Nazione italiana, Europa e Mediterraneo

Articolo apparso per la prima volta sulla rivista Indipendenza.

In tre successivi saggi per la rivista Indipendenza ho trattato la questione politica, la questione culturale ed infine la questione nazionale italiana, avendo come minimo comun denominatore di tutti e tre i saggi il tema di una totale indipendenza di giudizio rispetto alle mode dominanti. L’indipendenza di giudizio è la premessa per un’indipendenza organizzativa, storica e politica. Chi invece mette davanti a tutto il problema cosiddetto pratico dell’organizzazione a tutti i costi, pur di fare subito qualcosa e non perdere tempo in chiacchiere, alla fine non farà un bel nulla e si troverà con un pugno di mosche, perché organizzerà il vuoto e si agiterà senza ben sapere qual è la prospettiva su cui lavorare.
Questo quarto saggio è dedicato al tema dell’identità e della memoria storica. Per essere adeguatamente compreso, esso presuppone la lettura dei tre saggi precedenti, cui è legato con mille fili. Svolto in dodici paragrafi questo saggio è diviso in due parti. Nella prima parte, dal primo al sesto paragrafo, sono trattati alcuni temi preliminari alla questione della identità e della memoria storica degli italiani. Gli italiani sono infatti collocati in un mondo globalizzato dai flussi economici, in un’Europa che non ha ancora fatto i conti con la questione del fascismo e del comunismo, in un Mediterraneo che deve ancora fare i conti, in particolare nella sua costa meridionale ed orientale, con le questioni del colonialismo e del sionismo. Sarebbe dunque assurdo trattare dell’Italia come se fosse l’unica isola emersa in un mondo ricoperto da un grande oceano sconfinato. Nella seconda parte, dal settimo al dodicesimo capitolo, si parla invece della questione nazionale italiana dal punto di vista della memoria e dell’identità storica, oggi messe in pericolo da almeno due fattori. In primo luogo, una globalizzazione supercapitalistica e neoimperialistica che tende programmaticamente a schiacciare ogni residua identità comunitaria nazionale. In secondo luogo, una manipolazione politico-amministrativa della memoria storica nazionale, che trova nell’asse Violante-Fini il suo punto visibile e più sfacciato e vergognoso, ma che è purtroppo assai più diffusa.

1. Le cinque questioni storiografiche decisive del Novecento (nazionalsocialismo tedesco, comunismo storico novecentesco, colonialismo imperialistico, sionismo, globalizzazione ipercapitalistica attuale).

Sono molte decine le questioni storiografiche importanti per comprendere la natura storica del secolo che si avvia al suo tramonto. Fra queste decine ne abbiamo scelto solo cinque, che hanno l’inquietante caratteristica di essere ancora aperte, come delle ferite che sanguinano ancora. E come ferite che sanguinano ancora, esse possono produrre pericolose infezioni, ed è dunque giusto prestare loro attenzione. Naturalmente, non mi passa neppure per la testa di poter dare la soluzione giusta a queste cinque questioni storiografiche. Una simile pretesa sarebbe così presuntuosa ed irrealistica da risultare poco credibile anche per un lettore pregiudizialmente benevolo. Ed infatti non si tratta di dare la soluzione giusta, per il semplice fatto che non esiste la soluzione giusta definitiva per le questioni storiografiche, ed ogni generazione si riserva il sovrano diritto di ritornare sul giudizio storico dato dalle generazioni precedenti. Si tratta di tenere aperto lo spazio per una discussione, o meglio di impedire che questo spazio venga chiuso ed amministrato dai manipolatori del presente, che per poter progettare un’efficace manipolazione del futuro devono assicurarsi prima la manipolazione del passato.
È vero che oggi la questione della memoria storica tende a perdere di importanza. Nella concezione americana del mondo la storia universale non ha molta importanza, il reale è confuso con il virtuale, il passato diventa uno spettacolo come tanti altri, da sottoporre alla legge delle audience televisive e cinematografiche (e si pensi a neofotoromanzi come il recente Titanic). Il pensiero unico americano è una sorta di futurismo realizzato, ed è interessante che nella sua estetica cinematografica dominante la narratività decade a favore degli effetti speciali. Nello stesso tempo la cultura europea non sembra in grado di reagire a questo futurismo realizzato se non opponendogli un passatismo romanzato (e si pensi ai romanzi di ambientazione nell’antico Egitto di Jacq, in cui un inverosimile Omero si intrattiene con gli antichi egizi “fumando la sua pipetta”). Fra i due poli del futurismo realizzato e del passatismo romanzato muore la stessa possibilità della trasmissione della memoria storica fra generazioni. Ed allora cominciamo a discutere pacatamente fra noi di cinque problemi che ci riguardano.

2. Il nazionalsocialismo tedesco, il razzismo antisemita ed il “massacro amministrativo”.

A suo tempo Theodor W. Adorno sostenne che ogni cultura è impossibile dopo Auschwitz. Questa frase definitiva e paradossale deve essere presa sul serio. Prenderla sul serio vuol dire interpretarla. E noi la interpretiamo così: dopo Auschwitz la cultura, ed in particolare quella parte della cultura che è la teoria sociale e filosofica, non può più fare come se Auschwitz fosse un doloroso incidente di percorso nel progresso civile dell’umanità, ma deve comprendere bene Auschwitz perché non si possa più ripetere in futuro. I verbi sono dunque due: in positivo comprendere, in negativo ripetere. Se si comprende bene la natura storica profonda di Auschwitz, vi sono buone possibilità che si attivino strategie preventive di tipo culturale, storico, politico e pedagogico per evitarne la ripetizione.
Ebbene, è proprio questo che non viene fatto, ed è anzi attivamente impedito, dalla strategia culturale dominante oggi, che tende ad interpretare il nazionalsocialismo tedesco come l’irruzione del demoniaco nella storia, un’eccezione diabolica assolutamente unica ed imparagonabile a nessun’altra nella storia moderna e contemporanea. Questa strategia della eccezionalità criminale è certo animata da buone intenzioni, e considera ogni proposta culturale di ‘collocazione’ del nazismo dentro la storia tedesca, europea e mondiale del Novecento una colpevole ‘banalizzazione’ della sua specificità negativa, lo sterminismo razzista che ha trovato nel sistema dei Lager il suo luogo di applicazione.
È evidente che bisogna rispettare le buone intenzioni di chi propone questa linea storiografica per interpretare la natura storica del nazionalsocialismo tedesco di Hitler: trasformandolo in un diabolico tabù negativo si pensa di ottenere lo scopo di evitarne in futuro la ripetizione in condizioni analoghe. Ma la via per l’inferno è lastricata di buone intenzioni. Il nazionalsocialismo tedesco (prescindendo qui dalle questioni del pangermanesimo e della geopolitica europea nel Novecento) ha portato al massimo livello di legittimazione ideologica e di efficienza organizzativa il massacro amministrativo. Il problema storiografico principale è dunque la natura e la dinamica del massacro amministrativo attuato dal nazionalsocialismo in particolare nei confronti degli ebrei, ma non solo (e si pensi alle politiche di tipo eugenetico, di sterilizzazione e di eutanasia dei malriusciti, condivise negli anni Trenta persino dalle insospettabili socialdemocrazie scandinave, come documenta ad esempio la rivista Internazionale, n. 198, 12/9/1997).

In Modernità ed Olocausto lo studioso polacco Zygmunt Bauman ha già esaurientemente chiarito che il massacro amministrativo hitleriano non è un rigurgito diabolico medioevale in una modernità rassicurante, ma è invece a tutti gli effetti un evento specificatamente moderno ed addirittura contemporaneo, perché unisce la mobilitazione ideologica di legittimazione politica all’efficienza tecnologica ed amministrativa dell’esecuzione del progetto. Prima di lui lo psicologo americano Stanley Milgram aveva già dimostrato che in nome della scienza (ed il razzismo era presentato dagli hitleriani come pienamente scientifico) si può far fare alla gente qualunque cosa. Milgram aveva chiesto a dei volontari di provocare dolorose scariche elettriche a persone il cui dolore fisico (peraltro simulato dagli psicologi, ma la cui simulazione era ignota ai volontari torturatori dilettanti, che lo ritenevano reale) era presentato come legittimo oggetto di sperimentazione scientifica “a fin di bene”. Insomma, in “nome della scienza” è possibile far fare qualunque cosa a tutti i coglioni che hanno messo la scienza come principio di legittimazione al posto della religione e della morale. Ma la scienza è appunto il principio di legittimazione filosofica fondamentale della modernità.
Bauman e Milgram ci aiutano a capire la dinamica del massacro amministrativo: la deresponsabilizzazione nichilistica provocata nell’individuo atomizzato dagli ordini legittimi emanati da organi statuali superiori in nome della politica e/o della scienza. È del resto questa la conclusione tratta anche da Hannah Arendt nelle sue considerazioni sul caso Eichmann tratte nel suo libro sulla Banalità del Male. In proposito, sappiamo oggi da una corrispondenza prima rimasta inedita che fu il grande filosofo Karl Jaspers a suggerire alla Arendt il nesso fra deresponsabilizzazione morale e massacro amministrativo. Comunque la giriamo, il punto cruciale resta sempre la questione del massacro amministrativo, questa anonima bestia fredda, intessuta di obbedienza ad ordini superiori che sono sempre formalmente legittimi.
Il razzismo antisemita hitleriano si basa su di una preventiva colpevolizzazione storica e sovrastorica dell’ebreo. Avvenuta questa colpevolizzazione per via ideologica, il meccanismo del capro espiatorio (che sappiamo essere stato molto precedente a qualunque antisemitismo) può svilupparsi fino appunto al massacro amministrativo. Ma noi viviamo dentro continui e scandalosi massacri amministrativi che si svolgono sotto i nostri occhi senza spesso che noi ce ne accorgiamo. Ultimo, scandaloso esempio, l’embargo di prodotti alimentari e medicinali al popolo irakeno, imposto da una ONU subalterna alla politica di potenza americana.
Concludiamo. La imputazione di eccezionalità diabolica rivolta al solo nazionalsocialismo tedesco non serve allo scopo di evitare il ripetersi del suo prodotto più velenoso, il massacro amministrativo effettuato da poteri dotati del doppio monopolio della emissione ideologica e della potenza militare. Al contrario, è proprio riconoscendo la possibilità permanente del ripetersi di massacri amministrativi che sarà forse possibile impedirne in futuro il ripetersi.

3. Il comunismo storico novecentesco, l’utopia rivoluzionaria di Marx e la condanna postmoderna dell'”illusione criminale”.

Il comunismo storico novecentesco è a mio avviso un grande fenomeno storico conchiuso, cioè terminato, nell’arco degli anni che vanno dal 1917 al 1991. Si tratta di 74 anni, il decorso di una vita umana media. Non inganni il fatto che esso sembra tuttora ‘in svolgimento’ in alcuni paesi (Cuba, Cina, eccetera). Così non è. Il comunismo storico novecentesco è stato un fenomeno internazionale, non certo una politica economica mercantilistica e statuale ad economia mista gestita da apparati amministrativi diretti da un partito unico, politica economica che cerca oggi comunque la sua integrazione nel mercato globalizzato di oggi. Quello che resta in piedi oggi della esperienza del comunismo storico novecentesco è ormai inserito in un contesto qualitativamente differente.
La visione dominante del comunismo storico novecentesco che oggi prevale è quella che lo riduce ad una “illusione criminale”, cioè ad una illusione teorica (l’utopia rivoluzionaria integrale di Marx e di Lenin) che comporta necessariamente il compimento di crimini pratici (la costruzione artificiale staliniana di una società dispotica). È stato il francese François Furet a formulare nel modo forse più completo questa teoria della illusione criminale. Questa teoria del comunismo storico novecentesco come illusione criminale fa il paio con quella già criticata del nazionalsocialismo come eccezione diabolica. Il fatto che i neocomunisti ed i neofascisti tuttora in attività si scambino l’un l’altro questa reciproca accusa non toglie nulla al fatto che questa semplificazione della complessità storica vada oggi ad esclusivo profitto di un terzo personaggio, il normale capitalismo imperialistico vincitore di questo secolo americano. I due stupidi ubriaconi se le danno di santa ragione di fronte agli occhi dello scommettitore che si diverte ad ascoltare le grida ed a vedere i colpi.
Una considerazione storiografica seria del complesso fenomeno del comunismo storico novecentesco deve invece partire da due momenti storici fondamentali: la sua nascita (il triennio 1917-1919) e la sua morte (il triennio 1989-1991). Questi due momenti devono essere posti sullo stesso piano di importanza. Una loro corretta considerazione permetterà facilmente di superare razionalmente la scorciatoia semplificatrice ed infondata della illusione criminale. La teoria della illusione deriva infatti addirittura dalla critica dei pensatori della Restaurazione (1815-1830) alla rivoluzione francese, vista come delirio giacobino di ricostruzione integrale della società in nome di un astratto progetto intellettualistico (e del resto è questa la lettura di Furet della stessa rivoluzione francese). La teoria del crimine è invece derivata da quella riduzione giuridica della storia risultante dal processo di Norimberga, per cui ormai i vincitori devono ad ogni costo processare i vinti, ed è evidentemente ritenuto insufficiente averli semplicemente vinti. La rivoluzione è una illusione, e la sconfitta è un crimine. Chi si mette su questa strada, magari con le migliori intenzioni soggettive di questo mondo, semina vento, ed è probabile che in futuro raccolga tempesta.
Consideriamo la nascita del comunismo storico novecentesco (il triennio 1917-1919). Si tratta di una risposta legittima allo scatenamento sanguinoso della prima guerra mondiale imperialistica del 1914. È pertanto un atto politico che ha una legittimazione storica originaria, in quanto risposta derivata da una precedente barbarie, e non ha pertanto bisogno di nessun’altra legittimazione storica o filosofica ulteriore. È semplice: il 1917 è una legittima risposta al 1914. Dal momento però che la levatrice politica era un partito marxista, il partito bolscevico russo di Lenin, si volle ad ogni costo trovarvi una legittimazione teorica marxiana, e lo si fece con l’argomento per cui, pur avendo previsto Marx la rivoluzione socialista nei punti alti dello sviluppo industriale capitalistico, il nuovo stadio imperialistico comportava la possibilità (ed anzi la necessità) della rivoluzione a partire dagli anelli deboli della catena mondiale imperialistica. Nei termini dell’epistemologo americano Kuhn, si tratta di una “correzione” di un paradigma scientifico già in crisi. Ed il paradigma scientifico marxiano originario era già in crisi, perché la contraddizione politica fra il carattere sempre più sociale della produzione ed il carattere sempre più privato della appropriazione non si era verificata, e di conseguenza non si era verificata la fusione fra il lavoratore collettivo cooperativo associato e le potenze mentali della produzione (da Marx definite con termine inglese “general intellect”). Come ha chiarito lo studioso italiano Gianfranco La Grassa, questo è avvenuto perché il modello originario di Marx è stato costruito sulla forma della fabbrica, mentre la forma economica dominante è stata quella dell’impresa.
Ebbene, queste considerazioni marxologiche (qui richiamate in forma ultratelegrafica) spiegano la mancata vittoria epocale del comunismo storico novecentesco sul sistema capitalistico, ma non cambiano di una virgola la questione della piena legittimità storica della nascita del comunismo storico novecentesco. Ecco perché la critica di Nolte al comunismo, quella di aver avviato nel 1917 una sorta di guerra sociale originaria è completamente falsa. La guerra sociale originaria è stata avviata nel 1914, ed ancora perdura, perché ancora perdura l’imperialismo.
Consideriamo ora la morte del comunismo storico novecentesco (il triennio epocale 1989-1991). Finché non sarà risolto l’enigma teorico di questa morte, il mistero scientifico di questa doppia dissoluzione (dall’alto e dal basso) sarà impossibile ogni comprensione storica seria del secolo ormai al tramonto. Chi scrive propone qui brevemente la sua diagnosi, scusandosi per la brevità. Il comunismo storico novecentesco non è morto perché non ha avuto il tempo storico necessario per costruire un efficiente sistema economico, politico e culturale socialista, ma è morto appunto perché ha avuto tutto il tempo necessario per portarne a termine la costruzione, ed è appunto questa costruzione portata a termine la premessa logica e storica della restaurazione dell’attuale capitalismo normale mondializzato. Sappiamo che questa formulazione purtroppo sarà letta come un assurdo paradosso, e ce ne dispiace molto, perché la nostra affermazione deve essere intesa in modo letterale, e non paradossale. Non ritenendo la classe operaia e proletaria una classe capace di attuare una transizione storica intermodale (cioè da una modo di produzione ad un altro), pensiamo che il fallimento storico ed epocale del comunismo storico novecentesco non sia stato dovuto ad una maligna espropriazione del potere della classe operaia da parte di una corrotta burocrazia piccolo-borghese (è questa una spiegazione demonologica, e per questo molto diffusa, perché la demonologia è la variante più semplice ed elementare della sociologia), quanto proprio al fatto che il partito che la rappresentava ha cercato di farne gli interessi. Ha trasformato la società in un’immensa fabbrica, ma la fabbrica per funzionare ha bisogno dell’impresa, ed il sistema più efficiente per far funzionare le imprese è quello capitalistico normale. Chi preferisce il linguaggio filosofico può usare altre espressioni. Se ama Hegel, potrà dire che l’ascetismo della morale si trasforma dialetticamente in regno animale dello spirito. Se preferisce Heidegger, potrà dire che lo svolgimento integrale della metafisica (marxista) si realizza infine nella tecnica (capitalistica). In ogni caso, il comunismo storico novecentesco non è stata la storia di una illusione criminale (e chissà perché dovrebbe essere illusorio e criminale cercare di costruire un’alternativa globale alla società capitalistica?), ma di una impotenza funzionale. La classe (operaia e proletaria) ed il partito (comunista e marxista-leninista) non sono organismi ed organi adatti al superamento del capitalismo.
Tutto qua? Già, proprio così, tutto qua.

4. L’industria ipocrita del perdono ed il fittizio superamento simbolico del vecchio colonialismo imperialistico.

Chi si sarà fatto le idee un po’ più chiare sulle due nozioni di massacro amministrativo (§ 2) e di impotenza funzionale (§ 3) non avrà certo in tasca la soluzione dell’orientamento storico nel Novecento, ma almeno si sarà emancipato dalle rappresentazioni fuorvianti e fittizie dell’eccezione diabolica (il nazionalsocialismo tedesco) e della illusione criminale (il comunismo storico novecentesco). Chi vuole impedire in futuro i massacri amministrativi deve imparare a conoscerne bene la dinamica, se non vuole che si ripetano. Chi vuole in futuro abbattere il capitalismo non deve ripercorrere vie fallimentari praticate in passato, credendo che la buona volontà soggettiva possa sostituire una evidente impotenza funzionale, e la fecondazione possa avvenire per misteriosa volontà dello spirito santo.
Ma non è questa la via seguita dall’attuale cultura dominante, il pensiero unico della sinistra moderata buonista mondiale. In questo momento esso tende piuttosto a chiedere perdono delle malefatte del colonialismo e del razzismo degli ultimi cento anni e più. Tutti chiedono perdono. Clinton chiede perdono, Blair chiede perdono, il papa polacco chiede perdono. Si chiede perdono ai neri, agli indiani, alle donne, agli omosessuali, a tutte le minoranze (e maggioranze) oppresse e colonizzate in passato. Forse che l’accumulazione capitalistica prende finalmente coscienza delle sue modalità barbariche di svolgimento, e questo chiedere perdono annuncia una seria inversione di tendenza, una autoriforma morale del sistema?
Ma neppure per sogno. Oggi il cosmopolitismo da manifesti alla Benetton richiede un mercato mondiale globalizzato ed integrato, in cui tutti siano potenziali acquirenti, ed in cui appunto le vecchie e fastidiose distinzioni di lingua, sesso, razza, colore della pelle, religione non possano più giocare un ruolo negativo per restringere o deformare ideologicamente la fluidità e la flessibilità di un mercato globale del lavoro e delle merci. Un’unica lingua (l’inglese), un unico sesso (l’unisex perverso-polimorfo annunciato dai concerti rock e dagli efebi adolescenti della nuova Hollywood), un’unica razza (umana, in cui il carattere più umano dell’umano è il potere d’acquisto), ed un’unica religione (un ecumenismo monoteistico new age, in cui la divinità non è più sovrana sulla natura e sull’economia, ma solo sulla psicologia e sulla richiesta di senso del mondo del consumatore stressato dall’eccessiva abbondanza di merci).
Dunque, i padroni del mondo chiedono perdono. Si ha così un fittizio superamento simbolico del vecchio colonialismo imperialistico. Inoltre, chiedere perdono non costa quasi niente, mentre un mutamento radicale delle ricette economiche e finanziarie del Fondo Monetario Internazionale costerebbe moltissimo. Con la sua introduzione massiccia di categorie (falsamente) morali ed anzi moralistiche nella storia reale il perdonismo contribuisce ad intorbidare la comprensione delle cause reali e profonde degli eventi.
Come già per i massacri amministrativi (che si stanno ripetendo) e per le impotenze funzionali (che alcuni sciagurati vorrebbero riproporre), anche la retorica perdonista sostituisce la comprensione delle ragioni della diseguaglianza fra gli individui, le classi, i popoli, le nazioni ed i continenti. Ed è appunto questa la ragione per cui possiamo aspettarci nel prossimo futuro un asfissiante e nauseante aumento della retorica perdonista. È probabile che, di fronte a tanta buona volontà e disponibilità a riconoscere le colpe, alle vittime venga un complesso di colpa se non si affrettano anche loro a perdonare i colpevoli per le ingiustizie ricevute (come già avviene oggi, in cui giornalisti ossessivi chiedono ai parenti delle vittime uccise dai sassi buttati per gioco dai cavalcavia se e quando perdoneranno gli assassini).

5. Il sionismo ed il segreto della sua scandalosa impunità internazionale.

Abbiamo visto come la retorica perdonista, sostituendo il moralismo ipocrita alla comprensione razionale del passato, è funzionale non solo alla formazione di un mercato mondiale omogeneo di consumatori multicolori e politically correct, ma anche ad una cultura superstiziosa in cui i miti storiografici dell’eccezione diabolica e dell’illusione criminale possono sostituire la decifrazione dei meccanismi dei massacri amministrativi (degli stati ideologici, come nel passato quello nazista ed oggi quello americano) e dell’impotenza funzionale a portare a termine una rivoluzione anticapitalistica (dei partiti e delle classi elette del marxismo novecentesco). Tuttavia, la retorica perdonista ha un’importante eccezione. Vi è oggi una forza storica che non chiede perdono per quello che ha fatto (l’espulsione di un popolo innocente dalla sua terra), che non ha nessuna intenzione di farlo neppure in futuro, che terrorizza i suoi vicini, che vìola le leggi internazionali e che gode di una scandalosa, e solo apparentemente incomprensibile, impunità internazionale.
Questa forza storica è ovviamente il sionismo israeliano. Qual è il segreto di questa impunità? Il tema è interessante. Recentemente, il leader laburista israeliano Ehud Barak ha sostenuto che se fosse nato palestinese avrebbe probabilmente fatto il terrorista. Apriti cielo! Nessuno gli ha contestato che la parola giusta per indicare un combattente non è “terrorista” ma è piuttosto “patriota”, e non corrisponde a decenza verbale definire un combattente sionista “patriota” e definire un combattente palestinese “terrorista”, perché si violano così tutte le regole divine ed umane dell’equità. No, l’orrore è nato dal semplice fatto che ha osato anche solo evocare un simile paragone. Ancora più recentemente, lo studioso conservatore italiano Sergio Romano, autore di una interessante Lettera ad un amico ebreo, ha sostenuto in un dibattito a Torino davanti ad una platea di normali benpensanti di sinistra politically correct e perciò filoisraeliani la seguente tesi, a nostro avviso assolutamente impeccabile: io posso permettermi di essere filoisraeliano, perché sono un uomo di destra sostenitore della politica di potenza, del fatto compiuto e dell’imperialismo, ma voi, anime belle di sinistra, perché consentite ad Israele quello che non consentireste in nessun altro caso?
Ed infatti capita proprio così. Come interpretare questa scandalosa impunità? È necessario provare a farlo, perché senza chiarirsi le idee sul sionismo, questo esempio purissimo di colonialismo imperialistico, è impossibile orientarsi culturalmente nella storia presente.
In prima istanza, è necessario considerare preliminarmente gli ebrei come un popolo ed una nazione come tutti gli altri. Questa è la mossa culturale preliminare, condizione necessaria (anche se non sufficiente) per non oscillare fra i due poli opposti (ma opposti in solidarietà antitetico-polare) dell’antisemitismo (paranoico) e del filosemitismo (schizofrenico). Se cominciamo a pensare che gli ebrei sono un popolo speciale, allora questa loro enigmatica ed oscura specialità porta gli imbecilli a pensare che siano un popolo eletto (da Dio, e perciò titolare di misteriosi privilegi speciali) o un popolo maledetto (perché ha crocifisso Gesù, o perché vuole conquistare il mondo, o perché è al centro di un complotto globale diretto da finanzieri egoisti e da rivoluzionari senza patria, eccetera).
L’imbecillità è sempre politicamente pericolosa. A ragione il grande socialista tedesco Bebel definì l’antisemitismo moderno un “socialismo degli imbecilli”. Mai definizione fu a mio avviso tanto azzeccata. Ma l’antisemitismo è qualcosa che precede la modernità capitalistica. L’antisemitismo è una vecchia ossessione del pensiero occidentale (cui è totalmente estraneo il pensiero arabo-islamico), ed è un’ossessione legata al mito della salvezza, ed al campo di amici e nemici che si fronteggiano nella grande lotta per la salvezza stessa. Il massacro amministrativo contro gli ebrei, portato a termine da Hitler e dal nazionalsocialismo, è il punto finale di questa paranoica ossessione tipica ed esclusiva del pensiero occidentale. Questo fa nascere un comprensibile complesso di colpa, anch’esso tipico ed esclusivo del pensiero occidentale. Nello stesso tempo il tradizionale messianesimo ebraico, materializzandosi nel piccolo stato espansionistico, militare ed ultracapitalistico di Israele, si incontra con la parallela ideologia messianica, puritana e veterotestamentaria del protestantesimo americano. Questo incontro è esplosivo, e permette il rovesciamento integrale dell’antisemitismo in filosemitismo. Ed ecco le stupidaggini sugli ebrei come “fratelli maggiori”, “popolo eletto”, portatori di una filosofia speciale, eccetera. Fra Atene e Gerusalemme si proclama la vittoria di Gerusalemme, ma non è la Gerusalemme simbolo della coesistenza pacifica fra diverse religioni, ma la Gerusalemme in cui zeloti armati di armi atomiche spaventano ed umiliano tutti i loro vicini.
L’odierno filosemitismo (schizofrenico) è dunque il semplice rovesciamento dialettico del precedente antisemitismo (paranoico). La stessa cultura disgraziata ed imbecille che mise le premesse del massacro amministrativo del nazionalsocialismo tedesco, punto culminante della lunga storia dell’antisemitismo paranoico occidentale, è oggi vittima di un comprensibile complesso di colpa, lo scarica sul mondo arabo (non solo islamico, ma anche cristiano) che è del tutto innocente di questa ossessione, e crede di espiare con un altrettanto grottesco filosemitismo, dietro cui ci stanno le ossessioni messianiche da fine della storia del protestantesimo fondamentalista americano, drogato di superstizione veterotestamentaria e perciò continuamente ricattabile da bande di zeloti armati.
Riportato alla normalità, il popolo e la nazione ebraica devono avere un posto sicuro nella fraternità solidale fra i popoli e le nazioni del mondo intero. Riportato alle frontiere del 1967, e dopo aver indennizzato e permesso il ritorno concordato dei palestinesi espulsi nel 1948-49, lo stato israeliano, che ormai esiste ed in cui si è formato un popolo nuovo, il “popolo israeliano”, garantito da credibili accordi internazionali e regionali, deve tornare ad essere quel “focolare nazionale” (national home), promesso dalla “dichiarazione Balfour” del 1917 (l’anno inquietante in cui secondo Nolte e Furet sorse l’illusione rivoluzionaria criminale del comunismo storico novecentesco), cosa ben diversa dallo stato espansionista attuale.
Mi rendo conto che oggi considerazioni come queste sono rare, perché vi è la paura di essere accusati di antisemitismo. Ma come già disse il poeta “non ti curar di lor, ma guarda e passa”! È vero che l’antisemitismo ed il filosemitismo non sono entità omogenee. L’antisemitismo è il prodotto di un’orribile paranoia storica e culturale, la quintessenza del rancore e del risentimento che ha già prodotto un gigantesco massacro amministrativo. Il filosemitismo ne è per ora soltanto un patetico ed innocuo rovesciamento, sintomo inquietante e fastidioso dell’incapacità strutturale della cultura occidentale a rinunciare alla pericolosa imbecillità dell’esistenza garantita da Dio di un “popolo eletto”, e perciò orwellianamente più “uguale di tutti gli altri”.
Il mondo del futuro, per avere un senso, dovrà essere un mondo di popoli e di nazioni eguali nel loro diritto alla differenza. Un simile mondo non può riconoscere “differenze speciali” garantite da un Dio a sua volta “più eguale di tutti gli altri”. L’intellettuale ebreo Spinoza, scacciato dalla sua comunità per la sua libertà di pensiero, avrebbe certamente capito questo semplice ed elementare concetto.

6. La globalizzazione ipercapitalistica attuale e la cosiddetta “fine della storia” in una dittatura incontrastata dell’economia.

Siamo ora giunti al quinto ed ultimo punto della prima parte di questo breve saggio di orientamento. Si tratta del punto più importante, perché condiziona direttamente l’orientamento politico ed ideologico di ognuno nella congiuntura storica attuale. Ripetiamo qui per comodità del lettore i quattro punti preliminari già trattati. Primo, il modo migliore per impedire il ripetersi di fenomeni storici come il nazionalsocialismo tedesco di Hitler sta nel non considerarlo un’inesplicabile irruzione del demoniaco e del male assoluto nella storia, ma nel valutarlo come il punto estremo di un pericolo sempre presente, la messa in atto pianificata di un’organizzazione ideologica e tecnologica di un massacro amministrativo. Secondo, il modo migliore di considerare globalmente il fenomeno del comunismo storico novecentesco sta nel ritenerlo non certo l’applicazione dell’utopia rivoluzionaria originaria di Marx, ma piuttosto la risposta nazionale e popolare, pienamente legittima, al massacro della prima guerra mondiale imperialistica del 1914; di conseguenza, il suo fallimento irreversibile e definitivo non deve essere visto come la smentita epocale di un’illusione criminale, ma la sanzione storica di una tragica impotenza funzionale, l’impotenza funzionale del suo organismo (la classe) e del suo organo (il partito) nel far nascere una società stabilmente anticapitalistica. Terzo, il pentitismo organizzato e la retorica perdonista di oggi, lungi dall’essere una presa d’atto della natura del colonialismo imperialistico, devono essere visti come una premessa ideologica per un nuovo mercato globalizzato ed indifferente a tutto ciò che non è un parametro economico di scambio. Quarto, la scandalosa impunità garantita al sionismo deve essere vista come una conseguenza politica di un fatto culturale presupposto, il passaggio della “falsa coscienza” occidentale da un precedente antisemitismo paranoico (il popolo deicida che complotta per dominare il mondo) ad un posteriore filosemitismo schizofrenico (il popolo speciale che ha subìto prove speciali per cui gli si devono garantire privilegi speciali). Mi dispiace ripeterlo, ma chi non passa attraverso la faticosa comprensione di questi quattro punti non può neppure arrivare alla comprensione del quinto, che ora affronteremo.
La globalizzazione ipercapitalistica attuale ha bisogno di una religione di massa, e questa religione di massa è l’onnipotenza dell’economia. I nuovi idoli sono gli indici di borsa. La divinità, un tempo esteriore al mondo sociale e politico, è oggi ormai interna ad esso e si esteriorizza nello spettacolo permanente dei media. Le nuove cerimonie religiose sono officiate da mezzibusti televisivi sorridenti che si consultano con economisti che ripetono solenni parole in inglese roteando una pipa spenta. L’ideologia di questa nuova società è quella della fine della storia. E appunto qui cominciano le difficoltà. Molti pensano che la “fine della storia” sia semplicemente una pensata superficiale coniata in fretta e furia (in tempo reale) da uno sfrontato californiano dagli occhi a mandorla, un certo Francis Fukuyama, saccheggiatore di Hegel e di Kojève. Insomma, una vera e propria americanata, un’ideuzza destinata ad essere presto dimenticata e sostituita da analisi ben più serie e complesse. Ebbene, chi pensa questo è in errore, e non coglie il centro della questione. Ed il centro della questione sta in ciò, che la fine della storia non è affatto un’opinione filosofica o storiografica, ma è un programma politico globale attivamente voluto e perseguito dalle oligarchie finanziarie transnazionali per ora internazionalmente coordinate dalla superpotenza americana. Questo programma politico globale, che è appunto un programma e non un’opinione, deve essere appunto connotato esattamente per quello che è: un programma politico globale coscientemente perseguito da una nuova feroce classe sfruttatrice, e non un’opinione filosofica frettolosa e semplificata.
Se si capisce questo si parte con il piede giusto. E partendo con il piede giusto molti apparenti enigmi trovano in via di principio una via per la loro soluzione. Segnaliamone qui brevemente alcuni, sottolineando che il discorso che faremo a partire dal prossimo paragrafo sull’Italia e la nazione italiana non sarebbe comprensibile al di fuori di queste rapide considerazioni preliminari.
In primo luogo, è bene ricordare che la stessa parola globalizzazione, che pure usiamo continuamente in modo poco sorvegliato, è impropria ed inesatta. Essa è infatti la parola scelta dall’ideologia economica dominante, che non è per nulla neutrale. Il termine corretto sarebbe forse nuova mondializzazione imperialistica, per i seguenti ordini di ragioni. Primo, la teoria dell’imperialismo di inizio secolo (e di Lenin in particolare) ci sembra tuttora valida, in particolare se accettiamo la (plausibile) proposta teorica di Gianfranco La Grassa sulla “ricorsività” capitalistica della fase attuale, che appare tendenzialmente neo-imperialistica, in particolare per l’emergere dei tre poli USA, Europa e Giappone. Secondo, vi è comunque una situazione nuova, una vera e propria singolarità non ricorsiva, legata alla superpotenza americana ed al suo virtuale monopolio in due settori strategici, quello militare e quello culturale. La mondializzazione è dunque nuova, e però anche imperialistica (e quindi ricorsiva). Nella situazione attuale, è prematuro parlare di paesi subalterni come l’Italia come di veri e propri centri imperialistici (e pertanto ci sembra corretta la posizione di Francesco Labonia, in Indipendenza, n. 3, pp.3-4). È possibile che questo avvenga per una futura Europa franco-tedesco-russa, ma per il momento questa è pura fantapolitica, e non riguarda la situazione presente. La categoria di nuova mondializzazione imperialistica indica pertanto un processo contraddittorio in corso, e non una situazione già consolidata. La categoria di globalizzazione è invece impropria e fuorviante, perché indica una inesistente nuova utopia del libero scambio, resa veloce da Internet e dalle borse mondiali, che non corrisponde alla realtà, il presente dominio imperialistico americano con le sue due gambe militare e culturale. Quindi nuova mondializzazione imperialistica è meglio di globalizzazione.
In secondo luogo, è bene ricordare che questa nuova mondializzazione imperialistica comporta un indicibile svuotamento della politica, che rende obsoleta l’intera teoria liberaldemocratica classica, ridotta ormai a connotare veri e propri effetti di superficie non più espressivi dei movimenti storici strutturali. Il ceto politico professionale, tenuto sotto ricatto permanente da magistrati e giornalisti reclutati al di fuori di qualunque rappresentatività in nome di ideologie giuridiche e mediatiche falsamente oggettive, non rappresenta più interessi sociali coerenti, ma media fra lobby neocorporative. Non viviamo dunque in una democrazia, e neppure in una liberaldemocrazia (su questo punto il mio dissenso con Norberto Bobbio è esplicito e totale), ma in una nuova oligarchia plebiscitaria, che la teoria politica liberaldemocratica classica non riesce a concettualizzare neppure in modo approssimato. Lo stesso termine di “poliarchia” (alla Robert Dahl) è fuorviante, perché suggerisce un inesistente pluralismo effettivo di centri di potere diversi. No, siamo proprio purtroppo dentro una nuova oligarchia plebiscitaria, con leader politici fortemente mediatizzati il cui carisma non ha però più nulla a che vedere con quello studiato da Max Weber, in quanto si tratta di un carisma artificialmente prodotto, manipolato e montato da specialisti dei media (il nuovo clero della nuova società stratificata nella sua fase post-borghese e post-proletaria). Non è neppure esatto dire che siamo in una società della libertà (individualistica) dei moderni e non degli antichi, come sostenne all’inizio dell’Ottocento il teorico liberale Benjamin Constant, perché Constant parlava di un “privato” borghese, e non di un “privato” interamente colonizzato dalla pubblicità e dalla manipolazione mediatica della vita quotidiana.
In terzo luogo, per finire, occorre sottolineare la crucialità assoluta della questione culturale. Il soffocante economicismo e politicismo, quotidianamente alimentato dal ceto dei giornalisti e dei commentatori superpagati, non permette di comprendere questa crucialità, e di come per esempio la “riforma scolastica” dell’Ulivo sia cento volte più importante di qualunque ingegneria istituzionale da Bicamerale (chi vuole capire questo può iniziare dal libretto di Lucio Russo, Segmenti e Bastoncini, Feltrinelli, Milano 1998), se si vuole capire la devastante dinamica dell’americanizzazione culturale. La distruzione della peculiarità di un sistema scolastico è infatti un tassello della distruzione di qualunque residua identità nazionale. È un profondo, terribile errore pensare che si tratti di un problema specialistico, da affidare a pedagogisti professionisti.
Abbiamo trattato la questione culturale in un precedente saggio per Indipendenza, e non ci torniamo sopra per esclusive ragioni di spazio. Ma ripetiamo che sta qui il punto cruciale della questione in questo momento storico. Ed è allora giunto il momento di discutere il tema dell’identità storica della nazione italiana, in un’ottica nazionalitaria estranea ad ogni nazionalismo. Si tratta di note preliminari ad un discorso ancora da fare, che potrà essere fatto solo con una futura polifonia di voci. Qui vogliamo soltanto cominciare, e stimolare opinioni e prese di posizione.

7. L’enigma della storia italiana moderna.

La storia italiana moderna presenta un enigma, anzi un paradosso, che cercheremo di formulare nel modo più semplice possibile. Da un lato, gli aspetti fondamentali del suo svolgimento sono conosciuti da milioni di persone, sono contenuti in tutti i manuali di storia delle scuole medie, e sono pertanto noti a qualsiasi liceale intelligente. Dall’altro, le conseguenze teoriche e culturali di questi aspetti storici fondamentali sfuggono persino ad intellettuali sofisticati ed a storici di professione, ed allora bisogna chiedersi il perché di questo enigma e di questo paradosso, ed è appunto ciò che faremo in questo paragrafo.
Vediamo il primo punto. È noto che la storia italiana tardomedioevale e della prima età moderna è caratterizzata dalla mancanza della formazione di uno stato nazionale unificato, che a quei tempi (si vedano le esperienze di Inghilterra, Francia, Spagna, ecc.) non avrebbe potuto essere portato a termine da nessuna protoborghesia commerciale e manifatturiera, ma esclusivamente da una nobiltà feudale unificata da una dinastia anch’essa sostanzialmente feudale. È altresì noto che questo processo di unificazione non avvenne, nonostante alcuni tentativi presto abortiti (Federico II di Svevia, ecc.), per la presenza convergente di una forza universalistica (la Chiesa di Roma) e di robuste forze particolaristiche (i comuni, e poi le signorie, i principati e gli stati regionali). Questa convergenza di una forza universalistica e di forze particolaristiche è appunto la caratteristica principale della storia italiana, come tutti gli studenti italiani (svogliati o volonterosi) sanno molto bene. L’unità politica della nazione italiana prima del 1861 non c’è dunque mai stata. Al suo posto, vi sono state robustissime identità politiche cittadine e regionali, che hanno profondamente condizionato tutte le forme di vita materiale degli italiani (e delle altre nazioni -dai friulani ai sardi- ad essi mescolate).
Bene, questo è noto a tutti. E la conseguenza qual è? La conseguenza è che allora l’elemento unificatore della nazione italiana è stato per secoli fondamentalmente la lingua e la cultura, due termini spesso uniti in uno solo. La lingua e la cultura hanno connotato l’identità storica degli italiani ben prima che ci fosse un’unità politica, e per di più un’unità politica sciaguratamente non federalistica e democratica come quella realizzatasi nel 1861.
Si dirà che anche questo è noto. Ebbene, è proprio questo il problema, visto che questo carattere identitario della nazione italiana nella lingua e nella cultura, anche ammesso che sia noto (come direbbe Hegel) non per questo è conosciuto. Se fosse conosciuto le classi dominanti italiane ed i loro intellettuali servili e presuntuosi si comporterebbero come in Francia, in cui si ha generalmente coscienza dell’importanza della lingua e della cultura nella formazione e nel mantenimento dell’identità nazionale. Ma così non avviene. Nessuno sembra avvertire il problema della tutela della lingua italiana straziata dai mezzibusti televisivi ignoranti e politicamente raccomandati che non sanno neppure più usare i congiuntivi. Nessuno sembra avvertire che vi è un problema di sviluppo della cultura italiana in un contesto di americanizzazione culturale crescente (e l’americanizzazione è il solo minimo comun denominatore culturale dell’Ulivo, del Polo e della Lega, di *Veltroni, di Berlusconi e di Bossi). Anzi, il fatto che la concezione acriticamente positiva dell’americanizzazione sia il solo perverso elemento comune degli sciagurati intellettuali organici dell’Ulivo, del Polo e della Lega viene visto come un’ovvietà della cosiddetta modernizzazione, non un vero e proprio enigma da svelare. Ci si libera facilmente da questo problema riducendolo a folklore provincialistico, laddove il provincialismo consiste proprio nella patetica e scimmiesca imitazione dei modelli di comportamento della capitale, in questo caso della capitale imperiale americana.
Per usare il linguaggio di *Gramsci (un autore con cui non siamo quasi mai d’accordo, ma in questo caso sì) sono gli intellettuali oggi il punto debole, il ventre molle, il frutto marcio della nazione italiana. È inutile dare la colpa ai cafoni arricchiti con il loro telefonino sguaiato, o alle casalinghe berlusconiane affascinate dal gratta e vinci o dai giochi a premio. Non è lì il problema. Il problema sta oggi soprattutto nei gruppi intellettuali americanizzati e privi di qualunque dignità culturale e sociale. È questo oggi il nostro principale problema storico, non quello degli squatter, degli industrialotti veneti secessionisti, eccetera eccetera. Nei prossimi paragrafi cercheremo di capire come si è potuto arrivare a questo punto, e soprattutto dove è possibile lavorare per propiziare un’improbabile, ma non impossibile, inversione di tendenza storica. Non bisogna avere paura di andare contro corrente, se si hanno chiari gli obiettivi culturali e sociali verso cui ci si dirige.

8. La leggenda infondata di un Risorgimento senza eroi.

Il risorgimento (1815-1861) è stato un grande periodo storico, eroico e legittimo, della nazione italiana. Questa è la premessa da cui partire. Certo, non bisogna dimenticare il precedente eroico periodo del giacobinismo patriottico italiano (1796-1799), da non identificare assolutamente con l'”occupazione napoleonica” in quanto il giacobinismo italiano è uno stupendo esempio per verificare la felice convergenza nell’idea di patria della rivendicazione di un’unità nazionale basata sulla lingua e sulla cultura e di una democratizzazione radicale della società basata sulle due idee regolatrici di libertà e di eguaglianza. Lo stesso risorgimento italiano posteriore ha avuto moltissimi eroi, di cui ne ricordiamo qui soltanto due, uno meridionale ed uno settentrionale: il meridionale Carlo Pisacane, uomo d’azione (e morto in combattimento come il Che Guevara) e sostenitore di una rivoluzione democratica, ed il settentrionale Carlo Cattaneo, intellettuale di primordine e sostenitore di un intelligente federalismo italiano, democratico e repubblicano. Taciamo su altre splendide figure di patrioti, ben note a chiunque conosca la storia e non si limiti al dialetto sinistrese imperante negli ultimi decenni. Come è possibile, allora, che abbia potuto diffondersi tanto, in particolare fra gli intellettuali, l’infondata leggenda di un “risorgimento senza eroi”, da dimenticare più che da rivendicare?

Vi sono per questo molte ragioni. In primo luogo, la cultura cattolica e clericale (da non confondere con la religione cristiana), che ha sempre denigrato il risorgimento per il semplice fatto che esso è stato fatto senza e contro di lei. In secondo luogo, la cultura monarchica e sabauda, che ha arrogantemente identificato il risorgimento con la sua diplomazia espansionistica piemontese e con le sue scelte politiche ed amministrative.

In terzo luogo, la cultura laica e massonica, che ha rivendicato a sé il monopolio culturale del risorgimento identificandolo con il proprio profilo ideologico e sociale, particolarmente odioso e ripugnante. In quarto luogo, infine, la cultura socialista e poi comunista italiana, che ha sempre e solo visto contadini, braccianti, operai ed artigiani dove c’erano anche degli italiani. Questa quarta componente deve essere considerata con particolare attenzione, perché le ragioni che la hanno portata a questa soluzione sono state nobili e giustificate, e non devono pertanto essere poste sullo stesso piano delle tre componenti precedenti. Chi scrive si è formato culturalmente dentro l’utopia cosmopolitica e classista dell’emancipazione universale ed internazionale del proletariato, non la rinnega affatto e la rivendica integralmente come matrice passata e prospettiva futura della propria biografia culturale cosciente. Detto altrimenti, chi scrive non è affatto un pentito filosofico e culturale, al contrario. Anzi, è proprio per questa ragione che occorre prendere le distanze recisamente non certo dal nocciolo universalistico ed emancipativo dell’utopia rivoluzionaria di Marx (di cui sono comunque da ridefinire integralmente le basi ideologiche, filosofiche e scientifiche), ma dalla tradizione di stupida negazione dell’identità storica e culturale nazionale, una tradizione parassitaria frutto di un economicismo e di un politicismo esasperati. Questa tradizione, lo si noti bene, sta alla base del presente riciclaggio delle burocrazie amministrative del comunismo italiano in personale politico di gestione dell’attuale americanizzazione culturale. Questi sciagurati sono il vettore ideale dell’attuale processo di americanizzazione culturale, e di conseguente cancellazione dell’identità culturale nazionale, proprio perché provengono da una tradizione di precedente (anche se apparentemente ideologicamente invertita) negazione, implicita o esplicita, dell’identità culturale nazionale (e la figura tragicomica del ministro pidiessino Berlinguer deve essere messa al centro dell’attenzione). È questo il punto principale da capire, ed è questo il punto che la stragrande maggioranza degli intellettuali italiani (indifferentemente ulivisti, polisti e leghisti) non capisce, per il semplice fatto che essi si ritengono la soluzione del problema, laddove invece purtroppo essi sono l’aspetto principale del problema.
Vi sono ancora due questioni, delicate ed importanti, sui cui vorrei richiamare l’attenzione. La prima è la questione, postasi proprio a metà Ottocento, dei cosiddetti popoli senza storia. Si tratta di una formulazione errata ed infelice, sfortunatamente adottata anche da pensatori geniali come Engels, l’amico e collaboratore di Marx. Con questa linea di ragionamento si finirà col dire che gli italiani hanno storia mentre i friulani ed i sardi no, che i turchi hanno storia mentre i curdi no, che gli spagnoli hanno storia mentre i baschi no, che gli svedesi hanno storia mentre i lapponi no, che i francesi hanno storia mentre i còrsi ed i bretoni no, eccetera. In realtà la storia ha anche uno statuto nazionalitario, non solo nazionale in senso stretto, nel senso che l’unificazione linguistica, lo sviluppo di una grande letteratura scritta, e la costituzione in stato non possono e non debbono essere postulati come una sorta di premessa per una inesistente “etnogenesi legittima”. La categoria di “popoli senza storia” deve essere rifiutata come categoria sciovinistica e pseudo-scientifica. Inglesi ed aborigeni australiani sono entrambi popoli a pari dignità storica, anche se ovviamente nessuno nega che i primi hanno influenzato in modo incomparabilmente maggiore la storia mondiale.
La seconda questione sta nel fatto che l’ammissione della pari dignità nazionale di tutti i popoli del mondo non implica necessariamente la loro statalizzazione separata, quando questa comportasse inevitabilmente spartizioni, annessioni, secessioni, trasferimenti etnici forzati, ecc. In questo caso, bisogna dire che l’esistenza di stati democratici, federali o confederali, di tipo multinazionale, era e resta la soluzione migliore, contro ogni deportazione amministrativa ed unificazione linguistica e culturale forzata. Ad esempio, lo spezzettamento, la balcanizzazione e la libanizzazione del grande impero multinazionale ottomano furono soluzioni peggiori di una sua (possibile) democratizzazione multinazionale (e si vedano su questo gli studi in lingua francese dello studioso libanese Georges Corm, che illuminano bene anche le questioni palestinese ed israeliana).

9. Il fascismo italiano fra rimozione culturale e politicizzazione storiografica.

Il fenomeno fascista fa parte integrante della storia politica della nazione italiana. Questa affermazione può sembrare un’ovvietà, e non lo è soltanto per l’indebita politicizzazione ideologica subita dalla nostra storia per ragioni di legittimazione partitica, volta a volta di destra, di centro o di sinistra. Ai due estremi di questo stravolgimento ci stanno due posizioni apparentemente opposte e segretamente convergenti. Da un lato, la posizione di origine gobettiana ed azionista, per cui il fascismo sarebbe la triste e rivelatrice “autobiografia della nazione italiana”, la manifestazione di un “popolo delle scimmie” rimasto sempre eguale dai Borboni a Berlusconi, nonostante l’impotente “testimonianza morale” di altissime minoranze intellettuali segretamente protestanti ed eternamente incomprese. Dall’altro, la posizione di origine crociana e ciellenistica, per cui il fascismo sarebbe una “parentesi antinazionale”, da cancellare come un vergognoso corpo estraneo e collaborazionista dalla storia sana di una nazione dotata di una bandiera che ha soltanto tre esclusivi colori ideologici legittimi (laico, cattolico e socialista-comunista).

Queste posizioni sono oggi, è vero, pura archeologia ideologica dotate di interesse puramente storico-archivistico. Esse però hanno costituito l’ideologia storiografica ufficiale della Prima Repubblica italiana (approssimativamente 1946-1994), e sono ancora fortemente presenti nel profilo ideologico dell’intellettuale ulivista medio (assolutamente maggioritario oggi in Italia). Si tratta di posizioni prive di qualsiasi serio fondamento. Da De Felice a Pavone, storici di ogni orientamento hanno accertato senza ombra di dubbio che il fascismo godé a suo tempo di un vasto consenso, non solo organizzato ma anche diffuso, e che fra il 1943 ed il 1945 ci fu in Italia una vera e propria guerra civile, incrociata con elementi di guerra di liberazione e di guerra di classe, ampiamente documentate dalla storiografia, dalla letteratura e dalla memorialistica.
Queste affermazioni sono spesso scambiate per una sorta di filofascismo storiografico e culturale. Ma non è affatto così, ed è anzi esattamente il contrario, o meglio è la premessa per giungere a motivate conclusioni assolutamente opposte al filofascismo, conclamato o reticente che sia. Il solo antifascismo razionale e durevole, infatti, è quello che si fonda su considerazioni veritiere, e non su miti storiografici insostenibili. In rapporto alla questione nazionale, il regime fascista è stato a suo tempo colpevole di almeno tre crimini atroci ed inescusabili, che è bene ricordare ancora una volta, perché è diffuso il pregiudizio secondo cui il fascismo avrebbe avuto lati negativi sul piano politico, culturale e sociale, mentre almeno sul piano nazionale avrebbe avuto una posizione corretta. Ma non è così, ed è anzi il contrario. È proprio la questione nazionale il punto peggiore del fascismo. Il primo crimine è consistito nella politicizzazione partitica dell’identità nazionale (che il liberalismo prefascista -sia detto a suo merito- non aveva effettuata), per cui fascista era fatto sinonimo di italiano ed antifascista di anti-italiano. Le conseguenze orribili di questa mostruosità si sono poi rovesciate nell’ideologia ciellenistica posteriore al 1945, ed hanno contribuito alla diffamazione dell’idea di nazione così associata ad una partitizzazione ideologica di parte (non importa se di destra o di sinistra). Il secondo crimine è consistito nell’associazione dell’idea della nazione italiana con un programma espansionistico, colonizzatore e razzista di tipo imperialistico, che ha visto nell’aggressione all’Etiopia del 1935-36 il suo punto più abbietto (condiviso, sostenuto ed appoggiato dall’antifascista liberale Benedetto Croce, in questo buon allievo di Antonio Labriola, che aveva già visto di buon occhio la politica coloniale italiana), destinato ad essere proseguito con le aggressioni all’Albania, alla Grecia, alla Jugoslavia ed alla Russia a partire dal 1939. Il terzo crimine, meno appariscente ma rivelatore, è consistito nell’oppressione e nel tentativo di cancellazione e di snazionalizzazione delle minoranze nazionali di lingua tedesca (dell’Alto Adige), slava (dell’Istria) e greca (del Dodecanneso). Parlando di crimini, e non di semplici errori, abbiamo inteso sottolineare tre questioni fondamentali, che impediscono a mio avviso la messa in atto di una riabilitazione storica del fascismo. Parlare di “consenso” in termini puramente numerici è del tutto fuorviante e diseducativo.

Un popolo che consente ad un crimine imperialistico, così come ad un massacro amministrativo, cessa di essere un popolo (anche se continua ad essere nazione, visto che l’etnogenesi non è un processo elettorale). Cessa di essere un popolo, e diventa una plebe ignorante, immorale e fanatizzata. Anche ammesso che il 90% degli italiani abbia consentito all’aggressione razzista all’Etiopia o il 90% dei tedeschi abbia consentito al massacro amministrativo antisemita di Hitler (e questo non è vero), ebbene questo presunto consenso non legittima proprio nulla, ed è anzi un fattore aggiuntivo per una condanna politica e morale inesorabile. Lo stesso discorso, ovviamente, vale per il consenso eventuale di una maggioranza di israeliani per la deportazione del popolo palestinese, per il consenso eventuale di una maggioranza di turchi per una guerra di sterminio verso il popolo curdo, o per il consenso eventuale di una maggioranza di americani per l’embargo assassino verso il popolo iracheno, eccetera. Soltanto intellettuali rincoglioniti dall’economicismo o dai sondaggi di opinione possono non capire queste ovvietà comprensibili a chiunque abbia qualche nozione di diritto naturale, laico o religioso che sia.
Nei confronti della questione nazionale il fascismo è dunque colpevole. Anche i massacri etnici avvenuti in Venezia Giulia fra il 1943 ed il 1945 non devono essere iscritti in un “libro nero del comunismo”, ma devono essere collocati in una tragedia il cui primo atto è stato scritto dalla dissennata politica antislava del fascismo italiano. Per capire questo non c’è bisogno di nessuna leggenda sulla “autobiografia della nazione” o sulla “parentesi antinazionale”. Che le sciocchezze seppelliscano le sciocchezze!!!

10. Il triangolo storico della Prima Repubblica: il nazionalismo nostalgico di destra, l’ecumenismo democristiano e lo storicismo cosmopolitico togliattiano.

La prima repubblica (1946-primi anni Novanta) è stata l’incubatrice storica di processi di dissoluzione potenziale dell’identità nazionale italiana, e pertanto dell’indipendenza reale del nostro popolo. Facciamo questa affermazione gravissima in modo consapevole, senza alcun compiacimento, ed anzi con molta preoccupazione. Per comprendere bene la severità di questa affermazione bisogna ovviamente ricordare quanto già affermato nel paragrafo precedente, per cui l’ideologia antifascista del CLN (il ciellenismo) non fece che rovesciare la politicizzazione indebita attuata precedentemente dal fascismo, identificando l’identità nazionale con una (sia pure legittima) posizione politico-ideologica. Chi afferma oggi (ed alcuni coglioni lo fanno) che la nazione italiana morì nel 1943, come se prima il fascismo l’avesse lasciata vivere onestamente, dimostra soltanto la sua malafede ed il uso inguaribile settarismo politico. Ma questo richiamo non basta. È infatti necessario analizzare i tre lati del triangolo ideologico della prima repubblica, la destra, il centro e la sinistra.
Iniziamo dalla destra. Nella prima repubblica italiana ci sono state a mio avviso schematicamente due destre, contigue ed intercomunicanti. Una prima destra governativa, costituita da democristiani, liberali e socialdemocratici, ed una destra contigua, costituita essenzialmente da aderenti e simpatizzanti del Movimento Sociale Italiano. Il punto di collusione e di incontro di queste due componenti è stato per decenni il vasto ed articolato apparato della burocrazia ministeriale, delle forze armate, degli apparati di polizia e dei servizi segreti, eccetera. Questo fatto è difficilmente negabile, ed in alcuni casi (e si pensi alla posizione di Francesco Cossiga sulla cosiddetta Gladio) è addirittura apertamente rivendicato, nei termini alla Nolte della “guerra civile mondiale” 1945-1991. Per entrambe queste destre (che marciavano sempre separate e colpivano spesso unite) il fondamento dell’identità nazionale era l’anticomunismo. È questo appunto un fondamento perverso, per il semplice fatto che un’identità nazionale (in particolare come quella italiana, in cui la lingua e la cultura sono i due elementi essenziali) non può mai fondarsi su di una opzione politica, fascista o antifascista, comunista o anticomunista, ecc. Non si vuole qui negare la legittimità storica novecentesca dell’anticomunismo, evidente non appena si ammetta (e si veda il 3° §) la piena legittimità storica novecentesca del comunismo, contro ogni mitologia della presunta illusione criminale. Vi sono poi svariate forme di anticomunismo, tutte interessanti, dal fervore del credente all’egoismo del ricco, dal rancore deluso dell’ex militante disincantato all’irriducibile individualismo del non-conformista, eccetera. Non vi è qui lo spazio per analizzare questa pittoresca e variopinta fenomenologia psicologica e sociale. Qui basti riaffermare che l’identità nazionale italiana non si può fondare sull’anticomunismo, che la subalternità servile alla NATO non può certo essere più nazionale della simpatia politica per il cosiddetto campo socialista, e che ancora una volta l’identificazione di un principio comunitario (in questo caso nazionalitario) con una posizione politica è sempre l’anticamera di una potenziale tragedia storica.
E passiamo ora al centro. Nella prima repubblica italiana esso è stato sempre quasi completamente occupato dalla balena democristiana. È tuttora difficilissima una valutazione storiografica sobria ed equilibrata di questa balena democristiana, perché essa ha dominato per quasi mezzo secolo un sistema politico bloccato, ed in essa si sono riversati tutti i difetti e tutte le qualità del nostro popolo. A mio avviso l’aspetto storico principale di questa balena sta in un tragicomico paradosso, cioè il fatto che questo mastodonte cattolico-clericale ha politicamente gestito la progressiva scristianizzazione del popolo italiano, largamente coincidente con la modernizzazione capitalistica. L’idea di opporsi a questa modernizzazione restando democristiani ed anzi radicalizzando il clericalismo (evidente in pensatori cattolici di buon livello come Augusto del Noce) è per chi scrive un’idea parallela (nella sua patetica e tragicomica ineffettualità) a quella di chi intendeva opporsi alla degenerazione degli stati e dei partiti comunisti restando comunisti ed anzi radicalizzando il proprio marxismo ed il proprio leninismo (evidente nel gruppo intellettuale generazionale in cui si è formato lo scrivente di queste righe). Ma di questo interessante parallelismo storico non possiamo purtroppo parlare adesso. È invece importante ripetere che la balena clericale di centro, erede dell’ostilità storica dei clericali allo stato nazionale italiano (ed in questo positivamente aperta a valorizzare aspetti culturali locali e regionali), era geneticamente predisposta ad aprire incondizionatamente verso due centri politico-culturali non nazionali, la NATO americana e l’Europa carolingia soprattutto tedesca. Nel sorriso di Prodi, democristiano genetico totale, vi sono tuttora l’incondizionato servilismo verso la NATO americana (fino ad avallare tutti i possibili bombardamenti contro l’Irak presenti o futuri) ed il prono consenso al monetarismo dell’Europa carolingia di Maastricht ed ai suoi cosiddetti parametri economici oggettivi. Questo doppio servilismo, genetico nella balena clericale della prima repubblica, si è robustamente travasato nell’Ulivo. Potenza della scienza degli innesti!
Passiamo ora alla sinistra. Qui la lingua batte, perché il dente duole. In estrema approssimazione, la sinistra (e quella italiana in particolare) è caratterizzata dalla confusione permanente fra popolo e nazione, il che comporta uno stato culturale confusionale permanente fra il principio populista ed il principio nazionalitario. Cerchiamo di spiegarci meglio. Naturalmente, non intendo qui passare sotto silenzio i grandi meriti, anche culturali, della sinistra, nel promuovere posizioni antifasciste, anticolonialiste ed anti-imperialiste (dalla Corea al Vietnam, dall’Algeria a Cuba, dalla decolonizzazione africana a quella asiatica -fa eccezione purtroppo la colpevole disattenzione verso il sionismo). Queste posizioni devono essere tutte rivendicate. Ma la sinistra ha talvolta (non sempre) un concetto di popolo (nel doppio significato di comunità politica democratica e di strati sociali a basso reddito economico), ma non ha (quasi) mai un concetto di nazione, nel significato di comunità nazionalitaria sviluppatasi progressivamente in una etnogenesi linguistica e culturale. Alla base di questa confusione ci sta purtroppo una concezione strumentale e riduttiva della cultura, per cui la cultura è solo e sempre quello che serve, direttamente o indirettamente, all’ideologia politica di legittimazione di partito. Ed allora le conseguenze sono gravi, ed anzi incalcolabili. Facciamo qui soltanto (fra i molti possibili) l’esempio del cosiddetto nazionalpopolare. Qui l’elemento culturale dell’identità nazionale è ridotto a ciò che può essere diretto al popolo inteso non come comunità politica democratica (è questa la mia concezione teorica e pratica di popolo, per cui vorrei che il popolo italiano fosse una comunità politica democratica, e non una massa di manovra di una nuova oligarchia plebiscitaria agli ordini dell’impero americano), ma come strati sociali poveri, preferibilmente analfabeti. Questo populismo è potenzialmente devastante. A suo tempo, prima di sprofondare nell’analfabetismo di ritorno del baronato universitario, Alberto Asor Rosa scrisse in proposito pagine molto convincenti, nel libro Scrittori e Popolo. La dinamica del populismo culturale, frutto del complesso di colpa regressivo di piccoli e grandi borghesi angosciati dal non avere le mani abbastanza callose, ed adoratori dei plebei più plebei possibili (qui il caso Sofri, o meglio il caso Marino, offrirebbe ad un nuovo Balzac un tema romanzesco incomparabile), inizia dal rammarico del non avere mai avuto un Victor Hugo italiano, e finisce necessariamente in Canzonissima, Pippo Baudo e Raffaella Carrà, mano a mano che la cultura popolare viene assorbita nella cultura di massa capitalistica. Certo, non è colpa di Gramsci se ci è stato questo passaggio dialettico da Pasolini a Veltroni. Ma chi non capisce questo è condannato a non capire la dinamica della metamorfosi del nazionalpopolare in show-business, e del perché della trasformazione alla Stephen King del popolano lettore di romanzoni strappalacrime in casalinga berlusconiana lacrimante davanti a telenovelas intervallate da accattivanti spot pubblicitari.

11. Il caso Violante. La seconda repubblica ed il delirio dell’amministrazione statale della memoria storica nazionale.

Il passaggio alla Seconda Repubblica in Italia ha ragioni sia esogene che endogene. Le principali ragioni esogene sono due, la necessità di entrare in Europa adeguando le strutture politiche italiane al nuovo capitalismo finanziario flessibile della terza rivoluzione industriale ed il crollo del sistema geopolitico degli stati del defunto comunismo storico novecentesco. La principale ragione endogena è la necessità di smantellare i costi di un sistema politico eccessivamente rappresentativo di interessi sociali organizzati, e pertanto poco flessibile e poco decisionista. Le tappe di questo passaggio sono state fondamentalmente tre. Primo, la cerimonia tribale collettiva di espiazione, attuata con particolare isterismo, in cui sono stati individuati e poi sacrificati due capri espiatori della dinastia precedente, il cinghialone corrotto Bettino Craxi ed il gobbo mafioso Giulio Andreotti, in cui la plebe confermava con ululati i rauchi appelli di un gruppo sciamanico scelto, costituito da giudici e da giornalisti. Secondo, la messianica instaurazione di una nuova legge elettorale maggioritaria, ritenuta magicamente in grado di allontanare in futuro il malocchio, cioè i rischi di corruzione del sistema politico (superstizione di fronte alla quale la credenza comanche del totem del caribù appare una forma raffinata di razionalismo scientifico). Terzo, l’investitura plebiscitaria di un ceto politico separato, specializzato e professionalizzato (il ceto politico cattocomunista, esperto in gestione del potere di mediazione sociale), ritenuto (correttamente) più affidabile dell’eterogenea accozzaglia berlusconiana. È bene ricordare ancora una volta che le oligarchie capitalistiche non si rappresentano mai direttamente nel sistema politico e culturale, ma ricorrono a gruppi specializzati di politici e di intellettuali del consenso.
Vi è allora una quarta dimensione da sottolineare, quella della rioccupazione simbolica dell’interpretazione del passato, cioè della memoria storica, ed è allora normale che anche in questo caso vengano scelti soprattutto giudici e giornalisti. È infatti necessario smantellare gran parte della legittimazione storiografica della prima repubblica, gestire una riconciliazione nazionale controllata dall’alto, riscrivere il passato per dominare meglio il futuro. Se il filosofo ufficiale della seconda repubblica sarà Norberto Bobbio, lo storico ufficiale sarà il magistrato e professore universitario Luciano Violante, quintessenza della visione del mondo del pidiessino culturale. La seconda repubblica non ha infatti più nemici a sinistra come i comunisti e nemici a destra come i fascisti. La modernità inquietante dei comunisti del PCI e dei fascisti del MSI si è dialetticamente evoluta nella post-modernità rassicurante del PDS e di AN. L’unico vero nuovo nemico è l’emergenza economica (un nemico depoliticizzato ed interamente tecnicizzato), con in più qualche nuovo spauracchio, come il secessionismo di Bossi e la criminalità organizzata. Bisogna dunque annunciare che “la guerra è finita” e riconciliare i reduci. In proposito, non ha senso attardarsi a discutere sul vero o sul falso. Come nel caso della Sindone di Torino, il radiocarbonio viene convocato dopo, non prima delle scelte di utilità e di convenienza performativa (si veda in proposito la brillante analisi di Lyotard) del potere. Violante è in proposito un vero battistrada dell’amministrazione statale della memoria storica nazionale, e mi stupisco che continui ad essere accusato di ambizione personale neopresidenziale anziché onorato come nuovo Tucidide della seconda repubblica. Ogni sistema politico ha infatti i tucididi che si merita.
In primo luogo, la lunga guerra simbolica, artificialmente protratta per mezzo secolo per le esigenze di legittimazione costituzionale del PCI, fra “ragazzi di Salò” e “ragazzi partigiani”, può finalmente essere chiusa. La categoria bambinesco-veltroniana del ragazzo è in proposito particolarmente opportuna, perché il ragazzo è il luogo dell’inesperienza giovanile moralmente sincera (i ragazzi del ’68, i ragazzi della FGCI, i ragazzi di Kennedy, i ragazzi della via Gluck), e la morale dell’intenzione è legata alla morale del pentimento. Se si è fatto qualcosa “in buona fede” e poi ci si pente (del fatto che si è perduto, e gli altri hanno vinto), si può essere reintegrati nella comunità. La morale comunista dell’autocritica e la morale cattolica del pentimento trovano qui un’apoteosi cattocomunista particolarmente felice.
In secondo luogo, però, deve essere chiaro che il comunismo ed il fascismo non devono essere messi retrospettivamente sullo stesso piano, come vorrebbero gli esagitati berluscones. È interessante che la motivazione resti sempre quella della morale dell’intenzione (che permette il successivo pentimento, come abbiamo chiarito nel 4° §). Comunismo e fascismo sono entrambi stati forme di totalitarismo (come dice Hannah Arendt, che essendo donna ed ebrea è anche particolarmente politically correct), però (a differenza di Nolte e di Furet) essi non devono essere messi sullo stesso piano, perché il comunismo aveva almeno l’attenuante delle “buone intenzioni”, volendo costruire una (impossibile) società egualitaria, mentre il fascismo non aveva neppure questa attenuante, volendo programmaticamente la diseguaglianza fra classi, nazioni e razze. Si noti che in questo modo sparisce il capitalismo reale, e comunismo e fascismo sembrano due ubriaconi che si agitano come drogati in crisi di astinenza (rivoluzionaria), gli uni però con l’attenuante della buona intenzione di voler pagare da bere a tutti, e gli altri soltanto ai bianchi biondi, e non a tutti gli altri. La terza soluzione, quella vincente, è questa: tutti potranno bere, purché se lo possano permettere e possano pagare. È questo il segreto universalistico alla Violante che concede maggiori attenuanti al comunismo (24 anni di galera) che al fascismo (30 anni di galera). Una vera e propria concezione giudiziaria della storia. Il capitalismo è invece assolto non in base alle attenuanti, ma per non aver commesso il fatto. Questo è dunque il segreto simbolico della seconda repubblica: tutti, chi più chi meno, hanno commesso reati, al di fuori del sistema capitalistico, che non ha commesso il fatto, perché il capitalismo è l’unico complesso di fatti senza reati. È questo il segreto della concezione del mondo di Antonio Di Pietro e dei suoi stolidi seguaci.

12. Nazione italiana, Europa, Mediterraneo. Il presente come storia. Coscienza storica, memoria storica, liberazione.

Abbiamo chiesto molto alla pazienza ed alla concentrazione del lettore, ma ora possiamo stringere le fila di quanto abbiamo detto. Il lettore avrà notato che abbiamo detto alcune cose in modo particolarmente irritante. Lo abbiamo fatto volutamente, ispirandoci al detto di George Bernard Shaw, che scrisse: “Se volete dire qualcosa, ditelo in modo irritante, perché se non lo dite in modo irritante, non vi staranno neanche a sentire”.
In realtà G. B. Shaw era un grande ottimista, perché faceva dipendere l’ascolto da una retorica dell’irritazione, rivolta evidentemente a richiamare l’attenzione. Ma oggi questo principio funziona soltanto per la pubblicità televisiva. Non bisogna farsi nessuna illusione sul fatto che le cose che diciamo siano già ascoltabili da un numero rilevante di persone. Si tratta di un’illusione illuministica, o se si vuole socratica, il pensare che basti che la verità venga enunciata perché cominci immediatamente a fare effetto. Esiste in realtà un’economia politica della verità, non perché il valore d’uso della verità dipenda dal mercato (questo è appunto il relativismo nichilistico, oggi imperante e legittimato dalle oligarchie accademiche dell’insegnamento filosofico), ma perché il suo valore di scambio dipende da rapporti di forza politici e sociali oggi soverchianti. I gruppi intellettuali ulivisti, polisti e leghisti sono oggi sintonizzati su altre lunghezze d’onda.
Pessimismo? Ma neppure per sogno. Semplicemente, sobrio realismo metodologico. Le illusioni sono l’anticamera delle delusioni. Quanto diciamo (e quanto si sforza di dire la rivista Indipendenza) è oggi contro corrente in modo quasi insopportabile. Bisogna avere in proposito un atteggiamento calmo e meditato di ottimismo strategico. È necessario rivolgersi a gente nuova, che si affaccia ora all’esigenza di comprensione del mondo, e non credere di poter riciclare gruppi e persone testardamente legati alla propria precedente dogmatica concezione del mondo. È impossibile sapere se i tempi saranno insopportabilmente lunghi, oppure se vi sarà un’imprevista accelerazione della storia. Le eventuali accelerazioni della storia non sono prevedibili in alcun modo, per cui non ha senso pensare con un orologio in mano. Non è così che si elabora una teoria nuova.
Rimettiamo a fuoco il punto essenziale: l’identità e la memoria storica della nazione italiana, costituite essenzialmente da una lingua e da una cultura comune, messe in pericolo da una americanizzazione del pianeta, hanno oggi di fronte un nuovo, terzo fattore di possibile nuova identità o di possibile nuova disgregazione. Si tratta della situazione di integrazione europea, mentre però permane la subordinazione americana, mantenuta con l’allargamento della NATO, la cui sopravvivenza alla fine del sistema di stati del comunismo storico novecentesco getta una luce sinistra sulla sua profonda natura. Ora, la nazione italiana è inscindibilmente europea e mediterranea. Contro questa profonda natura storica sedimentata nei secoli le oligarchie politiche uliviste (ma quelle leghiste e poliste sarebbero ancora peggiori) hanno scelto unilateralmente un’identità carolingia, peggiorata ulteriormente dal mantenimento ricattatorio della NATO. Questo implica anche uno stravolgimento del passato.

Ad esempio, sono esistite per secoli due Italie bizantina ed araba, ma esse devono essere fatte culturalmente sparire, come se l’ortodossia e l’Islam non appartenessero all’Europa. L’ossessiva insistenza sull’insegnamento della sola storia novecentesca, ritenuta da molti ingenui e malconsigliati come una positiva innovazione didattica, è in realtà l’anticamera per una permanente manipolazione giornalistica della situazione storica presente. Ma sapere che ci furono delle Italie bizantina ed araba, e ci furono per dei secoli, sarebbe un grosso contributo per dare agli italiani una coscienza non solo carolingia, ma anche balcanica e mediterranea, ed in questo modo si potrebbero prevenire pericolosi coinvolgimenti neoimperialistici contro i popoli arabi e balcanici. Vivere il presente come storia, e non farsene schiacciare, presuppone la conoscenza del passato, compreso quello arabo e bizantino, assai più importante delle tavole rotonde sul Sessantotto.
Ecco, vorremmo finire qui: la nazione italiana è inscindibilmente europea e mediterranea. Potrebbe sembrare poca cosa, una conclusione modesta di fronte alle considerazioni precedenti. Ma non è così, ed è anzi il contrario. Queste conclusioni sono incompatibili con la NATO e con ogni possibile futuro imperialismo europeo. Queste conclusioni implicano una rivoluzione culturale ed un riorientamento pedagogico per il momento ancora impensabili. Esse giustificano un impegno di lungo periodo, un vero e proprio patto fra generazioni. Per ora, ci basti averne messo a fuoco il profilo generale.

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