Il confucianesimo e il marxismo negli scritti giovanili di Mao

Da ChinaFiles (parte I, II)

Parte I

Gli anni della giovinezza e della formazione politica di Mao Zedong hanno coinciso con un periodo particolarmente delicato per tutta la Cina. Finiva il millenario “Celeste impero” e avevano inizio l’invasione europea e le rivolte, basti pensare alla rivolta dei Boxer o a quella dei Taiping. Furono anni in cui la Cina divenne un polveriera di nuove ideologie e sentimenti con un’inevitabile apertura nei confronti dell’Occidente.

L’analisi degli scritti giovanili di di Mao Zedong (che coprono gli anni dal 1917 al 1927, dalle prime attività alla rottura del primo fronte unito) rispecchia in pieno le tendenze ed il modo di pensare di una Cina scossa dall’alternanza tra adesione agli ideali delle dottrine tradizionali e curiosità verso l’esterno. In questo scenario, il pensiero del giovane Mao si articola, in una dialettica ambivalente che si muove tra tradizione e modernità, tra il vecchio ed il nuovo mondo.

Se tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, la risposta di intellettuali come Zeng Guofan o il modernista Kang Youwei fu un ritorno ad una moralità e alle norme stabilite da Confucio e dai suoi seguaci, ciò non accadde con il secondo momento di crisi imperiale nei primi anni del Novecento. In quel periodo, che corrisponde anche agli anni della formazione del giovane Mao, intellettuali come Li Dazhao o Yang Changji posero l’accento su una volontà di rinnovamento e modernità e su una ricerca di ideologie completamente nuove per salvare la Cina.

Tuttavia, nelle opere del giovane Mao, a un progressivo distacco dagli ideali confuciani, convive un forte attaccamento ad un substrato tradizionale, da cui Mao non poteva distaccarsi del tutto, proprio perché considerato come parte integrante del patrimonio culturale non solo Cinese ma asiatico in generale.

Tra i concetti principali della filosofia di Confucio e dei principali filosofi confuciani e neoconfuciani: Confucio e Mencio, in primo luogo, Xunzi, ma anche Zhang Zai, Zhu Xi, i fratelli Cheng E Wang Yangming, presenti e ricorrenti nelle opere giovanili del Grande Timoniere, tre sono le tematiche principali: la dimensione spirituale, con particolare attenzione al concetto di Tian e alla ricerca del dao; la dimensione sociale, analizzando quindi il concetto di li, la natura umana e le virtù caratteristiche dell’uomo di valore, quali il ren, shu, xiao eccetera; ed infine il discorso sull’arte del buon governo.

In un alternarsi di ripresa e di rottura con le opere e le idee tradizionali, dagli scritti giovanili di Mao è possibile ricostruire anche un altro aspetto importante: il suo progressivo avvicinarsi alle idee marxiste. Tuttavia, alla domanda: se egli possa essere considerato un marxista vero e proprio fin dalla giovinezza, non risulta facile rispondere e si aprono molteplici interrogativi. Analizzare quali aspetti della dottrina marxista-leninista venivano accettati e quali invece venivano scartati all’interno degli scritti giovanili, si è rivelato particolarmente difficile, essendo tale dottrina ancora in una fase di sviluppo embrionale.

L’adesione vera e propria ai concetti della dottrina marxista-leninista si riscontra soprattutto nelle opere scritte dal 1920 in avanti, come affermato anche dallo stesso Mao nella lunga intervista tenuta dal giornalista americano Edgar Snow. Mao sembra concentrarsi, in questa prima fase della sua vita, soprattutto intorno a tre aspetti chiave del marxismo-leninismo: la rivoluzione, le classi che avrebbero dovuto portare avanti la rivoluzione e il Partito. Particolare importante è quest’ultimo punto, anche perché in quegli anni Mao, come tutti i giovani comunisti, aveva scelto di collaborare con il partito nazionalista: il Guomin Dang.

Inizialmente, il marxismo in Cina veniva recepito come una volontà di rottura nei confronti degli ideali tradizionali, ed è proprio questa tendenza ad essere fortemente presente negli scritti del Grande Timoniere, basti pensare al modo di intendere la rivoluzione, descritta come un vero e proprio “uragano”. Un altro punto particolarmente interessante è il ruolo centrale attribuito da Mao al mondo contadino, che lo avvicina molto a Lenin, per cui si parla di una sorta di “leninismo naturale” che lo avrebbe indirizzato verso le idee del politico russo, più che a quelle di Marx.

Oltre ai due pensatori, l’attenzione del giovane Mao risente anche delle varie correnti intellettuali occidentali di cui la Cina era teatro, come ad esempio l’anarchia o la dottrina liberal-democratica. Il discorso si concentra, in maniera particolare su tutti quei pensatori modernisti attivi in Cina in quel periodo, a cui Mao aveva attinto, come ad esempio: Liang Qichao, Yang Changji, Chen Duxiu e Li Dazhao. Egli, infatti, come Chen Duxiu era convinto che scienza e democrazia avrebbero portato i cinesi a liberarsi dalle antiche tradizioni e superstizioni. Come Liang Qichao e Yang Changji, Mao era animato da un profondo nazionalismo e patriottismo. Il cammino lo avvicina anche a Li Dazhao e a Peng Pai, quest’ultimo considerato da Mao quasi come un maestro. Fu proprio da entrambi che Mao ereditò l’attenzione nei confronti del popolo ed in maniera particolare nei confronti dei contadini e delle loro sofferenze.

Si può quindi affermare che Mao ed il suo pensiero, in quel periodo, fossero i figli del momento di crisi culturale e politico che la Cina stava attraversando. Ciò che è veramente degno di nota è il metodo con cui Mao si approcciava sia al confucianesimo sia al mondo moderno. Egli non ha mai preso niente per scontato e valido, ma ha sempre cercato di cogliere quali aspetti riprendere e quali invece scartare, rielaborandoli in un pensiero proprio, del tutto unico.

Parte II

Il rapporto del giovane Mao con il Confucianesimo si muove in una dialettica molto particolare, tra innovazione e tradizione. Egli abbracciò alcuni dei temi cardine del pensiero tradizionale, rigettandone invece altri e ridiscutendoli. Le tematiche del pensiero tradizionale che attirarono maggiormente la riflessione del giovane Mao e sulle quali si giocò questa ambivalenza sono quelle relative alla dimensione spirituale ed il Cielo, l’importanza dei riti e della pietà filiale, la natura umana e l’arte di governo.

Un primo esempio di questo atteggiamento ambivalente è rappresentato dalla trattazione del concetto di dao che emerge fin dal primo scritto di Mao Zedong, Uno studio sull’educazione fisica, datato 1917 e pubblicato sulla rivista Gioventù Nuova. In tale articolo, scritto completamente in wenyan, Mao definì la propria visione di dao citando direttamente uno dei Quattro Libri: il Daxue. Ciò che Mao decise di cambiare fu proprio il soggetto in questione. Se per i pensatori antichi, infatti, la priorità era riservata allo studio e alla pratica, Mao attribuì, al contrario, un ruolo predominante all’attività fisica vista come igiene dai tradizionalisti, ma che per Mao rappresentava il rafforzamento del corpo e veniva considerata come una modalità per riportare la Cina al grande splendore di un tempo. Gli uomini dovevano rafforzare se stessi per rafforzare la Cina come nazione, sconvolta in quel periodo dalla guerra e dall’invasione occidentale. Come dimostrato dalle parole di apertura del saggio in questione: “La potenza del paese è scarsa, l’arte militare non è tenuta in considerazione, lo stato fisico della popolazione peggiora di giorno in giorno: questo è un fenomeno che rattrista profondamente”. Tale concetto non rimase statico all’interno del pensiero del Grande Timoniere, ma si sviluppò con il passare del tempo come dimostra il fatto che solo due anni dopo, nel 1919, all’interno dello scritto La grande unione delle masse popolari, Mao identificava il dao nella missione del popolo cinese di sconfiggere i capitalisti

Qualcosa di simile accadde anche per il concetto di Tian. Mao si fece portavoce di una società più dinamica, contrapposta ad una di tipo statico, teorizzata dal confucianesimo. Anche il Cielo spronava gli uomini a divenire forti, anch’esso era portavoce di concetti più “rivoluzionari” e dinamici.

In linea generale, si può affermare che anche quando le idee tradizionali venivano riprese da Mao, per la maggior parte delle volte questo avveniva per un uso strumentale, anche perché esse venivano immediatamente confutate in modo linguisticamente molto violento. Sarebbe quindi lecito affermare che Mao si servisse di riferimenti diretti presi dalla tradizione confuciana soltanto per avere una maggiore presa sul pubblico. Utilizzando un linguaggio più legato alla tradizione, risultava infatti molto più facile catturare l’attenzione dei suoi ascoltatori. Tuttavia, è importante sottolineare che, in alcuni casi Mao sembrava sposare in maniera acritica alcuni degli aspetti della dottrina confuciana.

Negli scritti più maturi, le prime argomentazioni e dichiarazioni lasciarono spazio a discorsi piuttosto ideologizzati basati sullo stile occidentale, che rasentano il tono propagandistico e risultano quasi privi di ragionamento filosofico. Si potrebbe affermare che Mao, a partire dal 1919, anno di fondazione del Movimento del Quattro Maggio, avesse sposato la causa degli intellettuali più modernisti, che vedevano la tradizione come uno strumento arretrato e che, pertanto, doveva essere dimenticata e non seguita.

Parallelo al tema della dimensione spirituale, negli scritti di Mao si ritrova anche la descrizione della dimensione sociale, dove sono numerosi gli aspetti di ripresa e di distacco. Un primo esempio si riscontra nelle critiche mosse da Mao nei confronti della superstizione, che quindi non riguardavano il vero e proprio concetto di li. Negli scritti successivi al 1919, tuttavia, si riscontra un distacco sempre maggiore: piuttosto che sottolineare l’importanza del sistema rituale, egli diede grandissima importanza alla dimensione individuale dell’uomo, visto come l’unico artefice del proprio destino. Particolarmente importante risulta essere il fatto che, nella formulazione e nella critica del sistema rituale, venga omessa la dimensione sociale. Tali omissioni risultano essere particolarmente significative, perché costituivano degli aspetti che potevano essere criticati. sembra quindi che Mao percepisse tali concetti, ancora una volta, come parte integrante della propria formazione e tradizione, pertanto, essi non venivano recepiti come retrogradi e da dimenticare.

Lo schema si ripete anche nella formulazione del concetto di studio, nel quale giocò un ruolo particolarmente importante il suo insegnante Yang Changji, la cui concezione di studio non divergeva poi così tanto da quella di Confucio e di Xunzi. Lo studio era considerato come l’unico modo per riformare il popolo, le critiche di Mao, quindi, si muovevano non tanto verso il metodo di studio, ma verso quello di insegnamento. Un’ulteriore critica viene delineata anche nella descrizione della natura umana: l’universo maoista era diviso nettamente in buoni e cattivi, in nemici ed amici. Torna ancora una volta una critica ad una società statica ed immobile, rispetto ad una più dinamica. La volontà di distacco viene confermata in scritti come Il suicidio della signorina Chao oppure Rapporto di inchiesta sul movimento contadino dello Hunan, in cui la società cinese veniva descritta come una prigione, una gabbia, da cui occorreva liberarsi.

Per quanto riguarda il tema del buon governo, sembra esistere un’analogia tra due momenti storici che furono particolarmente delicati per la storia cinese: l’epoca in cui visse e scrisse Mao Zedong e quella in cui vissero i grandi filosofi, come Confucio, Mencio, Xunzi eccetera. Proprio come avevano fatto i confuciani, spinti dal momento di crisi che stavano attraversando, i giovani intellettuali dei primi anni del Novecento si interrogarono sul motivo della crisi politica della Cina, incapace di reagire alla divisione e all’invasione occidentale. La situazione ricalcava infatti in parte le condizioni che Confucio e Mencio vissero, in un’epoca in cui le riflessioni degli intellettuali si concentrarono sulla mancanza di un sovrano capace di riunire tutto il territorio cinese sotto un grande impero. Nell’epoca degli Stati Combattenti la questione era meramente politica: i diversi stati combattevano per uno stesso fine, seguendo valori condivisi unanimemente. Al contrario, l’imperialismo significava qualcos’altro: alla divisione politica si aggiungeva la sfida al sistema di valori tradizionali, diventati la vittima sacrificale degli intellettuali.

Un ulteriore aspetto di critica si riscontra nel concetto del wuwei, visto dai confuciani come una delle caratteristiche principali del sovrano, ma criticato da Mao e paragonato all’ inattività e all’ immobilità. Un parziale riscontro si ritrova nella teoria del “proteggere il popolo”, poiché in entrambe le dottrine si ritrova l’idea di uno stato paternalistico che avrebbe dovuto trattare il popolo come un figlio e mettere i loro desideri di fronte ai propri. Tuttavia, i due discorsi divergono su chi avrebbe dovuto governare: per Mencio era il sovrano, per il Grande Timoniere, al contrario era la bolscevizzazione. Le divergenze riguardanti questo tema sono soprattutto concettuali: ad esempio, Mao non parlò mai di geming inteso come rivoluzione tradizionale, ma si fece portavoce di un modello di rivoluzione che i confuciani non avrebbero mai accettato, di un vero e proprio rovesciamento di potere, che sarebbe dovuto avvenire in maniera violenta. Seguendo questa logica, era facile per Mao escludere dal processo rivoluzionario tutti coloro che invece di seguire un ideale di rivoluzione “selvaggia” e “violenta” ne professavano una di tipo “pacifico”. Questo passaggio è particolarmente significativo, perché Mao per descrivere come non avrebbe dovuto essere la rivoluzione, utilizzò degli aggettivi attribuiti a Confucio all’interno dei Dialoghi. Attraverso quest’uso strumentale del linguaggio, venivano esclusi dal processo rivoluzionario vero e proprio tutti coloro che seguivano ancora i modelli tradizionali.

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