant ha per così dire raggiunto la vetta di quello che si può sensatamente dire in filosofia, e poi l’idealismo venuto dopo ha solo peggiorato le cose, ha creato una metafisica non scientifica, è tornato a Platone, eccetera. Il cosiddetto neo-idealismo italiano di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile ha in proposito contribuito alla confusione, perché ha interpretato Hegel come uno “storicista assoluto”, cioè di fatto come un giustificatore pragmatico dei vincitori, laddove Hegel a suo tempo scrisse testualmente che “la filosofia si occupa di ciò che è ed è eternamente, e con questo ha già fin troppo da fare”. Tutta la filosofia “torinese”, da Nicola Abbagnano a Norberto Bobbio, è stata per mezzo secolo per Kant contro Hegel. Le scuole marxiste di Della Volpe e di Althusser sono state anch’esse contro Hegel. Coloro che invece hanno cercato di difendere Hegel (da Bloch a Adorno) in realtà hanno difeso filosofie che con Hegel non c’entravano praticamente niente. Fra i grandi, soltanto Marcuse e Lukacs hanno difeso Hegel in modo accettabile. Ma torniamo all’essenza teorica del problema. 

In estrema sintesi, il pensiero di Kant permette di impostare correttamente il problema della conoscibilità delle cose, ma non quello della loro trasformazione. La ragione ideologica di fondo, e non è poi molto difficile capirlo, sta nel fatto che Kant, da buon illuminista, non voleva affatto “trasformare” le cose, e cioè rivoluzionarle, ma soltanto riformarle. Ma una simile affermazione, lo ammetto, è troppo ingiusta verso Kant, in quanto non bisogna dimenticare mai che la filosofia non deve essere ridotta all’ideologia ed a effetto ideologico della lotta di classe. E allora la ragione filosofica seria sta in ciò, che la scissione kantiana fra fenomeno e noumeno, considerando in via di principio inconoscibile una parte del mondo umano e sociale, lo considera anche di fatto intrasformabile. Ciò che non può essere conosciuto, infatti, non può neppure essere trasformato. Come potremmo infatti trasformare ciò che non conosciamo? 

Si dirà che per Kant di inconoscibile a rigore c’è soltanto l’esistenza dell’anima immortale, di Dio e della totalità del mondo naturale. Non è esatto. Per Kant sono inconoscibili tutte le totalità non costruibili nello spazio e nel tempo presente (si prega di sottolineare questo aggettivo), e dunque anche tutte le totalità del mondo sociale passato, presente e futuro. In termini kantiani, infatti, il comunismo di Marx sarebbe di fatto inconoscibile, perché pretende di prolungare in un futuro non spazio-temporalmente determinabile delle tendenze evolutive del presente capitalistico. Per questa ragione, nel prossimo capitolo, affermerò che il pensiero di Marx non avrebbe mai potuto essere concepito su basi kantiane, ma soltanto sulla base dell’impostazione di Fichte e di Hegel. Quando Fichte sostituì al pensiero di Kant una “dottrina della scienza” che concepiva l’oggetto come un non-soggetto, e cioè come l’oggetto della prassi costituente di un soggetto che modificando l’oggetto modifica se stesso, Kant scrisse una recensione furiosa di dissociazione da Fichte mostrando di non capire assolutamente quello che Fichte stava dicendo (gli attribuì di volere un ritorno all'”elemento scolastico”, e cioè alla vecchia metafisica). Quando poi arrivò Hegel, Kant era già morto, e poteva solo più essere fatto oggetto di critica. Ma è giunto il momento di chiarire meglio quanto intendo dire passando direttamente a Marx.

7. Perché il pensiero di Marx non avrebbe mai potuto nascere sul terreno di quello di Kant, ma poteva solo nascere su quello di Fichte e Hegel

Spero adesso di riuscire a chiarire una questione che spesso viene data per scontata fra gli studiosi di filosofia marxista, e che invece evidentemente non lo è affatto, perché se lo fosse lo statuto filosofico del materialismo storico verrebbe definito con maggior precisione e minor confusione, e certe incomprensioni e vere e proprie dilettantesche volgarità su Hegel non verrebbero “lasciate passare” impunemente. Lascerò volutamente da parte tutti i tecnicismi filosofici per cercare di arrivare presto all’essenziale. Partiamo da un noto detto del giovane Marx, per cui i filosofi avevano fino ad allora soltanto interpretato il mondo, e si trattava ora di trasformarlo. Apparentemente, si tratta di un’affermazione di grande chiarezza: non basta leggere, studiare e scrivere, ma bisogna anche darsi da fare. Tuttavia, questo motto del giovane Marx comporta alcune difficoltà di interpretazione di cui mi limiterò qui a segnalarne solo due. 

In primo luogo, occorre riconoscere che comunque il mondo si trasforma da solo per conto suo, che i filosofi lo vogliano o meno. Del resto, Marx dice poi qualcosa di simile, sostenendo che le trasformazioni del mondo non sono il frutto di intenzioni volontarie soggettive, ma della dialettica anonima ed impersonale di forze produttive e rapporti di produzione. Negli ultimi due secoli il capitalismo ha trasformato il mondo in modo radicale. Lo stesso Hegel, che da giovane pensava che i filosofi avessero un ruolo attivo con le loro idee, da vecchio si rassegnò al fatto che la filosofia fosse come la civetta di Minerva, che si alza in volo solo al crepuscolo. Personalmente, senza avere la statura di Hegel, sono anch’io arrivato a conclusioni molto simili, e mi irritano sempre di più coloro che, come il barone di Munchausen, vogliono salire in cielo tirandosi per il proprio codino. In secondo luogo, anche ammesso che si possa trasformare il mondo con la propria azione soggettiva, e sono largamente disposto ad ammetterlo davanti alla evidenza delle rivoluzioni, è chiaro che non si trasforma nulla senza averlo prima interpretato. E l’interpretazione, in estrema sintesi, è duplice. Primo, perché valga la pena di trasformare qualcosa bisogna che se ne dia prima una interpretazione negativa, pensare cioè che questo qualcosa sia cattivo. In caso contrario, solo un masochista trasforma ciò che andava benissimo per conto suo. Secondo, bisogna che questo qualcosa sia suscettibile di trasformazione, e sia dunque trasformabile e non intrasformabile. Ciò che è ontologicamente intrasformabile non si trasforma. Marx ritiene appunto: che il capitalismo sia ad un tempo cattivo e trasformabile, e tutto il marxismo successivo può essere sinteticamente compendiato in queste due valutazioni. Ed a questo punto, appunto, deve arrivare Hegel e non può arrivare Kant. Il solo concetto filosofico che possa permettere di pensare l’unità di cattivo e di trasformabile è appunto quello di alienazione. So bene che i concetti di alienazione in Hegel e in Marx non coincidono, perché in Hegel l’alienazione significa piuttosto oggettivazione ed esteriorizzazione, mentre in Marx significa piuttosto estraneazione e perdita della propria essenza possibile. Tuttavia, in questa sede, possiamo trascurare queste pur importanti differenze. Marx ritiene che sia necessario trasformare il capitalismo, e non soltanto interpretarlo, perché pensa che il capitalismo comporti una alienazione specifica dell’uomo, che essendo un ente naturale generico e quindi non specifico come gli altri animali, non deve e non può vedere ridotta questa sua dimensione “generica” alla sola produzione capitalistica, non importa se da sfruttato o da sfruttatore. Ma siccome gli sfruttatori si trovano bene in questa alienazione, toccherà agli sfruttati organizzarsi per distruggere questa specifica alienazione.

La nozione di alienazione mi sembra quindi centrale per connotare il significato del nesso marxiano interpretazione/trasformazione. Respingo quindi le opinioni della scuola di Althusser e di La Grassa. Ma in questa sede ciò non è di grande importanza. E’ invece importante segnalare che partendo da Kant non si arriva comunque mai alla nozione di “alienazione” che non è neppure pensabile in una struttura kantiana di pensiero, mentre partendo da Hegel ci si arriva, anche se in una accezione diversa da quella sostenuta dallo stesso Hegel.

Dal punto di vista filosofico, allora, il marxismo non è assolutamente un materialismo dialettico, a meno che per “materia” non venga metaforicamente inteso il fatto che il nesso fra forze produttive e rapporti di produzione sia qualcosa di “materiale”. Ma così non è perché sia il materiale che l’ideale sono elementi indispensabili per la riproduzione complessiva di un modo di produzione. In tutti e quattro i concetti fondamentali del materialismo storico (modo di produzione, forze produttive, rapporti di produzione, ideologia) l’elemento ideale è presente. Il marxismo, filosoficamente parlando, è l’ultima manifestazione della filosofia classica tedesca, cui è ancora del tutto interno e per nulla posteriore, ed è esattamente un idealismo della emancipazione radicale. 

In quanto filosofia della prassi, il marxismo deve concepire l’oggetto come unità non solo conoscibile ma trasformabile, e questa caratteristica ricopre esattamente (al 100%, non solo al 90%) la critica fatta nel 1794 da Fichte a Kant, che a quel tempo era ancora vivo, e quindi fece in tempo a respingerla inequivocabilmente. E’ dunque chiaro che il pensiero di Marx non poteva originarsi da quello di Kant, ma solo dall’idealismo tedesco.

E’ possibile aggiungere ancora una considerazione. E’ noto che, a partire dal 1845, Marx decise di orientarsi nella scienza economica in base alla teoria del valore-lavoro di Smith e Ricardo che aveva in un primo tempo rifiutato come “ipocrita”. Questa teoria del valore, o più esattamente del valore di scambio delle merci,  sostiene che il criterio economico che regge lo scambio fra le merci (compresa la merce capitalistica più importante di tutte, la forza-lavoro) è il tempo di lavoro sociale medio incorporato in ogni singola merce. Da questa considerazione, come è noto, nasce poi il concetto di sfruttamento capitalistico come estorsione del plusvalore assoluto e relativo. Ebbene, Marx considera questa situazione come ad un tempo dialetticamente oggettiva ed alienata. Si tratta di uno dei passaggi più difficili da capire da parte di chi ragiona in modo kantiano, perché chi ragiona in modo kantiano considera l’oggettività un fenomeno e l’alienazione un noumeno, e quindi non possono andare avanti insieme. Il comunismo di Marx, allora, si può filosoficamente concepire soltanto come superamento dell’alienazione attraverso la trasformazione rivoluzionaria dell’oggettività. Naturalmente, non è affatto obbligatorio condividere la filosofia di Marx. Io personalmente la condivido, ma la stragrande maggioranza dei miei conoscenti non la condivide per nulla. Qui però mi ripromettevo un obbiettivo teorico molto più limitato, e cioè mostrare come partendo da Kant non si arriva a Marx, mentre partendo da Hegel sì, con tutte le conseguenze del caso.

8. Conclusioni sul bicentenario della morte di Kant

Nel dipinto rinascimentale di Raffaello denominato La scuola di Atene sono raffigurati i più grandi filosofi dell’antichità. Al centro ci sono Platone ed Aristotele, e mentre il primo indica con il dito il cielo il secondo indica con il dito la terra. Così si raffiguravano le cose gli uomini all’inizio del cinquecento. Platone indica le idee immortali eterne, mentre Aristotele incita allo studio della natura. Sembrava una ovvietà. Eppure, quando un secolo e mezzo dopo prese avvio la cosiddetta rivoluzione scientifica le idealità matematiche e geometriche di Platone si rivelarono molto più utili della fisica aristotelica dei luoghi naturali. Queste inversioni di punti di vista non sono rare nella storia della filosofia.

Se oggi ci fosse un altro Raffaello a dipingere i grandi della filosofia moderna e contemporanea sono sicuro che al centro dovrebbe mettere, al posto di Platone e di Aristotele, Kant e Hegel. Nietzsche avrebbe certamente il suo posto, corrucciato ed isolato in un angolo, ma ho pochi dubbi che il centro se lo meriterebbero Kant e Hegel. Un pittore frettoloso potrebbe mostrare Kant che indica la terra e Hegel che indica invece il cielo. Poiché le cose sono molto cambiate negli ultimi cinquecento anni, ed allora il termine “metafisica” era onorato, mentre oggi è (stupidamente) disprezzato, Kant verrebbe onorato come colui che ha esortato a limitarci ai fenomeni terrestri scientificamente determinabili, mentre Hegel verrebbe irriso come colui che ha cercato inutilmente di restaurare la vecchia metafisica platonica nella forma della dialettica terrestre anziché in quella della dialettica celeste. E invece io non sarei assolutamente d’accordo. Se fossi io il pittore, mostrerei Kant che indica il cielo e Hegel che indica la terra, tutto al contrario dunque della concezione oggi dominante. Kant indica il cielo perché la sua teoria morale può esistere solo in cielo, perché sulla terra non potrebbe mai essere applicata, e la filosofia universitaria contemporanea, totalmente asservita alle oligarchie finanziarie che dominano il mondo, la loda proprio perché inapplicabile (o applicabile solo “al limite”, che è un modo sofisticato per dire che è inapplicabile). Hegel indica invece la terra, perché la terra è il luogo in cui l’unità eterna di logica e di ontologia si concretizza e si determina, così come i numeri matematici si determinano quantitativamente nelle grandezze fisiche, chimiche e biologiche.

La filosofia universitaria oggi dominante indica dunque un “mondo rovesciato”. Di tutti i grandi pensatori moderni e contemporanei Marx resta forse il solo ad aver prodotto una teoria soddisfacente delle ideologie come forme di falsa coscienza organizzata, laddove i pur grandi Nietzsche e Heidegger si sono limitati a diagnosi epocali interessanti ma non risolutive. Con questo, Kant resta un pensatore imprescindibile per capire l’epoca in cui siamo. Il fatto che in questo 2004 sia stato solo oggetto di celebrazioni universitarie specialistiche e non sia invece stato l’occasione per discutere in modo nuovo dello statuto teorico della filosofia marxiana del comunismo rivela solo la dissoluzione integrale di ogni comunità di studiosi marxisti. Ma poiché la storia è dialettica, questa dissoluzione potrebbe anche segnalare un fatto positivo, e cioè l’apertura di una fase storica completamente nuova ed inedita.

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