Da Intersezionale (Parte I e II).
Attorno alla figura e all’opera di José Carlos Mariátegui (1894-1930) si è consolidato ormai un vasto e variegato patrimonio di ricostruzioni storiografiche e analisi interpretative. A partire dalla sua prematura scomparsa all’età di soli trentacinque anni, il suo pensiero è stato oggetto di un acceso dibattito politico culturale in America Latina. C’è chi ha voluto vedere in lui un populista piccolo-borghese, altri un fedele marxista-leninista, una guida ideologica della guerriglia maoista oppure il teorico del nazionalismo indigenista: risulta quindi ancora difficile comprendere come la sua riflessione teorica non sia riuscita a emergere su questa sponda dell’Atlantico, soprattutto se si pensa alla crescente diffusione che ormai anche in Italia stanno avendo i cultural studies1.
Mariátegui può essere considerato a tutti gli effetti uno dei precursori nell’ambito degli studi culturali: proprio a partire dalla relazione tra politica e cultura, infatti, il pensatore peruviano tesse il filo della propria produzione di giornalista, saggista, critico d’arte e politico. Inoltre leggendo Peruvianizziamo il Perù, Saggi e Opere, L’Anima mattutina, La scena contemporanea, Figure e aspetti della vita mondiale2, non si può non rimanere affascinati dalla straordinaria vastità di letture e di interventi critici che Mariátegui, nell’arco della sua breve esistenza, seppe realizzare, senza per questo negarsi a quel magistero diretto con gli amici e i compagni di lotta in cui si risolvevano non solo le sue lezioni, ma persino le conversazioni e gli incontri nella sua casa di Lima.
Nato il 14 giugno del 18943 nel piccolo villaggio di Moquegua nel Sud del Perù, da Francisco Javier Mariátegui Requejo di lontana origine basca, discendente in linea paterna dall’illustre pensatore liberale Francisco Javier Mariátegui y Tellería (1793-1884), e da una meticcia di nome Amalia La Chira, il giovane Mariátegui vive la sua infanzia in un ambiente familiare che non avrebbe potuto essere più umile. La madre, separata dal padre che José Carlos non conobbe mai, lo mantiene con il suo lavoro di sarta. Durante la fanciullezza riceve un duro colpo al ginocchio sinistro che lo porterà, ormai adulto, all’immobilità fisica e infine, alla morte il 16 aprile 1930, quando non avrà ancora compiuto trentasei anni. In questo arco vitale tanto breve quanto intenso, lo spazio che occupa l’attività teorica e politica su cui si concentrerà la sua attenzione, abbraccia solo gli ultimi sette anni di vita.
Dal 1911 al 1919, tra i 16 e i 25 anni di età, durante la sua attività giornalistica presso vari quotidiani di Lima inizia a interessarsi alle idee socialiste. Radicalismo ed anarcosindacalismo avevano costituito la sua iniziale scuola politica. Nel 1909 egli si era legato a Juan Manuel Campos, che gli aveva trovato lavoro nella tipografia del quotidiano La Prensa e l’aveva avvicinato a Manuel González Prada, che intrecciava radicalismo e anarchismo.
Mariátegui aveva partecipato alle riunioni delle associazioni libertarie La Protesta e Luz de amor; si era interessato alle opere di Prada, Kropotkin4 e Tolstoj. Due amici, Víctor M. Maúrtua e Remo Polastri Bianchi, lo avevano aiutato a comprendere Sorel. Il socialismo che animava il giovane Mariátegui aveva caratteri letterari, umanitari, si nutriva di tensioni morali e sentimentali; risentiva dell’influenza del cristianesimo evangelico e della religiosità indigena e cattolica peruviane, del moderatismo democratico e popolare, dell’elitismo radicale, dell’interclassismo anarchico e del wilsonismo. D’altra parte il socialismo non era in Perù più avanti di quello a cui era pervenuto Mariátegui. Il materialismo dialettico, anche per la scarsa diffusione che aveva nel paese l’hegelismo, vi si diffondeva lentamente, superficialmente; in forme approssimative e spurie, esso si adattava ai caratteri compositi del pensiero radicale ed anarcosindacalista e a quelli della revisione positivista loriana5.
Era quasi inevitabile d’altra parte che in una situazione di forte arretratezza dello sviluppo capitalistico come quella peruviana la diffusione delle idee socialiste6 acquistasse una coloritura nettamente anarchica, più bakuninista e proudhoniana che marxista. Dopo aver svolto le mansioni più umili, comincia giovanissimo l’attività di giornalista, con lo pseudonimo di Juan Croniquer7.
Nel 1916 passa al quotidiano El Tiempo, dove si occupa di una rubrica dedicata ai lavori parlamentari. Collabora a diverse riviste e inizia una vasta attività letteraria, con poesie, racconti e opere teatrali. Un suo articolo che descrive una processione tradizionale viene premiato nel 1917. Nello stesso anno viene arrestato con alcuni amici dopo aver assistito alla danza notturna della ballerina Norka Rouskaya nel cimitero di Lima8.
Nel 1918, insieme agli amici César Falcón e Félix del Valle, inizia la sua prima impresa giornalistica autonoma, con la rivista Nuestra Época. Un articolo sulle spese dell’esercito provoca un’aggressione contro di lui da parte di un gruppo di ufficiali e la rivista è costretta a chiudere dopo il secondo numero. L’anno successivo fonda il quotidiano La Razón, che si schiera con le lotte operaie e studentesche. Il giornale deve ben presto chiudere e a Mariátegui e a Falcón viene offerto dal governo di Augusto Leguía che, conquistato il consenso sociale e politico con promesse democratico-popolari, nazionaliste e sostenuto dalla finanza filoindustriale nordamericana, aveva deposto con un golpe il 4 luglio 1919 il presidente José Pardo, un esilio mascherato in Europa, come alternativa alla prigione9.
Durante la sua permanenza in Europa – soprattutto in Italia – dal 1919 al 1922, studierà il marxismo e si avvicinerà al movimento comunista. Il soggiorno in Italia coincide con quell’arco di tempo che inizia con il governo Nitti e termina con la conferenza di Genova, un periodo segnato da avvenimenti come l’avventura dannunziana a Fiume e lo “sciopero delle lancette” a Torino, la sommossa di Ancona e la pubblicazione della Carta del Carnaro, l’occupazione delle fabbriche e l’assalto fascista al Palazzo d’Accursio a Bologna, il Congresso di Livorno e l’elezione di Pio IX, i vari congressi socialisti, popolari, cattolici e fascisti – senza dimenticare tutto quello che si scrive, si pubblica, si traduce. Con il suo amico e compagno di lotta César Falcón partecipa come corrispondente al Congresso di Livorno (gennaio 1921) in cui si verifica la scissione tra socialisti e comunisti. In Italia legge il quotidiano L’Ordine Nuovo «diretto – come informa Mariátegui nei suoi articoli – da due dei più notevoli intellettuali del Partito: Terracini e Gramsci»10.
Nello stesso anno, si sposa con la lucchese Anna Chiappe dalla quale avrà il suo primogenito Sandro. In Italia ha occasione di conoscere le Tesi della Terza Internazionale e, pertanto, apprende le ragioni di fondo della divisione fra socialisti e comunisti. E, insieme a questo, conosce le vicende della Rivoluzione russa del 1917, come non gli era stato possibile fare in Perù. Ma la raccolta di esperienze in terra italiana non si ferma qui. In Italia assiste alla nascita e all’espansione della marea controrivoluzionaria che porterà al fascismo, la cui vera natura non sfugge – come invece accadde a molti – al suo sguardo lucido e penetrante.
Infine, sempre nel nostro paese, conosce Benedetto Croce «la cui fama di filosofo e letterato – come scrive lo stesso Mariátegui – è grandissima, mondiale e legittima»11. La profonda stima dell’intellettuale peruviano nei confronti di Croce deriva dal fatto che a quel tempo la sua figura rappresentava il polo attorno al quale si coordinavano i diversi motivi della reazione contro il positivismo e, più in generale, contro le deformazioni riformiste o positiviste del marxismo12. Nel 1922, dopo aver assistito alla Conferenza Economica Internazionale di Genova, dove incontra Togliatti13, compie un lungo viaggio nell’Europa Centrale, visitando Austria, Ungheria, Cecoslovacchia e Germania.
Le corrispondenze inviate dall’Italia alla stampa peruviana testimoniano un interesse acuto e pensoso per il travaglio che ha vissuto il nostro paese in quegli anni, sia nelle sue manifestazioni politiche che nei suoi aspetti culturali. Al ritorno in patria queste impressioni saranno rielaborate e sintetizzate in quella Biología del fascismo14 che ancora colpisce per la precisione con cui sono colte la tipologia e la dislocazione di tutte le componenti che contribuirono all’avvento del regime. Si veda la rigorosa analisi del contenuto di classe del fascismo, il ritratto dello stesso Mussolini e del suo ripudio dell’esperienza socialista:
«il caso di Mussolini si distingue da quello di Bonomi, di Briand e di altri ex socialisti. Bonomi e Briand non si videro costretti ad abbandonare completamente la loro origine socialista. Si attennero piuttosto a un socialismo minimo, a un socialismo omeopatico. Mussolini invece, è arrivato a dire che arrossiva del suo passato socialista come un uomo maturo arrossisce delle sue lettere d’amore di adolescente. Ed è passato dal socialismo più estremista al conservatorismo più eccessivo. Non ha attenuato o ridotto il suo socialismo, bensì lo ha completamente abbandonato. I suoi programmi economici sono, per esempio, contrari a una politica di intervento, di statalismo, di fiscalismo; non comprendono un tipo di Stato capitalistico impresario, ma tendono a restaurare il tipo classico dello Stato esattore e gendarme»15.
Mariátegui sottolinea con vigore la componente irrazionalistica presente nel movimento fascista e nel suo capo, e analizza le radici ideologiche dannunziane del movimento. Emerge in questo quadro il ruolo importantissimo giocato dalla spedizione fiumana e dalla sua ideologia, il “fiumanesimo”:
«Il fiumanismo non voleva discendere dal mondo astrale e olimpico della sua utopia al mondo contingente, precario e prosaico della realtà. Si poneva al di sopra della lotta di classe, al di sopra del conflitto tra l’idea individualistica e quella socialista, dell’economia e dei suoi problemi. Isolato dalla terra, perduto nell’aria, il fiumanismo era condannato a dissolversi e a morire. Il fascismo, invece, prese posizione nella lotta di classe e, sfruttando l’avversione della classe media per il proletariato, la inquadrò nelle sue file e la portò alla battaglia contro la rivoluzione e contro il socialismo. Tutti gli elementi reazionari, tutti gli elementi conservatori, desiderosi più di un capo risoluto a combattere contro la rivoluzione che di un uomo politico disposto a venire a patti con essa, si arruolarono e si raccolsero nelle file del partito fascista. Esteriormente, il fascismo conservò i suoi tratti dannunziani; interiormente, il suo nuovo contenuto sociale, la sua nuova struttura sociale spazzarono via e soffocarono la fumosa ideologia dannunziana. Il fascismo è cresciuto e ha vinto non come movimento dannunziano, ma come movimento reazionario; il fascismo è, invece, un fenomeno eminentemente politico. Di conseguenza il condottiero del fascismo doveva essere un politico, un “duce” tumultuoso, plebiscitario, demagogico. E per questo che il fascismo incontrò il suo duce, il suo animatore, in Benito Mussolini e non in Gabriele D’Annunzio. Il fascismo aveva bisogno di un capo pronto ad usare contro il proletariato socialista il revolver, il bastone, l’olio di ricino; ma la poesia e l’olio di ricino sono cose inconciliabili e diverse»16.
Altrettanto precisa è l’analisi che Mariátegui dà del socialismo italiano, in cui viene rielaborato il giudizio dato immediatamente dopo il Congresso di Livorno inserendolo nel contesto di una crisi europea del movimento socialista. È veramente eccezionale la capacità del pensatore peruviano di cogliere e definire le due anime diverse che coesistevano all’interno del socialismo. Al di là del formale successo del Congresso di Bologna, viene sottolineata la sopravvivenza di quello spirito riformista della burocrazia di partito che emergerà pienamente nel corso dell’esperienza fallimentare dell’occupazione delle fabbriche.
Interessante e valida è la diagnosi delle ragioni della debolezza del nucleo centrista di Serrati, tra le quali viene indicata l’assenza di forti personalità, di cui invece abbondavano i riformisti. Soprattutto si mette in rilevo la mancanza di uno spazio politico intermedio tra la scelta rivoluzionaria dei comunisti e la linea dell’ala riformista. Traspare da tutto l’articolo l’ammirazione per il nuovo Partito comunista, del cui “stato maggiore” Mariátegui ricorda: «l’avvocato Terracini de l’Ordine Nuovo di Torino, il professor Graziadei, l’ingegner Bordiga»17.
Nel 1923 Mariátegui ritorna in Perù e partecipa all’Università popolare e alla rivista di sinistra Claridad. Vittima di una grave malattia, l’anno seguente i medici si vedono costretti ad amputargli la gamba destra. Da allora vivrà gli anni che gli rimangono su una sedia a rotelle. Nel 1925 fonda la casa editrice Minerva e pubblica il suo primo libro, La escena contemporánea. Nel 1926 accetta l’invito di Victor Raúl Haya de la Torre a partecipare all’Alianza Popular Revolucionaria Americana (APRA), movimento antimperialista che si presenta come una sorta di Kuomintang18 latino-americano e il cui programma si esprime in cinque punti essenziali: 1) lotta contro l’imperialismo americano; 2) unità politica dell’America Latina; 3) nazionalizzazione della terra e dell’industria; 4) internazionalizzazione del canale di Panama; 5) solidarietà con gli oppressi di tutto il mondo19.
Nello stesso anno, Mariátegui fonda la rivista Amauta, nome che nella lingua quechua, l’idioma parlato nel Tawantinsuyo, l’antico impero Inca, significa “maestro” o “sapiente” e che designava il saggio consigliere del monarca incaico. In questo modo il pensatore peruviano vuole sottolineare il legame con le radici nazionali e al tempo stesso, dare all’antico vocabolo una nuova accezione, funzionale alle esigenze di conoscenza delle nuove classi in ascesa. Su questa rivista verranno pubblicati testi di Sorel, Babel’, Pilniak, Unamuno, Toller, Barbusse, Ercoli (Togliatti), Romain Rolland, Waldo Frank, Plechanov, Vallejo, Lunačarskij, Aragon, Marinetti, Ėrenburg, Pettoruti, Freud, Bucharin, Rosa Luxemburg, Lenin, Trockij, André Breton e Maksim Gor’kij, oltre ad autori peruviani e latinoamericani. A questa si affianca il quindicinale Labor, più direttamente legato all’intervento politico.
Nel 1927, la polizia del regime di Leguía denuncia una presunta “cospirazione comunista” e Mariátegui viene arrestato insieme ad altri intellettuali e lavoratori militanti. Dopo la sua scarcerazione nel 1928, rompe con Haya de la Torre20. Oltre che essere espressione di una più coerente prassi politica, il distacco del pensatore peruviano dall’APRA rappresenta la manifestazione di una maturazione ideologica che segna la sua definitiva acquisizione dei fondamenti della dottrina marxista, il che lo induce di conseguenza ad abbandonare l’idea di un illusoria alleanza interclassista con il partito di Haya de la Torre, ancora attaccato ad un idea del socialismo piccolo borghese e democratico-populista.
Il 7 ottobre 1928 a Barranco, nei pressi di Lima, Mariátegui insieme a Julio Portocarrero, Avelino Navarro, César Hinojosa, Fernando Borja, Ricardo Martínez La Torre e Bernardo Regman fonda il Partito socialista peruviano (PSP), che un mese dopo la sua morte si trasformerà in Partito Comunista Peruviano e chesi affilierà all’Internazionale comunista.
Sulla base dei sei punti del Programa del Partido socialista deliberato a Barranco, il pensatore peruviano adempie all’incarico di redigere un programma del PSP, cioè El Programa debe ser una declaración que afirma21. Nella prima parte di esso, definita «declaración doctrinal»22, Mariátegui precisa nove questioni. Al punto 1 rileva «il carattere internazionale dell’economia contemporanea», poi, al punto 2, quello, pure internazionale, «del movimento rivoluzionario proletario»23. Nei punti 3 e 4 sostiene che «il capitalismo è nella sua fase imperialista» e perciò «non consente a nessuno dei popoli semicoloniali […] un programma economico di nazionalizzazione e di industrializzazione»; al contrario, li costringe «alla specializzazione, alla monocultura […] in funzione dei fattori peculiari del mercato mondiale capitalista»24. In questa situazione, sosteneva il punto 4, «la prassi del socialismo marxista» non poteva essere che «quella del marxismo-leninismo. Il marxismo-leninismo è il metodo rivoluzionario25 della fase dell’imperialismo e dei monopoli. Il Partito Socialista del Perù lo accetta come suo metodo di lotta»26.
Sempre nel 1928 Mariátegui pubblica il suo libro più famoso: Sette saggi sulla realtà peruviana27. Considerata l’opera somma del marxismo in America Latina, in questo volume Mariátegui sostiene che gli inca avrebbero sviluppato un sistema di produzione collettivista che era orientato spontaneamente verso il comunismo. Questo sviluppo sarebbe stato violentemente interrotto dall’arrivo degli spagnoli, che avrebbero stabilito un’economia feudale. La sua analisi si appoggiava sui lavori dello storico peruviano César Ugarte28, il quale descrive le caratteristiche essenziali del regime di proprietà della terra nel Tawantinsuyo, nel quale i pilastri dell’economia erano l’ayllu, l’unità sociale e politica dell’impero, composta in genere da un gruppo di famiglie unite nella parentela che possedevano la proprietà collettiva della terra, e la marca, una federazione di ayllus che aveva la proprietà collettiva delle acque, dei pascoli e dei boschi((Descrivendo il sistema sociale del Tawantinsuyo César Ugarte scrive: «Proprietà collettiva della terra coltivabile, anche se divisa in molti lotti individuali non trasferibili, attribuita all’ayllu, o insieme di famiglie imparentate tra loro; proprietà collettiva delle acque, delle terre da pascolo e dei boschi attribuita alla marca o tribù, vale a dire la federazione di ayllu insediate attorno a uno stesso villaggio; cooperazione nel lavoro; appropriazione individuale dei raccolti e dei frutti»29.
Mariátegui introdusse una distinzione tra l’ayllu, formato dalle masse anonime nel corso dei millenni, e il sistema unitario dispotico fondato dagli imperatori inca. Insistendo sull’efficienza economica di questa agricoltura collettivista e sul benessere materiale della popolazione, Mariátegui, giunse alla conclusione nei suoi Sette saggi che «il comunismo incaico – che non può essere negato o sminuito solo per essersi sviluppato sotto il regime autocratico degli incas – viene chiamato, pertanto, comunismo agrario30. Respingendo la concezione unilineare ed eurocentrica della storia, secondo la quale l’umanità progredirebbe per “stadi” che costituirebbero tappe progressive dello sviluppo storico che i paesi arretrati sarebbero inevitabilmente costretti a ripercorrere, non solo valorizzò il ruolo dell’ayllu nella battaglia per la transizione al socialismo, ma sostenne che «il regime coloniale disorganizzò e annientò l’economia agraria degli incaica senza sostituirla con un’economia più redditizia»31.
Il sistema comunitario indigeno, secondo Mariátegui, era dunque più fecondo e produttivo rispetto a un regime feudale basato su relazioni di lavoro servile. «Contro tutti i rimproveri, che in nome di concetti liberali, vale a dire moderni, di libertà e di giustizia si possono fare al regime incaico – scrive il pensatore peruviano – c’è il fatto storico, positivo e concreto, ch’esso assicurava il sostentamento e la crescita di una popolazione che quando arrivarono in Perù i conquistatori era di dieci milioni e che in tre secoli di dominio spagnolo scese ad un milione.
Questo fatto condanna il colonialismo e non dal punto di vista astratto, teorico o morale – o come lo si voglia definire – della giustizia, ma dal punto di vista pratico e concreto dell’utilità»32. D’altro canto egli era pienamente consapevole che la prospettiva di un semplice ritorno al “comunismo agrario” degli inca avrebbe potuto risolversi in un’operazione del tutto inutile, nel senso dell’indigenismo deteriore, senza l’applicazione e, in via prioritaria, la conoscenza della scienza e del pensiero europeo o occidentale.
Nella «sua analisi Mariátegui dimostra che il capitalismo, approdato in Perù nella forma aggressiva e predatoria dell’imperialismo capitalista, anziché favorire l’abbattimento delle relazioni di lavoro servile tipiche del mondo feudale», si è avvantaggiato di queste ultime, «favorendo la signoria creola nell’amministrazione oligarchica del potere.
La gestione del potere da parte di un’oligarchia ristretta, da un lato escludeva le masse, dall’altro garantiva forza lavoro a basso costo per le multinazionali straniere, le quali potevano così agire come vere e proprie enclave dell’imperialismo. La subordinazione ai capitali stranieri impediva, inoltre, la crescita di una borghesia nazionale autonoma in grado di portare a compimento quella missione storica rivoluzionaria realizzata dalla borghesia europea: il sovvertimento della società feudale»33.
I paesi latinoamericani giungono con ritardo alla competizione capitalista e il loro destino è quello di semplici colonie. Per tale motivo l’unica classe che può ricoprire un ruolo coerentemente rivoluzionario è la classe operaia alleata con gli indios nelle serre. Senza questa alleanza, gli indigeni non avrebbero speranze nella loro lotta contro i caciques; parimenti, gli operai, dato il loro numero esiguo, non avrebbero nessuna possibilità di conquistare il potere. Ma tale “blocco storico” (per usare un linguaggio gramsciano) una volta giunto al potere sarebbe costretto non solo a realizzare il programma della rivoluzione borghese democratica abbandonato dalla borghesia, ma avrebbe dovuto necessariamente avanzare misure socialiste mettendo in discussione la proprietà borghese.
Emerge qui un possibile confronto tra la riflessione di Trockij sulla “rivoluzione permanente” e il pensiero di Mariátegui34. Nel suo celebre volume Storia della rivoluzione russa Trockij spiega che la borghesia russa, così come quella dei paesi sottosviluppati, non nasce, come accaduto in Occidente, attraverso un lungo processo secolare staccandosi dalle corporazioni urbane medievali. I capitali che costruiscono l’industria russa sono in larga parte capitali stranieri, che saltando tutta una serie di fasi intermedie trapiantano in un paese arretrato la grande industria nelle sue forme più moderne. Si crea una alleanza tra questo capitale, lo Stato zarista, le banche e la nobiltà terriera che si trova sempre più strettamente legata alla borghesia. Al tempo stesso si forma un proletariato che rapidamente si trova ad occupare un posto decisivo nell’economia e nella società. Lo sviluppo del capitalismo assume quindi un carattere diseguale e combinato. Scrive Trockij:
«Un paese arretrato assimila le conquiste materiali e intellettuali dei paesi avanzati. Ma ciò non significa che li segua servilmente, ripercorrendo le fasi del loro passato. La teoria del ripetersi dei cicli storici – propria del Vico e dei suoi discepoli – si basa sull’osservazione dei cicli compiuti dalle vecchie culture precapitalistiche e in parte sulle prime esperienze dello sviluppo capitalistico. Il carattere provinciale ed episodico di tutto questo processo comportava effettivamente un certo ripetersi delle fasi culturali in centri sempre nuovi. Ma il capitalismo segna il superamento di tali condizioni. Esso ha preparato e, in un certo senso, realizzato l’universalità e la continuità del progresso umano. Di conseguenza, resta esclusa la possibilità di un ripetersi delle forme di sviluppo da parte di paesi diversi. Costretto a mettersi a rimorchio dei paesi avanzati, un paese arretrato non segue lo stesso ordine di successione: il privilegio di una situazione storicamente arretrata – poiché esiste tale privilegio – autorizza o, più esattamente, costringe un popolo ad assimilare tutto quello che è stato fatto prima di una determinata data, saltando una serie di fasi intermedie. I selvaggi rinunciano all’arco e alle frecce per prendere immediatamente il fucile, senza ripercorrere la distanza che nel passato ha separato queste due armi. Gli europei che colonizzavano l’America, non riprendevano la storia dall’inizio»35.
Dall’analisi di Trockij si evince come lo sviluppo del capitalismo nei paesi arretrati, come la Russia, non può passare attraverso le tappe dello sviluppo che hanno conosciuto i primi paesi capitalisti come l’Inghilterra, la Francia o gli Stati Uniti. Questo perché il paese in ritardo deve concentrare in un breve lasso di tempo un certo numeri di fasi combinandole con le proprie caratteristiche interne. Tuttavia il ritardo può essere uno stimolo per lo sviluppo, talvolta così forte da consentire all’economia ritardataria di scavalcare diverse fasi, oppure divenire un impedimento spesso così grave da condannare il paese ritardatario ad un perpetuo spreco delle sue già scarsissime risorse in un inseguimento senza speranza e senza significato. Scrive ancora Trockij:
«Lo sviluppo di un paese storicamente arretrato porta necessariamente a una combinazione originale delle diverse fasi del processo storico. L’orbita acquista, nel suo insieme, un carattere irregolare, complesso, combinato. La possibilità di saltare le fasi intermedie, va da sé, non è affatto assoluta: in ultima analisi, è limitata dalle capacità economiche e culturali del paese. […] La legge razionale della storia non ha nulla a che vedere con schemi pedanteschi. L’ineguaglianza dello sviluppo, che è la legge più generale del processo storico, si manifesta con maggior vigore e complessità nelle sorti dei paesi arretrati. Sotto la sferza delle necessità esterne, lo loro cultura in ritardo è costretta ad avanzare a salti. Da questa legge universale della ineguaglianza deriva un’altra legge che, in mancanza di una denominazione più appropriata, può essere definita legge dello sviluppo combinato e vuole indicare l’accostarsi di diverse fasi, il combinarsi di diversi stadi, il mescolarsi di forme arcaiche con le forme più moderne»36.
Ne consegue che la borghesia nei paesi sottosviluppati non può porsi alla guida e neppure accettare di partecipare ad un movimento rivoluzionario. Al contrario, deve aggrapparsi all’apparato statale (unico baluardo possibile della sua proprietà), alla proprietà terriera (poiché la riforma agraria significherebbe la contemporanea rovina delle banche verso le quali i latifondisti sono sempre più pesantemente indebitati). In altre parole, a differenza delle borghesie dell’Europa occidentale, che in modo più o meno deciso assecondarono o addirittura guidarono i movimenti rivoluzionari dei secoli XVII e XVIII, essa non ha, sul piano storico, alcun ruolo progressista da giocare, essa è in tutto e per tutto una forza controrivoluzionaria, dietro la quale si schiera il capitale internazionale. Lo sviluppo dell’industria ha tuttavia creato un proletariato che sia pure numericamente esiguo, è molto combattivo.
Quest’ultimo deve prendere il posto che nella rivoluzione francese era stato dei sanculotti parigini, ossia quello di punta avanzata e massa d’urto della rivoluzione. La classe operaia, grazie alla sua concentrazione nelle città e nelle grandi fabbriche, può raggiungere rapidamente un alto grado di omogeneità politica e porsi alla guida della rivoluzione, fornendo alle sterminate masse di contadini poveri che lottano per la terra un punto di riferimento e una guida. Tutta la storia dei secoli precedenti dimostra infatti come la classe contadina, dispersa sul territorio ed eterogenea per condizioni sociali, è sì capace di grandi rivolte, tuttavia, inevitabilmente queste non portano al potere un partito contadino, ma un partito rivoluzionario delle città. Se ciò non avviene, la rivolta contadina viene divisa e schiacciata dal potere centrale. Nella misura in cui il proletariato porta avanti i compiti della rivoluzione borghese per consolidare quelle conquiste deve avanzare anche i compiti della rivoluzione proletaria, dando così un carattere ininterrotto o permanente al processo rivoluzionario37.
Nella visione di Mariátegui «il socialismo deve tradursi nelle circostanze particolari in cui si trova a pensare e ad agire per rispondere alle esigenze di riscatto nazionale del popolo peruviano (e, in generale, dei popoli latinoamericani, compresi i cosiddetti “indigeni”) dalla subalternità rispetto alle oligarchie locali, ridotte ad agenti subordinati dell’imperialismo. Tale percorso di riscatto non può rintracciarsi in modelli teorici precostituiti, che verranno imposti ai vertici dei partiti comunisti nazionali dalla linea di pensiero della III Internazionale»38. Egli sostiene: «non vogliamo, certamente, che il socialismo sia in America calco e copia. Deve essere creazione eroica. Dobbiamo dar vita, con la nostra propria realtà, nel nostro proprio linguaggio, al socialismo indoamericano»39.
Il problema di “tradurre” nazionalmente i principi del materialismo storico, ossia rigettare le affermazioni superficiali sul capitalismo e la rivoluzione in generale, per costruire una nuova teoria della trasformazione a partire dalle concrete condizioni di ciascuna formazione economico sociale, si trova ancheal centro della riflessione teorica di Antonio Gramsci durante il periodo carcerario.
Secondo il pensatore sardo l’incapacità di dare contenuto nazionale ai valori universali (scaturiti dalle condizioni eminentemente nazionali), della Rivoluzione d’Ottobre èstata la causa del fallimento dei tentativi rivoluzionari in Occidente, nonostante una profonda crisi economica e di egemonia delle classi dirigenti, e in un contesto oggettivamente rivoluzionario40. Attraverso lo sviluppo delle forze produttive e l’evoluzione della società in senso democratico e burocratico, secondo Gramsci, si ampliavano e divenivano sempre più sofisticati i sistemi dell’apparato egemonico e di dominio.
«In Oriente – scrive Gramsci in un celebre passo dei Quaderni – lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e casematte; più o meno, da Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto domandava un’accurata ricognizione di carattere nazionale»41.
Si può perciò dire che tanto Gramsci quanto Mariátegui, sia pure da una prospettiva differente, giungano a negare, insieme ad una strategia universalmente valida, anche un modello universale di rivoluzione, affermando l’originalità dei processi rivoluzionari nazionali.
Anche la riflessione di Mariátegui, in maniera non dissimile da quella del pensatore sardo42, ponendosi in netto contrasto con il materialismo meccanicistico del Diamat, attirò su di sé le critiche dei custodi dell’ortodossia stalinista. In un celebre articolo del 1941, V.M. Miroševskij, eminente specialista sovietico e consigliere del Buró latino americano del Komintern, denunciava il “populismo” e il “romanticismo” di Mariátegui. Per l’accademico sovietico era sufficiente accusare Mariátegui di un tale peccato mortale per dimostrare in modo definitivo e irrefutabile come il suo pensiero fosse estraneo al marxismo. Quale esempio di tale “romanticismo nazionalista”, Miroševskij menzionava le tesi di Mariátegui sull’importanza del collettivismo agrario degli inca nella lotta socialista moderna in Perù43.
In realtà il romanticismo, ossia la protesta culturale contro la civilizzazione capitalista moderna in nome di valori o immagini del passato precapitalista – una visione del mondo complessa ed eterogenea che si sviluppa da Jean-Jacques Rousseau fino ai nostri giorni – è presente nel pensiero di Marx e nelle opere di autori marxisti importanti44. Nella sua lettera alla populista russa Vera Zasulič del 1881, per esempio, Marx insisteva sul ruolo delle comunità rurali tradizionali – l’obščina – per il futuro del socialismo in Russia. Secondo lui, l’abolizione rivoluzionaria dello zarismo e del capitalismo avrebbe permesso alla società moderna di tornare (Rückkehr) alla proprietà comune «arcaica» o, più precisamente, «a una rinascita della società arcaica in forma superiore». Una rinascita, perciò che integra tutte le conquiste della civilizzazione europea45.
In seguito alla morte di Marx ed Engels, si affermarono due correnti opposte all’interno del marxismo: una “fredda”, puramente razionale, analitica, impietosa, scientifica, obiettiva, che coglie l’essenza del capitalismo, il suo funzionamento come sistema e le sue contraddizioni – Plechanov, Kautsky e i loro seguaci della II e della III internazionale; e una “calda” basata invece sul principio della speranza, dell’utopia (nel suo senso etimologico “qualcosa che non esiste da nessuna parte”), della rigenerazione del mondo: per esempio in Inghilterra, da William Morris ai marxisti inglesi della seconda metà del XX secolo (E.P. Thompson, Raymond Williams) e in Germania, con autori come Ernst Bloch, Walter Benjamin o Herbert Marcuse. Queste due dimensioni sono ugualmente necessarie e complementari. Esiste tra le due una tensione, ma si tratta di una tensione positiva e dialettica, che il marxismo deve continuamente tenere sotto controllo per non cadere nello scientismo positivista o nel romanticismo sentimentale.
José Carlos Mariátegui appartiene a questa seconda corrente in modo originale e in un contesto latinoamericano molto diverso dall’Inghilterra o dall’Europa centrale. Durante il suo soggiorno in Europa, Mariátegui assimilò simultaneamente il marxismo e alcuni aspetti della Lebensphilosophie (Filosofia della vita) dell’epoca: Proudhon, Renan, Nietzsche, James, Bergson, Ortega y Gasset, Miguel de Unamuno, Sorel, il surrealismo.
Il pensatore peruviano cercava in queste filosofie ciò che nel marxismo più grossolano, scientistico e meccanicistico, non poteva ritrovare: il riconoscimento del ruolo dell’azione, del soggetto, spinto dalla sua volontà di trasformazione. Ciò non significa che egli si trasformasse – come gli imputano i suoi avversari – in un portabandiera dell’irrazionalismo e del soggettivismo. Mariátegui critica – con Sorel – le «illusioni del progresso», cioè il progressismo della modernità borghese, e combatte ugualmente le illusioni del riformismo rispetto a una trasformazione sociale inevitabile o fatale in virtù del fatto che la scienza così stabilisca.
La visione del mondo romantico-rivoluzionaria di Mariátegui, com’è fondata nel suo saggio del 1925 Dos concepciones de la vida, si oppone a ciò che chiama «filosofia evoluzionista, storicista, razionalista» con il suo «culto superstizioso del progresso», auspicando un ritorno allo spirito d’avventura, ai miti storici, al romanticismo e al quijotismo (termine che mutuò da Miguel de Unamuno). Per legittimare questa opzione, si rifà a pensatori socialisti come Georges Sorel, che rifiutano l’illusione del progresso. Due correnti romantiche, che respingono la filosofia «povera e comoda» dell’evoluzionismo positivista, si affrontano in una lotta mortale: il romanticismo di destra, fascista, che vuole tornare al Medioevo, e il romanticismo di sinistra che vuole arrivare all’utopia. Le «energie romantiche dell’uomo occidentale», risvegliate dalla guerra, trovarono espressione nella Rivoluzione russa che riuscì a dare «un’anima guerriera e mistica»46 alla dottrina socialista.
In un altro articolo «pragmatico» dello stesso periodo, El hombre y el mito, Mariátegui si rallegra per la crisi del razionalismo e la sconfitta della «mediocre costruzione positivista». Di fronte all’«anima disincarnata» della civiltà borghese, di cui parla Ortega y Gasset, si identifica con l’«anima incantata» (Romain Rolland) dei creatori di una nuova civiltà. Il mito, in senso soreliano, è la sua risposta al disincanto del mondo – caratteristica della civiltà moderna, secondo Max Weber – e alla perdita di senso della vita. Ed è qui che incontriamo nel rivoluzionario peruviano affermazioni che non smettono di sorprendere come la seguente:
«L’intellighenzia borghese si gingilla con la critica razionalista del metodo, della teoria, della tecnica dei rivoluzionari. Che mancanza di comprensione! La forza dei rivoluzionari non sta nella loro scienza; è nella loro fede, nella passione, nella volontà. È una forza religiosa, mistica, spirituale. È la forza del Mito. L’emozione rivoluzionaria, come scrissi in un articolo a proposito di Gandhi, è un’emozione religiosa. I motivi religiosi si sono spostati dal cielo alla terra. Non sono divini, ma umani, sociali»47.
Questo è il marxismo di Mariátegui: un marxismo in cui il sorelismo cerca di essere compatibile con il leninismo, dato che egli, come Lenin (e come Gramsci), sottolinea l’importanza del fattore soggettivo, la capacità dei rivoluzionari guidati da un partito di trasformare la realtà, pur senza sottoscrivere in modo chiaro ed esplicito – data la sua opposizione a ogni scientismo – la tesi leninista dell’introduzione nella classe operaia della coscienza socialista, rivoluzionaria, dall’esterno, dato il carattere scientifico che le attribuisce Lenin.
Come esempio dell’opposizione tra marxismo autentico dei bolscevichi e il meccanicismo positivista della socialdemocrazia, Mariátegui scrive in un passo essenziale di Defensa del marxismo (1930), uno dei più importanti contributi al dibattito marxista offerto dal mondo latinoamericano:
«Si attribuisce a Lenin una frase esaltata da Unamuno nella sua Agonia del cristianesimo, l’ha pronunciata una volta, contraddicendo qualcuno che gli faceva notare che il suo sforzo andava contro la realtà: “Tanto peggio per la realtà! Quando il marxismo si è mostrato rivoluzionario – cioè quando è stato marxista – non ha mai ubbidito a un determinismo passivo e rigido”»48.
Esiste una sorprendente analogia fra questa enunciazione e quella che ritroviamo in un articolo del giovane Lukács, pubblicato nel 1919 (che Mariátegui certamente non conosceva): nella visione del filosofo ungherese Lenin, durante i negoziati di Brest-Litovsk, si preoccupò ben poco per i cosiddetti “fatti”. Se i “fatti” si opponevano al processo rivoluzionario, i bolscevichi rispondevano, con Fichte: «Tanto peggio per i fatti»49. Tuttavia il Lenin “donchisciottesco” di Mariátegui – o “fichtiano” del giovane Lukács – è una creazione puramente immaginaria. La concezione materialistica della storia insegna infatti che gli individui non sono assolutamente liberi, ma sono costretti ad agire secondo condizioni che esulano dalla propria volontà individuale.
Contrariamente all’opinione di Lukács e Mariátegui infatti, le circostanze oggettive all’interno delle quali è stata stipulata la pace di Brest-Litovsk, sono state tutt’altro che libere, ma obbligate da condizioni esterne che esulavano dalla volontà del leader bolscevico. Per ricordare una metafora di Lenin: tentando di raddrizzare il bastone che era storto verso destra (a opera del positivismo), i due pensatori finirono con il piegarlo eccessivamente verso sinistra (cadendo nell’idealismo).50)
Il comunismo storico novecentesco, sia in Europa che in America Latina, seguì la strada del rigido determinismo staliniano. Sarà forse ora, all’inizio del XXI secolo, che il marxismo potrà finalmente richiamarsi a quella concezione “eroica” del socialismo, “né calco, né copia” del modello sovietico, di cui Mariátegui fu portavoce?
- José Carlos Mariátegui (1894–1930), Un marxista latinoamericano, a cura di F. Beigel, M. Brighenti, in «Studi Culturali», 2009, n. 1, p. 61.[↩]
- In lingua italiana disponiamo di quattro ampie antologie degli scritti di questa straordinaria figura di marxista latinoamericano: dopo Lettere dall’Italia e altri saggi, a cura di Gaetano Foresta, Editori Stampatori Associati, Palermo, 1970, che ha avuto una circolazione limitata sono usciti Sette saggi sulla realtà peruviana e altri scritti politici, a cura di Robert Paris, Einaudi, Torino, 1972, Lettere dall’Italia e altri scritti, a cura di Ignazio Delogu, Editori Riuniti, Roma, 1973 e Avanguardia artistica e avanguardia politica, a cura di Antonio Melis, Gabriele Mazzotta editore, Milano, 1975.[↩]
- Nonostante che la sua data di nascita, dopo il ritrovamento dell’atto di battesimo con il nome di José del Carmen Eliseo nella parrocchia di Santa Catalina di Moquegua, sia stata fissata il 14 giugno 1894, in una lettera datata 10 gennaio del 1927 (ma ritenuta del 1928), indirizzata allo scrittore argentino Samuel Glusberg (pseudonimo di Enrique Espinoza), direttore della rivista «La Vida Literaria» di Buenos Aires, Mariátegui afferma di essere nato nel 1895: cfr. J.C. Mariátegui, Carta a Samuel Glusberg, in Id., Correspondencia (1915 – 1930), a cura di A. Melis, 2 voll., Lima, 1986, pp. 330-331. Per maggiori notizie sulla biografia di Mariátegui, cfr. G. Rouillon, Bio-bibliografia de J.C. Mariátegui, Lima, Universidad Mayor de San Marcos, 1963, p. 9, nota 1.[↩]
- R. Paris, La formación ideológica de Mariátegui, in Mariátegui en Italia, a cura di B. Podestà, Empresa Editora Amauta, Lima, 1981, p. 180; più che la formazione ideologica del giovane Mariátegui, l’interessante studio descrive tratti della situazione economico-sociale e del dibattito tra l’anarchismo ed il socialismo che facevano da sfondo e riferimento alla formazione della coscienza ideologica e politica dei primi gruppi operai, degli studenti e degli intellettuali progressisti. Fra questi il giovane Mariátegui.[↩]
- A. Flores Galindo, Prólogo. Entre Mariátegui y Ravines: dilemas del comunismo peruano, in El pensamiento comunista, Antología, a cura di A. Flores Galindo, Lima, 1982, pp. 9-19.[↩]
- Si veda a questo proposito C. M. Rama, L’Amérique latine. Mouvement ouvriers et socialistes, Les Editions ouvrières, Paris, 1959.[↩]
- Genaro Carrero Checa ha ricostruito l’apprendistato del giovane Mariátegui e la sua prima esperienza giornalistica sotto lo pseudonimo di Juan Croniqueur, cfr. G. Carnero Checa, La Acción Escrita: José Carlos Mariátegui, Impr. Torres Aguirre, Lima, 1964, pp. 52 – 112.[↩]
- M. Wiesse, José Carlos Mariátegui. Etapa de su vida, Amauta, Lima, 1982, 9a de. (1a d. 1959), vol. 10 delle EPOC, pp. 17-18, racconta che una ballerina svizzera dal nome d’arte russo, Norka Rouskaya, aveva dato a Lima alcuni spettacoli suscitando l’ammirazione e l’interesse della scapigliatura limegne. Alcuni giovani artisti la invitarono a danzare per loro nel cimitero, di notte, al suono della Marcia funebre di Chopin. E Norka Rouskaya, artista pure lei, accettò. Avvolta in veli bianchi, al suono del violinista Cáceres, danzò per loro. Abraham Valdelomar, Félix del Vall, Jorge Falcón, José Carlos Mariátegui, il funzionario che aveva autorizzato l’entrata al cimitero e il musicista finirono tutti in prigione. Lo scandalo invase tutta la città: nelle chiese, nelle piazze, nei salotti, nelle redazioni dei giornali, alla Camera dei deputati non si parlava d’altro e molti benpensanti ebbero una buona occasione per dolersi del modernismo e del decadentismo.[↩]
- Scrive Antonio Melis: «Con una decisione ai nostri occhi bizarra, ma non inconsueta nell’America latina di ieri e di oggi, lo scomodo oppositore viene inviato dal governo di Leguía in Italia, come propagandista del Perù.» (cfr. A. Melis, José Carlos Mariátegui primo marxista d’America, in «Critica marxista», V, 2, marzo-aprile 1967). In realtà pare che il dittatore, in un primo momento, avesse ordinato l’incarcerazione di Mariátegui, ma che la moglie di Leguía Julia Swajne y Mariátegui, una parente del padre, avesse interceduto in suo favore, (E. Nuñez, Cartas de Italia, Amauta, Lima, 1969, pp. 19-20).[↩]
- J.C. Mariátegui, La prensa italiana [datato giugno del 1921], in El Tiempo, 10 luglio 1921, ora in Id. La stampa italiana, trad. it.di I. Delogu, in Lettere dall’Italia e altri scritti, cit., p. 56.[↩]
- JACK [Mariátegui], Bendetto Croce y el Dante [14 agosto 1920], in El Tiempo, 9 dicembre 1920, ora in Id., Benedetto Croce e Dante, trad. it. di I. Delogu, in Id., Lettere dall’Italia e altri scritti, cit., p. 13.[↩]
- Nonostante l’affermazione di Chang-Rodríguez secondo cui Mariátegui prese molte idee politiche da Croce, non si può parlare di un vero e proprio influsso del filosofo napoletano sulla sua formazione, se non nel senso di un punto di riferimento costante, verso il quale le attestazioni continue di apprezzamento non sono mai disgiunte dal preciso riconoscimento di una qualificazione ideologica e politica nettamente divergenti dalla propria. Non va dimenticato inoltre che l’insistenza di Mariátegui sul pensiero di Croce va riferita anche ai rapporti diretti che il giovane straniero ebbe con il filosofo, al punto di da riceverne un giudizio molto lusinghiero espresso alla famiglia Chiappe, che a quanto pare non fu privo di effetti sulla felice conclusione del matrimonio italiano di Mariátegui, (cfr. E. Chang- Rodríguez, La literatura política de Gonzaléz Prada, Mariátegui y Haya de la Torre, De Andrea, Mexico, 1957).[↩]
- Quanto a Gramsci, lo aveva già incontrato a Torino, Livorno e Roma: cfr. R. Sandri, Mariátegui: via nazionale e internazionalismo nel terzo mondo, in «Critica marxista», n. 6, novembre-dicembre, 1972, p. 92.[↩]
- Contenuta nel volume La Escena contemporanea, Biblioteca “Amauta”, Lima, 1959, II ed., pp. 13-41, ID. Biologia del fascismo, trad. it. I. Delogu, in Lettere dall’Italia e altri scritti, op. cit., p. 99.[↩]
- J.C. Mariátegui, Lettere dall’Italia, op, cit., pp. 101 – 102.[↩]
- Ibidem, p. 104.[↩]
- Ibidem, p. 37.[↩]
- Il Kuomintang è un partito politico nazionalista cinese («Partito popolare della Cina»), il primo organizzato con criteri moderni tra i cinesi in patria e all’estero. Fu creato nel 1904 da Sun Zhongshan con il programma di attuare una trasformazione della Cina in senso nazionale-democratico-sociale. Vincitore alle prime elezioni nel 1912, dopo la vittoria repubblicana, il Kuomintang fu estromesso dal potere l’anno successivo, a opera di Yuan Shikai. Subita più tardi (1924) una effimera evoluzione in senso comunista, dopo la scissione tra la Cina comunista e quella nazionalista, s’identificò con l’azione conservatrice e la fortuna politica di Jiang Jieshi. Il Kuomintang è stato partito unico al potere a Taiwan dal 1949 al 1992.[↩]
- V.R. Haya de la Torre, What is the APRA?, in «The Labour Monthly» (diretta da R. Palme Dutt), vol. VIII, n. 12, London, dicembre 1926, pp. 756 – 59.[↩]
- Il progressivo distacco di Mariátegui dall’APRA avviene in sintonia all’atteggiamento assunto dalla III Internazionale nei confronti della sorte dei paesi arretrati e delle colonie, che trova l’esposizione più sistematica e brillante in un saggio di Julio Antonio Mella, nobile figura di dirigente comunista, fondatore del Pc cubano, assassinato a Città del Messico nel 1929 in circostanze ancora non del tutto chiarite. Si tratta dell’opuscolo Que es el Apra? pubblicato in Messico nell’aprile del 1928 e ripreso in varie edizioni. Mella confuta la dottrina e la pratica dell’APRA facendo perno sulla tesi di Lenin al secondo Congresso della Ic: «L’Internazionale comunista deve appoggiare i movimenti nazionali di liberazione nei paesi arretrati e nelle colonie solamente a condizione che gli elementi dei futuri partiti proletari, comunisti non solo di nome, si raggruppino e si educhino nella coscienza dei propri compiti peculiari; compiti di lotta contro i movimenti democratico-borghesi all’interno delle loro nazioni. La Internazionale comunista deve marciare in alleanza temporale con la democrazia borghese delle colonie e dei paesi arretrati, però senza fondersi con la medesima e salvaguardando espressamente l’indipendenza del movimento proletario anche più embrionale», (cfr. Julio Antonio Mella en “El Machete”: antologia parcial de un luchador y su momento historico, a cura di Raquel Tibol, Mexico, Fondo de cultura popular, 1968).[↩]
- J.C. Mariátegui, El Programa debe ser una declaración que afirma, in El pensamiento comunista, cit., pp. 86-90; anche J.C. Mariátegui, Principios programáticos del Partido socialista, ID., Ideología y política, Editora Amauta, Lima, 1971, cit., pp. 159 – 164, in MT, I, cit., pp. 225 – 228, ripreso anche da R. Martinez de la Torre, Apuntes para una interpretacion marxista de historia social del Perú, II, Empresa Editora Peruana, Lima, 1948, pp. 398 – 402, da cui deriva anche J.C. Mariátegui, Il programma del Partito socialista del Perú, trad. it. di B. Mari e G. Lapasini, in ID. J.C. Mariátegu, Sette saggi sulla realtà peruviana e altri scritti politici, a cura di Robert Paris, Einaudi, Torino, 1972, cit., pp. 375 – 380.[↩]
- J.C. Mariátegui, El Programa debe ser una declaración que afirma, cit., p. 86.[↩]
- Ibidem.[↩]
- J.C. Mariátegui, El Programa debe ser una declaración que afirma, cit., p. 87.[↩]
- Da notare come persista in Mariátegui il concetto di “metodo” anche nei riguardi del marxismo-leninismo che, invece, nei suoi termini ortodossi aveva accentuato, rispetto al marxismo, il suo essere una concezione valutativa, la filosofia della prassi rivoluzionaria.[↩]
- J.C. Mariátegui, El Programa debe ser una declaración que afirma, cit., p.87. Il PSP con il suo Programa, si rivolgeva oltre che all’esigua classe operaia ed alla maggioranza indigena, anche ai ceti borghesi democratici e progressisti. Esso esprimeva implicitamente la propria consapevolezza riguardo all’enorme lavoro che negli ambiti sindacale, politico, culturale bisognava ancora realizzare per fondare e portare nella società non soltanto il partito, ma il socialismo, la coscienza e la pratica socialiste; esprimeva consapevolezza sia riguardo all’esiguità del proletariato industriale peruviano, sia riguardo all’arretratezza in cui versavano le masse rispetto alla progettualità socialista.[↩]
- Genaro Carnero Checa ritiene che Mariátegui potrebbe aver scritto un «ottavo saggio», sulla politica peruviana, da aggregare in una nuova edizione dei Siete ensayos, che avrebbe avuto così una «seconda parte»; ma tale lavoro, per disgrazia, sarebbe andato perduto. Inutilmente quindi Amauta numero 30, dell’aprile-maggio 1930, annunciava ai suoi lettori che era «alle stampe: Ideología y política en el Perú – Editorial Historia Nueva – Madrid» dove «Mariátegui affronta l’aspetto politico della realtà peruviana in questo libro che viene ad essere la continuazione di 7 ensayos», (cfr. G. Carnero Checa, La acción escrita: José Carlos Mariátegui periodista, Lima, 1964, p. 162).[↩]
- C.A. Ugarte, Bosquejo de la historia económica del Perú, Imp. Cabieses, Lima, 1926. Recensendo l’opera di Ugarte Mariátegui accoglieva con favore un lavoro che, diceva, «non ha precedenti nella nostra storiografia». Tuttavia trovava in esso troppa «misura di giudizio, prudenza nelle proposizioni» e «relativismo nel criterio». Commentava: «Penso che Ugarte estremizzi le sue virtù, fino a quasi sterilizzarle […] Si potrebbe dire che l’eccesso di Ugarte è il suo massimo affanno per la misura». Continava affermando che il libro «non definisce i caratteri sostantivi dell’economia della Repubblica. Non denuncia categoricamente la sussistenza della sua infrastruttura feudale». Eppoi «mostra un’apprensione esagerata rispetto al materialismo storico, attribuendogli una interpretazione unilaterale della storia», (cfr. J.C. Mariátegui, La historia económica social, in ID., Peruanicemos al Perú, cit., pp. 100–103; in MT, 1, cit., pp. 318 – 319; trad. it. I. Delogu, in Lettere dall’Italia e altri scritti, cit., p. 254).[↩]
- cfr. C.A. Ugarte, Bosquejo de la historia económica del Perú, p. 9).[↩]
- J.C. Mariátegui, Sette saggi, cit., p. 80.[↩]
- J.C. Mariátegui, Sette saggi, cit. p. 81.[↩]
- Ibidem.[↩]
- Denisio Iera, Il marxismo «né calco, né copia» di José Carlos Mariátegui, in «Rocinante. Rivista di filosofia online», 3017, p. 3. http://www.rocinante.it/articoli/2017_03.[↩]
- L’argomento del rapporto fra è Mariátegui e Trockij è abbastanza complesso. Secondo Michael Löwy il pensatore peruviano «aveva simpatia per la figura di Trockij, ma conservò sempre una posizione indipendente nei confronti del conflitto tra sostenitori e avversari di Stalin all’interno del movimento comunista; il suo concetto di rivoluzione socialista latinoamericana non coincideva con l’ortodossia del Komintern, cosa per la quale venne criticato dai suoi portavoce in America Latina, tra cui Victorio Codovilla», (cfr. M. Löwy, Il marxismo romantico di José Carlos Mariátegui, in L’altro novecento. Comunismo eretico e pensiero critico, Vol. IV, Jaca Book, Milano, 2016, pp. 385-386. L’affermazione di Löwy è smentita dalla pubblicazione, il 23 febbraio del 1929, di un articolo di Mariátegui dal titolo El exilio de Trotzky. Esso riprendeva tre paragrafi di Trotsky y la oposición comunista del febbraio 1928, cui ne aggiungeva cinque nuovi. «L’opinione trockista – scriveva Mariátegui – ha una funzione utile nella politica sovietica. Rappresenta, se si vuole definirla in due parole, l’ortodossia marxista, di fronte al fluire travolgente e indocile della realtà russa». L’apprezzamento per Trockij era posto fuori discussione. La funzione critica trockista era anche sottolineata come una necessità contro la tendenza centralista, autoritaria e burocratica, (cfr. J.C. Mariátegui, El exilio de Trotzky, in Id., Figuras y aspectos de la vida mundial, III, Biblioteca “Amauta”, Lima, 1986, pp. 27-31; in MT, I, cit., pp. 1205-1207).[↩]
- L. Trockij, Storia della rivoluzione russa, Sugar Editore, Milano, 1964, pp. 38-39. Analizzando i rapporti di produzione che contraddistinguono la società peruviana, Mariátegui nota: «Nel Perú di oggi coesistono elementi di tre economie diverse. Nelle Ande vige la struttura economica feudale nata dalla Conquista in cui ancora sussistono forme concrete dell’economia comunista indigena. Sulla costa, su un terreno feudale, cresce un’economia borghese che – almeno nel suo sviluppo intellettuale – sembra essere un’economia arretrata», (J.C. Mariátegui, Sette saggi, cit. p. 57).[↩]
- Ibidem.[↩]
- L. Trockij, La rivoluzione permanente, Einaudi, Torino, 1966.[↩]
- Denisio Iera, Il marxismo «né calco, né copia» di José Carlos Mariátegui, cit., p. 4.[↩]
- J.C. Mariátegui, Ideología y política, cit, p. 249.[↩]
- G. Fresu, Antonio Gramsci. L’uomo filosofo, Aipsa Edizioni, Cagliari, 2019, pp. 330 – 331.[↩]
- A. Gramsci, Quaderni del carcere, Edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino, 1975. Si è spesso accennato, soprattutto nella storiografia più recente, alle profonde somiglianze tra la personalità di José Carlos Mariátegui e quella di Antonio Gramsci. Manca tuttavia uno studio organico e documentato sui rapporti diretti e sulleinfluenze reciproche tra i due grandi pensatori marxisti. Il dato positivo che colpisce a tal proposito è la coincidenza nel rifiuto di ogni riduzione positivistica o sociologistica del marxismo, che si esprime nella polemica, comune ai due autori.[↩]
- In una lettera del 25 aprile 1941 Palmiro Togliatti avvertiva il leader del Comintern Dimitrov, che «i quaderni di Gramsci […] contengono materiali che possono essere utilizzati solo dopo un’accurata elaborazione […] alcune parti, se fossero utilizzate nella forma in cui si trovano attualmente, potrebbero essere non utili al partito», (cfr. Giuseppe Vacca, Appuntamenti con Gramsci, Carocci, Roma, 1999, pp. 130-131).[↩]
- V.M. Miroševskij, El “Populismo” en el Perù: Papel de Mariátegui en la historia del pensamiento social latinoamericano, in «Dialectica», I, La Habana, maggio-giugno 1942, pp. 41-59 (traduzione di O “narodničeste” v Perù, in «Istorik Marksist», n. 4, Moskva, 1941).[↩]
- M. Löwy, R. Sayre, Rivolta e Malinconia. Il romanticismo contro la modernità, Neri pozza, Vicenza, 2017, p. 347.[↩]
- Marx a Vera Zasulič (1881), in K. Marx, F. Engels, India, Cina e Russia, Il Saggiatore, Milano, 2008, p. 246. Marx aggiunge allo stesso passo della lettera: «Perciò, non dovremmo spaventarci poi tanto della parola “arcaico”». Nella prefazione alla seconda edizione russa del Manifesto, scritta da Marx ed Engels nel 1882, proprio come contributo al dibattito con i narodniki russi sulla sorte dell’obščina, del mir e delle altre istituzioni agricole collettive ancora diffuse nelle immense campagne russe , si legge: «se la rivoluzione russa diventerà il segnale per una rivoluzione proletaria in occidente, in modo che le due rivoluzioni si completino a vicenda, allora l’odierna proprietà comune della terra in Russia potrà servire come punto di partenza ad uno sviluppo in senso comunistico». Per un dibattito più completo sul concetto di romanticismo e il suo rapporto con il marxismo, cfr. M. Löwy, R. Sayre, Rivolta e Malinconia. Il romanticismo contro la modernità, Neri pozza, Vicenza, 2017.[↩]
- J.C. Mariátegui, Dos concepciones de la vida, in Id., El alma matinal, Amauta, Lima, 1971, pp. 13-16, Id., Due concezioni della vita, trad. it., di L. Ogno, in «Latinoamerica», XV, 1994, n 54-55, aprile-settembre, pp. 80-83.[↩]
- J.C. Mariátegui, El hombre y el mito, in Id., Amauta, Lima, 1971, p. 18 – 22. Il mito mariateguiano, per l’intera religiosità sulla quale poggiava, assomiglia, per quanto non così decantato, ai tolstoiani «irraggiungibili astri e la bussola» che dovevano servire da guida all’uomo. Indubbiamente però, il pensatore peruviano manteneva il concetto di mito nella pratica comune e misurabile, non intendeva farne una questione emozionale, sentimentale; non lo caricava come Tolstoj, di uno spiritualismo e di un moralismo esasperati. Tuttavia, esso era un’espressione assunta dal vitalismo, dal sorelismo. Su questo argomento, cfr. L. Tolstoj, Sonata a Kreutzer, Rizzoli, Milano, 1949, p. 110.[↩]
- J.C. Mariátegui, Difesa del marxismo, Fahreneit 451, Roma, 1996, p. 45.[↩]
- G. Lukács, Taktik und Ethik, in Id., Frühschriften II, Neuwied, Luchterhand, 1968, p. 69. A proposito di questo parallelo cfr. R. Paris, La formación ideológica de José Carlos Mariátegui, in Pasado y Presente, México, 1981, p. 147.[↩]
- Gramsci nella stesso periodo rivela una non inferiore tendenza all’idealismo volontarista. Nel suo famoso articolo La rivoluzione contro «Il Capitale» del 1917, il rivoluzionario sardo saluta con il medesimo entusiasmo manifestato dalLukács appena convertitosi al marxismo la rivoluzione bolscevica. Dopo aver affermato correttamente che «[il] massimo fattore di storia non [sono] i fatti economici, bruti, ma l’uomo, ma le società degli uomini, degli uomini che si accostano fra di loro», Gramsci conclude dicendo che questi uomini «sviluppano […] una volontà sociale, collettiva, e comprendono i fatti economici, e li giudicano, e li adeguano alla loro volontà, finché questa diventa la motrice dell’economia, la plasmatrice della realtà oggettiva, che vive, e si muove, e acquista carattere di materia tellurica in ebollizione, che può essere incanalata dove alla volontà piace, come alla volontà piace», (cfr. Antonio Gramsci, La rivoluzione contro «Il Capitale», in «Il Grido del Popolo», 1 dicembre 1917, ora in Id., Masse e partito. Antologia 1910-1926, Editori Riuniti, Roma, 2016, pp. 106 ss.[↩]