La Logica della Strategia
Un caso storico, la politica estera di Luigi XIV

Da Inimicizie.

Potrebbe apparire avventato analizzare la strategia di un sovrano del XVII secolo con le categorie mentali e la terminologia di oggi, ma la logica che governa i conflitti è generale e si applica all’epoca dei moschetti come a quella delle armi nucleari, sarà essa a guidare questa analisi.

Non è possibile esporre l’argomento di questo articolo senza prima chiarire cosa sia la strategia e quale sia la sua logica, almeno in termini generali. Esistono numerose definizioni di strategia, alcune normative e altre talmente scontate e generali da risultare inutili; per ciò che concerne questa esposizione si definirà strategia come la modalità di interazione delle volontà in conflitto armato.

Dunque, quale logica governa il conflitto? L’elemento caratteristico di un conflitto è l’opposizione tra entità reattive, che operano con il preciso scopo di ostacolarsi a vicenda. Questo fatto separa la realtà della guerra da quella della vita comune, dove un ristoratore non ha a che fare con clienti che evitano in ogni modo le sue pietanze e dove il momento migliore per fare una passeggiata non è di notte, tagliando per i boschi per celarsi ad occhi indiscreti. Si vis pacem, para bellum è la massima che più di ogni altra descrive la logica del conflitto, che sfocia al paradosso e alla convergenza degli opposti. Lo scopo di questo pezzo è evidenziare l’azione di questa logica nel contesto della politica francese al tramonto del XVII secolo.

Nel corso del grand siécle la guerra era ritenuta un evento naturale negli affari internazionali e dunque non sorprenderà che durante i 77 anni di vita di Luigi XIV, di cui 55 condotti regnando in piena autonomia, ben 51 furono di guerra. Dal decesso del cardinal Mazzarino nel 1661, momento in cui ottenne piena autorità sul regno, fino alla sua propria morte, avvenuta nel 1715, il Re Sole condusse cinque guerre. La Guerra di devoluzione (1667-1668), la Guerra franco-olandese (1672-1678), la Guerra delle riunioni (1683-1684), la Guerra della Lega d’Augusta (1688-1697) e la Guerra di successione spagnola (1701-1714).

Tra tutti i conflitti a cui la Francia prese parte, solo la Guerra franco-olandese fu condotta al fianco di alleati e dopo aver cercato di isolare diplomaticamente i propri avversari; anche se dopo il 1674 Luigi si trovò comunque a dover condurre la guerra contro le Provincie Unite, il Sacro Romano Impero e il regno di Spagna, avendo al proprio fianco solo il regno di Svezia, e le città di Colonia e Münster. Questo fatto svela un elemento fondamentale nella politica del Re Sole, l’unilateralismo.

Forse Luigi dimenticò gli insegnamenti del suo maestro Mazzarino o forse, resosi conto della potenza soverchiante della Francia, ritenne più vantaggioso combattere da solo piuttosto che a fianco di alleati, con cui avrebbe dovuto dividere gli onori, condividere le scelte e accordarsi sulle priorità. Dalla fine della Guerra franco-olandese, gli stati ai confini della Francia furono vittime di azioni di forza, condotte unilateralmente, come la presa di Strasburgo nel 1681 e del Lussemburgo nel 1683, il cui esito fu la breve Guerra delle riunioni con il regno di Spagna.

Queste azioni spregiudicate e unilaterali di Luigi, frutto anche di una grande fiducia nella potenza militare francese, giocarono un ruolo significativo nell’indurre le potenze europee a coalizzarsi e, infine, a formare la Lega d’Augusta. Per fronteggiare un numero crescente di forze ostili il ministro della guerra francese, François Michel Le Tellier de Louvois, mise in campo in più grande esercito del proprio tempo, compromettendo la stabilità finanziaria del regno nei decenni a venire.

Il formarsi di un sentimento di diffidenza e ostilità verso la Francia influì grandemente sulla politica del Re Sole, che iniziò a vedersi sempre più accerchiato e di conseguenza cercò di accrescere sempre più i propri mezzi difensivi.

Si può apprezzare come la logica paradossale della strategia sia all’opera in questo scorcio. Infatti, fu proprio la grande forza militare francese a favorire un approccio unilaterale agli affari internazionali, il quale fornì un elemento chiave per la formazione della Lega d’Augusta che fomentò il senso di accerchiamento e vulnerabilità di Luigi. Nel regno della strategia una grande forza può generare opposizione e vulnerabilità, fornendo essa stessa i mezzi per essere fermata. Nei conflitti ogni azione ha un punto di culminazione, oltre il quale il suo effetto si inverte fino a trasformarsi nel suo opposto. In questo caso la grande potenza militare francese finì per divenire un elemento di insicurezza per il regno.

La reggia di Versailles
La reggia di Versailles

Insieme all’unilateralismo crebbe in Luigi il timore di un’invasione portata dalle potenze europee attraverso il confine renano e i Paesi Bassi spagnoli. Per questa ragione l’ingegnere militare Sebastien Le Prestre, marchese di Vauban, fu nominato commissario generale delle fortificazioni nel 1678 ed iniziò lo sviluppo di un sistema di difesa all’apparenza insuperabile. Insieme ad una razionalizzazione delle posizioni delle piazzeforti sul Reno, venne inaugurato il sistema del pré carré, due linee costituite da 26 città fortificate poste al confine con i territori Spagnoli nelle Fiandre. L’intenzione di presidiare i propri confini era superata solamente dalla necessità di razionalizzarli attraverso la presa di fortezze in luoghi chiave, per dar vita ad una linea di confine difendibile con il minor numero possibile di caposaldi.

Proprio in quest’ottica vanno interpretate la presa di Strasburgo del 1681 e la Guerra delle riunioni del 1683, condotta proprio per razionalizzare il confine in Alsazia e in particolare per ottenere la città fortificata di Lussemburgo. Tale scontro fu concluso dalla tregua di Ratisbona nel 1684, che cedette al regno di Francia il controllo dei territori conquistati durante la guerra per i successivi 20 anni.

La guerra della Lega d’Augusta

La rovinosa Guerra della Lega d’Augusta iniziò quattro anni più tardi quando al Re Sole fu negato il possesso definitivo dei territori ceduti nella tregua di Ratisbona. Per cercare di rompere gli equilibri e forzare gli stati tedeschi ad accettare un fatto compiuto, Luigi diede il via agli scontri con la presa di Filisburgo, l’ultimo tassello necessario al completamento della linea di difesa sul Reno.

Quella che avrebbe dovuto essere una guerra rapida e combattuta sulla difensiva, paragonabile alla Guerra delle riunioni, si trasformò però in uno scontro di nove anni che prosciugò il regno di Francia di ogni risorsa.

Nuovamente, la logica dello scontro fece sì che Luigi ottenne dalle proprie azioni precisamente ciò esse avrebbero dovuto impedire; ciò avvenne in due modi.

In primo luogo, le svariate fortezze conquistate tra il 1681 e il 1688, nonostante i fini difensivi e di efficienza, garantirono al sovrano francese l’immagine del conquistatore mai sazio, un pericolo per ogni altro stato europeo. Luigi perse il controllo della narrativa, come si direbbe oggi, e si trovò nella situazione in cui la sua posizione in Europa avrebbe tratto giovamento da una maggiore chiarezza nel comunicare i propri fini. Paradossalmente, pubblicizzare gli scopi della propria politica estera avrebbe potuto favorire la posizione strategica del re di Francia. La narrativa non può sostituire i fatti, ma una narrativa ostile può descrivere un’azione come qualcosa di diverso da quanto sia in realtà.

In secondo luogo, l’ambizioso piano difensivo di Vauban fu causa di allarme per gli stati posti ai confini francesi proprio per la sua portata e la sua efficacia. Una Francia impenetrabile avrebbe potuto attaccare i propri vicini senza temere rappresaglie. I caposaldi che Luigi prese in Alsazia potevano facilmente impedire ai suoi avversari di attaccare il territorio francese e allo stesso tempo permettevano agli eserciti francesi di minacciare gli stati tedeschi. Le fortezze di Vauban non proteggevano solo i confini, ma proiettavano anche la potenza militare francese in Germania e nei Paesi Bassi spagnoli. Ancora una volta, nel regno della strategia ogni azione, superato un punto di culminazione, finisce per dar vita ad effetti opposti da quelli sperati. In questo caso, la ricerca di una condizione di sicurezza totale da parte di Luigi finì per trascinare la Francia in una costosissima guerra di attrito, da cui gli stati europei ottennero la cessione da parte francese del Lussemburgo, di diverse acquisizioni risalenti alla Guerra delle riunioni, dei possedimenti sulla sponda destra del Reno e la restituzione del ducato di Lorena.

La strategia statunitense di controguerriglia

Negli ultimi due decenni la più grande potenza militare globale si è trovata a fronteggiare due insurrezioni, in Afghanistan e in Iraq, senza riuscire a soffocarle prima che il costo economico e politico di tali occupazioni divenisse insostenibile e imponesse un graduale ritiro. Chi si limitasse ad osservare gli ultimi vent’anni di conflitti armati potrebbe essere condotto a ritenere che ogni tentativo di occupazione sfoci necessariamente in una logorante operazione di controguerriglia. La storia però ci insegna che non è così, basta guardare al secolo scorso per notare come le forze tedesche e giapponesi occuparono vasti territori, riuscendo ad ottenere una passiva collaborazione dalle popolazioni locali quasi ovunque. Allora perché gli eserciti del XXI secolo sembrano incapaci di sfuggire a questa sorte, siano le forze armate statunitensi in Afghanistan e in Iraq o quelle Israeliane in Libano e a Gaza?

La ragione va ricercata nella logica della strategia. La potenza di fuoco dell’aviazione statunitense è a tal punto distruttiva che ogni nemico degli USA impara a proprie spese che non fornire un bersaglio rappresenta di gran lunga il primo requisito di qualunque schieramento. Nei primi mesi della guerra in Afghanistan, i talebani venivano fatti assembrare con attacchi coordinati di unità di commando e forze dell’Alleanza del Nord, per poi essere colpiti dal fuoco dell’aviazione o dai missili Cruise lanciati dalle forze navali a largo del Pakistan. Non ci volle molto perché la concentrazione di forze divenisse sinonimo di distruzione nella mente dei combattenti afghani. L’opposizione divenne quindi un’insurrezione a basso contrasto, esattamente il contrario di ciò che accadde durante l’invasione sovietica dopo che i FIM-92 Stinger, gentile concessione dell’amministrazione Reagan ai mujahideen, tolsero all’Armata Rossa il monopolio dei cieli.

La stessa dinamica ha agito nel ben più caotico contesto iracheno da quando, nella primavera del 2004, la situazione è precipitata in una guerra civile autodistruttiva in cui l’unico elemento comune alle varie fazioni è stata l’ostilità verso le forze occidentali di stanza nel paese.

Soldati statunitensi difendono una posizione nella valle del Korengal, Afghanistan
Soldati statunitensi difendono una posizione nella valle del Korengal, Afghanistan

Ogni azione in guerra ha un punto di culminazione oltre il quale a un maggior impegno corrisponde un minor risultato. Un’aviazione capace di annientare qualsiasi nemico tanto incauto da mostrarsi apertamente non può che trasformare ogni forza avversaria in un‘insurrezione sotterranea e sfuggente. Dunque, non potendo certo alcuna nazione sviluppata rinunciare alla propria superiorità aerea per il piacere di combattere a viso aperto contro forze tecnologicamente arretrate, è necessario indagare i limiti delle azioni di controguerriglia in paesi come Iraq e Afghanistan, contestualmente alla definizione degli obiettivi di tali imprese.

Il termine guerriglia deriva dallo spagnolo guerrilla, letteralmente piccola guerra, usato per descrivere la guerra d’indipendenza spagnola (1808-1814). In questa occasione la popolazione spagnola, costituita per la gran parte da contadini il cui analfabetismo era superato in profondità solo dalla fede cristiana, insorse violentemente contro i potenziali liberatori francesi, pronti a porre fine ai tutti i privilegi feudali della nobiltà e del clero. Nonostante l’apparentemente irrinunciabile offerta francese, il clero iberico riuscì facilmente a convincere la popolazione che il vero scopo di Napoleone, definito usualmente “re delle tenebre” durante le prediche domenicali, fosse profanare la religione cristiana e corrompere le anime dei sudditi del re Cattolicissimo.

La medesima successione di eventi ha avuto luogo in Iraq. Dal giorno in cui le prime forze statunitensi sbarcarono in Mesopotamia, i predicatori sunniti e sciiti lavorarono alacremente per dipingere gli invasori cristiani e i loro alleati come dei crociati venuti per distruggere l’Islam e rubare il petrolio iracheno. La democrazia, i diritti umani e i fiumi di dollari generosamente spesi non erano altro che diversivi ben studiati. Come la plebe spagnola due secoli prima, gli iracheni, per lo più semianalfabeti e ferventi musulmani, non potevano che credere alle parole delle proprie guide spirituali.

L’effetto più evidente dell’ostilità sono stati i frequenti attacchi che le forze della coalizione e quelle del neo governo iracheno, naturalmente accusato di collaborazionismo, dovettero subire. Quindi, se le forze occidentali non possono sperare di spegnere un’insurrezione promettendo benefici materiali ad una popolazione priva degli strumenti intellettuali per quantificarli e saldamente nelle mani di un clero fanatico, che possibilità rimane?

Artificiere statunitense trasporta un razzo katyusha da una caserma della polizia irachena
Artificiere statunitense trasporta un razzo katyusha da una caserma della polizia irachena

La prima risposta è tanto semplice quanto inapplicabile, terrorizzare i terroristi. Durante la Seconda guerra mondiale le forze tedesche combatterono gli Alleati in Francia, Italia e in Unione Sovietica facendo un uso intensivo di ferrovie e strutture logistiche, per lo più appartenenti a nazioni occupate e operate da personale non tedesco, senza alcun intoppo; l’impatto dei movimenti di resistenza sulle capacità militari tedesche fu talmente misero da esser difficile da quantificare. Un tale risultato fu ottenuto attraverso massacri indiscriminati e ben pubblicizzati, il cui preciso scopo era chiarire i costi dell’opposizione all’occupante.

Nessuna democrazia occidentale può applicare un tale metodo di controguerriglia ne avrebbe alcun interesse a farlo.

Rimane solo una strada percorribile, per una democrazia liberale, quando si tratta di occupare lontani paesi abitati da popolazioni arretrate: restare a casa. Questo limite è insito nella natura stessa della democrazia liberale e in quanto tale va accettato. L’alternativa è sprecare vite e risorse in una controguerriglia inutile e logrante prima di tornare al punto di partenza, cioè in patria, sperando di lasciare una situazione non peggiore di quella trovata.

Giulio Douhet, primo teorico del bombardamento aereo terroristico
Giulio Douhet, primo teorico del bombardamento aereo terroristico

Conclusione

Nella prima parte di questa esposizione sulla logica della strategia è stato descritto un caso storico in cui le necessità militari presero il sopravvento su quelle politiche e diplomatiche, portando alla nascita di una coalizione capace di contenere la potenza francese in ascesa. La seconda parte, invece, si è occupata di un caso radicalmente diverso, in cui la forza militare è stata impiegata per raggiungere uno scopo scelto in base ad una posizione ideologica, cioè l’ipotesi che sia possibile esportare il modello di società occidentale sulla punta della baionetta.

Cosa lega queste due situazioni così diverse e lontane nel tempo? In entrambi i casi ciò che è mancato non è stata la potenza militare, ma l’assenza di un obbiettivo politico raggiungibile ed esplicito. La condizione di totale sicurezza ricercata da Luigi XIV ha il difetto di non essere raggiungibile nemmeno in teoria, essendo impossibile eliminare i rischi di un conflitto armato. Analogamente, imporre la democrazia liberale in Medio Oriente è uno scopo troppo vago per essere conseguito, tanto più in paesi in cui il concetto stesso di democrazia è estraneo.

Non esiste un bagaglio di espedienti e lezioni che possano essere appresi studiando la storia e che permettano di tracciare una strategia efficace, esistono però delle avvertenze e dei segnali di pericolo che è possibile riconoscere.

Ignorare gli interessi delle potenze che circondano una nazione è uno dei più comuni segnali di una strategia poco efficace e si può riscontrare nella politica estera di Luigi XIV. Allo stesso tempo, porsi degli obbiettivi e illudersi che gli strumenti a propria disposizione possano conseguirli è alla base del tentativo di esportare i valori occidentali in Medio Oriente.

In entrambi i casi ciò che manca è il riconoscimento di un altro, che non è lo specchio di se stessi ne un elemento inanimato, che non si potrà mai capire appieno ma in cui ci si deve immedesimare. Tale è la natura dinamica strategia.

George W Bush dichiara la piena riuscita della seconda guerra del golfo, 2003
George W Bush dichiara la piena riuscita della seconda guerra del golfo, 2003
Cartina d'Europa, circa 1700
Cartina d’Europa, circa 1700

La storia non può essere semplicemente evocata per risolvere le questioni odierne, come se l’azione umana seguisse dei binari prestabiliti, ma può aiutare a porsi nei panni dell’altro. In fondo, comprendere la storia significa soprattutto comprendere le ragioni degli uomini che ne furono protagonisti.

La politica estera di Luigi XIV nella seconda metà del XVII secolo ci ricorda la debolezza insita in ogni pianificazione capillare: nel regno del conflitto efficienza ed efficacia non solo non coincidono, ma spesso si trovano in opposizione. Una linea di difesa meno scientifica avrebbe costretto Luigi ad impegnare inefficientemente i propri uomini, disperdendoli in molte piazzeforti, e avrebbe reso impossibile la messa in campo del più grande esercito del suo tempo. Ciò avrebbe verosimilmente ridotto le ambizioni del Re Sole o almeno affievolito i timori delle altre potenze europee. Un sistema di fortezze che non fosse stato pensato per negare l’accesso al territorio francese avrebbe fornito agli avversari di Luigi un deterrente e, in caso di scontro, avrebbe potuto dar vita ad una guerra meno lunga e costosa.

L’inefficienza non è, naturalmente, un fattore positivo in sé, ma quando la logica a guidare gli eventi è quella della strategia, tollerarne coscientemente un certo grado può risultare ben più efficace che inseguire il perfetto sfruttamento delle risorse.

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