Articolo apparso per la prima volta sulla rivista Praxis.
1. Iniziata a partire dagli ormai lontani anni Venti e Trenta del Novecento, la dialettica dei rapporti fra esistenzialismo e marxismo, che ha ormai circa ottant’anni di vita, è giunta ad un punto di paradossale rovesciamento dei suoi presupposti essenziali. Nella sua variante francese, rappresentata soprattutto da Jean-Paul Sartre, ha prima prodotto la figura del moderno intellettuale impegnato, del compagno di strada critico del movimento comunista e del pensatore anticapitalista indipendente, e si è poi dissolta vergognosamente (senza peraltro alcuna responsabilità personale di Sartre) nell’ideologia interventista dei diritti umani dell’ultimo sciagurato decennio. Nella sua variante tedesca, rappresentata soprattutto da Martin Heidegger, la coraggiosa analitica esistenziale è infine sfociata in una critica globale del pensiero occidentale ed in una nozione di Tecnica che ha rappresentato la base di una distruzione sia della nota distinzione fra Sinistra e Destra (in nome dei parametri polarmente opposti del Progresso e della Conservazione), sia dell’idea di padroneggiamento rivoluzionario della storia negata sia dal post-moderno sia dal moderno nichilismo.
L’esame dei rapporti fra il marxismo e queste due dinamiche sorte sul terreno dell’esistenzialismo è estremamente utile per indagare il più ampio problema del rapporto tra conoscenza filosofica e pratica ideologica, due dimensioni che occorre sempre tenere rigorosamente distinte.
2. Prima di entrare nel merito di questa ricostruzione, voglio ricordare che questo è il mio settimo contributo consecutivo per la rivista Praxis, e che tutti questi contributi fanno parte di un solo ed unico discorso organico e coerente, teso a dare un’immagine del rapporto fra conoscenza filosofica e pratica ideologica alternativo a quello della stragrande maggioranza delle correnti della tradizione marxista, sia ortodossa che eterodossa. Si tratta di una prima intervista filosofica complessiva (cfr. Praxis n. 18), di un intervento su Lucio Colletti (cfr. Praxis n. 19), di un breve saggio su etica, marxismo e scienza (cfr. Praxis n. 20), di un intervento su Louis Althusser (cfr. Praxis n. 21), di un intervento su György Lukács (cfr. Praxis n. 22) ed infine di un intervento su Ludovico Geymonat (cfr. Praxis n. 23). Ricordo questo non solo contro la sciagurata strategia dell’oblio e dell’irrilevanza, che la tradizione marxista troppo spesso dedica ai contributi filosofici e teorici, ma anche contro l’idea fuorviante che un pezzo teorico sia una sorta di pezzo di bravura destinato ad accompagnare i pezzi sull’attualità politica. So per lunghissima esperienza che i pezzi teorici vengono consumati gastronomicamente come una specie di dessert, e non vengono quasi mai intesi per quello che sono, e cioè un invito per l’apertura di un dibattito collettivo che dovrebbe portare, quando è necessario (ed oggi lo è) ad un mutamento qualitativo nella cultura politica di chi si richiama alla rivoluzione ed alla lotta al capitalismo. Questo dibattito collettivo è in realtà il grande assente, il convitato di pietra, il fantasma dell’opera. Lo si auspica, e poi non avviene mai. Le ragioni di questa assenza devono essere assolutamente indagate.
3. Vi è però una premessa da fare. L’apertura di un dibattito presuppone l’esistenza di un lettore competente, critico ed attivo. Un lettore competente è un lettore che conosce i termini essenziali della discussione in campo marxiano e marxista dell’ultimo secolo e mezzo. Un lettore critico è un lettore in grado di interagire dialogicamente con le tesi che legge, ed eventualmente di rispondervi non con semplici brontolii, ma con tesi alternative, organiche e coerenti. Infine, un lettore attivo è colui che si da la pena di aprire un dibattito e la fatica di scrivere, spedire, eccetera, e si da questa pena appunto perché capisce che non è mai una questione personale, ma è una questione di interesse comune e di rilevanza pubblica.
4. Ebbene, il problema sta proprio in ciò, che questo lettore competente, critico ed attivo si sta riducendo in modo demograficamente allarmante, per una serie di ragioni che si possono brevemente indicare. Primo, i dipartimenti universitari di filosofia, economia e scienze politiche e sociali stanno facendo scomparire l’informazione sul dibattito marxista, ritenuto evidentemente un “cane morto” sprofondato insieme con il discredito del crollo del comunismo storico novecentesco (1917-1991) ed assimilato ad un volgare imbonimento ideologico, e questo tende fatalmente ad interrompere la comunicazione critica fra le tre generazioni degli anziani, delle persone di mezza età e dei giovani. Secondo, i ceti politici che stanno gestendo la la transizione fra il vecchio operaismo partitico ed economicistico ed il nuovo look no-global non sono minimamente interessati alla conservazione della memoria di questo dibattito, non solo perché ossessionati dalle scadenze elettorali o di “movimento” (cioè di manifestazione presenzialista), ma anche soprattutto perché ogni educazione al dibattito critico è incompatibile con i loro bruschi passaggi ideologici al perenne inseguimento dell’attualità. Terzo, perché appunto la confusione fra i tre distinti livelli della conoscenza scientifica, della conoscenza filosofica e della pratica ideologica, confusione che caratterizza strutturalmente ed in modo assolutamente incurabile gli apparati politici e sindacali professionali, rende impossibile una corretta distinzione fra ambiti diversi che seguono logiche estremamente differenziate.
5. Questi rilievi sommari erano necessari per inquadrare meglio le osservazioni che seguiranno sui complessi rapporti fra il marxismo e l’esistenzialismo novecentesco (perché non parliamo qui ovviamente di Pascal o di Kierkegaard). Questi rapporti sono ormai giunti alla fine di un intero ciclo, ed è appunto possibile ricostruirli proprio perché ormai sono già finiti e sono puramente oggetto di ricostruzione storica. La ricostruzione che proporrò è ovviamente discutibile, opinabile e criticabile, ma è ispirata ad un filo conduttore storiografico e teoretico che cercherò di rendere il più chiaro e comprensibile che potrò.
6. La corrente filosofica che prenderà poi il nome di esistenzialismo comincia ad emergere e ad assumere un’identità negli anni Venti del Novecento, dopo la conclusione della prima guerra mondiale ed il consolidamento del bolscevismo in Russia. Vedremo più avanti che questo dato storico non è affatto casuale. Vale forse qui la pena di ricordare che la stessa forma moderna, post-marxiana, ed anche post-leniniana di marxismo, comincia ad emergere negli anni Venti. Fra il 1924 ed il 1926, con due brevi e concise opere successive, Stalin delinea per la prima volta una sintesi teorica precedentemente inesistente, denominata marxismo-leninismo. Questa sintesi teorica configura una totalità espressiva del tutto particolare, che non ha più assolutamente nessun rapporto con il cantiere teorico fondato a suo tempo da Karl Marx, e che diventerà ben presto una semplice ideologia di legittimazione del potere assoluto dei partiti comunisti, assimilati a locomotive che sui binari della storia universale trasportano avanti i treni della società. Negli anni Venti si costituisce in Russia anche la nuova filosofia marxista-leninista del materialismo dialettico, basata sull’utilizzo di un’interpretazione dogmatizzata ed unilaterale di Engels. In una prima fase questa filosofia vede ancora dibattiti in un certo senso pluralistici, come quello fra meccanicisti e dialettici, ma poi a partire dal 1931 si attua una normalizzazione forzata che porta all’identificazione fra filosofia marxista ed ideologia di partito. E’ bene comunque aggiungere che sia i meccanicisti che i dialettici erano portatori di una base filosofica talmente ristretta e miserabile da rendere comunque impossibile ogni evoluzione creativa della coscienza filosofica comunista, perché erano entrambi interni alla visione ideologica del processo storico come caso particolare del processo naturale, limitandosi a darne varianti qualitativamente non dissimili. Negli anni Venti si forma anche il cosiddetto marxismo occidentale, per opera soprattutto di Lukács e di Korsch, che invece rompe decisamente con l’idiozia dell’equazione fra processo storico e processi naturali, ma che viene in ogni caso emarginato, schiacciato e silenziato dagli apparati politici stalinizzati. Personalmente, sono comunque convinto che anche questo marxismo occidentale si fondasse su di una base teorica ristretta ed incapace di vera egemonia ed espansività. In definitiva, negli anni Venti del Novecento nasce anche il nuovo marxismo, ma nasce su di una base teorica talmente povera da non lasciar sperare in veri e propri avanzamenti qualitativi.
7. Negli anni Venti del Novecento nascono quasi simultaneamente due correnti diversissime come l’esistenzialismo ed il neopositivismo. Esse sono talmente opposte da far sembrare alla prima occhiata di non avere proprio niente in comune. La prima mette al centro l’analitica dell’esistenza, o più esattamente dell’esistenza autentica. La seconda mette al centro la ricostruzione dei procedimenti conoscitivi della scienza moderna, e propugna un rifiuto polemico dell’attività filosofica addirittura provocatorio. Si pone allora un problema, e cioè se queste due correnti siano opposte ed antagonistiche, come sembra a prima vista, oppure segretamente complementari. La risposta a questo problema è assolutamente decisiva per un orientamento di fondo nella storia del pensiero del Novecento.
8. Io sono ovviamente convinto della loro complementarietà. A conforto di questa mia opinione posso portare l’importante valutazione di György Lukács, che visse molto attivamente gli anni Venti e Trenta e parla di “solidarietà antitetico-polare fra neopositivismo ed esistenzialismo”, e non solo a proposito dell’illuminante personalità di Wittgenstein, che riunì le due tendenze teoriche in una sola persona. Da un lato, appare chiaro che la desertificazione dei significati vitali indotta dal neopositivismo, che riduce l’attività filosofica e metodologica fisicalistica delle scienze, richiede un’integrazione esistenziale fornita appunto dall’esistenzialismo. Ma l’aspetto fondamentale è un altro. In entrambi i casi si è di fronte ad una distruzione cosciente di ogni ontologia, e non solo di ogni metafisica trascendentalistica e bimondana, ma proprio di ogni ontologia immanentistica e monomondana (da Spinoza a Hegel a Marx, per intenderci). Questo non avviene a caso, e completa una tendenza che aveva già avuto la sua prima tappa fra il Seicento ed il Settecento, in particolare ad opera dell’empirismo inglese e dello scetticismo scozzese.
9. Fra il Seicento ed il Settecento viene attuato un primo attacco all’ontologia attraverso la critica di Locke al concetto di sostanza e la critica di Hume al concetto di causalità. Si trattava, sul piano simbolistico, dei concetti filosofici più astratti, di un attacco ai fondamenti della società signorile-feudale, che si autoconcepiva come fondata su di una sorta di sostanza sottostante immutabile. Locke distrugge questa nozione, convinto in piena falsa coscienza di stare facendo semplicemente un’opera di filosofia empiristica, perché alla sostanza come metafora dell’immutabilità signorile e feudale si sostituisce la relazionalità dei rapporti di proprietà capitalistici. Ma Locke è ancora un contrattualista ed il contrattualismo implica pur sempre un primato della politica, non dell’economia, in quanto bisogna pur sempre dire che una società è istituita da un contratto, ed i contratti possono essere sempre cambiati, come proporrà poi Rousseau, l’egualitario precursore del comunismo di Marx. Ed allora giunge Hume, che con la critica del concetto di causalità critica anche l’idea che la società venga causata politicamente da un contratto, sostituendo l’idea utilitaristica, base della futura economia politica di Adam Smith, per cui non vi sono che aggregazioni frutto di interessi reciproci diretti dalla mano invisibile del mercato. In questo modo il primato dell’economia sulla politica è fondato in modo solido ed irreversibile, al punto che tuttora non è ancora stato mutato.
10. Negli anni Venti del Novecento si realizza la seconda tappa di questa distruzione dell’ontologia sociale la cui prima tappa era stata realizzata da Locke e da Hume. Incidentalmente, la pratica della cosiddetta filosofia analitica, espressione teorica astratta dell’impero capitalistico americano, si basa proprio su questa seconda distruzione ontologica, che è condivisa persino dai filosofi americani non strettamente analitici, come Richard Rorty. La distruzione di ogni ontologia sociale non è però più rivolta come due secoli prima contro ogni fondazione metaforica religiosa di tipo signorile e feudale e contro il pericoloso primato della politica stabilito dal contrattualismo (decapitato nel 1794 con Robespierre), ma è rivolta contro i residui del conservatorismo e del perbenismo borghesi, considerati culturalmente responsabili del grande bagno di sangue della Prima Guerra Mondiale. La grande maggioranza dei neopositivisti austriaci e tedeschi degli anni Venti è infatti decisamente di sinistra, mentre Heidegger, che non è affatto di sinistra ma è anzi politicamente di destra, resta comunque un critico radicale del costume borghese. Sull’odio di Sartre per i borghesi non c’è alcun dubbio, al punto che Sartre dirà solamente che “ogni anticomunista è un cane” (sic!).
11. L’errore, scusabile ma strategico, comprensibile ma fatale, dei neopositivisti e degli esistenzialisti degli anni Venti e Trenta, sta proprio nell’identificazione fra borghesia e capitalismo, lato soggettivo e lato oggettivo del potere politico e del dominio economico. In realtà, il dominio borghese non è che una fase storica passeggera della storia dinamica e dialettica del modo di produzione capitalistico, che è una realtà strutturale ed impersonale. Oggi tutto questo appare chiaro, ma ottant’anni fa ovviamente no. Per mostrare questa dinamica, visto che oggi siamo in piena terza fase storica della distruzione dell’ontologia (nichilismo filosofico e post-moderno ideologico), seguiamo sommariamente l’evoluzione dialettica dei pensieri di Sartre e di Heidegger rilevandone gli esiti attuali. Dovremmo cronologicamente fare il contrario (prima Heidegger e poi Sartre), ma in questo modo il nucleo teorico di quanto andiamo dicendo apparirà forse più chiaro. E cominciamo dunque con Sartre.
12. Il pensiero di Jean-Paul Sartre rappresenta il momento più felice ed emblematico dell’incontro fra marxismo ed esistenzialismo. Sartre indica nel nuovo impegno dell’intellettuale (engagement), che ripropone in modo sostanzialmente analogo la vecchia “missione del dotto” di Fichte, l’adesione come libero compagno di strada alla causa idealmente più universalistica che esista, la causa dei lavoratori e dei popoli sfruttati ed oppressi, una causa già difesa dai partiti comunisti, ma con modalità discutibili e che si vuole comunque discutere. Si tratta di una forma di universalismo assolutamente simile a quella di Fichte, e che è perciò idealistica, ma che si vuole esistenzialistica perché la singola esistenza concreta dell’individuo è messa integralmente in gioco con un atto fondante di libertà assoluta, senza alcuna garanzia metafisica bimondana e neppure senza alcuna garanzia ontologica monomondana. Sartre simboleggia così nel modo più alto, ed a mio avviso integralmente legittimo, la libera adesione individuale al comunismo senza mediazione di partito, in un contesto storico in cui tutti i gruppi organizzati, stalinisti, trotzkisti, maoisti, operaisti, bordighisti, eccetera, si arrogavano il diritto di essere i soli “veri comunisti”, accusando gli altri di essere comunisti falsi, presunti, avventuristi, provocatori, pagati dai padroni, eccetera. Oggi, dopo l’integrale consumazione tragicomica del comunismo storico novecentesco, questa pretesa settaria ci ricorda la lotta fra cattolici e calvinisti nel Cinquecento, in cui solo gli uni erano i “veri cristiani”, e gli altri erano frutti diabolici del peccato. Ma l’esperienza di Sartre ci riconferma in un fatto oggi assolutamente ovvio: nel Novecento ci sono stati molti modi di essere comunisti, e tutti erano legittimi, perché nessuna delle sette deteneva il segreto del vero svolgimento della storia, ed il secolo si sarebbe comunque chiuso con la loro comune rovina.
13. Nei decenni che videro l’impegno di Sartre si usava dire che il materialismo dialettico, lo storicismo gramsciano (che era la versione togliattiana del materialismo dialettico, con una porzione di materia in meno ed una porzione di storia in più, e con l’identica arrogante pretesa di essere la sola fede filosofica autorizzata del militante fedele) ed il marxismo-leninismo erano ideologie della classe operaia e proletaria, mentre l’esistenzialismo, dato il suo carattere individualistico, era un’ideologia della piccola borghesia progressista impegnata. Questa idiozia ideologica a base sociologica era ovviamente del tutto falsa. Se vogliamo comunque giocare con lo scatolone del Piccolo Sociologo regalatoci a Natale, possiamo dire che sia i marxismi di partito sia i liberi esistenzialismi individuali erano entrambe ideologie della piccola borghesia novecentesca, solo che i marxismi di partito esprimevano la visione del mondo gerarchica ed organizzativa di apparati professionali specializzati in mediazione e manipolazione politica (di cui D’Alema è un frutto maturo anche se già un pò marcito), mentre i liberi esistenzialismi individuali esprimevano la visione del mondo di giornalisti, scrittori, artisti e letterati, interessati all’espressione e non al potere. Questi due settori della piccola borghesia novecentesca erano conflittuali, e fra di loro si consumava una sorta di guerra civile ideologica virtuale in cui la mitica “classe operaia” faceva la parte passiva dello Spirito Santo nelle dispute cristologiche bizantine fra ortodossi, monofisiti e nestoriani.
14. Sartre dovette ovviamente costruirsi la propria filosofia, e lo fece in modo tutto sommato dignitoso. In estrema sintesi, egli prese dal ricco apparato categoriale marxista una categoria sola, quella di reificazione, che a sua volta era solo una variante elaborata del concetto di feticismo delle merci. La reificazione, causata dal dominio delle categorie economiche capitalistiche, produceva un mondo rigido, pietrificato ed appunto “cosificato”, una vera e propria Cosa (chose). Era contro questa Cosa che si svolgeva il ruolo dell’intellettuale. Contro la rigidità della cosa gli individui si aggregavano liberamente in gruppi in fusione, che producevano le loro finalità-progetto destinate purtroppo a serializzarsi, e dunque a cosificarsi nuovamente, in un nuovo pratico-inerte. La totalità sociale come cosa, i gruppi in fusione, le finalità-progetto ed il pratico-inerte sono dunque i quattro concetti fondanti del pensiero di Sartre. Qui c’è indubbiamente molto Bergson e molto slancio vitale (élan vital). Il comunismo è così ridefinito come attivismo e come contestazione. Il vero comunista non è l’amministratore, ma il testimone della contestazione ininterrotta.
15. Se vogliamo cercare in Italia un personaggio simbolico che ha espresso al massimo grado la concezione sartriana, lo cercherei in Rossana Rossanda. E questo non solo per la profonda cultura francese di questa signora, e neppure per la sua scelta verso il giornalismo anziché verso il mestiere del politico, ma proprio per la sua concezione teorica implicita della funzione attiva del comunismo. Nel 1968 la signora Rossanda era contemporaneamente ed integralmente per Dubcek in Cecoslovacchia e per Mao Tse Tung in Cina. Dal momento che i due personaggi remavano in direzioni assolutamente opposte, ci si può chiedere se questa doppia adesione contraddittoria non fosse dovuta a semplice confusione ideologica. Ma la contraddizione sparisce non appena ci si accorge che in entrambi i casi si aveva una lotta parallela contro la reificazione della rivoluzione degradata ad irrigidimento seriale, per cui si Dubcek che Mao si muovevano comunque contro il pratico-inerte, e questo era l’essenziale. E’ troppo facile, oggi, sorridere di questa concezione, e rilevarne l’ingenuità. Allora essa aveva un senso molto preciso, ed è giusto comprenderlo storicamente, anche se sarebbe sciocco non rilevarne simultaneamente la debolezza teorica incredibile.
16. Un brevissimo inciso personale. A quei tempi, cioè negli anni Sessanta e Settanta, io condivisi sostanzialmente l’idea di Sartre per cui le sorti storiche del comunismo si giocavano nella riattivazione politica di gruppi in fusione sociali capaci di produrre finalità-progetto in grado di riformare il pratico-inerte (metafora per indicare i partiti comunisti ed i sistemi socialisti). Il comunismo era così identificato nell’attivismo delle avanguardie. Oggi penso invece che in questo modo si era persa la grande intuizione di Max Weber, per cui ciò che conta non è la continua ed impossibile riattivazione del messianesimo, ma è invece l’apparentemente banale e quotidiana secolarizzazione del messianesimo originario. L’idea marxiana di comunismo era certo basata su ipotesi scientifiche, ma conteneva un nucleo messianico del tutto irrealizzabile, e ciò che contava era quello che sarebbe riuscita a sedimentare nella quotidianità dei comunisti, sia al potere che all’opposizione. Su questo piano l’idea comunista perse nel Novecento, non su quello delle avanguardie, e per questo l’idea di Lukács di democratizzazione della vita quotidiana era in realtà più profonda di quella di Sartre della continua lotta contro la Cosa.
17. A metà degli anni Settanta Jean-Paul Sartre (1905-1980), malatissimo e fisicamente impedito, era anche caduto sotto il controllo di una banda di piccoli cialtroni anticomunisti, amici dei cosiddetti “nuovi filosofi”, e non poteva dunque più agire in modo indipendente. Ma ciò che più conta è ovviamente la svolta storica, ed il fatto cioè che a metà degli anni Settanta il comunismo storico novecentesco comincia ad apparire qualcosa di irrigidito, irriformabile, mentre il capitalismo sembra reinvestito da una nuova giovinezza legata alla flessibilità, all’innovazione tecnologica, all’iniziativa in campo finanziario, militare e culturale. In poche parole, il pratico-inerte, o meglio la Cosa, contro cui deve attivarsi l’impegno politico ed esistenziale dell’individuo, diventa ormai il socialismo, non più il capitalismo. Non sostengo affatto che Sartre, se fosse stato in buona salute ed avesse vissuto più a lungo, avrebbe condiviso questo rovesciamento. Sono anzi convinto che non l’avrebbe fatto. Ma qui non si parla di persone, quanto di categorie concettuali, che ad un certo punto si autonomizzano dal loro creatore ed assumono una vita propria. L’impegno esistenziale dell’intellettuale si sposta dunque dalla solidarietà verso i popoli e le classi oppresse in direzione della solidarietà esemplare verso i dissidenti ed i resistenti oppressi dai regimi dei socialismi reali. Ed infatti per tutti gli anni Ottanta tutti i movimenti di ispirazione femminista, ecologista e pacifista si sposeranno con tendenze apertamente restauratrici del capitalismo.
18. Dopo il 1985 e la primavera gorbacioviana, basata sull’infondata speranza di una autoriforma socialista del comunismo storico novecentesco, laddove non si trattava che di una sua dissoluzione inarrestabile, si estingue anche lo spazio del precedente incontro fra esistenzialismo e marxismo. Ormai l’individuo giganteggia in forma non più collegata a progetti storici di emancipazione sociale. Se in una prima fase esso semplicemente aderiva alle dissidenze esemplari contro le dittature dei socialismi pietrificati, ora questo individuo riscopre un preteso spazio dell’etica che però non è più in nessun modo uno spazio anticapitalistico. In proposito, per riprendere la nota distinzione terminologica fra morale ed etica, io credo che i problemi morali conflittuali dell’individuo siano relativamente indipendenti dai modi di produzione, ma che però un’etica propriamente detta non possa essere oggi in alcun modo estranea all’anticapitalismo. Non credo infatti nella possibilità di un’etica che accetti i fondamenti economici, politici e culturali del capitalismo. Un’etica oggi o è anticapitalista o non è. Altro discorso deve essere fatto per i problemi morali dell’individuo, che sono relativamente metastorici, e quindi in un certo senso “eterni”. Ma qui siamo ormai fuori dal raggio dei rapporti fra marxismo ed esistenzialismo.
19. Se il filone esistenzialistico dell’impegno politico dell’intellettuale che risale a Jean-Paul Sartre approda infine alla testimonianza etica dei diritti umani in nome di cui si fanno gli interventi militari imperialistici del nuovo mondo unipolare globalizzato, il filone che risale invece a Martin Heidegger porta ad una sorta di sindrome di impotenza storica che legittima una sorta di minimalismo individualistico inserito in un quadro di intrasformabilità assoluta delle strutture economiche e sociali. Abbiamo visto come per Sartre i progetti esistenziali dei gruppi si trovano di fronte l’opaca resistenza della Chose, la Cosa resa seriale ed impersonale dalla sua rigidità pietrificata e reificata, un destino cui non può sfuggire neppure il progetto rivoluzionario e comunista. Anche per Heidegger i nostri progetti devono fare i conti con una situazione storica che egli definisce in termini di Gestell, termine tedesco intraducibile che si può rendere in modo approssimativo con Impianto o Imposizione, e che costituisce il momento terminale del cosiddetto esito tecnico della lunga storia della metafisica occidentale. A mio avviso la superiorità filosofica di Heidegger su Sartre, superiorità che ritengo assolutamente indiscutibile, è dovuta proprio al fatto che l’analitica dell’esistenza umana non è semplicemente messa di fronte al problema dell’impegno politico come strumento che dà un senso a qualcosa che di per sé sarebbe semplicemente insensato, ma è inserita in un’interpretazione complessiva della storia che intende essere alternativa, e non solo integrativa, a quella che risale a Hegel e Marx. E’ questo un punto teorico assolutamente decisivo.
20. L’esistenzialismo di Sartre diventa per tre decenni un compagno di strada del movimento comunista proprio perché esso non ambisce a costituire una visione del mondo alternativa alla filosofia marxista della storia, ma si limita a darne una sorta di integrazione esistenziale basata sulla rivendicazione della libertà dell’intellettuale e sul rifiuto della riduzione dell’attività filosofica ad attività ideologica di partito. Il marxismo di Sartre resta ovviamente un marxismo eretico, ed è anche possibile negargli in sede storiografica ogni statuto teorico marxista vero e proprio. Ho fatto notare nei precedenti paragrafi che questa è anche la mia personale interpretazione del pensiero di Sartre, che mi sembra del tutto estraneo alla logica del pensiero di Marx. Ma questa è una questione secondaria, perché ciò che conta è che Sartre ed i suoi seguaci esistenzialisti si autopercepiscono come portatori di una visione filosofica integrativa del marxismo, e non alternativa ad esso. In Heidegger le cose stanno diversamente. Non alludo qui al cosiddetto “primo Heidegger”, quello di Essere e Tempo del 1927, un’opera di analitica esistenziale che è a mio avviso politicamente del tutto neutra e può prestarsi agli usi più diversi, dal fiancheggiamento fascista al fiancheggiamento comunista alla scelta esistenziale impolitica ed apolitica. Alludo qui al pensiero di Heidegger preso nel suo complesso, e dunque anche e soprattutto dopo la cosiddetta “svolta” (Kehre), in cui l’analitica esistenziale diventa una vera e propria filosofia della storia alternativa a quella di Hegel e di Marx attraverso il dispositivo della differenza ontologica. Non vi è qui assolutamente lo spazio per un’esposizione, sia pure telegrafica, di questa concezione, che sono costretto a dare per conosciuta al lettore, e che comunque il lettore può trovare in qualunque manuale di storia della filosofia contemporanea. Qui debbo limitarmi a rilevarne criticamente la natura, soprattutto nel suo rapporto indiretto con la concezione del mondo marxista e comunista.
21. Come ho detto, la filosofia della storia di Heidegger è alternativa a quella di Hegel e di Marx, e questo elemento è decisivo, perché la Storia è l’unico fondamento filosofico-scientifico immanente che Marx sia disposto a riconoscere come essenziale. Faccio rilevare in modo del tutto accidentale che questa centralità della Storia non deve essere confusa con il cosiddetto storicismo, che è invece una concezione errata e mitologica dell’omogeneità di scorrimento del tempo storico, necessaria per la costruzione di una grande narrazione antropomorfica che postula l’esistenza di un soggetto storico che garantisce con il mantenimento della propria identità iniziale la realizzazione finale del suo progetto originario. Questo storicismo è lo strumento ideologico necessario per l’edificazione del mito del proletariato e della classe operaia, ma non deve essere confuso con la centralità del fondamento storico nella prospettiva comunista di Marx, che viene semplicemente meno se dentro il capitalismo e la sua dinamica oggettiva non viene individuata una tendenza alla socializzazione armoniosa delle forze produttive promossa da un lavoratore cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all’ultimo manovale, alleato con le potenze mentali della produzione capitalistica, definite da Marx con il termine inglese di general intellect.
22. Vi è qui un importantissimo rilievo teorico da fare. Se infatti un marxismo esistenzialistico di tipo sartriano è potuto esistere ed è in effetti esistito per alcuni decenni, sia pure sulla base dell’equivoco della compatibilità fra la teoria marxiana dei rapporti di produzione e la teoria sartriana della Cosa, un marxismo heideggeriano non può semplicemente esistere, ed è una contraddizione in termini, come lo potrebbe essere un cristianesimo ateo, uno spinozismo trascendente o un platonismo materialistico. Vi sono stati, è vero, dei tentativi di creare un marxismo heideggeriano, come quello del pensatore greco Kostas Axelos, ma essi si sono basati sull’equivoco dell’interpretazione del concetto heideggeriano di Tecnica come semplice dominanza estrema della tecnologia e dell’organizzazione. Ma il concetto heideggeriano di Tecnica non ha nulla a che fare con ciò che si intende generalmente con questo nome nel linguaggio comune, ma indica un vero e proprio destino storico di svuotamento integrale della progettualità storica non solo proletaria o borghese, ma generalmente umanistica. Esso indica una sorta di impotenza storica integralmente immanente alla modernità, ed ormai del tutto irreversibile. In questo senso un marxismo heideggeriano è impossibile, perché non c’è più marxismo se si assume l’impotenza storica alla trasformazione non solo come dato passeggero, attuale e congiunturale (se così fosse, non potremmo non essere tutti ragionevolmente heideggeriani nei presenti chiari di luna politici!), ma come dato permanente ed irreversibile della modernità. Il marxismo è, prima di ogni altra cosa, dichiarazione di possibilità ontologico-sociale della trasformazione storica, e non può diventare una teoria dell’impotenza storica senza suicidarsi.
23. Incidentalmente, è questa la ragione per cui riflessioni come quella di Gianfranco La Grassa non possono essere in nessun modo assimilate ad una forma di marxismo heideggeriano implicito. Come è noto, La Grassa sostiene una tesi radicale sulla natura dell’impresa capitalistica come centro di coordinamento strategico della riproduzione capitalistica incompatibile con una teoria dell’impresa come luogo di formazione virtuosa di un lavoratore cooperativo associato, oltre a sostenere diversi punti di vista di tipo in un certo senso “pessimistico” sul fatto che in breve per ora “non ce la facciamo e non possiamo per nulla farcela” in un progetto anticapitalistico di tipo strategico che vada oltre la normale e fisiologica resistenza. Ma La Grassa non giunge a questa tesi teorica (da me per altro condivisa nei suoi tratti essenziali, anche se non in tutti i dettagli) sulla base di una commistione fra Marx e Heidegger, ma sulla base di una vera e propria ortodossia metodologica marxista assolutamente rigorosa, senza nessuna adozione di categorie heideggeriane. Paradossalmente, l’ottimismo infondato di Toni Negri sulla formazione di moltitudini rivoluzionarie ispirate ad un intelletto sociale potenzialmente anticapitalistico ed il fondato pessimismo di La Grassa sull’inesistenza presente di queste presunte moltitudini hanno entrambi la stessa base in due interpretazioni alternative della stessa ortodossia marxologica. Non è un caso che ceti politici professionali pienamente integrati nel sistema politico capitalistico, come quello che in Italia fa capo a Fausto Bertinotti, esaltino Negri ed ignorino La Grassa, perché la menzogna funzionale alla mobilitazione ideologica di masse di creduloni è sempre preferita alla verità interpretata come inservibile per la mobilitazione degli stessi creduloni. Si è dimenticato l’insegnamento di Antonio Gramsci, per cui solo la verità è rivoluzionaria, e si pensa che la menzogna illusoria e mobilitante sia migliore del provvisorio disincanto basato su incontrovertibili dati di fatto. E così il movimento no-global, contro ogni logica storica e contro ogni buon senso, è dichiarato successore del vecchio movimento operaio e socialista responsabile della fine pietosa e penosa del comunismo storico novecentesco. C’è qui molto più stalinismo di quanto si possa pensare a prima vista, se lo stalinismo è individuato, secondo l’insegnamento di Lukács, nella prevalenza delle esigenze della tattica politica congiunturale su quelle della strategia.
24. A queste fughe in avanti è del tutto vano opporre, come avviene nel dibattito teorico interno al Partito della Rifondazione Comunista, una sostanziale difesa della continuità storica con l’esperienza del movimento comunista storico novecentesco. Si tratta di una trincea destinata ad essere travolta senza scampo, e si veda in proposito la piattaforma culturale della rivista L’Ernesto e le posizioni di intellettuali come Burgio e Lo Surdo. Nell’essenziale, la fuga in avanti avveniristica ed il conservatorismo continuistico sono due poli in solidarietà antitetico-polare, esattamente come ho rilevato nel paragrafo 8 a proposito dell’esistenzialismo e del neopositivismo. Un superamento di entrambe queste posizioni unilaterali è la premessa per ogni cultura comunista dell’immediato futuro.
25. Si tratta appunto ora di vedere se una riflessione generale di bilancio su Sartre, Heidegger ed i rapporti fra esistenzialismo e marxismo possano dare indicazioni utili al nostro orientamento teorico e pratico nella situazione presente. Concluderò allora questo breve intervento con una serie di rilievi di questo tipo.
26. Il contesto in cui si sviluppò l’attività di fiancheggiamento del marxismo esistenzialistico integrativo di Sartre al movimento comunista fra il 1945 ed il 1975 non può essere a mio avviso più riattivato e rinnovato, per il fatto di essere ormai storicamente concluso e conchiuso. Da un lato, nessun movimento comunista potrà a mio avviso mai più risorgere sulla base di una metafisica sociologica del proletariato e sulla base di un monopolio del partito-stato sulla sfera complessiva della riproduzione sociale. Dall’altro, il gruppo sociale degli intellettuali non è più oggi in situazione sartriana, ma si trova ad essere estremamente corrotto e manipolato nella sua integrazione al moderno imperialismo a dominanza imperiale americana. E’ però bene dire che vi sono aspetti positivi dell’orientamento di Sartre che possono essere ancora oggi valorizzati, e ne ricorderò qui uno solo. A suo tempo, Sartre seppe dire in modo chiaro e forte che gli oppressi hanno diritto ad una resistenza assoluta contro gli oppressori imperialisti (anche se a mio avviso non capì mai che i palestinesi erano ancora più oppressi degli algerini, e questo per il pregiudizio aprioristico filoebraico tipico della sinistra tradizionale europea). Oggi, di fronte agli eventi drammatici succeduti all’11 settembre 2001 ed all’attacco agli USA, indipendentemente da ogni valutazione di merito su questi attacchi, prevale una visione “complottistica” che inquadra questi attacchi in attività della CIA americana, o del MOSSAD israeliano, o di dietrologie capitalistiche diverse. In questa deriva dietrologica, indipendentemente dalla sua eventuale pertinenza su punti specifici, io vedo l’oblio e la dimenticanza di un fatto che ai tempi di Sartre appariva ancora visibile, e cioè che popoli e nazioni oppresse a volte si ribellano, sia pure a modo loro e con i mezzi che sono loro a disposizione. Non si tratta di approvare tutti questi mezzi, e neppure di giustificarli sul piano morale o politico. Si tratta però di non regredire ad una situazione precedente a quella in cui si mosse Sartre, e di capire il fatto elementare che i mezzi storici estremi impiegati dal colonialismo imperialistico possono provocare reazioni estreme. Niente di più, ma anche niente di meno.
27. A proposito della diagnosi di filosofia della storia di Heidegger sull’esito tecnico della lunga storia della metafisica occidentale da Platone a Nietzsche un rilievo si impone sopra tutti gli altri. Non è un caso a mio avviso che il più dotato divulgatore di questa diagnosi, il filosofo Umberto Galimberti, l’uomo che ha riassunto in poderosi volumi questa diagnosi chiarendola in tutti i suoi aspetti, sia ridotto a tradurne le modalità esistenziali concrete nella piccola posta delle riviste femminili. Non si tratta affatto, o almeno non principalmente, del fatto che gli intellettuali prestigiosi integrano il loro reddito con collaborazioni giornalistiche, in nome del detto del grande Vespasiano, per cui pecunia non olet. Qui vi è qualcosa di molto più sintomatico e degno di riflessione. Vi è infatti un rapporto dialettico fra la montagna che partorisce un topolino, e cioè fra la maestosa analisi heideggeriana della potenza schiacciante del dominio tecnico ed economico in cui siamo avvolti (la montagna), ed i consigli di saggezza perbenisti e minimalisti che si danno in nome di questa diagnosi alle gentili lettrici (il topolino). Una maestosa filosofia della storia che mobilita tutte le risorse storiografiche della filosofia occidentale per concretizzarsi in una dichiarazione di impotenza ed in una diagnosi infausta verso ogni reale impegno politico collettivo di trasformazione radicale non può che finire, come suo esito conclusivo, nei consigli pratici della piccola posta delle riviste femminili, in questo caso l’allegato dell’organo dell’antiberlusconismo laico e massonico, la disincantata Repubblica. Questa sproporzione, lo ripeto, è certamente grottesca ed anche un pò comica, ma è assolutamente logica: una diagnosi di impotenza radicale della trasformazione storica è solidale con una terapia di consigli psicologici di tipo minimalistico. Vi è qui qualcosa su cui tutti gli heideggeriani sono chiamati seriamente a meditare.
28. I vecchi esistenzialisti, da Heidegger a Sartre, indipendentemente dalle loro posizioni politiche, hanno vissuto nel contesto storico del primato della politica che caratterizza il “secolo brevissimo” che va da l 1914 al 1975 circa. Ma dopo il 1975 si innesca quel processo progressivo di primato dell’economia che è riduttivo chiamare “neoliberismo”, perché si tratta di un qualcosa di più organico e profondo. Non si tratta soltanto del regno incontrollato del valore di scambio, ma di una generale mobilità dei capitali e di una inarrestabile flessibilità del lavoro che fanno da base per un individualismo di tipo nuovo. Il precedente individualismo era un individualismo della piccola borghesia e della sua coscienza infelice, ed era un individualismo che si orientava spontaneamente verso l’impegno politico, di destra o di sinistra. Ma questo nuovo individualismo è un individualismo di una nuova classe media globale deterritorializzata e sradicata, fortemente influenzata dai modelli di consumo dei media, che non si orienta più verso l’impegno politico, e tende anzi irresistibilmente ad accettare le diagnosi del post-moderno e della fine della storia (per una più ampia analisi mi permetto di citare Costanzo Preve, Il tempo della ricerca, Vangelista, Milano, 1993).
E’ interessante notare che mai come oggi sembrerebbe che la filosofia della reificazione e dell’alienazione dovrebbero essere di estrema attualità, visto il dominio anonimo e cosale dell’economia. Ma esse sono invece in ritirata, e non solo per il tradimento del corrottissimo ceto universitario ed editoriale, ma per il fatto che presumevano pur sempre uno scenario di possibile emancipazione e superamento del modo di produzione capitalistico. Si è dunque di fronte ad uno scenario completamente nuovo.
29. A parole tutti concordano sul fatto che lo scenario storico in cui viviamo è completamente nuovo, ma poi di fatto regna il continuismo teorico più rozzo, naturalmente nascosto sotto travestimenti posticci. La dittatura dell’economia ed il monoteismo del mercato, in sinergia con l’implosione tragicomica del comunismo storico novecentesco, non producono soltanto un nuovo scenario economico, politico e culturale. Producono anche un nuovo scenario antropologico, e qui dovrebbe appunto intervenire quel discorso filosofico che alcuni decenni fa fu egemonizzato dall’esistenzialismo. Questo nuovo scenario antropologico è indagato molto meglio da pensatori accademici non legati alla militanza, da Harvey a Jameson, da Lasch a Bauman, di quanto non sia da pensatori ancora militanti, ma troppo invischiati nelle tattiche delle linee politiche di organizzazioni gestite da scandalosi analfabeti teorici, come coloro che danno credito alle affabulazioni di Toni Negri come se fossero l’ultimo grido del pensiero comunista.
All’inizio degli anni Novanta, scrissi per l’editore Vangelista di Milano una trilogia teorica (cfr. Il Convitato di pietra, il Pianeta Rosso e L’Assalto al cielo), che era in realtà un solo volume orientato ad una radicale rifondazione filosofica del discorso comunista. A distanza di dieci anni non ho mutato opinione, ma ho certamente le idee più chiare sulle difficoltà quasi insormontabili che si incontrano e si incontreranno per far passare un mutamento qualitativo radicale nel discorso comunista. In quella trilogia ci si soffermava sui tre temi del nichilismo, dell’universalismo e dell’individualismo, e penso che anche oggi si tratti di tre nozioni centrali per un delicato passaggio teorico di fase.
Il vecchio nichilismo si manifestava in due forme diverse. Da un lato, si trattava di uno smascheramento dell’ipocrisia della morale borghese e di una richiesta di azzeramento di ogni fondamento etico della società, considerato espressione di decadenza (e Nietzsche ne è il principale esponente). Dall’altro, si trattava della fondazione storicistica del comunismo in una forma di progressismo deterministico a finale garantito. Questi due nichilismi, diversissimi l’uno dall’altro, fanno però entrambi parte di uno scenario storicamente trascorso. Il nuovo nichilismo è pienamente incorporato nella dittatura dell’economia, e tende a produrre un vero e proprio mostro antropologico che si determina esclusivamente attraverso il suo rapporto con il mercato, solo demiurgo dei desideri e dei bisogni. Il vecchio universalismo si manifestava anch’esso in due forme diverse. Da un lato, l’universalismo borghese di tipo illuministico. Dall’altro, l’universalismo proletario basato sulla classe operaia diretta dal partito. Un nuovo universalismo non potrà che essere realmente mondiale, superando il mito eurocentrico-secondinternazionalista del proletariato ed il mito sovietico-novecentesco del partito. Il vecchio individualismo si coagulava intorno alle identità della borghesia e della piccola borghesia. Il nuovo individualismo vuol fare leva su di una classe media globalizzata e deterritorializzata, priva di memoria storica e definita unicamente dal consumo. Come si vede, lo scenario antropologico è nuovo.
30. In questo scenario antropologico completamente nuovo, non vedo la possibilità e l’utilità di una ripresa dei vecchi dibattiti fra marxismo ed esistenzialismo. essi fanno parte di uno scenario storico integralmente trascorso e conchiuso. Ma è necessario conservare la memoria critica di questi dibattiti, perché è indubbio che certe costellazioni di pensiero si ripresenteranno, sia pure in forma mutata ed a prima vista irriconoscibile.