Qual è – se c’è – l’attuale strategia Usa?

Da Contropiano.

Oltre la Globalizzazione, la nuova strategia per il Dominio dell’Occidente

Se si mette da parte la discussione ideologica sui “valori” – dell’Occidente neoliberista, of course – e ci si concentra sugli interessi della varie classi in campo, sulle loro strategie palesi e quelle che risultano dagli atti concreti, le cose diventano improvvisamente più nitide. Non meno tragiche o infami, ma almeno comprensibili.

L’atteggiamento dell’attuale presidenza degli Stati Uniti nei confronti della guerra in Ucraina è razinale solo se si ammette un’intenzione, una strategi, una visione. Altrimenti è da fuori di testa urlare che “Putin non può restare al potere” e contemporaneamente smentire che si voglia realizzare un regime change a Mosca.

Dunque è inutile stare a sentire le dichiarazioni – anche se obbligatorio sapere che ci sono state – e seguire l’antico precetto dei saggi: follow the money.

L’editoriale di Guido Salerno Aletta, questa volta su TeleBorsa, coglie come al solito il punto centrale: qual’è la strategia Usa per mantenere un’egemonia sul mondo? O almeno su una parte consistente?

Dipende da quale frazione del capitale Usa stia conducendo il gioco, ma il cuore del problema è la sofferenza di una gran parte della popolazione che ha perso reddito, peso sociale, lavoro, certezze, status. Chiunque voglia governare – parliamo di frazioni del capitale – deve riuscire a farsi seguire da una maggioranza (alle elezioni) e dunque deve garantire qualcosa di paragonabile a una crescita. O almeno a un recupero dei posti di lavoro perduti.

Qui la strategia di Trump, che ne aveva permesso la vittoria nel 2016, era tutto sommato semplice, ma impossibile: reinternalizzare buona parte della old economy che aveva preso la nave verso la Cina e altri luoghi dell’Estremo Oriente, inseguendo un costo del lavoro (un tempo) più basso e forte comunque della centralità del dollaro. Oltre che della supremazia militare, ovvio…

Ma non si rimette il dentifricio nel tubetto, una volta uscito. E dunque Wall Street – la borghesia finanziaria e le gigantesche corporation della new economy – hanno avuto la possibilità di superare momentaneamente quella frattura sociale e politica, riprendendo in mano le redini del paese.

Ma i posti di lavoro – quelli buoni, ben pagati sicuri e tendenzialmente fissi – non sono aumentati. I neri hanno continuato a morire per mano della polizia. I giovani restano disoccupati a lungo, anche con buoni titoli di studio. Le minoranze etniche sono state nuovamente dimenticate dopo una breve passione elettorale.

Ciò nonostante la strategia di questa frazione del capitale – non a caso quello a più alta concentrazione e capacità di innovazione – è rimasta la stessa. Non potendo tornare ai bei tempi del fordismo fabbrichista, allora non resta che mettere in crisi i “nemici” più forti. Quelli deboli (Iraq, Somalia, Siria, Libia, Afghanistan, ecc), anche se sconfitti, non cambiano l’equazione del potere globale.

Lo sforzo, sia verso la Russia che a maggior ragione contro la Cina, è quello di sconvolgerne gli equilibri economici per sollecitare un cambiamento politico radicale. O, più semplicemente, un lungo periodo di crisi sociale interna, difficilmente gestibile ma molto incisiva sulle capacità di quei paesi di continuare a competere con gli Usa.

Salerono Aletta sintetizza questa strategia come un “isolare per disgregare”. Ossia un “espellere” da alcuni circuiti finanziari e commerciali questi due “nemici” – più eventualmente altri – e lavorarli ai fianchi per destabilizzarne l’assetto.

E’ lo schema delle “rivoluzioni colorate”, che hanno dato qualche risultato praticamente solo in Ucraina, mentre altrove (paesi arabi, Bielorussia, Venezuela – avete notizie di Guaidò? – , ecc) hanno prodotto solo un temporaneo “casino”.

Certo che Russia e Cina sono obiettivi molto più ambiziosi, E coriacei. Giocare alla destabilizzazione sociale è sempre un rischio, specie se tu stesso – gli Stati Uniti, in questo caso – sei da anni sull’orlo di una spaccatura sociale mai vista dai tempi della Guerra di Secessione.

E i segnali che arrivano in questo momento dalla “pancia” degli States non sono affatto tranquillizzanti, per i guerrafondai d’Oltreoceano. Ma non sarebbe la prima volta che una potenza in calo sbaglia i suoi calcoli…

Riequilibrare? Meglio Isolare per Disgregare

Con lo slogan MAGA, acronimo di “Make America Great Again”, la Presidenza americana di Donald Trump aveva preso atto di un errore strategico: la New Economy basata sulle tecnologie informatiche e di telecomunicazioni su cui gli Usa avevano puntato a partire dagli Anni Ottanta non era stata in grado di sostituire né in termini di occupazione, né di valore della produzione, le importazioni dall’estero delle merci prodotte dalla Old Economy.

La industria manifatturiera era stata infatti abbandonata progressivamente per delocalizzare dapprima in Messico e poi in Cina.

Nel processo di globalizzazione dei mercati, soprattutto a partire dal 2001 quando la Cina entrò a far parte del WTO, alla crescita economica della Cina medesima era corrisposto un progressivo impoverimento degli Usa, costretti ad importare merci a debito anche dall’Europa. L

a componente di esportazione dei Servizi, su cui avevano puntato gli Usa, non era riuscita a compensare l’importo delle merci importate, nonostante la riduzione del loro valore unitario che era stata determinata dai bassi costi salariali impliciti.

La strategia di riequilibrio delle relazioni commerciali con l’estero, al fine di riassorbire l’enorme deficit con la Cina che fu impostata dalla presidenza Trump, si basava sulla imposizione di dazi a carico delle importazioni dalla Cina, rendendole artificiosamente più care per i consumatori americani: aumentandone il costo, la produzione domestica sarebbe diventata competitiva.
L’obiettivo di Trump di riequilibrare le relazioni commerciali con la Cina si scontrava con un’altra, e ben diversa, strategia: quella della Finanza americana, sostenuta da Wall Street e dai grandi Fondi ai Investimento, volta ad invadere la Cina per poter intermediare l’enorme risparmio di quel Paese.

Mentre Trump cercava di limitare l’import di merci cinesi, Wall Street cercava all’opposto di aumentare la propria penetrazione in Cina.
La strategia del riequilibrio è lunga, complessa, ma soprattutto riduce le prospettiva della dominanza globale della Finanza americana: il suo obiettivo rimane sempre lo stesso, quello di conquistare anche la Russia e la Cina.

La Presidenza Biden si è dunque mossa su un binario completamente diverso: nei confronti della Cina ha alleggerito la pressione economica sui dazi, ma ha aumentato quella politica: rispetto a Taiwan, la riunificazione sempre agognata da Pechino non potrà avvenire con la forza.
Lo stesso è accaduto per quanto riguarda i rapporti degli Usa nei confronti della Russia: è stato enfatizzato lo scontro sulla Ucraina, una questione che durante la presidenza Trump era rimasta in sordina.

La nuova strategia della Presidenza Biden comporta l’isolamento di Russia e Cina con l’obiettivo di farne implodere i sistemi politici che le governano:

  • nei confronti della Russia, occorre che in Europa si rivitalizzi il ruolo della Nato per creare una sorta di nuova Cortina di Ferro nei confronti della Russia. Si tratta di isolarla politicamente, economicamente e finanziariamente: le sanzioni, che servono a questo scopo, sono state adottate però solo dai Paesi Occidentali, Usa, Ue e Canada. Molti altri si sono astenuti dall’imporle, dalla Turchia alla Cina, passando per l’India, l’Iran ed il Brasile;
  • nei confronti della Cina, per contrastare la crescente presenza militare nel Pacifico, è stata costituita una nuova Alleanza, denominata AUkUs, composta da Australia, UK ed Usa.

La strategia statunitense dell’isolamento di Russia e Cina non mira solo a creare un Nuovo Grande Occidente, denominato Anglosfera nella visione britannica, ma un intero mondo su cui finalmente si estenderà la dominanza statunitense:

  • la Russia finirà per frammentarsi in diverse componenti territoriali che saranno soggette ad influenze straniere, da quella della americana a quella cinese;
  • la Cina vedrà finalmente prevalere la componente globalista, sostenuta dall’influenza americana, sul Partito comunista.

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