COVID-19 e geopolitica: il caso del Venezuela

Da Giovine Italia

E’ indubbio che l’emergenza covid-19 sia destinata a trasformare il panorama politico internazionale e i rapporti fra gli stati. Non solo l’Unione Europea si trova davanti ad una crisi strutturale che rischia di causarne la disintegrazione, ma l’intero sistema-globo si trova davanti ad una situazione che mette ancor più in evidenza le contraddizioni ed i limiti del modello globalizzato. All’interno di un mondo sempre più multipolare possiamo analizzare il supporto medico ed economico volto a contrastare gli effetti della grave crisi attuale come un nuovo strumento attraverso il quale gli stati esercitano la loro influenza, non solo tramite l’effetto sull’opinione pubblica del paese destinatario degli aiuti, ma anche attraverso lo sfruttamento dei “varchi” lasciati aperti dall’assenza o dalla mancanza di determinazione dei tradizionali partner ed alleati. Con opposto obiettivo, si può identificare nella crisi in cui questa pandemia ha gettato molti paesi l’opportunità da parte degli stati di attaccare i propri nemici, magari intensificando sanzioni economiche che ora più che mai possono avere l’effetto di ridurre in ginocchio un paese.  E’ il caso delle nazioni sudamericane quali il Venezuela o Cuba, da decenni coinvolti in un braccio di ferro con gli Stati Uniti d’America, dove alle nazionalizzazioni delle industrie strategiche e delle risorse, si è risposto con sempre più severi embarghi, col finanziamento di gruppi eversivi e col sistematico sabotaggio delle relazioni con paesi terzi. Analizzeremo rapidamente il caso della Repubblica Bolivariana del Venezuela.

Chavez e Maduro: la sfida al gigante americano

L’origine della tensione fra la Repubblica Bolivariana e gli Stati Uniti è da ricercarsi nelle politiche economiche messe in atto dallo stato sudamericano all’indomani dell’elezione a presidente della Repubblica di Hugo Chavez, leader dell’allora “Movimento Quinta Republica”, il quale giurò il 22 febbraio 1999. La nazionalizzazione delle aziende petrolifere, in gran parte possedute dal capitale nordamericano, aprì una stagione di tensioni destinata ad acuirsi anno dopo anno sino ad arrivare al tentato golpe del 2002, animato in massima parte dalla Confindustria locale e da parte dell’alto clero, e, dopo la morte del presidente Chavez e l’elezione del suo successore Nicolas Maduro, l’auto proclamazione in opposizione a questo di Juan Guaidò ad inizio 2019, il quale si mosse in parallelo a diversi tentativi eversivi di taluni reparti militari e di tentate sommosse da parte di oppositori di destra. E’ in questo contesto che il presidente Donald Trump ordinò ad agosto dello stesso anno l’embargo totale del Venezuela, già oggetto di sanzioni, cercando di strozzarne l’economia per innescare un processo analogo a quello avvenuto nel Cile di Allende decenni prima. 

Nonostante ciò, il sistema venezuelano si è rivelato, almeno per ora, in grado di reagire all’attacco, riuscendo a portare avanti le programmate riforme in materia di autogestione comunale (“Ofensiva Comunal 2020”) e di risoluzione del problema abitativo, oltre che iniziare il predisposto piano quinquennale di sviluppo economico (“Plan de la Patria 2019-2015”). Il governo bolivariano ha dovuto far fronte ad un problema strutturale dell’economia venezuelana, ossia la dipendenza dall’esportazione di petrolio. Capitalismo periferico rispetto ai centri economici mondiali, il Venezuela è stato per decenni sfruttato per le sue risorse dalle compagnie americane, le quali hanno messo in pratica un modello che non a torto si potrebbe definire “neocoloniale”, basato sullo sfruttamento a bassissimo costo (e ad alto impatto ambientale) delle risorse locali senza riguardo per il progresso materiale della regione, la quale, pur contando enormi risorse naturali (“[la riserva dell’Orinoco] È la più grande riserva di petrolio al mondo ed è tuttora sfruttata solo in minima parte: la fascia dell’Orinoco, un’area di 54mila chilometri quadrati lungo il corso del fiume omonimo in Venezuela, potrebbe contenerne fino a 1300 miliardi di barili secondo le stime più ottimiste, una quantità quasi pari a quella di tutte le risorse di petrolio convenzionale del globo” Sissi Bellomo, citato in “Enciclopedia Treccani”, alla voce ‘il petrolio extra pesante del Venezuela’), in periodo pre-rivoluzionario era costretta in drammatiche condizioni di povertà. Infatti, al 1998 la povertà assoluta si attestava al 12%, mentre l’indice di Gini era calcolato al 0,49. Negli anni di governo socialista si riuscì non solo ad abbassare di 8 punti percentuali la popolazione in povertà estrema e ad abbassare di 0,10 il coefficiente di Gini ( con la prospettiva di un ulteriore abbassamento allo 0,25 entro il 2025), ma anche a portare l’alfabetizzazione a livelli record per la regione (95,4% al 2015, “The world factbook”, pubblicazione annuale della CIA), e a raggiungere l’obiettivo di costruire e consegnare ben 3 milioni di case popolari. Tuttavia non sono da sottovalutare le conseguenze del blocco statunitense: centinaia di società venezuelane sono state duramente colpite, impedendo l’importazione di capitali e congelando quelli esteri collegati al governo del paese. Inoltre i nordamericani possono contare sul supporto di alleati locali risolutamente schierati contro il Venezuela, come i governi colombiano e brasiliano. Nello specifico, sono ormai periodiche le segnalazioni di paramilitari colombiani penetrati all’interno dei confini nazionali con intenti terroristici, come colombiani risultarono essere i cecchini che nel 2002 spararono contro le opposte manifestazioni radunatesi nelle piazze di Caracas, con l’obiettivo di indurre l’escalation violenta. Questa politica aggressiva nei confronti della nazione sudamericana ha causato l’avvicinamento di questo non solo agli stati vicini -politicamente quanto geograficamente- quali Cuba e, prima del golpe militare, Bolivia, ma anche alle grandi potenze strategicamente nemiche degli USA, ossia Russia e Cina. Quest’ultima si è distinta negli ultimi anni per aver intensificato l’acquisto di petrolio venezuelano e per aver aiutato il governo locale nel migliorare lo sfruttamento delle risorse, con la prospettiva di garantirsi una stabile presenza nel “cortile di casa” del nemico d’oltreoceano. Da un punto di vista strettamente militare, è stata confermata da più osservatori la presenza di esperti militari russi e cinesi in loco, spesso accompagnati da missione umanitarie, i quali agirebbero con la doppia funzione di addestramento delle forze nazionali e di dissuasione di eventuali attacchi, i quali potrebbero potrebbero infatti  comportare il ferimento o  l’uccisione di personale di Mosca o Pechino. Ultimo attaco da parte del governo americano al Venezuela è stata l’accusa mossa da Trump a Maduro e a 14 membri del suo governo di “narcotraffico, corruzione e riciclaggio di denaro”, con l’invio di navi militari con lo scopo di “contrastare il contrabbando” e mettendo sulla testa del presidente una taglia da ben 15 milioni di dollari. Questa mossa politica aggressiva è stata condannata da più parti, compreso Pino Arlacchi, 5 anni direttore esecutivo del programma antidroga dell’Onu, l’UNODC: “Non esiste se non nella fantasia malata di Trump e soci alcuna corrente di commercio illegale di narcotici tra Venezuela e Stati uniti. Basta consultare le due fonti più importanti sul tema, l’ ultimo rapporto Unodc sulle droghe (World Drug Report 2019) e l’ultimo documento della Dea (National Drug Threat Assessment 2019), la polizia antidroga americana…Il rapporto Onu che fornisce il quadro più dettagliato menziona il Messico, il Guatemala e l’Ecuador come le sedi di transito della droga verso gli Stati uniti. E l’assessment della Dea cita i celebri narcos messicani come i maggiori fornitori del mercato statunitense».

La sanità venezuelana

La struttura geografica del Venezuela taglia il paese in due aree completamente distinte: ad una zona costiera accessibile e densamente popolata, inoltrandosi verso l’interno, si susseguono giungle tropicali e il massiccio della Guyana. Linea di demarcazione è il fiume Orinoco, al di sotto del quale vive appena il 5% della popolazione, diffusa su quasi metà della superficie del paese. Nel corso dei decenni, i governi venezuelani hanno dovuto fare i conti con la necessità di garantire agli abitanti delle zone meno accessibili risorse e servizi, fra questi anche il sistema sanitario. Da questa situazione ne è scaturiata una ripartizione diseguale delle strutture mediche e dell’accessibilità a cure immediate o persino all’acqua potabile. Nonostante il numero dei presidi e dei medici sia aumentato rispetto all’epoca pre-rivoluzionaria. Nemmeno le svariate campagne messe in atto prima dal governo Chavez, come quella contro il Dengue del 2002 comprendente vaccinazioni di massa e la creazione di centinaia di presidi territoriali, poi dal governo Maduro sono riuscite a creare un sistema sanitario nazionale in grado di garantire in maniera uniforme assistenza medica ai quasi trenta milioni di cittadini del Venezuela. Per solidarietà internazionale ed amicizia fra i due paesi, Cuba ha fornito l’assistenza sul campo di diverse sue brigate mediche nel corso degli anni. A Marzo 2020 una brigata medica di esperti in epidemiologia, virologia e di esperti nel trattamento dei malati in terapia intensiva è arrivata in Venezuela, guidata dal dottor José Ernesto Betancourt Lavastida. 

Ma come mai nonostante gli oggettivi sforzi del governo e l’impegno di esperti esteri la sanità venezuelana, pur garantendo localmente condizioni di trattamento superiore a quelle dei vicini, continua a mancare sia di di strutture che di materiali adeguati? Oltre alle già menzionate sanzioni statunitensi, la discesa del prezzo del petrolio ha indebolito in questi anni la capacità di reazione dello stato venezuelano. La caduta vertiginosa del prezzo del greggio alla quale si sta assistendo dall’inizio dell’epidemia ha indubbiamente aggravato la situazione: in particolare registriamo una diminuzione i più del 50% da dicembre 2019-gennaio 2020, con un prezzo che si attesta ad oggi alla cifra irrisoria di 20.97 dollari al barile (https://www.macrotrends.net/1369/crude-oil-price-history-chart). Questo crollo va comunque contestualizzato in un periodo pluri-annuale di decrescita del prezzo del greggio, che dal 2014 è diminuito a ritmo sostenuto dopo aver conosciuto alcuni anni di crescita dopo la crisi del 2008, la quale comunque portò il prezzo a livelli tre volte superiori a quelli attuali. Non deve sorprendere dunque che il presidente Maduro abbia attuato misure volte a contenere il contagio, dichiarando il sistema sanitario in emergenza e vietando assembramenti  ed eventi pubblici. Ciò che deve però sorprendere è che nonostante la crisi petrolifera, le condizioni geograficamente sfavorevoli e lo strangolamento nordamericano, il Venezuela rimanga ad oggi il paese dell’America Latina continentale col più basso tasso di infetti da covid-19, il più alto tasso di guariti e il più alto numero di tamponi eseguiti. Andiamo ad analizzare queste cifre nel dettaglio.

Al 19 aprile risultano in Venezuela 255 casi di coronavirus, registrati grazie a ben 181335 test effettuati (all’11 aprile). Di questi infetti, solamente otto sono deceduti (dati al 20/4/2020), un 3% degli infetti, dunque, mentre in paesi vicini come Brasile e Colombia tale dato si attesta rispettivamente al 6% (18 aprile) e 4% (19 aprile). Nonostante il numero dei tamponi sia stato contestato da alcuni osservatori esterni ed oppositori interni come “manomesso”, vedendo i dati relativi ai decessi e ai contagi, peraltro dati accettati a livello internazionale, e considerando l’alta concentrazione della popolazione nelle zone costiere, non si può che dedurre che il governo di Caracas abbia messo in campo forze ingenti volte a garantire la sicurezza sanitaria dei suoi cittadini. E’ inoltre improbabile che vi siano molti casi non dichiarati nelle zone più impervie, in quanto le scarsa comunicazione e la bassa densità abitativa possono aver agito da barriera naturale contro la diffusione del virus. Le ragioni di questo successo della sanità venezuelana sono da ricercarsi nella creazione di solide comunità autogestite, le quali hanno potuto fin da subito gestire al meglio la situazione individuando ed isolando i contagiati, e nella presenza di un sistema sanitario nazionale pubblico e gratuito, vicino alle esigenze delle persone dei cittadini ed abituato a far fronte ad epidemie periodiche, in specie nelle zone rurali. Inoltre si è assistito ad un fenomeno “particolare”, in quanto vi è stato il ritorno in patria di ben 6000 emigrati (https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-perch_i_migranti_venezuelani_continuano_a_tornare_in_patria/5694_34314/), numero in costante crescita e che segnala la percezione della situazione venezuelana come più sicura rispetto a quella degli stati di residenza dei fuoriusciti. Per far fronte a possibili contagi provenienti dall’esterno tutti loro stanno venendo testati, mentre sono stati chiusi i confini terrestri.

 Non è escluso che la situazione possa peggiorare drasticamente a fronte di eventi straordinari, come potrebbero essere sabotaggi interni piuttosto che ulteriori restrizioni imposte dagli Stati Uniti, ma per ora il Venezuela bolivariano, nonostante la crisi vissuta negli ultimi anni, si è dimostrato perfettamente in grado di proteggere la propria popolazione e di servire da esempio positivo di organizzazione sociale e di senso di comunità. 

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