Da “Materialismo Storico”, n° 1/2021 (vol.X)
Questo testo argomenta la triplice vendetta che il pensiero di Engels compie rispettivamente nei confronti delle scienze naturali, della filosofia e della natura. La vendetta delle scienze naturali sta nelle conseguenze socio-politiche negative che il disinteresse per il marxismo rispetto alle scienze ha comportato. La filosofia si vendica degli scienziati che l’hanno abbandonata, ma poi non possono davvero farne a meno. Infine, la natura stessa si vendica di chi la considera una materia amorfa e passiva, senza storia e senza negatività, mostrando modi inaspettati di reagire alla nostra attività produttiva che, se non regolata razionalmente, può portare all’estinzione dell’umanità.
«A Friedrich Engels, che ha sbagliato molte volte ma sulle cose importanti ha avuto ragione.»
(R. Levins & R. Lewontin, The Dialectical Biologist, 1985)
Indice
L’“affare Engels”
Sono note le posizioni anti-engelsiane sostenute da figure del marxismo occidentale come Avineri1, Schmidt 2, Colletti 3 e Kohan 4 ma presenti anche nel giovane Lukács 5, posizioni che si richiamano spesso ad autori del calibro di Kojéve, Sartre 6, Hippolyte e Merleau-Ponty 7 e che si esprimono per lo più nel tentativo di separare8 e contrapporre i due fondatori del marxismo. È una contrapposizione che, secondo Levine9, avrebbe dato luogo a due scuole di pensiero inconciliabili: l’engelsismo e il marxismo (autentico), la prima delle quali si sarebbe infine convertita nel marxismo ortodosso di stampo sovietico, meccanicista e ingenuo10. Ne consegue – implicitamente ma anche esplicitamente – che in ultima istanza è proprio ad Engels che andrebbero ricondotti i difetti reazionari della II e III Internazionale11, la povertà intellettuale della socialdemocrazia tedesca e la crudeltà del bolscevismo12, fino al “monologo” dottrinario dei partiti comunisti verso le masse13 e addirittura al collasso dell’URSS14!
L’antiengelsismo si contraddistingue però anche per il rifiuto della dialettica della natura, dal momento che, già secondo il giovane Lukács, «solo la conoscenza della società e degli uomini che la vivono è filosoficamente importante»15. «Il marxismo non deve parlare delle leggi della natura», perché «Il marxismo, come scienza, è scienza della società»16. Da qui l’idea semplicistica che la natura e le scienze che la studiano siano esterne al marxismo; e che chiunque si (intro)metta in questioni di dialettica della natura non potrà che approdare ai risultati di Lysenko, il quale «finì a tagliare la coda ai topi per dimostrare che alla lunga sarebbero nati senza»17.
La rivincita delle scienze naturali
Emerge in queste correnti anti-engelsiane un dualismo neokantiano tra scienze della natura e “scienze dello spirito”, non dissimile da quello di Dilthey18, che mostrerebbe una presunta incompatibilità tra i fenomeni naturali (deterministici) e quelli umani (liberi). Lontani dal pensiero di Marx, che ha semmai proposto una sintesi della scienza dell’uomo con le scienze della natura «in una sola scienza»19, i detrattori di Engels paiono aprire così un abisso tra le due dimensioni della scienza, una sorta di scissione della cultura in due grandi “campi autonomi”, in due culture20.
Secondo Kohan, ad esempio, poiché «il capitalismo non crollerà sotto l’ineluttabile spinta dei semi degli alberi né dell’acqua che bolle facendo un salto dalla quantità alla qualità», allora il marxismo «non può che colpire con la sua forza contro il potere solo se si distacca dalla cosmologia naturalista»21.
In sintesi, i marxisti dovrebbero interessarsi esclusivamente di problemi sociali e politici – «che è quello che più ci interessa»22 – e quanto alle scienze naturali, «che se ne occupino gli scienziati della natura»23… Si vede chiaramente qui come Kohan condivida la concezione (positivistica) della scienza naturale come un campo ideologicamente “neutrale”: non importa quali siano le nostre idee, perché data la loro oggettività, «nelle scienze naturali siamo tutti d’accordo»24. Kohan sembra dimenticare che le scienze naturali hanno svolto – e continueranno a svolgere – una funzione sociale, politica e ideologica molto importante. «Una volta che sono state formulate, le idee scientifiche si integrano nel fondo comune del pensiero umano», così che, ad esempio, «La selezione naturale di Darwin […] fu utilizzata per giustificare lo sfruttamento e la soggezione razziale più crudele, secondo il principio che sopravvive il più forte»25. In questo senso, il mercato idolatrato dall’ideologia neoliberale viene spesso presentato precisamente come un’espressione di questo ordine di cause biologiche, ossia della lotta per l’esistenza. «Le leggi del mercato, cioè le leggi della giungla, tornano ad essere di moda»26 e il darwinismo sociale di mercato appare come un ordine naturale a garanzia dell’efficienza e dello sviluppo dell’economia. La sua forza si radica in una verità che si presenta con un carattere di legge naturale, davanti alla quale non ci sarebbe alcuna alternativa razionale.
Oggi più che mai sarebbe utile, invece, tenere presente l’indicazione di Lenin: «la pseudo-scienza […] funge da battistrada ai concetti reazionari più grossolani e ignominiosi»27. Le scienze naturali, cioè, non stanno in una bolla innocua e popolata da scienziati “imparziali” che osservano il mondo dalle loro torri d’avorio. Nessuno si spoglia dei propri ideali quando entra in laboratorio, per poi rivestirsi all’uscita, come pensa (ingenuamente) il positivista Kohan28. La scienza naturale è anch’essa un’attività sociale. Anche scienziati di grande talento si impegnano spesso attivamente con le loro scienze nelle ideologie e nelle pratiche reazionarie29). In effetti, non solo nelle scienze sociali ma anche nelle scienze naturali il momento valutativo è dentro la stessa teoria. E proprio nel riconoscimento di questo nesso interno sta il nucleo della concezione marxista del rapporto tra scienza e valore (vedi Piedra Arencibia, 2018). L’abbandono dei problemi delle scienze naturali in virtù di una presunta “filosofia della prassi” esclusivamente sociale, dunque, cede volontariamente un terreno importantissimo alle tendenze culturali più reazionarie. L’aspetto ideologico del riscatto delle scienze naturali, al contrario, si riassume per intero, ancora una volta, nelle parole di Lenin, il quale non a caso si era impegnato in prima persona a questo problema teorico ed epistemologico:
«Senza un fondamento filosofico nessuna scienza naturale, nessun materialismo potrà sopportare la lotta contro la spinta delle idee borghesi e il ristabilimento della concezione borghese del mondo»30.
All’inizio del XX secolo, a seguito delle grandi scoperte avvenute nel campo della fisica teorica, diversi socialisti russi avevano accettato acriticamente l’interpretazione soggettivista predominante, pensando che il positivismo professato da Mach31 dovesse essere la filosofia del movimento operaio in sostituzione della dialettica di Marx ed Engels: «Fu a causa di questa attitudine acritica verso la “nuova fisica” e le ‘nuovissime scienze naturali’ che Bogdanov e i suoi amici filosofi caddero nell’idealismo soggettivo più primitivo»32.
Plekhanov, il primo marxista russo, era immediatamente intervenuto per rifiutare il machismo e difendere la filosofia marxista. Nel dimostrare che le tesi di Mach non erano altro che la vecchia dottrina di Berkeley presentata con parole diverse, lo faceva però con argomenti esclusivamente filosofici, dalla sola prospettiva dei classici della filosofia. Non si rendeva conto, cioè, che il punto di forza delle nuove teorie stava nel fatto che i machisti russi legittimavano le loro posizioni esattamente perché si collocavano nel campo delle nuove scoperte delle scienze naturali: «Finché furono in possesso di questo campo di battaglia, nessuna argomentazione ‘filosofica’ poté avere alcun effetto su di loro»33. Non stupisce, perciò, che le argomentazioni di Plekhanov potessero facilmente essere scartate dai suoi avversari come obsolete “prolissità hegeliane”. «La principale mancanza di Plekhanov fu che ignorò in realtà la questione fondamentale posta dai machisti: il rapporto tra la filosofia marxista […] e le conquiste che ebbero luogo nelle scienze naturali, con quei progressi che si realizzarono nella logica di pensiero dei naturalisti. Qui stava il punto centrale della questione e solo Lenin si rese conto pienamente del significato di questo problema per la filosofia marxista»34.
In realtà, «l’uomo non può rinunciare a priori alla comprensione globale del mondo naturale»35. Di fatto ma anche in linea di principio, mediante «ogni giudizio scientifico, quando un aspetto della realtà oggettiva viene svelato, si riproduce qualcosa che riguarda intimamente e internamente l’uomo»36. Questo non solo e non tanto perché la realtà interessa l’uomo da un punto di vista ideologico ma anche e principalmente da un punto di vista pratico. Con le parole di Marx: «attraverso l’industria, la scienza naturale si introduce praticamente nella vita umana, l’ha trasformata e ha preparato l’emancipazione umana»37. Astrarre da questo fatto fondamentale non può che favorire un’incomprensione idealistica di ciò che è sociale, con un esito particolarmente inammissibile nel XXI secolo, un’epoca nella quale le scienze naturali si sono rivelate «forze produttive immediate»38 che penetrano progressivamente e irreversibilmente attraverso la tecnologia nella nostra vita quotidiana39. Da qui l’esigenza tutt’oggi viva di una riscoperta e di una rivalutazione in ambito marxista del ruolo delle scienze naturali, contro coloro i quali «separano la loro storia dall’industria, per cercare la culla della storia, non nella rozza produzione naturale terrestre, ma nel regno vaporoso delle nubi, in cielo»40.
La rivincita (postuma) della filosofia
È interessante notare come ci sia un’idea fondamentale di Engels che è stata solitamente dimenticata nella maggior parte dei testi sovietici proengelsiani così come in quelli dei suoi detrattori. Si tratta di un’idea «che è stata evitata dallo stesso marxismo e che ancora oggi provoca reazioni di ogni tipo, così da evitarne un’interpretazione letterale»41. Eppure questa idea è presente in quasi tutte le opere mature di Engels42: è l’ardita tesi della “morte della filosofia”: «se deriviamo gli assiomi dell’essere da ciò che esiste, non abbiamo bisogno di questo, di alcuna filosofia, ma di una conoscenza positiva del mondo e di ciò che accade in lui; e il risultato di essa non sarà una filosofia, ma una scienza positiva»43. Contrariamente a come spesso questa tesi viene presentata, non siamo di fronte qui a una rinuncia di stampo positivisitico nei confronti della filosofia in generale ma a un superamento della filosofia intesa in senso tradizionale 44.
Ricordiamo che, come le figure del primo positivismo, Marx ed Engels parteciparono alla dissoluzione della filosofia idealista tedesca nella sua dimensione esclusivamente speculativa. Tanto il positivismo quanto il marxismo, si può dire, furono risposte a questa forma obsoleta di filosofia; ma furono risposte molto diverse tra loro. Mentre per il positivismo la filosofia avrebbe dovuto estinguersi lasciando il passo alla scienza, per Engels – e per Marx – si trattava invece di procedere a una riformulazione dell’oggetto della filosofia stessa. In effetti, la tesi della fine della filosofia, non è altro che una risposta avanzata a una domanda – “che cos’è la filosofia?” – che è ancora attuale ai giorni nostri e che tale sarà sempre.
Nella storia del pensiero, ogni volta che ha cercato di delimitare il proprio campo di applicazione ad un settore della realtà, ogni volta che è stata applicata ad un oggetto specifico, la filosofia si è asfissiata come un pesce fuori dall’acqua per essere poi sostituita da una scienza specializzata in quel determinato settore. Così, studiando i corpi in movimento, la fisica meccanica si rivela come un “organismo” totalmente adattato all’ambiente e quasi per selezione naturale spazza via la filosofia, divenuta in quest’ambito ormai obsoleta. Lo stesso è accaduto negli altri campi della natura e della storia; compare sempre ad un certo punto un “apparato teorico” più adeguato, specializzato in un terreno specifico. Come un fantasma infine esorcizzato, la filosofia è stata dolorosamente costretta a ripiegare volta per volta dentro i propri confini. Sebbene abbia fallito nei suoi tentativi di applicarsi allo studio di un settore specifico della realtà, tuttavia, essa non ha funzionato tanto bene nemmeno come semplice “generalizzazione” o “sistematizzazione” delle conoscenze positive apportate dalle altre scienze. È quanto aveva compreso perfettamente, tanto da impegnarsi a dimostrare come le stesse scienze “particolari” dovessero diventare a loro volta consapevolmente dialettiche, dal momento che esse stesse implicavano già la necessità di fornire un quadro unico del mondo sotto una visione dialettico-materialista. Qual è dunque l’elemento proprio – l’habitat naturale – della filosofia? Engels fornisce questa risposta: «Dal momento che ogni scienza deve chiarire la posizione che occupa nella concatenazione universale delle cose e nella conoscenza di queste, non c’è più spazio per una scienza specialmente consacrata a studiare le concatenazioni universali. Tutto ciò che resta della filosofia precedente con la propria esistenza, è la teoria del pensiero e le sue leggi, la logica formale e la dialettica»45.
Non è corretto quindi sostenere che «una delle caratteristiche della filosofia engelsiana [è] l’aver postulato che esiste una necessaria dipendenza e subordinazione della filosofia [alle] scienze naturali e [ipotizzato] la riduzione dei compiti filosofici allo stretto orizzonte della generalizzazione dei risultati di quelle»46. Nel suo scritto su Feuerbach Engels lo afferma chiaramente: «A fornirci questa visione di insieme è stata la missione che in precedenza veniva svolta dalla cosiddetta filosofia della natura. Oggi […] quando prevale il carattere dialettico di questa concatenazione, […] la filosofia della natura è stata definitivamente liquidata. Qualsiasi tentativo di rianimarla non sarebbe solo superfluo: ma sarebbe una battuta d’arresto»47.
La filosofia non deve speculare sulla natura o sulla società in quanto tale, dunque, perché «non si tratta più di ideare delle interconnessioni nella propria testa, ma di scoprirle nei fatti»48. Questo significa però che la filosofia non ha nulla a che spartire con il resto delle scienze (sociali e naturali) e che, come un serpente che si morda la coda, si interessi solo di sé stessa? Le scienze “positive” sono dunque sufficienti e persino autosufficienti? Per niente. La filosofia ha certamente un “dovere” verso le scienze, ma il suo interesse è prioritariamente di tipo gnoseologico. Il suo oggetto specifico è cioè il pensiero. E il pensiero che viene chiamato in causa, inteso dal punto di vista filosofico, non è quello individuale. Precisamente qui ha origine la differenza specifica della filosofia con la psicologia cognitiva. La filosofia intesa come «teoria delle leggi dello stesso processo del pensiero»49, come logica dialettica, non è responsabile del pensiero effettivo di un singolo individuo e nemmeno del pensiero comune di tutti i pensanti ma tiene conto solo del pensiero logicamente corretto e del pensiero come dovrebbe essere quando riflette adeguatamente il suo oggetto: il pensiero teorico. Per indagare un oggetto naturale (il movimento meccanico, l’ereditarietà biologica ecc.), un oggetto sociale (il denaro, il cristianesimo, la rivoluzione, ecc.) o un oggetto psichico-individuale (l’aracnofobia, la timidezza, ecc.), tale oggetto deve essere prima convertito in un oggetto di pensiero. Non posso verificare la corrispondenza della mia rappresentazione con la cosa stessa senza convertire la cosa stessa in una rappresentazione 50. L’elaborazione di una teoria è dunque un processo di idealizzazione della cosa; il processo inverso, il processo di realizzazione pratica di una teoria, è la riconversione dell’idea-oggetto in una (un’altra) cosa, il processo della sua reificazione. È in questo ciclo di soggettivazione-oggettivazione, il ciclo a spirale dell’attività umana, che la filosofia trova il suo elemento: il pensiero teorico, cioè il pensiero quando riesce a riflettere le regolarità oggettive e interne del suo oggetto. La filosofia diviene allora una scienza del pensiero sul pensiero, come riflesso delle regolarità oggettive del mondo esterno (sociale e naturale). Queste leggi consistono innanzitutto nell’appropriazione, attraverso un’attività pratica umana, di queste regolarità. Per questo motivo, essendo le determinazioni del pensiero logico prodotti dalla nostra attività, esse sono allo stesso tempo, indipendenti dalla nostra volontà e coscienza, dato che «tutte le forme logiche, senza eccezioni, sono forme universali di sviluppo della realtà al di fuori del pensiero, riflesse nella coscienza umana e verificate dal corso della pratica millenaria» 51. Non si tratta quindi di due “sostanze” autonome (l’essere e il pensiero), assolutamente distinte l’una dall’altra, ma piuttosto di «due serie di leggi identiche in termini di essenza ma diverse in termini di espressione»52.
Precisamente nella pratica, nella sintesi di ideale e materiale, si evidenzia continuamente che «le categorie non sono forme esterne del pensiero, sono leggi che governano lo sviluppo delle cose materiali e spirituali»53. Per questo Engels sostiene54 che il problema fondamentale della filosofia non si colloca né nelle forme del pensare né nelle forme dell’essere, intesi come ambiti separati, ma nella relazione tra queste forme. Solo nell’ambito di questo problema la filosofia ha competenza. Qui sta il vero significato della famosa definizione engelsiana della dialettica come «scienza delle leggi generali del moto e dell’evoluzione della natura, nella società umana e del pensiero»55. Questo non vuol dire che la filosofia diventi una semplice “generalizzazione” delle scoperte delle scienze “particolari”; ma che le categorie filosofiche sono allo stesso tempo soggettive ed oggettive. Sono cioè oggettive per il loro contenuto (le regolarità della realtà che aiutano a rappresentare in teoria e a trasformare in pratica) e soggettive per la loro forma (la specificità che acquisiscono quando riflesse sul piano dell’attività teorica del soggetto attraverso concetti, giudizi e ragionamenti). La filosofia è in questo modo non una “scienza delle scienze” ma «logica dello sviluppo della concezione del mondo»56. In quanto teoria del pensiero teorico, essa diviene perciò un requisito necessario per le scienze; nonostante oggi molti la considerino sacrificabile. Questo atteggiamento sprezzante, del resto, era diffuso già ai tempi di Engels. Il quale, nel suo articolo La ricerca scientifica nel mondo degli spiriti, Engels57 mostra abilmente come questo disprezzo del pensiero teorico si manifestasse nella pretesa di analizzare i fatti “puri”, svincolati da ogni punto di vista e credenza filosofica, in scienziati – come A. R. Wallace e W. Crookes – il quali caddero poi non a caso nel misticismo dello spiritualismo moderno e cioè nella più antiscientifica delle filosofie. Vittime delle illusioni empiriste e positiviste, consapevolmente o meno, costoro non avevano tenuto conto del fatto che «i naturalisti sono sempre sotto l’influenza della filosofia»58. «Gli scienziati credono di liberarsi dalla filosofia ignorandola o insultandola. Ma poiché senza pensiero non vanno avanti e per pensare hanno bisogno di determinazioni di pensiero e accolgono però queste categorie, senza accorgersene, dal senso comune […], essi sono ancora schiavi della filosofia, e quelli che insultano di più la filosofia sono schiavi proprio dei peggiori residui volgarizzati delle peggiori filosofie»49. È così che «la filosofia compie una vendetta postuma contro la scienza per il fatto che la scienza l’ha abbandonata»59. La semplice accumulazione di dati empirici non è sufficiente per fare scienza. Una volta estratti questi dati, è necessario farci qualcosa: elaborare una teoria per ottenere qualcosa di più della mera apparenza. La stessa selezione dei dati che devono essere considerati dalla scienza implica una teoria presupposta. Per questo, che gli piaccia o meno, lo scienziato della natura deve ricorrere al pensiero teorico. E però «il pensiero teorico è una facoltà innata solo in quanto disposizione naturale. Questa naturale disposizione deve essere sviluppata e formata, e per far ciò non esiste a tutt’oggi altro mezzo se non lo studio della filosofia che fino ad oggi vi è stata»60. Non è detto che tutti gli scienziati, per quanto bravi e talentuosi, siano dotati di una cultura filosofica. Per questo, l’idea engelsiana della naturale dialettizzazione delle scienze naturali61 implica a sua volta una coscientizzazione di questa tendenza spontanea, attraverso lo studio cosciente della dialettica come «forma del pensiero teorico basata sulla conoscenza del pensiero e delle sue conquiste»62. Solo muovendo da questa concezione la filosofia potrà togliersi il velo, come la nottola di Minerva, dopo le scoperte scientifiche, e si convertirà in una guida cosciente per lo sviluppo della teoria 63. Ciò non indica affatto, però, una relazione di subordinazione e dipendenza tra la filosofia e le scienze, ma una necessaria alleanza, una collaborazione feconda volta a comprendere e trasformare il mondo.
La rivincita della natura
Quell’impostazione che ha inteso separare il marxismo dalla natura, inoltre, impedisce di occuparsi teoricamente in maniera adeguata di numerosi problemi ecologici e ambientali che negli ultimi vent’anni si sono presentati in maniera preoccupante. In effetti, le questioni relative alla dialettica della natura acquistano oggi un significato enorme non solo sul piano epistemologico ma anche su quello politico e sociale, in relazione a una gravissima crisi ecologica che è frutto del modo di produzione capitalistico. Il rapporto tra pensiero ecologico e marxismo, tuttavia, non è mai stato particolarmente felice. Come afferma Hannah Holleman, «I primi pensatori ecosocialisti sostenevano che il lavoro di Marx non trovava posto nella formazione della coscienza ecologica»64. In generale, Marx viene accusato del presunto crimine di “prometeismo”, il cui primo sintomo, spiega L. Kolakovsky, fu «il suo disinteresse per le condizioni naturali (a differenza di quelle economiche) dell’esistenza umana»65. In base a questa impostazione, Marx conferirebbe all’attività produttiva umana una capacità creativa infinita, non limitata dalla natura. In verità questa accusa si adatta molto bene alla lettura (soggettivista) che molti anti-engelsiani hanno di Marx, tra cui lo stesso Kolakovsky (specialmente per il concetto di “prassi”, che – come ho mostrato altrove66 – viene deformata e quasi convertita in una forza creatrice soprannaturale). Certamente Marx ed Engels erano in larga parte eredi della concezione moderna dell’essere umano come «ministro ed interprete»67 o come «proprietario e possessore» 68 della natura, come si può vedere nell’enfasi che il marxismo delle origini ha posto sul lavoro e sul ruolo primario delle forze produttive. Potremmo citare noti passaggi del Manifesto del Partito Comunista in cui Marx ed Engels celebrano «l’assoggettamento delle forze della natura» 69 compiuto dalla borghesia. Non dobbiamo però dimenticare che questa “celebrazione” non è altro che la testimonianza di un fatto storico innegabile. Non è un caso che da circa vent’anni molti geologi abbiano introdotto il concetto di antropocene per riferirsi allo stadio geologico attuale. Al posto dei grandi eventi naturali che hanno determinato il passaggio dal Pleistocene all’Olocene (l’ultima era glaciale), in questa nuova era che si sta aprendo è l’attività produttiva umana la principale forza geologica in grado di trasformare radicalmente il volto del pianeta. Parafrasando il Manifesto, probabilmente nemmeno Marx ed Engels immaginavano, quando lo scrissero, quanto potenti fossero le forze che produttive si annidavano nel seno del lavoro sociale. Per questo motivo, l’enorme potere che l’essere umano ha ottenuto sulla natura non può essere inteso dalla prospettiva del moralismo volontarista ma va analizzato anch’esso in forma critico-scientifica. Anche ad un primo sguardo, tuttavia, bisogna far notare che i fondatori del marxismo non condividono affatto la tradizione “prometeica” che presenta l’essere umano come un dio onnipotente che sottomette la natura alla sua volontà, come molti loro critici sensibili alla questione ecologica sostengono. Tant’è che nel formulare la loro riserva avvertono che «l’uomo non domina la natura nel modo in cui un conquistatore domina un popolo straniero, cioè come un estraneo. Noi ne facciamo parte […] e tutto il nostro dominio sulla natura e il vantaggio che abbiamo sulle altre creature è la possibilità di conoscerne le leggi e saperle applicare correttamente» 70.
La nozione fondamentale che l’uomo è un soggetto intrinsecamente naturale, e pertanto, eternamente dipendente dal resto della natura, attraversa del resto tutta l’opera di Marx ed Engels. Già nei Manoscritti Marx afferma: il fatto che «la vita fisica e spirituale dell’uomo è collegata alla natura non ha altro significato se non che la natura è collegata a sé stessa, poiché l’uomo è parte della natura stessa»71. Nell’Ideologia tedesca, la premessa di tutta la storia è l’esistenza di individui umani viventi, il che implica tenere in considerazione «l’organizzazione fisica di questi individui e […] il loro comportamento verso il resto della natura […]. Tutta la storiografia deve partire necessariamente da questi fondamenti naturali e dalle modificazioni che si realizzano nel corso della storia grazie all’azione degli uomini»72. Marx ed Engels, in altre parole, hanno sempre tenuto conto del fatto che, indipendentemente dalla potenza tecnica che possiede, «l’essere umano non è altro che un prodotto naturale»73 la cui attività fondamentale è la differenza specifica che lo distingue dal resto della natura, il lavoro ed è allo stesso tempo essa stessa uno speciale tipo di processo naturale, dal momento che «nella sua produzione, l’uomo può solo procedere come la natura stessa procede, cioè facendo mutare la forma della materia. E non solo. In questo lavoro di conformazione l’uomo si affida costantemente alle forze naturali»74. Il lavoro, il concetto cardine del pensiero marxista classico, è pertanto definito da Marx come «il processo tra natura e uomo, processo che si realizza, regola e controlla attraverso la sua azione di interscambio della materia con la natura»75. Esso è quindi la «condizione eterna della vita umana, indipendente dalle forme e dalle modalità di questa vita e comune a tutte le forme sociali allo stesso modo»76.
Per queste ragioni, la nozione del comunismo come «la vera soluzione del conflitto tra uomo e natura»77, o in altre parole, l’ideale ecologico contenuto nella nozione di comunismo nel marxismo classico, non dovrebbe essere interpretato in senso rousseauiano di un ritorno a un presunto a un supposto “stato di natura” o di una ricongiunzione romantica con Madre Natura. Non a caso, «Marx non ama Rousseau, né le immagini di un ritorno alle fasi preindustriali»78. Prima di tutto, questo romanticismo naturalistico implica una nozione non marxista di uomo inteso come qualcosa di diverso da quella natura alla quale si dovrebbe “tornare”. Secondo Marx, «la natura che si sviluppa nella storia umana (nell’atto di nascita della società umana) è la vera natura dell’uomo; la natura quindi, seppur alienata, si sviluppa nell’industria, ed è vera natura antropologica»37. In secondo luogo, per Marx ed Engels «la famosissima unità dell’uomo con la natura è sempre consistita nell’industria»79. Ed è questa attività produttiva applicata alla natura che «ha posto [le basi per] l’emancipazione umana»37, dal momento che questa emancipazione «è un atto storico, non mentale, scaturisce dalle condizioni storiche, dalle condizioni dell’industria, del commercio, dell’agricoltura, dei trasporti…»80. Negare la reale influenza civilizzatrice (e progressiva) del capitale, in virtù di un disprezzo astrattamente morale per il suo carattere – comunque reale – di agente colonizzatore e predatore, significherebbe puntare su un modo di produzione meramente locale, interamente fondato sull’idolatria della natura81. In terzo luogo, va notato come la “soluzione” proposta da questo sentimentalismo naturalistico finisca per considerare l’essere umano come una specie di escremento82, che Madre Natura dovrebbe in ultima istanza espellere per ritrovare quell’“equilibrio” 83 e omeostasi idilliaca che presumibilmente possedeva prima di essere profanata da una perversa civilizzazione sociale 84… Nulla di più distante dalla concezione di Marx ed Engels sul posto dell’essere umano nel sistema della natura. Lungi dal concepire l’essere umano come una sfortunata eventualità sacrificabile, qualcosa come un figlio bastardo di Madre Natura, Engels85, seguendo Spinoza86, comprende invece lo spirito, il pensiero universale (cioè sociale) dell’essere umano, come attributo (una proprietà inalienabile) della natura stessa concepita come un tutto 87.
Il punto importante da notare, inoltre, è che in una prospettiva marxista il potere dell’essere umano non potrà mai superare il potere della natura per il semplice fatto che il primo non è altro che un’applicazione coscientemente orientata del secondo. Pertanto, la natura eccederà sempre (vincerà) l’uomo, la cui sconfitta finale – come individuo e come specie – consisterà inevitabilmente nel pagare il proprio tributo alla morte. Attraverso l’essere umano e la sua attività, la natura distrugge, crea e trasforma sé stessa. Dal punto di vista ecologico, questo significa che gli esseri umani non potranno mai distruggere la natura nella sua interezza, anche se per decenni o secoli hanno avuto la capacità letale di distruggere la loro natura e cioè le basi materiali che sostengono la loro esistenza come esseri viventi (e, per dire più giustamente, della maggior parte degli esseri che vivono su questo pianeta). Il noto eco-socialista John Bellamy Foster88, ad esempio, riprende e sviluppa proprio il concetto di frattura metabolica per riferirsi a quella pericolosa e reale possibilità di minare le basi naturali che sostengono la continuità del nostro scambio essenziale di sostanze con la natura; una rottura che può portare all’estinzione definitiva della specie umana. Dinanzi a questa minaccia sempre più reale, la dialettica engelsiana della natura acquista una nuova importanza. Il principio che non solo il soggetto umano ma tutta la natura è attiva e storica – cioè che produce nuove forme concrete e storiche di autosviluppo attraverso la risoluzione delle sue contraddizioni interne, che differiscono non solo quantitativamente ma anche qualitativamente dalle precedenti – è cruciale per comprendere adeguatamente la crisi ecologica in corso. Dall’interpretazione positivista della natura, silenziosamente condivisa dai critici di Engels89, il mondo naturale è visto come un caos senza senso, senza storia o struttura propria; un substrato amorfo e passivo in attesa di essere plasmato dal linguaggio (come affermano i neopositivisti) o dalla miracolosa “prassi” umana (come affermano alcuni marxisti) 90. Proprio questa è semmai l’immagine ontologica che sta sotto il segno del “Prometeo” tecnocratico. Per Engels, al contrario, la natura è attiva e questo le permette di reagire, contrattaccare e persino di vendicarsi. Per questo motivo, dopo aver evidenziato il lavoro come un’attività materiale orientata teleologicamente che permette all’uomo di dominare effettivamente le forze naturali come sua caratteristica essenziale, Engels avverte:
«Non aduliamoci troppo tuttavia della nostra vittoria umana sulla natura. La natura si vendica di ogni nostra vittoria. Ogni vittoria ha, infatti, in prima istanza, le conseguenze sulle quali avevamo fatto assegnamento, ma in seconda e terza istanza ha effetti del tutto diversi, imprevisti, che troppo spesso annullano a loro volta le prime conseguenze»91.
Questa idea visionaria non è che la conseguenza dei principi dialettici naturali della sua concezione. In primo luogo, come si è già detto, essa si sviluppa dalla concezione della natura come una realtà attiva e storica; in secondo luogo, scaturisce dal riconoscimento del ruolo della casualità nell’interazione e trasformazione dialettica delle relazioni causa-effetto 92 come tessuto connettivo universale dei fenomeni naturali. La natura è inoltre capace di produrre il nuovo, ciò che è qualitativamente diverso, e ha dunque la capacità di sorprenderci. I biologi marxisti Levins e Lewontin93 notano come l’incomprensione di questa forza dialettica della natura abbia portato quaranta anni fa l’establishment medico-farmaceutico all’illusione che grazie agli antibiotici ogni malattia infettiva sarebbe stata eliminata. Oggi, invece, non solo vediamo come i vecchi agenti patogeni diventino più resistenti con ogni nuova generazione di antibiotici, ma a causa del loro uso massiccio sorgano anche nuove malattie. Aiuterebbe, in questo senso, un quadro dialettico che considera non solo gli effetti a breve termine ma cerca di penetrare le conseguenze di tutta la catena dialettica dei rapporti di causa-effetto? L’analisi marxista di queste problematiche mette in risalto la dimensione ideologica e il carattere di classe delle premesse filosofiche o dei pregiudizi che, consapevolmente o meno, guidano la nostra attività. E ci aiuta a capire che l’interpretazione positivista (cioè riduzionista, meccanicistica e soggettivista) della realtà e dei modi di studiarla diventa – spesso alle spalle dei suoi utilizzatori – una conferma del naturalismo capitalistico, mentre la sua logica diviene una guida per agire nel contesto di questo naturalismo perenne. Qualcosa di simile, ma a un livello cosciente, accade con la dialettica materialista per coloro tra noi che si impegnano per l’emancipazione pratica dell’uomo e della natura : «Man mano che si affronta un problema ambientale, diventa chiaro che la sinistra richiede una comprensione più completa di tutto il sistema, mentre la destra riduce la complessità a puri dettagli tecnici. Quindi la proposizione dialettica – che il mondo è riccamente interconnesso e deve essere visto con un insieme sistemico con aspetti contradditori – diventa un problema politico importante più che un argomento per seminari filosofici»94.
Nel famoso articolo Il ruolo svolto dal lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia, Engels osserva come le nostre come le nostre scoperte e conquiste tecniche abbiano non solo conseguenze naturali impreviste, ma anche sociali. Queste conseguenze sono molto più difficili da prevedere e possono assumere dimensioni drammatiche. Così, «quando Colombo […] scoprì l’America, non sapeva che con essa stava resuscitando la schiavitù, superata da tempo in Europa, e gettando le basi per il traffico di neri» 70. Ma forse la più grande intuizione di Engels nel trattare questo problema consiste nel notare il carattere politico (di classe) del problema ecologico 95. La concretezza dell’approccio engelsiano a questo problema pone al centro dell’attenzione critica non l’“essere umano” in astratto ma un modo di produzione specifico, storico-concreto (quello borghese). Ebbene, il capitalismo non solo implica una forma storica concreta di (inter)relazioni umane ma, contemporaneamente, comporta un modo peculiare di relazionarsi con il resto della natura. Engels sottolinea l’aspetto ecologico (nocivo) del carattere caotico e spontaneo di questo modo di produzione:
«In una società in cui i singoli capitalisti producono e scambiano solo per il profitto immediato, possono esser presi in considerazione solo i risultati più vicini, più immediati. […] Prendiamo il caso dei piantatori spagnoli a Cuba, che bruciarono completamente i boschi sui pendii e trovarono nella cenere concime sufficiente per una sola generazione di piante di caffè altamente remunerative. Cosa importava loro che dopo di ciò le piogge tropicali portassero via l’ormai indifeso humus e lasciassero dietro di sé solo nude rocce?» 96.
In effetti, il modo di produzione capitalista sembra privarci della nostra capacità razionale di anticipare e controllare gli effetti delle nostre azioni, specialmente quando questi non sono quantificabili come guadagni monetari a breve termine. Secondo Engels, la storia umana differisce essenzialmente dalla storia della natura per il fatto che nella seconda «i fattori […] sono tutti agenti incoscienti e ciechi» mentre «nella storia della società, gli agenti sono tutti uomini dotati di coscienza, mossi dalla riflessione o dalla passione, che perseguono fini determinati»97. Anche i risultati della volontà storica, però, differiscono spesso radicalmente dagli scopi coscienti degli uomini ed è proprio qui che risiede la radice dell’alienazione, assieme al paradosso ontologico fondamentale della modernità: non è mai stato mai così chiaro come oggi che la Storia è un prodotto umano; al tempo stesso, però, è più chiaro che mai che gli esseri umani non la controllano98. L’uomo perde il controllo della propria attività e dei propri oggetti per trovarsi alla mercé della logica autonoma del proprio prodotto, il capitale, una forza estranea e ostile che lo soggioga. Dobbiamo sempre ricordare, tuttavia, che si tratta qui di una relazione oggettiva di soggiogamento e non di una semplice illusione che si possa dissipare con un auto-addestramento morale o grazie ad un’illustrazione intellettuale che cambi la nostra coscienza sulla base della buona volontà, così da «cambiare il mondo senza prendere il potere»99. Riprendere il controllo delle nostre vite e della storia umana richiede una liberazione reale, non solo mentale, che sia guidata dalla conoscenza scientifica dell’oggetto che vogliamo superare. È per questo che, come avverte Engels, «per realizzare questa regolazione non basta la mera conoscenza. È anche necessario trasformare completamente tutto il regime produttivo finora vigente e con esso l’ordine sociale attualmente vigente» 100.
Questo modo razionale di affrontare il problema ecologico, come un problema di lotta di classe e non come una questione legata a una supposta natura umana101, pone il marxismo classico assai vicino alle attuali concezioni di eco-socialisti come Jason W. Moore 102, il quale contesta il concetto di Antropocene come un artificio ideologico che finisce per ritenere l’umanità responsabile di tutti i problemi che vengono causati dall’1% della sua popolazione. A questo concetto Moore103 contrappone quindi, conseguentemente, il più rigoroso concetto di Capitalocene, poiché non è l’essere umano come tale il vero agente responsabile degli effetti ambientali incontrollati a cui assistiamo negli ultimi decenni ma semmai il capitale. Il capitale, non l’uomo, è diventato la principale forza geologica. «Come il mostro di Frankenstein, il capitale è una creazione umana, che arriva a dominare i suoi creatori. Man mano che il nostro ambiente diventa più abitabile per il capitale, diventa meno abitabile per l’uomo»104.
Sotto il modo di produzione capitalistico, sotto questo «organismo di produzione naturale e primitivo, i cui fili sono stati tessuti e continuano ad essere tessuti alle spalle dei produttori»105, l’essere umano rimane ancora nella sua “preistoria” naturale. Sotto questo aspetto, ciò che lo distingue dal resto della natura è la sua capacità di pianificare e controllare la propria attività produttiva. È per questa ragione che per Engels il comunismo, l’irruzione dell’uomo sulla scena della storia, è la vera umanizzazione della storia umana106:
«Solo un’organizzazione cosciente della produzione sociale, nella quale si produce e si ripartisce secondo un piano, può sollevare gli uomini al di sopra del restante mondo animale sotto l’aspetto sociale di tanto, quanto la produzione generale lo ha fatto per l’uomo come specie. L’evoluzione storica rende ogni giorno più indispensabile, ma anche ogni giorno più realizzabile una tale organizzazione. Essa segnerà la data iniziale di una nuova epoca storica nella quale l’umanità stessa, e con essa tutti i rami della sua attività, in particolare la scienza della natura, prenderanno uno slancio tale da mettere in ombra tutto ciò che c’è stato prima»107.
Solo un modo consapevole e razionale di organizzare la vita sociale dell’essere umano consentirà «il salto dell’umanità dal regno della necessità al regno della libertà» 108. Ecco perché l’attuale problema ecologico richiede non solo un “cambio di mentalità” o di “paradigma”, ma anche una rivoluzione pratica che sia basata sulla conoscenza scientifica della realtà sociale e naturale e che superi quel modo di produzione che, «distruggendo le basi primitive e naturali [del metabolismo tra uomo e natura], costringe a ripristinarlo sistematicamente come legge regolatrice della produzione sociale e sotto una forma adeguata al pieno sviluppo umano» 109. Questo compito di ripristinare “sistematicamente” il controllo sulla nostra attività e sui suoi prodotti, nel quadro di un modo di produzione razionale e consapevolmente pianificato di rapporti cordiali con il resto della natura ci viene imposto oggi come una questione, letteralmente, di vita o di morte.
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- Avineri 1970.[↩]
- Schmidt 1977.[↩]
- Colletti 1973.[↩]
- Kohan 1998.[↩]
- Lukács 1970.[↩]
- Sartre 1963: «Il dibattito sulla dialettica della natura in Francia […] comincia nel 1948, quando Jean Paul Sartre, nel suo articolo Materialismo e Rivoluzione, ha avanzato diverse obiezioni […] contro […] la dialettica della natura» (cit. in Gretskii, 1966, pp. 57-58).[↩]
- Merleau-Ponty 1974.[↩]
- «La differenza tra Marx ed Engels è significativa e notevole» (Avineri 1970, p. 153).[↩]
- Levine 2006, p. XI.[↩]
- «L’opera polemica Anti-Dühring, in particolare, divenne immensamente influente […]. È un fatto di proporzioni tragicomiche che un terzo dell’umanità abbia professato questa ingenua, amatoriale speculazione come sua filosofia ufficiale» (Elster, 1999, p. 11).[↩]
- Kohan 1998, pp. 34-37.[↩]
- Avineri 1970, p. 144.[↩]
- Holloway 2005, p. 131.[↩]
- Levine 2006, p. 6.[↩]
- Lukács 1970, p. 14.[↩]
- Kohan 2003, p. 46.[↩]
- Ivi, p. 30. In realtà non fu Lysenko né nessun altro lamarckiano ma Weismann – l’antilamarckiano per eccellenza – a proporre un esperimento così assurdo per dimostrare o confutare l’ereditarietà dei caratteri acquisiti (v. Olarieta Alberdi, 2012, p. 130).[↩]
- Dilthey 1949, pp. 13-28.[↩]
- Marx 1980, p. 153.[↩]
- Snow 2012. Per la precisione Snow, con questa denominazione, non si riferiva solo alle scienze “umane” ma anche alle scienze sociali. Le cause di questo divorzio non sono di ordine teorico, ma sono dovute alla ostile divisione del lavoro e alla conseguente ultra-specializzazione imposta per l’attività scientifica dal modo di produzione capitalistico. V. Lewontin, Levins 2009, pp. 197-208.[↩]
- Kohan 1998, p.73.[↩]
- Ibidem.[↩]
- ID. 2003, p. 46.[↩]
- Ivi, p. 30.[↩]
- Bernal 2007, p.48.[↩]
- Woods & Grand 2005, p. 372.[↩]
- Lenin 1970, p. 687.[↩]
- Kohan 2005, p. 30.[↩]
- «Il danese Wilhelm Johannsen non fu solo il falsario di concetti scientifici di genetica come gene, genotipo e fenotipo ma anche un membro attivo del movimento eugenetico del suo paese, entrando a far parte dell’organismo pubblico che decideva sulle castrazioni e sulle sterilizzazioni delle persone» (Olarieta Alberdi 2012, p. 16[↩]
- Lenin 1970, p. 686.[↩]
- Mach 1948.[↩]
- Iliénkov 2014, p. 187.[↩]
- Ivi, p. 151.[↩]
- Ivi, p. 154.[↩]
- Monal 1995, p. 10.[↩]
- Ugidos 1985, p. 41.[↩]
- Marx 1980, p. 152.[↩][↩][↩]
- ID. 2007a, pp. 229-230.[↩]
- «La rivoluzione contemporanea nella scienza e nella tecnologia è caratterizzata dall’influenza diretta della scienza sui tassi di sviluppo economico. In questo senso non è solo la scienza applicata, ma anche la scienza di base che si converte in una forza produttiva diretta. E nella misura in cui la filosofia delle scienze naturali è inseparabile dalla scienza di base, essa esercita una influenza diretta sull’economia» (Kuznetsov 1971).[↩]
- Engels, Marx, 1971, p. 173.[↩]
- Plá León 2009, p. 21.[↩]
- Engels 1973, pp. 35, 50; 1980, pp. 360, 383-384; 1991, p. 177.[↩]
- ID. 1973, p. 50. Non si tratta certamente di un’idea esclusiva di Engels. Nella Ideologia tedesca leggiamo: «Dove termina la speculazione, nella vita reale, comincia la scienza reale e positiva, l’esposizione dell’azione pratica, del processo pratico di sviluppo degli uomini. Terminano qui le frasi sulla coscienza e la vera conoscenza prende il loro posto. La filosofia indipendente perde, con l’esposizione della realtà, il mezzo attraverso cui può esistere» (1974, p. 27).[↩]
- Cfr. in direzione opposta Mondolfo 1912.[↩]
- Engels, p. 35.[↩]
- Kohan, 1998, p. 299.[↩]
- Engels, 1980, pp. 383-384.[↩]
- Ivi, p. 394.[↩]
- Ibid.[↩][↩]
- Iliénkov 1977, p. 16.[↩]
- Ivi, p. 196.[↩]
- Engels 1980, p.381.[↩]
- Ugidos 1985, p. 72[↩]
- Engels 1980, p. 363.[↩]
- ID. 1973, p. 481.[↩]
- Iliénkov 1977, p. 411.[↩]
- Engels 1991, pp. 30-40.[↩]
- Ivi, p. 177.[↩]
- Ivi, p. 173.[↩]
- Ivi, p. 23.[↩]
- Secondo questa idea di Engels, le scoperte delle scienze naturali, nonostante i presupposti filosofici consapevolmente assunti dai loro scopritori, tendono verso una concezione dialettica poiché questa è imposta dalle stesse caratteristiche dell’oggetto: «Infatti la rivoluzione che nella scienza teorica della natura è imposta dalla semplice necessità di ordinare le scoperte puramente empiriche che si accumulano in tal massa, è di tal fatta da dover far comprendere sempre maggiormente, anche all’empirista più riluttante, il carattere dialettico dei fenomeni naturali» (Engels 1973, p. 18).[↩]
- Engels 1991, p. 177.[↩]
- «Engels alcune volte ha previsto le scoperte scientifiche del futuro. Ha indicato la possibilità dell’esistenza della materia senza massa a riposo e ha proposto la teoria del ruolo decisivo del lavoro nel plasmare le forme fisiche e sociali dell’esistenza umana» :Sheenhan 1993, p. 31.[↩]
- Holleman 2017, p. 85.[↩]
- Kolakovsky 1983, p. 411.[↩]
- Piedra Arencibia 2017, pp. 83-102.[↩]
- Bacon 2011, p. 156.[↩]
- Descartes 2012, p. 142.9[↩]
- Engels – Marx, 1960, p. 37.[↩]
- Engels 1991, p. 152.[↩][↩]
- Marx 1980, p. 111.[↩]
- Engels – Marx 1974, p. 19.[↩]
- Engels 1973, p. 49.[↩]
- Marx 1983, p. 11.[↩]
- Ivi, p. 139.[↩]
- Ivi, p. 146.[↩]
- ID. 1980, p. 143.[↩]
- R. Bodei, cit. in Holz 2004, p. 85.[↩]
- Engels – Marx 1974, p. 47[↩]
- Engels – Marx, 2014, pp. 19-20.[↩]
- Marx 2007b, p. 362.[↩]
- Žizek 2012, p. 116.[↩]
- «Qui [l’equilibrio] non è solo una parola, ma un vero e proprio simbolo: un simbolo di fede, una categoria chiave e fondamentale della logica del suo pensiero. […] Si scopre che l’Universo infinito tende all’equilibrio. […] in questo senso l’equilibrio è ideale, il modello sia del cosmo che della psiche, la categoria filosofica fondamentale del machismo. […] La tendenza a sbarazzarsi una volta per tutte di tutte le contraddizioni, di tutte le forze contradditorie, è la tendenza all’equilibrio. […] Tale equilibrio è statico, completo, imperturbabile un equilibrio di riposo, un equilibrio immobile, uno stato di “sospensione nel vuoto cosmico” come nel modello ideale del concetto machista-bogdanoviano di equilibrio»: Iliénkov 2014, pp. 118-121.[↩]
- «Chi si pone veramente problemi politico-ecologici sa che non si tratta di coltivare il desiderio di tornare a fasi precedenti apparentemente più felici o meglio equilibrate. L’ipotesi che gli animali che antropocentricamente chiamiamo superiori, come noi, debbano le loro condizioni di esistenza alla contaminazione è sufficiente per evitare ogni approccio estetizzante o nostalgico: noi respiriamo perché c’è abbastanza ossigeno nell’atmosfera, e l’ossigeno è inquinamento dal punto di vista delle alghe e degli altri organismi che lo producevano: questi organismi respiravano carbonio»: Sacristán 1984, p. 39.[↩]
- Engels 1991, p. 20.[↩]
- Spinoza 2006, p. 49.[↩]
- Va notato qui quanto sia errata l’accusa di Sartre secondo il quale «la dialettica della Natura è la Natura senza gli uomini» (Sartre 1963, p. 173). Queste idee engelsiane sul ruolo oggettivo dello spirito nel ciclo dialettico della natura sono portate anche in Iliénkov 2017[↩]
- Bellamy Foster 2000, pp. 165-167.[↩]
- Secondo Sartre, la natura o – per usare la sua terminologia – l’essere-in-sé è «ciò che è; questo significa che, di per sé, non potrebbe nemmeno essere ciò che non è; abbiamo visto in effetti, che non implicava alcuna negazione. È piena positività. Pertanto, non conosce alterità: non si pone mai come qualcuno diverso da un altro essere; non può mantenere alcuna relazione con l’altro. È indefinitamente sé stesso e si esaurisce essendolo. Da questo punto di vista […] sfugge alla temporalità»: Sartre 1993, p. 35.[↩]
- «[La natura] stessa è priva di ogni negatività. La negatività affiora in natura solo con il soggetto che lavora»: SCHMIDT 1977, p. 223.[↩]
- Engels 1991, p. 151.[↩]
- «Nel concetto moderno di ecosistema, tutti gli organismi e le condizioni naturali sono reciprocamente dipendenti: le cause si trasformano in effetti e viceversa. […] La conoscenza di questi nessi dialettici è fondamentale per qualsiasi politica di tutela dell’ambiente. Non a caso, il concetto di “sviluppo sostenibile” che guida da quasi tre decenni gli sforzi delle organizzazioni internazionali si basa sul riconoscimento di tali nessi»: Barbagallo 2005, p. 99.[↩]
- Levins – Lewontin 2007, pp. 106, 149, 182, 298.[↩]
- Levins 2016, p. 158.[↩]
- «La produzione capitalistica […] perturba il metabolismo tra l’uomo e la terra; cioè il ritorno alla terra dei suoi elementi consumati dall’uomo sotto forma di cibo e vestiti, che costituisce l’eterna condizione naturale su cui poggia la fertilità permanente del suolo. Allo stesso tempo, distrugge la salute fisica dei lavoratori. […] Inoltre, tutti i progressi compiuti nell’agricoltura capitalista non sono solo progresso nell’arte di impoverire il lavoratore, ma anche nell’arte di impoverire la terra, e ogni passo che viene compiuto nell’intensificazione della sua fertilità […] è anche un passo verso l’esaurimento delle fonti perenni che alimentano tale fertilità. […] Pertanto, la produzione capitalistica sviluppa la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale, minando le due fonti originarie di tutta la ricchezza: la terra e l’uomo»: Marx 1983, pp. 453-455. Questo importante passaggio, come spiegato da Löwy 2017 (pp. 154-155), non è solo una dimostrazione di una visione dialettica marxiana del progresso sociale e delle conseguenze distruttive che il modo di produzione borghese provoca ma si presenta nello stesso senso alla classe operaia e alla natura come due vittime della fame vampirica del capitale.[↩]
- Engels 1991, p. 154.[↩]
- ID. 1980, pp. 384-385.[↩]
- «Mentre Engels vede il potere tecnologico dell’uomo crescere costantemente nel corso della storia, non vede lo stesso progresso graduale nel controllo che l’uomo esercita sulla propria organizzazione sociale. Questo controllo cresce dialetticamente, il che significa che deve essere negato prima che possa emergere in una forma più positiva»: O’ Rourke 1974, p. 52.[↩]
- Holloway 2005.[↩]
- Engels 1991, p. 153.[↩]
- Per questo Marx ed Engels fin dall’inizio si sono schierati contro il malthusianesimo, tendenza che presenta il problema della sovrappopolazione e della scarsità di risorse come conseguenza naturale ed inevitabile dello sviluppo della nostra specie. «In effetti, quando c’è un eccesso di esseri umani, gli esseri in eccesso, secondo Malthus, devono essere eliminati in un modo o nell’altro, o morire di morte violenta o morire di fame. […] E quali sono le conseguenze di questa marcia delle cose? Che quelli che sono rimasti sono proprio i poveri, per i quali non si può fare altro che alleviare il più possibile la morte per fame, per convincerli che la faccenda non ha rimedio e che l’unica via di salvezza per la loro classe è ridurre al massimo la procreazione…»: Engels 1966, p. 19.[↩]
- Moore 2016.[↩]
- ID. 2015, pp. 173-196.[↩]
- Levant 2017, p. 259.[↩]
- Marx 1983, p. 71.[↩]
- V. Engels 1973, pp. 344-347.[↩]
- Engels 1991, pp. 16-17.[↩]
- ID. 1973, p. 345.[↩]
- Marx1983, p. 454.[↩]