Apparso sul blog dell’editore Petite Plaisance.
Ho letto ed annotato con estrema attenzione il saggio di Fiorillo e di Grecchi, e ritengo di averne capito non solo la lettera e lo spirito, ma anche l’elemento qualitativo differenziale che lo distingue da altri consimili saggi dedicati al comunismo.
Personalmente condivido integralmente questo elemento qualitativo differenziale, assolutamente estraneo e scandaloso per la stragrande maggioranza dei pochi che ancora oggi si dichiarano “marxisti”, e cioè la necessità di trovare l’unico serio fondamento del comunismo nella natura umana, opportunamente definita e ricostruita. Per questa ragione espongo qui alcune note personali, non complementari ma convergenti. Il lettore si accorgerà da solo se vi saranno eventuali differenze (il diavolo si nasconde sempre nel dettaglio!).
In Marx si incontra nella stessa persona un filosofo idealista ed un sociologo materialista, passato anche attraverso una critica della economia politica. Come rileva correttamente il saggio, è fuorviante (e faccio ammenda io stesso) parlare per Marx di “cantiere in costruzione”, senza contare l’orribile espressione di “cassetta degli attrezzi”. A modo suo, infatti, Marx ha coerentizzato il suo pensiero, mentre non ha assolutamente coerentizzato quello che poi fu chiamato “marxismo”, la cui coerentizzazione fu compiuta per committenza esterna ed indiretta della socialdemocrazia tedesca nel ventennio 1875-1895. Si trattava però di una coerentizzazione contraddittoria ed instabile, che non permette di trovarvi una fondazione filosofica del comunismo.
Marx fu un filosofo idealista implicito, in cui l’idealismo esisteva in penombra come ricostruzione narrativa della storia universale intesa come teatro del riconoscimento dei soggetti, laddove era invece negato e rimosso sul piano esplicito, attraverso la propria errata auto-interpretazione di materialista scientifico e post-filosofico.
Marx fu un sociologo materialista, in cui la “materia” era metaforizzata attraverso il modello storico-economico discontinuo e non narrativo di modo di produzione. Questo “materialismo”, metafora infelice e fuorviante di riferimento scientifico-strutturale alla creatività dei modi di produzione, era indebolito da elementi deterministici, necessitaristici e teleologici che attribuivano di fatto (erroneamente) al modo di produzione capitalistico una tendenza evolutiva immanente necessaria in direzione della produzione comunista.
Questa tendenza evolutiva immanente non esiste, ed i quasi due secoli trascorsi da allora lo hanno abbondantemente mostrato. Al massimo è possibile parlare, ed anche qui con molte riserve, di “potenzialità immanente”, nel senso del termine aristotelico di dynamei on. Oltre non si può proprio andare. E da qui deve ripartire la discussione.
Il fallimento del comunismo storico novecentesco realmente esistito, evidente sia in Russia che in Cina, richiede una spiegazione storica, che a mio avviso è largamente compatibile con la teoria marxiana delle classi, delle forze produttive e dei rapporti sociali di produzione.
Nato in modo assolutamente aleatorio nel 1917 (non esisteva nessuna legge storica da cui ricavarlo, anche se l’ideologia comunista successiva lo fece), esso fu costruito sotto una cupola geodesica protetta (chiamata “totalitarismo” dai suoi critici liberali) e supplì alla scandalosa e manifesta incapacità di egemonia strategica delle classi degli operai di fabbrica e dei contadini poveri con una struttura dispotica accentrata, erroneamente definita “burocrazia” sia dai critici liberali che dai critici anarchici e trotzkisti, che non capirono mai che questa presunta (ed inesistente) burocrazia era soltanto il modo demonizzante di chiamare la totale incapacità di autogoverno politico diretto e di autogestione economica diretta della presunta classe messianico-salvifica operaia, salariata e proletaria (e contadina in Cina). Le ossa di uno scheletro furono scambiate per zecche e parassiti.
In forme diverse ma convergenti in Russia ed in Cina si realizzò una maestosa controrivoluzione sociale delle nuove classi medie “comuniste”, che portò in Russia ad una piena restaurazione del capitalismo ed in Cina ad un riassestamento su basi capitalistiche del vecchio modo di produzione asiatico, mai del tutto tramontato (si confrontino le tesi di M. Bontempelli in propostito). Lungi dall’essere stata la prova del fallimento del metodo di Marx, gli avvenimenti degli ultimi decenni ne sono una paradossale conferma.
Il comunismo storico novecentesco è un fenomeno storicamente legittimo ma anche epocalmente chiuso, e cioè conchiuso.
A differenza della interpretazione che ne vede il fallimento e l’integrazione nel capitalismo in un progressivo abbandono della originaria matrice “di sinistra”, il socialismo europeo realizzò questa integrazione subalterna proprio attraverso l’accoglimento e l’inserimento nella dicotomia Destra/Sinistra. Questa dicotomia era assolutamente estranea a Marx, che non fu mai “di sinistra” e non si dichiarò mai tale. La parlamentarizzazione del socialismo avvenne invece con l’adozione di una stratificata eredità illuminista, positivista e “progressista”, risvolto subalterno della ideologia borghese allora dominante. La “sinistra” è una sorta di emulsione valoriale, che dà luogo a tipi antropologici di massa altamente instabili, perché dipendenti da un fattore esogeno fuori del loro controllo chiamato “modernizzazione”. Ciò fu segnalato precocemente da George Sorel, e se ne può trovare un aggiornamento ai tempi nostri nelle opere di Jean-Claude Michéa.
L’emulsione valoriale instabile chiamata “sinistra” non poteva “chimicamente” resistere ai maestosi processi di integrazione culturale e sociale del capitalismo, che marxianamente definirei l’unico movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti. Questo avrebbe dovuto portare in tempi ragionevoli, a proposito del pensiero di Marx, non certo ad interminabili ricostruzioni filologiche, ma ad un radicale riorientamento gestaltico e soprattutto all’inserimento di Marx in una sequenza metafisica alternativa. Questo non avvenne, e non poteva avvenire, perché coloro che il popolo considerava erroneamente “intellettuali marxisti” erano semplicemente un settore rissoso degli “intellettuali di estrema sinistra”. È bene quindi utilizzare il saggio di Fiorillo e Grecchi come una occasione per riprendere da capo una discussione sul comunismo.
Il carattere normativo della natura umana è necessariamente “ideale”, perché è di evidenza empirica che concretamente tutti gli uomini sono diversi l’uno dall’altro. Non si deve però pensare che questo carattere normativo della natura umana sia solo un contingente arbitrio opinabile di alcuni candidati al dominio ed alla manipolazione, anche se ovviamente la storia delle ideologie classiste è piena di casi del genere. Il carattere normativo della natura umana, per usare il linguaggio di Karl Polanyi, non è altro che il risvolto filosofico dell’inserimento organico dell’imprescindibile fattore economico nella riproduzione sociale complessiva. E infatti oggi, in cui per la prima volta nella storia comparata della umanità l’economia appare integralmente autonomizzata da qualunque normatività sociale, il riflesso filosofico indiretto di questo fenomeno è il relativismo ed il nichilismo (più esattamente il relativismo etico ed il nichilismo ontologico). Una volta compreso questo nesso, la via per una corretta comprensione del saggio di Fiorillo e Grecchi è aperta.
Il carattere normativo della natura umana stava alla base del pensiero greco classico, ed è anzi il più rilevante elemento comune fra la filosofia di Platone e quella di Aristotele, diverse sotto molti aspetti. E questo non è un caso, perché il pensiero greco non derivava da una corretta interpretazione di una rivelazione monoteistica trascendente, ma si autofondava integralmente sul logos, termine che significa certamente anche linguaggio e ragione, ma indica soprattutto il calcolo sociale equilibrato del potere e della ricchezza. L’autofondazione sul logos portava così automaticamente il pensiero greco ad una concezione normativa della natura umana. I maestri greci non erano certamente “maestri del sospetto”, come frettolosamente un pur benemerito (ma confusionario) filosofo francese definì Marx, Nietzsche e Freud, e non pensavano certamente che una teoria normativa della natura umana portasse a strategie di disciplinamento e di addomesticamento autoritario, come pensava il benemerito (ma confusionario) Foucault. L’elemento paradossale sta in ciò, che l’autonomizzazione cannibalica della economia (nel linguaggio dei nostri autori, la crematistica) è in realtà il vero fattore di disciplinamento e di addomesticamento sociale manipolatorio, mentre una razionale teoria del carattere normativo della natura umana ne sarebbe l’antidoto ed il raddrizzamento.
La trasformazione della filosofia da luogo della saggezza comunitaria a luogo del sospetto reciproco non è ovviamente solo un “errore” di benintenzionati confusionari come Ricoeur e Foucault. Si tratta, in linguaggio marxiano, del riflesso sovrastrutturale di uno svuotamento della razionalità filosofica comunitaria da parte di un’economia automatizzata. Nel linguaggio di Bertolt Brecht, il condannato a morte dubbioso, già sotto la mannaia del boia, si chiede se alla fine anche il boia non sia un uomo.
A proposito della religione cristiana, di cui non discuto le tre varianti cattolica, protestante ed ortodossa, il problema fondamentale non sta tanto nel fatto che essa abbia predicato la collaborazione di classe (lo stesso comunismo storico novecentesco si è basato su questo stesso principio, ad esempio nei fronti popolari e nelle alleanze antifasciste), quanto nel fatto che essa ha troppo spesso predicato la sopportazione di classe. Ora, la sopportazione di classe, e cioè la sopportazione di ingiustizie distributive insopportabili, non può fondarsi su di una teoria del carattere normativo della natura umana, ma solo su teorie di tipo diverso, come il peccato originale ebraico o la predestinazione calvinista, e fra le due non so quale sia la più odiosa ed infondata.
Personalmente, avevo sopravvalutato la tendenza di Ratzinger a tornare ad una concezione aristotelica di natura umana, indubbiamente buona e razionale, sottovalutando il processo di incorporazione della chiesa cattolica nelle strategie di dominio geopolitico dell’impero americano. Con questo, non nego la correttezza del rimando al carattere umanistico di fondo del cristianesimo, e mi schiero così con Hegel e non con Nietzsche.
A proposito di Hegel, faccio riferimento ad una nota del libro, in cui è citato un noto accademico “comunista” che sostiene che il termine hegeliano di “sapere assoluto” è presuntuoso e metafisico (sic!), perché oggi noi sappiamo che ogni sapere è relativo, perché storicamente determinato. Vi sono molti aspetti da considerare, ma qui mi fermerò ad esaminarne due.
In primo luogo, Remo Bodei ha a suo tempo parlato di “interpretazioni manicomiali” di Hegel. In questo caso il termine di “sapere assoluto” nel senso hegeliano autentico del termine non può essere presuntuoso e metafisico, ma semmai il contrario, perché ab-solutus, secondo lo stesso etimo latino, significa sciolto da ogni determinazione oggettiva. Se così non fosse stato, Hegel avrebbe posto lo Stato nella sfera della assolutezza, e non in quella della oggettività.
Hegel conosce perfettamente il carattere storico delle diverse forme di arte, religione e filosofia, ma non vuole vincolarne il carattere veritativo alla relatività di determinati momenti spazio-temporali. In ogni caso, il fraintendimento di Hegel da circa due secoli è un fatto sociale totale (per dirla con Durkheim), legato proprio al fatto che la sovranità assoluta dell’economia crematistica sulla società deve sistematicamente diffamare il pensatore che più di tutti gli altri nella modernità ha rivendicato la sovranità della filosofia nella riproduzione comunitaria. Il fraintendimento manicomiale di Hegel è quindi del tutto fisiologico e strutturale.
In secondo luogo, a proposito delle note sulla interpretazione hegeliana di Roberto Fineschi (cui potrei aggiungere l’atteggiamento ambiguo verso Hegel del Lukács della Ontologia dell’essere sociale), è interessante che il buon marxista politicamente corretto, anche nel caso che sia largamente disposto a riconoscere i debiti di Marx verso Hegel non limitandoli agli anni prima del 1845, sente alla fine una irresistibile coazione a “staccare” lo scientifico Marx dal metafisico Hegel, avendo introiettato l’esigenza di purezza della vera scienza sociale contro la contaminazione metafisica. Non scendo qui nei particolari, che sarebbero numerosi e tutti pittoreschi. Basterà ricordare ancora una volta che tutte le strategie di “decontaminazione anti-metafisica” di Marx falliscono inevitabilmente, dato il carattere profondamente metafisico (sia pure reticente ed implicito) dell’autore stesso.
Alla fine, chi vuole il comunismo senza la metafisica non avrà probabilmente la metafisica, ma non avrà neppure sicuramente il comunismo.
Il riferimento a Hegel permette anche di soffermarsi sulla teoria marxiana della estinzione dello Stato, che gli autori del saggio respingono come incompatibile con il principio della pianificazione economica comunitaria. Dal momento che sono d’accordo nell’essenziale con questa tesi (gli autori ricordano opportunamente i nomi di Losurdo e di Zolo), ne approfitto per cercare di individuare genealogicamente le due fonti principali di questa insostenibile concezione marxiana. Esse sono, in breve, Fichte e Saint Simon.
Per Fichte lo Stato è una necessità che risponde alla peccaminosità umana, superabile in via di principio ma non ancora storicamente superata. In un mondo non peccaminoso, quindi, si potrebbe e si dovrebbe vivere senza bisogno dello Stato. Nel frattempo, aspettando il superamento dell’epoca della compiuta peccaminosità, Fichte sostiene uno Stato commerciale chiuso, che prefigura l’autarchia economica di molti Stati comunisti novecenteschi, e che è comunque lontanissimo dalla teologia bocconiana liberale di Draghi e di Monti.
Per Saint Simon una automatica “amministrazione delle cose”, priva di ogni carattere politico determinato, sostituirà in futuro lo Stato politico. Ed io penso che la teoria marxiana della estinzione dello Stato, dipendente da una cattiva utopia della trasparenza e dell’abbondanza entrambe illimitate, sia il frutto inconsapevole di una fusione fra l’elemento romantico-idealistico di Fichte e l’elemento proto-positivistico di Saint Simon. Il tutto, sovrapposto alla dinamica dello sviluppo del modo di produzione capitalistico, porta ad un inquinamento del carattere “scientifico” che i vari Fineschi vogliono ad ogni costo riservare al loro beniamino.
Voglio però affrontare l’aspetto forse più problematico del saggio, il rilievo fatto a Marx ed Engels (a partire dal loro Manifesto del 1848) di essere eccessivamente conflittualisti. Si tratta di un rilievo che può sembrare a prima vista simile alla critica della dottrina sociale della chiesa cattolica alla centralità nel comunismo della lotta di classe, e simile anche a certe dottrine orientali basate sulla rinuncia e sulla armonia, che la conflittualità necessariamente impedisce o rende difficili.
So bene che l’impronta generale del saggio non intende assolutamente delegittimare la lotta di classe. D’altra parte, nei casi storici (rari) in cui si manifesta in modo esplicito, la lotta di classe è un fatto, non un’opinione. Cosa ben diversa è la mentalità conflittualista, cui a volte nel senso comune popolare i comunisti vengono associati, provocando sospetto ed avversione in chi cerca spesso soltanto una modesta tranquillità.
La teoria originale del conflitto di Marx deriva a mio avviso al cento per cento da quella di Hegel, che sunteggerò in questo modo: il conflitto è immanente ed ineliminabile dalla storia, perché tende al riconoscimento da parte dei soggetti sfavoriti; finché questo riconoscimento non avviene (o non avviene adeguatamente), la conciliazione è impossibile, e non è neppure auspicabile, perché si baserebbe sulla ingiustizia; non esiste però e non può esistere una conciliazione finale e definitiva, perché essa coinciderebbe con la fine della storia.
Come si vede, una adeguata analisi della teoria del conflitto in Marx presuppone chiarezza sul fatto che in Hegel non esiste una teoria della fine della storia. La conciliazione ideale può avvenire soltanto sul piano ideale della Scienza della Logica, che non è però un coperchio di una pentola sovrapposta alla storia umana reale; l’unica storia è quella tracciata dalla Fenomenologia dello Spirito, nel senso che non esistono figure “definitive”, ma l’ultima figura è sempre provvisoria, e prolungandosi nel futuro di due secoli, ce ne saranno almeno altre quindici ancora inedite.
Il comunismo, quindi, non può essere inteso come la fine della storia. Polemizzare correttamente contro la metafisica del conflittualismo permanente, risultante probabilmente dalla confluenza della mentalità sindacalistica con quella delle avanguardie storiche anti-borghesi “distruttrici” non significa e non deve significare una adesione implicita a concezioni della armonia sociale finalmente raggiunta, come i due autori sanno bene.
Se ho un rilievo filosofico da fare a questo saggio, esso sta nel fatto che a mio avviso è di fatto sottovalutata la differenza qualitativa fra Platone ed Aristotele, in primo luogo, e fra la dialettica di Pitagora e Platone e la dialettica di Hegel e Marx, in secondo luogo. Naturalmente, so bene che gli autori sono bene informati su queste differenze, ma altro è essere informati ed altro è tenerne realmente conto metabolizzandole nel proprio pensiero. Gli autori intendono sottolineare il fatto che il problema del comunismo attraversa l’intera storia umana, e non nasce dalla genialità miracolosa di Marx ed Engels nel 1848. E tuttavia, un eccessivo “continuismo” può pregiudicare l’effetto di straniamento che i due autori si ripromettono. Per questo, qualche nota aggiuntiva non sarà forse inutile.
Platone ed Aristotele erano entrambi ispirati dall’umanesimo anticrematistico, anche se in loro (a mio avviso) non poteva esserci una vera filosofia della storia, che presuppone logicamente e storicamente l’unificazione omogena della temporalità risultante da una forma di monoteismo (del tutto assente negli antichi). L’insistenza delle numerose opere di Grecchi su questo punto è decisiva, e per ora è non casualmente ignorata o ammessa a mezza bocca per poterla depotenziare (magari con la scusa che tutti i filosofi sono anticrematistici, avendo deciso di passare la vita a leggere libri inutili anziché diventare speculatori di borsa). E tuttavia fra l’umanesimo anticrematistico di Platone e l’umanesimo anticrematistico di Aristotele, esiste una differenza qualitativa gigantesca, perché il secondo rifiuta il pitagorismo geometrizzante del primo applicato alla modellistica politica ideale. Non si tratta di una differenza da poco. Mettere al posto della causa formale geometrizzante la causa finale del “vivere bene” (eu zen) della comunità comporta il tener conto praticamente dei modi in cui tutti i cittadini concepiscono le forme della loro convivenza. So bene che in sede di storia della filosofia Platone era “comunista” mentre Aristotele non lo era (era al massimo per una economia regolata contro una crematistica sregolata). E tuttavia se vogliamo rinunciare l’idea di comunismo bisogna essere aristotelici, non platonici. Meglio una disuguaglianza moderata ed una piccola economia mercantile sotto controllo comunitario (e cioè di uno Stato democratico-comunitario) piuttosto di una progettualità matematizzante destinata a mio avviso alla catastrofe finale.
È noto che Platone e Hegel erano entrambi idealisti. Ma qui non si tratta di superare un esame universitario sui dettagli del loro pensiero, quanto prendere atto del fatto che la dialettica hegeliana (a mio avviso al cento per cento simile a quella marxiana, anche se ragioni di spazio mi sconsigliano di fornirne una adeguata dimostrazione) rompe con il modello geometrico-piatgorico, ed introduce una potenziale “interminabilità” del flusso storico che si determina bensì, ma non si determina mai una volta per tutte.
Il principio generale della evoluzione (di cui il saggio non parla mai, ma che mi permetto di introdurre) ci dice che anche la natura umana, insieme con il suo carattere normativo, evolve. So benissimo che si tratta del grande argomento di ogni relativismo, ma a mio avviso per poter svuotare questo argomento bisogna prima prenderlo in considerazione e non evitarlo. Io parto dal fatto che in tutte le civiltà umane (indo-europei, cinesi, indiani, incas, ecc.) esistono costanti di comportamento, che nel corso del tempo furono definite “umanesimo”, a fianco di comportamenti storici e religiosi molto diversi, la cui diversità è però spesso un valore da riconoscere, e non un “ritardo” da eliminare, come per secoli lo ritenne il pregiudizio occidentalistico, prima religioso e poi “laico”. Il carattere normativo della natura umana, base del comunismo, deve quindi essere inteso processualmente come universalizzazione contraddittoria e (necessariamente) agonistica, e non come restaurazione di una origine nel frattempo decaduta e perduta. So bene che questa non è la posizione degli autori del saggio, ma l’equivoco può facilmente farsi strada. Pensiamo a come Lucio Colletti ebbe buon gioco nel liquidare l’intero marxismo comunista come restaurazione utopica di un intero originario perduto.
Una breve riflessione incidentale sull’utopia, o meglio sull’elemento utopico del comunismo. Il saggio vi dà un certo spazio, e ricorda anche le poco note utopie stoiche antiche (L. Bertelli). Personalmente sarei più cauto, per ragioni che cercherò sommariamente di segnalare.
Ogni coerentizzazione del pensiero originale di Marx, compiuta al di fuori dei “tifosi” che vogliono a tutti i costi farlo diventare “scientifico” nonostante la presenza di fastidiosi residui metafisici hegeliani, porta alla conclusione che Marx realizzò un ossimoro insostenibile, e cioè una scienza utopica. Per non diventare schiavi delle parole bisogna a mio avviso tagliare decisamente il nodo gordiano, e concluderne che una scienza utopica o bisogna lasciarla com’è, ma allora è inutilizzabile, oppure bisogna disarticolarla, e cioè ridefinirne radicalmente sia il presunto elemento scientifico che il presunto elemento utopico.
A proposito della scienza, con buona pace di Engels e di Althusser (e di cento altri), il comunismo di Marx non è una scienza, né nel senso di scienza filosofica di Hegel (perché non crede esplicitamente nella veritatività sistematica della filosofia idealistica), né nel senso previsionale, empirico e sperimentale delle scienze naturali moderne, in quanto non può prevedere scientificamente assolutamente nulla, e duecento anni di false previsioni “marxiste” lo dimostrano ampiamente. Interrogato su come lo si potrebbe chiamare, resterei dubbioso, e mi risolverei provvisoriamente a chiamarlo una forma di sapere filosofico sulla totalità storica e naturale.
A proposito dell’utopia, è vero che si sono trovate anche utopie greche di tipo stoico (Bertelli), ma la Repubblica di Platone non è affatto una utopia (già Hegel lo aveva capito benissimo), perché il pensiero utopico era del tutto estraneo ai greci. Del resto, i due principali rivalutatori novecenteschi marxisti del pensiero utopico (Benjamin e Bloch) erano ebrei messianici secolarizzati, del tutto estranei al pensiero greco classico in ogni sua forma.
Il comunismo non ha bisogno né di scienza né di utopia. Il comunismo ha bisogno di soli due ingredienti, la storia e la natura umana, che si tratta però di combinare in modo adeguato. Una concezione storicistica della storia è fuorviante, perché necessariamente porta al relativismo, al nichilismo ed alla cancellazione di ogni fondamento ontologico. Una concezione pitagorico-platonica della natura è ugualmente fuorviante, perché riduce necessariamente il comunismo a “modello da applicare”, e le generazioni successive inevitabilmente distruggeranno il modello ereditato, fosse pure in modo parmenideo il migliore possibile.
Può resistere il termine “comunismo” al generalizzato discredito in cui è caduto nell’ultimo trentennio? A mio avviso a breve termine no, e per questo non credo alla opportunità di ricostruire (o rifondare) piccoli e marginali partiti comunisti. In mancanza di una seria fondazione filosofica e di una prospettiva storica essi sarebbero condannati a vegetare come nicchie identitarie di estrema sinistra, e oggi l’estrema sinistra non è che una emulsione valoriale instabile caratterizzati da elementi della cultura radicale post-moderna.
L’Italia ha portato alla guida di due partiti “comunisti” due accaniti anticomunisti (Walter Veltroni e Fausto Bertinotti), e si tratta di un vero e proprio unicum mondiale, difficile da spiegare non solo a marziani ed a venusiani, ma anche solo a francesi e tedeschi. Il comunista D’Alema ha bombardato la Jugoslavia nel 1999. Il comunista Napolitano ha insediato Monti, il governo oligarchico più “di destra” della storia post-unitaria. Gran parte di chi si dichiara ancora “comunista” in Italia è semplicemente un anti-berlusconiano con retorica pauperistica e sociale. Pochi termini come quelli di “comunismo” sono stati tanto svuotati. Oggi i pochi “comunisti” devono sopportare la concorrenza elettorale di Vendola, Di Pietro e Beppe Grillo, e tutti i sondaggi li inchiodano ad irrilevanti prefissi telefonici.
Appare chiaro che chi ritiene di dover conservare il termine di “comunismo” non solo deve andare contro la corrente del linguaggio contemporaneo politicamente corretto, e contro l’innocua incorporazione in una estrema sinistra residuale (lo ripeto: una emulsione valoriale altamente instabile, perché priva di fondamenti veritativi), ma deve anche scommettere sia sul presente che sul futuro.
Chi rivendica oggi il termine di “comunista” deve collocarsi in un bilancio di millenni di storia, e deve prima di tutto impadronirsi di un adeguato concetto di comunità e di comunitarismo. È un vero peccato che questi due nobili termini nel chiacchiericcio politico italiano semi-colto vengano interpretati come “di destra”. Ovviamente non è così. Chi non capisce che il comunismo non è né di destra né di sinistra, è al di qua degli elementi minimi di comprensione del problema. Il comunismo è stato per un secolo “di sinistra”, ed anche per questo è fallito.
Il saggio termina correttamente con il concetto di pianificazione comunitaria. A mio avviso oltre non si può andare, perché si andrebbe in una prefigurazione pitagorica. La prefigurazione ci deve essere, e gli autori polemizzano correttamente con coloro che rifiutano per principio ogni prefigurazione, mostrando così di non avere alcuna concezione normativa di quanto stanno dicendo.
Gli autori del saggio non si limitano a proporre un riorientamento gestaltico del comunismo, affiancando alla storia la natura, ma inseriscono il comunismo in una sequenza metafisica alternativa alle teorie “progressiste” classiche di origine illuministica e positivistica. Per quel poco che conosco le (residue) comunità che si dicono comuniste, questa proposta è del tutto irricevibile.
Occorre quindi cercare nuovi interlocutori, non necessariamente soltanto giovani, ma comunque non “bruciati” dalle polemiche degli ultimi decenni.
Del resto, dovremmo fare tesoro di una esperienza secolare. Si è cercato il fondamento del comunismo o in una concezione progressistica della storia completamente illusoria, oppure in una modellistica pseudo-scientifica dei modi di produzione. Entrambi i fondamenti si sono svuotati nei decenni, fino a portare al silenzio ed alla afasia. Chiunque cerchi di rompere questa afasia dovrebbe essere ringraziato, e questo è proprio il caso di ciò di cui stiamo parlando.