I rischi di conflitto nello Stretto di Taiwan sono reali? Lai Ching-te, vittorioso alle elezioni di sabato nell’isola supererà quelle che Pechino considera linee rosse? E, soprattutto, quale sarà la strategia che stanno covando gli Stati Uniti?
Abbiamo intervistato per “Egemonia” Laura Ruggeri, ricercatrice indipendente e scrittrice che vive ad Hong Kong dal 1997. Le sue risposte sono le coordinate necessarie per rispondere ai principali quesiti sollevati dalle ultime elezioni a Taiwan.
La durissima nota con cui il governo cinese ha presentato “gravi rimostranze” agli Stati Uniti e le parole dall’Egitto del ministro degli Esteri cinese Wang Yi – che ha ricordato come “chiunque violi il principio di una sola Cina, dovrà affrontare l’opposizione congiunta del popolo cinese e della comunità internazionale” – hanno chiarito la grave insofferenza cinese attuale. “Dal momento che il DPP, il Partito Progressista Democratico, è telecomandato dagli Stati Uniti, è naturale che la presidente uscente Tsai Ing-wen e il nuovo presidente Lai Ching-te che assumerà il potere il 20 maggio privilegino le relazioni con gli USA. La cooperazione è molto stretta da anni, a tutti i livelli, ma a preoccupare Pechino è soprattutto la cooperazione militare e politica, quindi non è chiaro come essa possa essere ulteriormente rafforzata senza danneggiare profondamente le relazioni tra Taiwan e Pechino”, inizia così la sua analisi Laura Ruggeri, sottolineandoci più di una volta come la Cina continentale resta il primo partner commerciale di Taiwan – “il volume degli scambi è stimato intorno al 22.6% del totale – mentre gli stati Uniti sono il secondo partner commerciale con il 13,3%”.
E, come al solito, dunque, a pagare le conseguenze di questa subordinazione agli interessi americani, prosegue, è la popolazione. “Solo chi è accecato dall’ideologia si rifiuta di tenere conto di questa realtà. Pechino persegue da anni la strada di una riunificazione pacifica con l’isola e ha offerto a Taiwan condizioni vantaggiose per stimolare l’integrazione economica tra le due sponde dello stretto. Taiwan ha ampiamente beneficiato di queste condizioni di favore, riassumibili nel trattato di libero scambio (ECFA) siglato nel 2010. Il DPP, perseguendo invece una politica ostile nei confronti di Pechino e rigurgitando slogan secessionisti, ha seriamente minato anche l’economia dell’isola.”
Al Global Times di oggi, Chang Li-chi, ricercatore dell’Università Huaqiao di Xiamen, ha sottolineato come il DPP non rappresenta oggi che una minoranza della popolazione che abita l’isola, con la maggioranza sempre che “si oppone all’incompetenza e alla corruzione delle autorità del DPP che hanno causato la depressione economica dell’isola”.
Questione economica e risvolti politici interni nell’isola che vengono totalmente esclusi dal dibattito occidentale e che invece per Ruggeri rappresentano il nocciolo fondamentale dell’analisi: “Esiste uno zoccolo duro fortemente ideologizzato dalla propaganda anti-cinese che continua a votare per il DPP, ma la maggioranza della popolazione ha una visione più pragmatica e si preoccupa soprattutto delle proprie condizioni di vita e di lavoro. Infatti il DPP ha perso voti rispetto alle elezioni di 4 anni fa, e pur riuscendo ad esprimere il nuovo presidente non ha più la maggioranza in parlamento. L’unica incognita è il TPP, il nuovo partito che ha ottenuto un buon risultato elettorale pescando voti tra i delusi del DPP e del Kuomintang. Le alleanze che stringerà su questioni chiave serviranno a capire meglio a quale mulino porta acqua. Ma se mantiene fede alle sue promesse elettorali – non ha fatto una campagna secessionista – non dovrebbe sostenere il DPP nel caso che esso proponga un emendamento della costituzione in senso indipendentista. Solo un colpo di mano orchestrato dagli USA porterebbe ad una dichiarazione di indipendenza dell’isola. Ma questo salto in avanti farebbe precipitare la situazione”, sottolinea Ruggeri.
Quale scenario prevarrà dipenderà chiaramente dalle prossime mosse degli Stati Uniti, con colonia Europa che seguirà a ruota, come sempre. Biden ha per ora fatto capire di non volere un nuovo “caso Ucraina”, con un governo fantoccio utilizzato per muovere guerra all’avversario di turno. E sulle elezioni a Taiwan, il presidente statunitense ha brevemente commentato che il suo paese “non è per l’indipendenza”. Ma a preoccupare molto Pechino è stata la visita di ieri dell’ex consigliere per la sicurezza nazionale statunitense, Stephen J. Hadley, e l’ex vicesegretario di Stato James B. Steinberg. “Io baso le mie analisi sulla logica, sulla realtà che osservo, sui documenti ufficiali e sulle informazioni a mia disposizione. Purtroppo da tempo la politica di Washington non è più dettata dalla logica, gli Stati Uniti si sono trasformati in un elemento di instabilità e minaccia globale, agiscono in modo irresponsabile e contraddittorio in quanto la lobby degli armamenti e le élite politiche e finanziarie del paese traggono beneficio dal caos e dalla guerra permanente”. Una potenza egemone in declino è estremamente pericolosa, prosegue Ruggeri. “E’ impossibile per me fare previsioni sulle prossime mosse del governo Biden o di quello che verrà dopo di lui. Gli USA continuano ad inviare armi a Taiwan e a militarizzare l’Asia Pacifico, le provocazioni sono continue e l’invio dell’ennesima delegazione si situa in un quadro di guerra ibrida contro la Cina”.
Quale scenario attendersi dunque? Secondo Zhang Wensheng, vice presidente dell’Istituto di ricerca su Taiwan dell’Università di Xiamen, qualora Lai dovesse alzare il livello delle provocazioni e oltrepassare la linea rossa, “la Cina continentale ha la forza e la determinazione per risolvere la questione di Taiwan una volta per tutte”. Sulla stessa posizione Ruggeri, che sottolinea come Pechino lavora da molti anni alla riunificazione pacifica con Taiwan e non ha mai agito in modo avventato o aggressivo. “Un conflitto militare nell’Asia-Pacifico è l’ultima cosa di cui ha bisogno. L’influenza globale della Cina sta crescendo, insieme alla sua economia e, a differenza degli Stati Uniti, la Cina non trae vantaggio dalla guerra. Il tempo è dalla sua parte, ma non si può dire altrettanto per la potenza egemone in decadenza. La dirigenza cinese non ha motivo di far precipitare la situazione ma ha ripetutamente affermato che esiste una linea rossa: nessuna violazione dell’integrità nazionale verrà tollerata. Taiwan, conclude Ruggeri, è parte integrante della Cina, il principio di una sola Cina è riconosciuto dalla comunità internazionale e sancito dall’ONU. “La Cina è pronta a difendere questo principio nel modo e con i mezzi che riterrà necessari”, chiosa.
Prima che gli amanti dell’Armageddon spingano per un nuovo “caso Ucraina” nello stretto di Taiwan, è bene che le popolazioni occidentali prendano pienamente coscienza della reale portata della questione.