Proposta di interpretazione, metodologia e periodizzazione per la storia della filosofia marxista (1839-2002)

Articolo apparso per la prima volta sulla rivista Praxis.

1. Questo breve saggio si propone due obiettivi teorici molto ambiziosi. Per poterli documentare con il necessario apparato filologico ci vorrebbero migliaia di pagine, ma lo spazio e le forze sono quelli che sono. In ogni caso, la citatologia è sempre secondaria, mentre in primo piano deve sempre venire la tesi teorica che si ritiene opportuno sostenere. Le citazioni sono in filosofia quelle che sono negli eserciti le salmerie e, come diceva Napoleone, le salmerie verranno anche loro in coda alle truppe.

2. La prima tesi, che è anche la più importante, consiste nel sostenere che in Karl Marx, ed ancor più nel marxismo successivo, non esiste uno spazio filosofico propriamente detto, nel senso dello spazio teorico di una conoscenza filosofica specifica distinta dalla conoscenza quotidiana, scientifica ed artistica. La filosofia di Marx è quindi una non-filosofia. Certo, come è normale nella storia della filosofia occidentale, la tesi della non-filosofia è sostenuta con argomenti di tipo filosofico, come del resto avviene in molti pensatori (e cito qui solo Gorgia, David Hume e Ludwig Wittgenstein). La scelta non-filosofica di Marx si consuma tutta prima che egli compisse i trent’anni di età, sostanzialmente dal 1839 al 1845. ب necessario chiarire la genesi di questa scelta non-filosofica, perché il marxismo successivo sostanzialmente la erediterà.

3. La seconda tesi, che però è anche la meno importante (anche se quella che richiederà più spazio di esposizione), consiste in una proposta di periodizzazione della filosofia marxista dopo Marx, che è anche la storia di una lunga non-filosofia. Accennerò dunque solo di sfuggita alle tesi di Marx di tipo politico o economico (dittatura del proletariato, crisi economiche, eccetera), perché esse non sono l’oggetto conoscitivo di uno specifico spazio filosofico. Questa mia proposta di periodizzazione, di cui espliciterò sempre i criteri metodologici impiegati, divide la storia della filosofia marxista in cinque periodi. Fra di essi vi è ovviamente una dialettica di continuità e di discontinuità, ma a mio avviso è sempre la discontinuità ad essere dominante, e chi non si impadronisce concettualmente di questo criterio finisce sistematicamente con l’affrontare la guerra nuova con le carte belliche di quella precedente, come successe ai francesi con la linea Maginot nel 1939.

Il primo periodo della storia della filosofia marxista è quello costitutivo, e va dal 1875 al 1914. Il ruolo di Engels, ed in subordine quello di Kautsky, è stato essenziale. La sola corrente filosofica che si oppose in modo esplicito alla sintesi teorica di Engels e di Kautsky fu quella detta neo-kantiana, ma essa restò minoritaria, e non uscì dall’ambito universitario. Una seconda corrente fu quella degli empiriocriticisti russi, cui si oppose fortemente Lenin, ma anch’essa restò minoritaria. Il neokantismo e l’empiriocriticismo restano comunque esempi di autonomia di pensiero e di capacità critica.

Il secondo periodo della storia della filosofia marxista è quello della sua prima crisi generale, e va dal 1914 al 1931, quando Stalin definisce per decreto di partito una sola filosofia legale, il cosiddetto materialismo dialettico. In questo secondo periodo la sintesi di Kautsky si esaurisce, ed il movimento comunista avanza in primo piano. A questo secondo periodo appartiene integralmente anche Antonio Gramsci, la cui opera scritta in carcere resta però inedita. All’interno dell’URSS il materialismo dialettico si fa strada contro due correnti contrarie, la negazione integrale della filosofia del cosiddetto materialismo volgare e la filosofia di Deborin, poi battezzata in modo diffamatorio come idealismo menscevizzante. All’esterno dell’URSS il materialismo dialettico si impone con metodi amministrativi contro il cosiddetto “marxismo occidentale” (Lukàcs, Korsch, eccetera).

Il terzo periodo della storia della filosofia marxista è quello della sua “seconda” ortodossia (la prima è quella di Kautsky), e va dal 1931 al 1956, con il XX congresso del PCUS e la destalinizzazione di Nikita Krusciov. In questo terzo periodo si realizza l’integrale sottomissione dello spazio filosofico allo spazio ideologico. Non si tratta di giudicare la cosiddetta “qualità” del materialismo dialettico, che ovviamente è molto bassa. Si tratta di comprendere che purtroppo esso ha “inverato” una tendenza nichilistica già esistente, e cioè la tendenza alla ideologizzazione della scienza (o di ciò che si riteneva erroneamente essere tale). La forza di questa ideologizzazione è stata tale che gli apparati partitici, scolastici ed universitari dei paesi in cui il potere politico era in mano al comunismo storico novecentesco hanno continuato ad applicarla fino alla fine, cioè fino al biennio 1989-91.

Il quarto periodo della storia della filosofia marxista è quello della sua seconda crisi generale, e va dal 1956 al 1991, cioè fino alla dissoluzione tragicomica del comunismo storico novecentesco. In questo quarto periodo ci furono molte proposte di rinnovamento, ma a mio avviso le più rilevanti sono soltanto due, l’ontologia dell’essere sociale di Lukàcs e la nuova epistemologia marxista di Althusser. Ma il malato era assolutamente incurabile, ogni innovazione è irricevibile se il destinatario è intrasformabile, e così nessun rinnovamento fu possibile.

Il quinto ed ultimo periodo della storia della filosofia marxista, quello in cui siamo immersi e che stiamo vivendo oggi, inizia nel 1991. Esso non ha ancora dato luogo, a mio avviso, a nessun segnale di rinnovamento, e questo perché a mio avviso un rinnovamento oggi deve essere radicale, e per ora questo viene scoraggiato ed impedito da apparati intellettuali conservatori di tipo universitario e politico. Non è però solo colpa di questi apparati, che pure stanno giocando un ruolo nefasto. Il rinnovamento non è ancora avvenuto anche perché c’è oggettivamente una forte povertà ed insufficienza delle proposte alternative. Come ad esempio quella che viene qui proposta in questo saggio.

4. Partiamo dal notissimo motto filosofico del giovane Marx, per cui finora i filosofi hanno interpretato il mondo, e si tratta ora di trasformarlo. Presa alla lettera, questa frase è letteralmente insensata, dal momento che ogni progetto di trasformazione presuppone una interpretazione precedente. Bisogna allora cercare un significato filosofico a questa dichiarazione non-filosofica radicale. Questa frase è stata per circa un secolo e mezzo interpretata semplicemente come un invito alla militanza ed all’impegno politico. I filosofi non devono limitarsi a scrivere libri sul mondo, ma devono impegnarsi in politica, iscriversi ai partiti di sinistra, fare manifestazioni e girotondi, prendere anche le armi quando è necessario, eccetera. ma questa interpretazione “militante” non ci fa procedere di un solo passo. I filosofi hanno sempre cercato di “trasformare” il mondo, e non ci voleva certo un giovane Marx barbuto a suggerirglielo. Bisogna allora fare un’operazione in due tappe. In primo luogo, bisogna interrogare la genealogia filosofica di Marx, cioè il come Marx ha interpretato i filosofi precedenti e contemporanei (e lo faremo con Spinoza, Epicuro, Hegel, Feuerbach e la sinistra hegeliana). In secondo luogo, bisogna spregiudicatamente chiedersi quale sia la vera fonte nascosta ed implicita, quella mai dichiarata ma decisiva. Contro ogni tradizione, sosterrò che questa fonte mai dichiarata, nascosta ed implicita è l’utilitarismo di David Hume ed il successivo “rovesciamento” del cosiddetto “capitalismo utopico” di Adam Smith. tesi forse scandalosa, ma niente affatto folle come sembra.

5. Marx lesse da giovane il pensiero politico-filosofico di Spinoza e ne fu fortemente e favorevolmente impressionato. Questo risulta filologicamente dalla nuova edizione delle opere complete di Marx ed Engels (MEGA). Da queste note risulta che egli approvava incondizionatamente la tesi sul fatto che lo stato deve garantire la massima libertà di opinione e soprattutto non deve legittimarsi in modo religioso, ma tenere distinte teologia e politica. Marx non lascia alcun dubbio su questi due punti fondamentali. Possiamo perciò dedurne che egli non avrebbe approvato gran parte del cosiddetto “marxismo” successivo. Gli stati socialisti del Novecento, nominalmente marxisti, non garantirono mai la pubblica libertà di opinione, ma la repressero sistematicamente, in una gamma di comportamenti che andava dalla mancata carriera al licenziamento, dall’imprigionamento ai lavori forzati fino alla condanna a morte. Chi pensa che Marx sarebbe sopravvissuto sotto Stalin e non sarebbe stato espulso sotto Togliatti può anche credere che i bambini li portino le cicogne. Per quanto riguarda la separazione fra teologia e politica, è noto che il successore laico (peraltro imperfettamente laicizzato) della teologia è l’ideologia, e gli stati del comunismo storico novecentesco si basarono sempre sulla teologia (cioè l’ideologia di tipo ateo-marxista). Insomma, i quaderni di lettura di Spinoza del giovane Marx impediscono ogni lettura “totalitaria” del suo pensiero, e sono consigliabili sia ai seguaci di Popper sia ancor più a tutti quei militanti e dirigenti comunisti passati e presenti che ritengono la libertà di opinione e di espressione un lusso piccolo-borghese di cui i rudi proletari non sanno che farsene. Atroce stupidaggine che dicono in nome di Marx.

6. Marx si laureò in filosofia con una tesi di laurea su Epicuro, o meglio sulla differenza fra il materialismo di Epicuro e quello di Democrito. Già la scelta di laurearsi in filosofia rappresenta un’implicita critica al sistema di valori e di priorità borghesi. Secondo il padre dello scrittore italiano Gianpaolo Rugarli (cfr. La Repubblica, 30-8-02), che impedì al figlio di iscriversi a lettere e filosofia e gli impose la scelta della facoltà “seria” di legge, lettere e filosofia è fatta per le donne, i preti e i froci. Il mio defunto padre era meno pittoresco del vecchio Rugarli, ma condivideva la stessa concezione, per cui a suo tempo dovetti addirittura scappare all’estero per poter studiare quello che volevo. I borghesi hanno sempre saputo che il mondo non deve essere interpretato, ma trasformato con l’attività imprenditoriale, ed i marxisti scoprono sempre regolarmente l’acqua calda quando pensano di essere stati loro i primi a fare questa geniale pensata.

Il succo teorico della tesi di laurea di Marx sta nella tesi per cui il materialismo atomistico di Democrito era completamente meccanicistico, e non lasciava di fatto nessuno spazio al caso ed alla libertà, mentre quello di Epicuro è diverso, perché la cosiddetta “deviazione” degli atomi (clinamen, parekklisis), rilegittima il caso e fonda anche la libertà stessa. Su questa base l’ultimo Althusser fondò il cosiddetto “materialismo aleatorio”. A mio avviso questa tesi di Marx, peraltro filologicamente evidente, si può prestare a due interpretazioni fondamentali. In primo luogo, si tratta di una sorta di auto-interpretazione biografica esistenziale di Marx, che in questo modo spiegava filosoficamente perché era “deviato” lui stesso dalla semplice “caduta” da nonno borghese a padre borghese a figlio borghese. E invece no. Nonno rabbino, padre borghese e figlio comunista. In secondo luogo, si tratta di una precoce scelta in favore di Epicuro e contro gli stoici. Vedremo che più avanti Engels e Kautsky secolarizzarono in modo indirettamente luterano la vecchia teoria stoica della necessità, che divenne poi la teologia storicistica del movimento operaio, prima socialista e poi comunista. Ma Marx fu sempre un pensatore della libertà, e non a caso definì “libera individualità” la sua concezione antropologica della necessità. La stessa definizione di libertà come necessità riconosciuta, cioè come coscienza della necessità, è di Engels e non certo di Marx.

7. E passiamo ora a Hegel. Preghiamo il lettore di prestare una particolare attenzione, perché il gioco si fa duro, ed i duri incominciano a giocare. Molti credono che nella sua giovanile Critica alla filosofia del diritto di Hegel Marx abbia regolato definitivamente i conti con lo stesso Hegel. Mai pregiudizio fu più infondato di questo. In questa opera, a mio avviso mediocrissima (non seguo evidentemente qui il giudizio di Galvano Della Volpe e della sua scuola), Marx continua a dire che esistono solo le pere, le mele e le ciliegie, mentre non esistono ovviamente quelle “ipostasi” chiamate la Pera, la Mela e la Ciliegia. Sembra di ascoltare un mediocre studente di filosofia che ha appena letto un riassunto delle critiche mosse da Aristotele alla teoria delle idee di Platone. Naturalmente, a Marx non interessano particolarmente le pere, le mele e le ciliegie, quanto la famiglia, la società civile e lo stato discusse appunto nella Filosofia del Diritto di Hegel. In modo del tutto corretto egli vuole dire che non esiste la Famiglia, la Società Civile e lo Stato (maiuscoli), e chi afferma che esistono fa solo delle “ipostasi”, dal momento che ci sono solo dei tipi storici e mutevoli di famiglie, di società civili e di stati.

Giustissimo. Elementare, Watson. Semplicemente, Hegel non c’entra niente. Marx critica Hegel come se Hegel fosse portatore di un idealismo di tipo platonico-pitagorico, e come se le famiglie, le società civili e gli stati fossero assimilabili a figure geometriche, cioè a linee, a triangoli e quadrati. Qualcosa, in breve, che non muta nel tempo, perché si tratta di modelli geometrici eguali nelle piramidi egizie e nei salotti borghesi. Ma l’idealismo di Hegel non è di tipo geometrico-pitagorico, ma di tipo storico, ed allora è chiaro che quando parla di Famiglia, Società Civile e Stato (con la maiuscola, ma in tedesco tutti i sostantivi si scrivono con la maiuscola, cosa che forse ha contribuito ad alimentare lo spirito filosofico dei tedeschi) non ne parla come se fossero la Pera, la Mela e la Ciliegia, espressioni da fruttivendolo idealista. Ne parla come il massimo storico possibile di realtà e di razionalità in quel preciso momento storico, che è quello della modernità borghese.

A mio avviso, il giovane estremista Marx è del tutto giustificato a confondere l’idealismo storico di Hegel con l’idealismo geometrico di Pitagora e con le sue “ipostasi”. Meno giustificati sono quei marxisti che pensano di essere “materialisti” perché vogliono toccare le pere, le mele e le ciliegie. Se poi ne rovesciano le cassette, pensano di rimettere Hegel con i piedi per terra.

8. Passando ora a Feuerbach, bisogna notare che nella tradizione marxista la faccenda dei rapporti fra Feuerbach e Marx viene “sbrigata” con due rilievi esatti, ma anche marginali. In primo luogo, si fa notare che per Marx non esiste l’Uomo in generale, ma soltanto gli uomini collocati in modo antagonistico dentro rapporti sociali di produzione, per cui non ha senso postulare un umanesimo interclassista astratto, modello per eccellenza di semplice laicismo borghese, ma bisogna ammettere la centralità della lotta di classe. In secondo luogo, si fa notare che la critica di Feuerbach alla religione in termini di alienazione in Dio di una essenza umana che in realtà è autonomamente titolare di attributi potenzialmente “infiniti” (in quanto ancora “indeterminati”) è ancora insufficiente, perché bisogna apertamente dire che la religione “copre” ideologicamente lo sfruttamento di classe, mascherandolo con una illusoria compensazione ultraterrena.

Tutto giusto, ma anche tutto marginale. Questi due rilievi, infatti, anche se sono a mio avviso sostanzialmente esatti, non riguardano lo statuto filosofico del pensiero di Marx, ma unicamente lo statuto epistemologico del cosiddetto “materialismo storico”, che non è una filosofia, ma una vera e propria conoscenza scientifica. (anche se imperfetta e modificabile) della storia. A suo tempo Althusser si confuse mettendo insieme l’anti-umanesimo epistemologico (innegabile) con l’anti-umanesimo filosofico (arbitrario). In realtà, da un punto di vista strettamente filosofico, Marx è semplicemente un allievo fedele di Feuerbach. Anche per lui, infatti, il fondamento teorico è soltanto l’Uomo nella Storia, il che dà luogo ovviamente ad un umanesimo storicistico. Non si tratta del fatto che ovviamente anche Marx è ateo come Feuerbach, e dalla negazione di Dio risulta direttamente l’autofondazione dell’Uomo e la sua integrale autosufficienza immanente alla storia. Si tratta del fatto che questo umanesimo storicistico comporta necessariamente il rifiuto integrale di Hegel, cioè di una filosofia del fondamento per cui la verità è razionalmente basata su una concezione logico-ontologica della realtà. Non è dunque esatto dire (come farà poi Engels) che il marxismo è l’erede della filosofia classica tedesca. Questa filosofia si basava su di una concezione logico-ontologica della realtà, e se quest’ultima viene negata non è corretto dire che la si eredita. Con questo ragionamento si potrebbe dire che si eredita Platone rifiutando la sua teoria delle idee, ed altre amenità del genere.

9. Qualche rilievo infine sui rapporti fra Marx e la cosiddetta “sinistra hegeliana”, la cui resa dei conti si chiama L’Ideologia Tedesca. Date le enormi differenze fra Strauss, Ruge, Hess e Stirner (che a mio parere non ne fa neppure parte, perché il suo anti-individualismo radicale è del tutto anomalo), è necessario stringere il nodo teorico fondamentale, perché in caso contrario i particolari possono fuorviarci. E questo nodo sta in ciò, che Marx giunge alla conclusione che bisogna lasciar perdere tutte le critiche alla società borghese di tipo semplicemente “ideologico” (un greco antico le avrebbe chiamate di tipo “retorico”), per cominciare a legarsi politicamente con gli operai e con gli artigiani che intanto per conto loro avevano cominciato a definirsi “comunisti”. Ciò avviene fra Parigi e Bruxelles, cioè fra il 1844 ed il 1846. La resa dei conti con la sinistra hegeliana non dà pertanto luogo ad una filosofia diversa da quella di questi “sinistri”, ma semplicemente ad una equazione filosofica, per cui semplicemente lo spazio della filosofia è identificato con l’azione del proletariato (secondo una prospettiva che negli anni Venti e Trenta del Novecento riprenderà in modo cristallino Karl Korsch). È qui, e solo qui, e proprio qui, ed esattamente qui che Marx si congeda dallo spazio filosofico, perché non c’è più nessuno spazio filosofico vero quando lo si identifica con la prassi collettiva di un soggetto sociale (dai sarti parigini del 1845 alle moltitudini biopolitiche e teurgiche del 2002). È dunque fra il 1844 ed il 1846 che Marx abbandona per sempre la filosofia. Certo, egli lo fa usando argomenti filosofici, ma anche questo è abituale.

10. Sintomo di questo abbandono è l’affermazione, a mio avviso insensata, per cui il comunismo implicherebbe la “realizzazione” della filosofia. Se questa affermazione vuole dire che con il comunismo la filosofia, essendo finalmente “realizzata”, finisce e si estingue, allora essa è veramente insensata, perché la filosofia, o più esattamente il dialogo filosofico veritativo, è un’attività permanente ed intrinseca alla vita umana associata, come il mangiare, il bere, il conversare, il fare all’amore, il ridere e il piangere. Chi pensa che queste cose possano estinguersi, lasci perdere la filosofia e si metta a fare il pompiere, dove potrà occuparsi meglio di estintori. La frase di Marx ha un senso solo se si intende il termine “realizzazione” non nel senso di estinzione, ma nel senso di Hegel, per cui la realizzazione è la concretizzazione storica di ciò che appare “razionale” all’autocoscienza umana temporalmente data. Il comunismo realizzerebbe meglio della società borghese lo “spirito oggettivo”, cioè la razionalità umana associata (ed è infatti questa l’accezione del giovane Lukàcs del 1923). Questo è peraltro esattamente quello che penso anch’io. Ma dal momento che non ci può essere nessuna realizzazione definitiva e finale, a meno che uno non interpreti la logica di Hegel secondo un modello pitagorico-neoplatonico, ne consegue che non ci può neppure essere una “realizzazione” della filosofia intesa come sua fine storica. Questa sgradevole concezione della “fine della storia”, che unifica filosoficamente Stalin a Fukuyama, è talmente ripugnante ed abbietta (sarebbe semplicemente la morte dell’umanità) che mi rifiuto di pensare che una persona intelligente come Marx l’abbia veramente concepita.

11. Le cose diventano a mio avviso un poco più chiare se leghiamo insieme l’abbandono della filosofia da parte di Marx con la sua accettazione della teoria del valore di Smith e Ricardo. In un suo ottimo studio sulla progressiva formazione del pensiero economico di Marx, Ernest Mandel afferma che in un primo momento Marx aveva rifiutato la teoria del valore, e l’aveva infine accettata solo appunto fra il 1844 ed il 1846. Ecco, qui sta a mio avviso il cuore della questione, perché la teoria del valore non è qualcosa di filosoficamente neutro, ma qualcosa che presuppone l’accettazione del suo presupposto filosofico. E questo presupposto filosofico è l’insieme di scetticismo, di empirismo e di utilitarismo di David Hume, uno dei filosofi più interessanti e “rivelatori” della storia della filosofia occidentale. La cosa è talmente importante, da meritare un’analisi apposita.

12. David Hume è un pensatore intelligente, scrive bene ed in modo chiaro e simpatico, e non ha nulla di quella agghiacciante pesantezza accademica tedesca che fa venire voglia di andare in un pub inglese a giocare a freccette. Nello stesso tempo, è impossibile capire il retroterra filosofico della teoria del valore di Adam Smith se non si capisce bene che cosa significhino l’empirismo, lo scetticismo ed infine l’utilitarismo.

Empirismo significa sostanzialmente che tutte le conoscenze umane derivano dall’esperienza, e che anche il pensiero più elaborato ed astratto deriva in ultima analisi da quest’ultima, con la dichiarata esclusione di qualunque idea innata. Ideologicamente parlando, l’empirismo è omogeneo a quella nuova classe di mercanti ed imprenditori inglesi e scozzesi che non ha più bisogno di una legittimazione religiosa del proprio potere, e che anzi è interessata a demolirla. Empirismo significa anche che ci sono soltanto le pere, le mele e le ciliegie, e dunque nessuna Mela platonicamente immutabile, il che comporta anche che ci sono solo delle leggi e delle corporazioni professionali empiriche, che si possono dunque trasformare. Sotto la società umana non c’è nessuna “sostanza” (substantia, hypokeimenon), ma essa non è che un insieme di relazioni. E si tratta, appunto, di relazioni capitalistiche. Locke ne è il principale esponente, ma presenta momenti di contraddizione, perché vuole difendere contemporaneamente l’empirismo ed il contrattualismo politico, laddove è evidente che nessuno ha mai fatto né può aver fatto l’esperienza del contratto originario fondatore della società. Il Contratto Assoluto di Locke è come lo Spazio ed il Tempo Assoluti del suo contemporaneo Newton. Si tratta di inizi volonterosi, ma ancora contraddittori.

Scetticismo vuole certamente dire anche impossibilità di dimostrazione razionale della categoria di causalità, ma non solo questo. Certo, la critica alla categoria di causalità è importante, perché un suo immediato sottoprodotto è la conclusione per cui non si può e non si deve dimostrare che la società umana (e cioè capitalistica) è stata “causata” da un contratto politico. Un contratto si può sempre modificare e disdire, ed i capitalisti non possono fondare filosoficamente il loro sistema con il presupposto che esso possa essere “disdetto”. Scettici, ma non coglioni. Ma l’essenza dello scetticismo, a mio avviso, non sta tanto nella tesi della totale indimostrabilità di Dio (che Hume prudentemente destinò ad una pubblicazione postuma, per non avere grane), ma nella tesi per cui il valore d’uso è inconoscibile, in quanto ognuno gli attribuisce il valore che vuole. Il valore d’uso e indubbiamente “utile”, se no non verrebbe usato, e dunque neppure venduto e comprato, ma è anche inconoscibile (noumenico, come direbbe Kant). Soltanto il valore di scambio è conoscibile.

13. Torneremo fra poco a Marx, ma intanto bisogna impadronirsi bene di questo nodo teorico. E questo non si può fare, senza un’apposita breve riconsiderazione della teoria del valore, senza per ora inoltrarci sulla differenza fra Smith, Ricardo e Marx. La esamineremo soltanto da un punto di vista esclusivamente filosofico.

Come è largamente noto, la teoria del valore afferma che i prezzi in base a cui si scambiano le merci si formano a partire dal tempo di lavoro sociale medio incorporato da ogni bene-merce. Questo dà luogo ad una vera “mano invisibile”, la mano invisibile con cui funziona automaticamente il mercato. Qui il massimo di empirismo, di scetticismo e di utilitarismo si mescola con il massimo di approccio magico alla realtà, che si afferma essere appunto mossa da qualcosa che resta del tutto invisibile ed inconoscibile, e può soltanto essere accertato a posteriori. Alla vecchia metafisica aprioristica delle società feudali e signorili succede così la nuova metafisica aposterioristica delle società borghesi e capitalistiche. Si tratta di un rovesciamento soltanto apparente, che conserva il carattere irrazionalistico della fondazione del legame sociale. Ma è bene riflettere ancora sulla filosofia (o meglio, sulla non-filosofia) implicita nella teoria del valore-lavoro.

Come si è detto, il valore d’uso è del tutto inconoscibile, perché ognuno lo può definire come vuole, a seconda dei suoi gusti e delle sue esigenze. Questo distrugge ogni carattere “naturalistico” del valore d’uso, perché se il valore d’uso fosse definibile in modo naturalistico, a partire cioè da una struttura sociale oggettiva delle priorità e dei bisogni umani, non vi sarebbe più bisogno di cercare la misura del valore nel solo valore di scambio. Incidentalmente, il comunismo di Marx, inteso come regno dei bisogni umani soddisfatti, restaura la naturalità del valore d’uso, e si pone così come rovesciamento integrale del capitalismo, che invece ha come fondamento l’artificialità del valore di scambio. Il contrattualismo politico, sia nelle sue versioni di destra (Locke) che in quelle di sinistra (Rousseau), aveva ancora come presupposto una naturalità del valore d’uso, mentre l’utilitarismo si fonda già sulla mano invisibile e sul valore di scambio come solo elemento quantitativamente accertabile del legame sociale. In linea generale, si tratta di un episodio ulteriore dell’affermazione del quantitativismo della scienza moderna (tempo di lavoro sociale medio = prezzo di produzione). A questa concezione di scienza, assolutamente non filosofica ed anzi provocatoriamente anti-filosofica, si ispirano quei marxisti che considerano “fondamento scientifico” del marxismo il problema della trasformazione dei valori in prezzi di produzione. Ma che essa sia possibile o no, in ogni caso a mio avviso non può essere veramente un “fondamento”.

Marx scopre dunque la teoria del valore con l’entusiasmo del neofita stanco delle interminabili chiacchiere della sinistra hegeliana, e la fa diventare così il suo fondamento filosofico. Essa può soltanto essere lo pseudo-fondamento di un “capitalismo utopico” alla Adam Smith, che Marx rovescerà per farlo diventare un “comunismo utopico”. Spieghiamoci meglio.

14. Secondo lo studioso francese Pierre Rosanvallon, quello di Smith è un “capitalismo utopico” perché pretende di essere un meccanismo di autoregolazione perfettamente indipendente da qualunque intervento artificiale di tipo statale. Esso non si basa su di un precedente contratto politico, che potrebbe essere “disdetto” in qualunque momento, ma sulla mano invisibile di un meccanismo autoregolativo di offerte e di domande a sua volta incentrato su un preciso funzionamento della natura umana, che David Hume aveva definito in termini di attese. In realtà questo meccanismo è “utopico” perché non ha mai funzionato e non funzionerà mai. Ma Karl Marx parte proprio questo meccanismo, e non da un contratto politico sia pure di “sinistra”, per affermarne il rovesciamento in base alle proprie leggi dialettiche di funzionamento. La stessa “mano invisibile” che per Smith regge la riproduzione infinita della domanda e dell’offerta forma progressivamente per Marx un lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all’ultimo manovale, che si allea con le potenze mentali e scientifiche della produzione capitalistica, da Marx connotate con il termine inglese di general intellect. Ma se veramente c’è questa mano invisibile, allora un fondamento filosofico veritativo non è più necessario, perché il fondamento è la mano invisibile stessa.

15. Ma la mano invisibile non è un fondamento veritativo, né nella versione della cosiddetta legge della domanda e dell’offerta, né nella versione della formazione progressiva di un lavoratore collettivo cooperativo associato. Fra l’altro, e lo dico qui del tutto incidentalmente e senza neppure darvi troppa importanza, nessuna delle due versioni si realizza nella realtà storica. Ciò che conta è che il rovesciamento del capitalismo utopico in comunismo utopico (che comunque non c’è) non viene affermato filosoficamente, ma con una postulazione economico-sociologica. Qui, purtroppo, sta il problema.

16. Nel 1848, quando insieme con Engels scrive il famoso Manifesto del Partito Comunista, in cui annuncia il conflitto epocale fra Borghesia e Proletariato come chiave teorica dell’epoca storica presente, Marx ha già deciso che quanto si ripromette di studiare, cioè la critica dell’economia politica come presupposto del comunismo, non ha bisogno di un fondamento filosofico e non deve averlo. Che chiami poi questo “materialismo” è assolutamente secondario. Il fatto che il mondo sia ontologicamente unitario, e cioè sia solo materiale, e perciò ci sia una sorta di monismo materialistico (teoria che Plechanov attribuì a Spinoza, a mio avviso erroneamente), non è un fondamento filosofico del comunismo, ma una semplice dichiarazione positivistica di ateismo.

ب allora curioso leggere da parte di alcuni commentatori che Marx dal 1848 al 1883 non si è più occupato di filosofia perché occupato 16 ore su 24 con l’economia. Si tratta di vere sciocchezze. Noi troviamo sempre il tempo per quello che ci interessa veramente e che riteniamo primario, salvo il caso di morti precoci o di malattie terribili. Per quello che non ci interessa, ovviamente, il tempo non lo troviamo mai. Marx in realtà pensava di avere già fatto prima dei trent’anni la resa dei conti con la filosofia, e di aver trovato un nuovo fondamento non filosofico del comunismo, la teoria del valore come motore del modo di produzione, la cui dialettica sociale immanente avrebbe risolto il problema producendo il lavoratore collettivo cooperativo associato. Sui presupposti filosofici impliciti della teoria del valore, che ho cercato di segnalare in alcuni paragrafi precedenti, ritengo che il grande Marx non avesse le idee chiare. Credo che si possa dire una cosa simile, giusta o sbagliata che sia, senza essere accusato di bestemmia.

17. Naturalmente una persona sensibile ed intelligente come Marx, nonostante la sua scelta di rinuncia ad ogni fondamento filosofico (non solo nel senso logico-ontologico di Hegel, ma anche di Platone, Aristotele Spinoza, Kant, e di tutta la filosofia seria), non poteva che essere sempre influenzato dai filosofi seri che aveva studiato in gioventù, come Spinoza, Epicuro, Hegel e Feuerbach. Non utilizza più il concetto di “alienazione”, effettivamente ambiguo e generico, ma continua a pensare che il mondo sia egualmente alienato, cioè estraniato dalla sua possibilità di esistenza giusta e solidale. Quando scrive che il profilo antropologico del comunismo è la libera individualità, e non la dipendenza personale o l’indipendenza personale, è evidente che metabolizza virtuosamente Spinoza, Epicuro, Hegel e Feuerbach. Nessuna persona intelligente può liberarsi della filosofia, come nessun marciatore può liberarsi del sudore. Anche chi rifiuta la fondazione filosofica del proprio progetto non può fare a meno di avere egualmente una propria filosofia implicita.

18. Per concludere con Marx, richiamo soltanto un fatto curioso, e cioè che da più di un secolo i più vari commentatori marxisti, sempre ignari del fatto che Marx aveva rifiutato radicalmente ogni fondazione filosofica del proprio comunismo, gli hanno attribuito le filosofie più diverse. Questo è ovviamente un sintomo interessante. Platone, Aristotele, Spinoza, Kant e Hegel possono essere diversamente interpretati, e lo sono stati nel corso dei secoli, ma nessuno potrebbe attribuire loro filosofie diverse e contrastanti. Se questo è invece avvenuto per Marx, ciò è sintomo di una situazione del tutto anomala. Anomala, ma non oscura, perché a mio avviso la chiave del problema, l’uovo di Colombo che è sotto gli occhi di tutti, basta che lo vogliano vedere e non facciano come i cortigiani del re nudo che fingeva di marciare con gli abiti più lussuosi, sta appunto nel fatto che se uno rinuncia volutamente ad ogni fondazione filosofica obbliga poi i suoi seguaci ad attribuirgliene una arbitrariamente.

19. La storia della filosofia marxista è la storia delle successive attribuzioni storiche, tutte obbligate e tutte arbitrarie, di uno statuto filosofico ad una teoria che il suo fondatore volle edificare senza statuto filosofico. Ma la mancanza di uno statuto filosofico è una forma di nichilismo, anche se il nichilismo è mascherato sotto il nome improprio di materialismo. Il nome di materialismo è improprio, perché la “materia” era solo una sorta di sostanza metafisica permanente che scorreva “sotto” (hypo-keimenon) un impianto di tipo storicistico ed economicistico.

20. La prima fase della storia della filosofia marxista va dal 1875, data di fondazione del partito socialdemocratico tedesco unitario, al 1914, data della sanzione storica del fallimento epocale del movimento socialista europeo. Al di là delle centinaia di personaggi maggiori e minori, bisogna coglierne la logica fondamentale di sviluppo.

21. Il cosiddetto “marxismo” fu elaborato e sistematizzato, da un punto di vista storico, unicamente dietro la committenza della socialdemocrazia tedesca formatasi nell’età di Bismark. Questa è la sua genesi storica, il che non toglie nulla ad una sua possibile universalità successiva. Vorrei che il termine “unicamente” fosse percepito in tutta la sua provocatoria accezione. Naturalmente, le committenze possono essere dirette o indirette, rigide o flessibili, il che non toglie nulla al fatto che in ogni caso committenze devono essere. Farò qui solo un’analogia storica fra le moltissime possibili, quella dell’invenzione medioevale del Purgatorio.

Fra il 1140 ed il 1180, nell’Europa in cui stavano creandosi i primi comuni artigiani e mercantili, sia pure ancora sotto prevalente controllo aristocratico, una serie di teologi inventò una sede di “castighi purgatori” prima inesistente. Nell’alto medioevo cristiano europeo c’erano soltanto l’Inferno ed il Paradiso, e questa dicotomia ultraterrena corrispondeva simbolicamente molto bene ad una società strutturata anch’essa in modo semplice e dicotomico, i feudatari ed i servi della gleba. È vero che questa società era già simbolicamente trinitaria (bellatores, oratores e laboratores), ma questa trinitarietà non incrinava la rigida dicotomia ultraterrena fra Inferno e Paradiso. Poi improvvisamente arrivano i primi banchieri cristiani, che fanno lavorare il tempo, dono di Dio, per accumulare interessi, cioè soldi. Costoro, in modo del tutto ragionevole, non volevano poi finire all’Inferno, in cui continuavano a credere. Le condizioni culturali dell’epoca non consentivano ancora il materialismo, più o meno dialettico, e l’angoscia del capitalista alla Buddenbrook sulla mancanza di senso della vita. Ci volevano dunque dei “castighi purgatori”, e cioè il Purgatorio, per continuare a prestare ad usura, pentirsi poi in punto di morte, purificarsi in uno spazio intermedio fra Lucifero e Gesù, ed infine conciliare la beatitudine eterna e l’accumulazione del capitale. Tuttavia era impossibile “dettare” materialmente in latino ai teologi l’invenzione del Purgatorio, anche perché i mercanti non avevano il tempo materiale per fare citazioni di Platone, Boezio, Isidoro di Siviglia ed Agostino di Ippona. Ai teologi venne data una “committenza indiretta”, ed essi infatti inventarono un bellissimo Purgatorio. Poco più di un secolo dopo l’aristotelico Dante ci scrisse una bellissima Divina Commedia.

Questa invenzione, ovviamente, non viene fatta in malafede, ma viene fatta credendoci. Una invenzione fatta in malafede riesce male, ed alla fine non è credibile. I sacerdoti egizi non inventavano Iside ed Osiride in malafede, ghignando di sufficienza come l’ex comunista Massimo D’Alema quando si pavoneggiava accanto al generale americano Clark bombardatore della Jugoslavia nel 1999 sulla base di un genocidio notoriamente inventato ed inesistente. Nei termini di Marx, che su questo punto coglie bene la realtà, l’invenzione di Osiride e del Purgatorio non viene fatta in malafede, ma all’interno di una falsa coscienza necessaria.

22. La prima fase fondativa della filosofia marxista (1875-1914) viene dunque caratterizzata da una committenza politica diretta, quella della socialdemocrazia tedesca. Il modo concreto in cui si concretizzò però la prima coerentizzazione sistematica del paradigma teorico marxista (il libro di Engels Anti-Dühring scritto fra il 1876 ed il 1878) fu però ovviamente una committenza politica indiretta. I capi politici della socialdemocrazia, Bebel e Liebknecht, non andarono da Engels a dirgli che cosa doveva scrivere. Engels scrisse quello che voleva. Ma quello che Engels voleva, e cioè la tripartizione sistematica del marxismo in filosofia, economia e politica, corrispondeva al carattere sistematico della cultura universitaria tedesca di tipo positivistico. Il committente politico, cioè la socialdemocrazia tedesca, desiderava una legittimazione anche culturale che fornisse una versione “proletaria” dello stesso modello culturale borghese dominante, quello del sistema complessivo delle scienze naturali e sociali. Ed alla fine questo fu fatto, e le due committenze, diretta ed indiretta, si fusero armonicamente insieme.

23. Come Paolo di Tarso, e non certo Gesù di Nazareth, fu il vero fondatore del cristianesimo, nello stesso modo fu Engels (e solo in subordine Kautsky), e non certo Marx, il vero fondatore del marxismo. Personalmente, Engels mi è molto simpatico. Un gentiluomo poliglotta anglo-tedesco, dilettante geniale, con sconfinati interessi culturali. Un modello umano che mi attrae molto. Ma qui si tratta solo di esaminare la sua fondazione filosofica del marxismo, non certo di giudicare la buona fede di Engels o di criticare una per tutte le soluzioni che egli diede a mille problemi, dalla questione nazionale all’origine della famiglia. E solo sulla filosofia di Engels mi soffermerò nei prossimi paragrafi.

24. In linea generale, il criterio teorico con cui Engels si muove è quello di non lasciare alla conoscenza filosofica uno spazio distinto, e tanto meno fondazionale, rispetto alla conoscenza scientifica. In questo, egli non tradisce affatto Karl Marx, ed anzi gli è fedele. Detto questo, egli oscilla fra tre distinte definizioni dello spazio filosofico. La prima è quella delle leggi generali del pensiero e della conoscenza umana. la seconda è quella della conoscenza scientifica del mondo. La terza è quella della concezione proletaria, operaia e socialista del mondo. Le prime due sono concezioni di tipo positivistico integrale, la terza è di tipo ideologico. Per poterle accettare, bisogna prima ammettere alcuni presupposti, fra cui quello per cui la concezione scientifica del mondo e quella proletaria si identificano in ultima istanza. Questo presupposto, ovviamente, si ispira ad una visione storicistica del progresso. Il proletariato è così definito come l'”erede” della borghesia, un tempo progressista e rivoluzionaria, ed ora reazionaria e conservatrice. Una simile impostazione, a mio modesto avviso, è tautologica, e non permette di definire con precisione i quattro significati di progressista, rivoluzionario, reazionario e conservatore. Questo “buco” teorico è poi sempre regolarmente riempito dai significati ideologici volta a volta dati dai capi politici e sindacali del movimento operaio. Questa genericità e questa vaghezza diventano così funzionali ad un uso manipolatorio della teoria di riferimento.

25. E tuttavia non è questo il punto essenziale della proposta filosofica di Engels. Il punto essenziale sta nei suoi “assi cartesiani ortogonali” con cui Engels delimita il suo spazio filosofico, l’ascissa e l’ordinata del suo spazio teorico. Ed essi sono appunto due, la dicotomia “ontologica” fra Materialismo ed Idealismo e la dicotomia “metodologica” fra Dialettica e Metafisica. Non ha senso criticare Engels se non si criticano i suoi assi cartesiani ortogonali, e cioè il suo spazio teorico in base a cui si orientava. Questo spazio teorico non c’è in Marx, ed è dunque tutta farina del sacco di Engels. La sua è una proposta indubbiamente geniale, come avviene per tutte le proposte semplici. A mio avviso, si tratta di una proposta assolutamente sbagliata, che non deve essere criticata solo nei particolari, ma che deve essere criticata radicalmente nel suo insieme. Essa infatti struttura uno spazio filosofico che è integralmente illusorio, una bussola con cui non si può navigare senza finire infallibilmente fuori rotta. Vediamo.

26. Iniziamo dalla prima dicotomia, quella fra Idealismo e Materialismo. La genesi diretta di questa dicotomia è una storia della filosofia scritta in tedesco dal positivista Ernst Laas, in cui questo illustre professore di università dicotomizzava l’intera storia della filosofia occidentale in termini di scontro fra Platonismo e Positivismo. Engels modifica (ed a mio avviso migliora) questa dicotomia di Laas, sostituendo al Platonismo l’Idealismo ed al Positivismo il Materialismo, senza però modificarne lo spirito e le intenzioni. La dicotomia viene peraltro declinata non in termini ontologici diretti, ma in termini gnoseologici, secondo l’approccio della filosofia universitaria tedesca dell’epoca, dominata dal cosiddetto “ritorno a Kant”. L’idealismo affermerebbe il primato del pensiero sull’essere materiale, mentre il materialismo affermerebbe correttamente il primato dell’essere materiale sul pensiero. Questo dà luogo ovviamente alla cosiddetta “teoria del rispecchiamento”, per cui è necessario che il pensiero non postuli l’identità fra soggetto ed oggetto (più esattamente, del soggetto conoscente e dell’oggetto conosciuto), ma riconosca la priorità dell’oggetto sul soggetto. Una simile teoria, peraltro, non si chiama materialismo, ma realismo gnoseologico, ed è ovviamente la teoria gnoseologica preferita dalle religioni, per cui il pensiero deve “rispecchiare” la volontà di Dio, o ciò che Dio, ci consente della conoscenza possibile del mondo (Tommaso d’Aquino, eccetera). Presa alla lettera, questa teoria non è l’eredità della filosofia classica tedesca, ma l’eredità della metafisica religiosa medioevale. Nulla di strano, perché dal Settecento in poi la Materia sostituisce Dio come riferimento ontologico e sostanziale e come vero e proprio medium omogeneo di interpretazione globale del mondo.

Secondo la studiosa greca Maria Antonopoulou, che ci ha scritto sopra uno studio voluminoso, questo materialismo “moderno” e borghese, dal Settecento in poi, non ha nulla a che fare con il vecchio materialismo di Epicuro e di Lucrezio. Il vecchio materialismo era l’involucro di un’etica, e non perseguiva la costruzione di un concetto metafisico globale di “materia”. Lo stesso atomismo era un’ipotesi fisica assai più che metafisica, mentre la vera metafisica di Epicuro era la categoria di felicità e quella di Lucrezio la liberazione dalla paura della morte. Solo nel Settecento, sulla base anche delle ipotesi della scienza moderna, la Materia diventa veramente una categoria ontologica unitaria, la nuova “sostanza” di base del cosmo. La Antonopoulou fa l’ipotesi, su cui anch’io concordo, che questo non avviene a caso, ma è solo la duplicazione metafisica della contemporanea generalizzazione della forma di Merce, cioè della merce capitalistica che la prima rivoluzione industriale comincia a generalizzare. Al medium sociale omogeneo della Merce corrisponde metafisicamente il medium spazio-temporale della Materia. Lo spazio ed il tempo del capitale devono infatti essere omogenei, appunto perché monistici, globali e totalitari, e non possono essere duplicati e raddoppiati. La Materia è dunque la nuova base sostanziale della Merce, sia come spazio (commercio) che come tempo (profitto).

La Antonopoulou mi sembra nell’essenziale più plausibile di Engels. Il proletariato (materialista) diventa per Engels l’erede della filosofia classica tedesca (idealista). Qui qualcosa non quadra. E per capire che cos’è che non quadra, bisogna leggere il prossimo paragrafo.

27. Se Engels divide l’ontologia filosofica di riferimento in materialismo ed idealismo (definiti peraltro con parametri gnoseologici), il suo approccio alla metodologia segue invece la dicotomia fra Dialettica e Metafisica. La borghesia è metafisica, il proletariato è dialettico. La metafisica è il punto di vista della fissità e della permanenza, la dialettica è invece il punto di vista del movimento e della dinamica del cambiamento. Bisogna dunque essere dialettici, e non metafisici.

In realtà tutta la storia della filosofia ci insegna che non può esistere una dialettica senza una metafisica di riferimento, e questo vale per Eraclito come per Platone, per Aristotele come per Hegel. Una dialettica senza metafisica, cioè una contraddizione in termini, è solo una vuota proclamazione dell’infinito mutare delle cose ed una sorta di flusso senza inizio e senza fine. In questi termini, è solo una Metafisica del Mutamento Incessante. Ognuno potrà così chiamare “dialettica” la propria opinione su come stanno andando le cose, ed allora il punto di vista maggiormente “dialettico’ si identificherà con il punto di vista più armato. Stalin sarà certamente più “dialettico” di Trotzky, ma solo perché il primo può rompere la testa al secondo a colpi di piccozza, ed il secondo no. Questa definizione di dialettica piacerebbe certamente a Nietzsche, per cui la verità logico-ontologica non esiste, ma è solo una funzione energetica della volontà di potenza. Un simile indegno eraclitismo ontologico è solo la copertura di un relativismo estremo, per cui tutto è potenzialmente solo in “relazione” con il dominio di un gruppo politico su di un altro.

Ma non è comunque questo il punto essenziale della questione. Ed esso invece sta in ciò, che la borghesia è certo “metafisica” quando afferma di essere la fine della storia (non esistono semplicemente fini della storia, né alla Stalin né alla Fukuyama, cioè allo stalinismo capitalistico americano), ma anche “dialettica” quando modifica radicalmente le sue forme di dominio economico, politico e soprattutto culturale ed ideologico. Engels non può capire questo punto cruciale, perché è legato all’idea del prossimo crollo del capitalismo dovuto alla Grande Depressione (1873-1896), e cioè all’idea della borghesia come stadio di decadenza. In realtà, il punto di vista “metafisico”, inteso come punto di vista della fissità, della permanenza, della staticità, è un punto di vista preborghese e precapitalistico, sacerdotale e signorile, non certo borghese e capitalistico. La storia degli ultimi due secoli dimostra infatti che la borghesia è una delle classi più dialettiche della storia, mentre il proletariato è una delle meno dialettiche. Non conosco nulla di più “metafisico” (nel senso di Engels) della mentalità media della classe operaia. Avendo passato gran parte della mia vita a Torino, posso parlare con piena cognizione di causa.

28. Engels fonda dunque lo spazio filosofico del marxismo su basi molto fragili. Non a caso il suo successore Kautsky, poco interessato alla filosofia ed infinitamente meno geniale e brillante di Engels, finirà con l’incorporare integralmente lo spazio filosofico nello spazio teorico dell’evoluzionismo, cioè in una forma di “darwinismo di sinistra”. Ma il darwinismo, sia di sinistra (evoluzionismo progressistico “buono”) che di destra (razzismo agonistico “cattivo”), non può essere una base filosofica seria per il comunismo, anche se ovviamente viene incontro alle esigenze di tutti i superficiali, i dilettanti ed i confusionari del mondo. Il dilettante Hitler, ad esempio, è affascinato dal darwinismo sociale, che applica al rapporto fra tedeschi e slavi. Questo evoluzionismo, riflesso ideologico del periodo di cosiddetta belle époque (1896-1914), andrà in pezzi nel 1914. Il marxismo evoluzionistico, completamente spiazzato dalla evoluzione della storia reale, ben diversa dall’immagine del tutto virtuale che se ne era fatta, dovrà così entrare nella sua seconda fase storica (1914-1931) e ristrutturarsi integralmente. Ma prima è bene seguire ancora brevemente tre episodi della sua prima fase: lo sviluppo del marxismo neokantiano in Germania, lo sviluppo del marxismo empiriocriticista in Russia, ed infine il perché della virulenza con cui Lenin vi si oppose. Il lettore mi perdonerà se non accenno neppure a singole figure di marxisti importanti, come il russo Plechanov o l’italiano Labriola, ma questa non è una serie di “medaglioni” di personaggi pensosi, ma una storia esclusivamente tematica e teorica.

29. Il cosiddetto “ritorno a Kant” porta il sigillo del “grande revisionista” Eduard Bernstein, che nel 1899 pubblicò il suo manifesto riformista che inaugurò la prima grande discussione sul marxismo (cui parteciparono anche gli idealisti italiani Croce e Gentile, con argomenti niente affatto disprezzabili). Bernstein dice sostanzialmente che il capitalismo non sta affatto dirigendosi verso il suo crollo (sacrosanto), che le classi medie non stanno affatto sparendo (sacrosanto), e che il movimento operaio e socialista, se vuole avviarsi in una direzione riformista, deve adottare il principio per cui “il fine è nulla, il movimento è tutto”. Questo principio può essere anche formulato in termini kantiani, per cui il fine diventa una sorta di cosa in sé, di noumeno, di concetto-limite, mentre il movimento diventa la kantiana tendenza illimitata verso il perfezionamento, cioè verso il miglioramento progressivo delle condizioni dei lavoratori salariati. Insomma, Kant contro cant (cioè contro il salmodiare religioso dei puritani inglesi del Seicento). A distanza di un secolo, è chiaro che Bernstein aveva ragione nel criticare la teoria del crollo e della sparizione delle classi medie e delle piccole imprese, ma aveva torto nel postulare una sorta di illimitato progresso dell’avanzamento delle classi subalterne. Al principio sfila il Quarto Stato di Pelizza da Volpedo, ed alla fine del corteo ci sono sempre i supermercati, i tifosi della domenica, i teledipendenti e le folle della nuova plebe post-moderna. Al principio sfilano le bandiere rosse, ed alla fine del corteo ci sono i Pannella e le Bonino con i loro spinelli allucinati e le loro apologie del sionismo più pazzo. ب la modernità, bellezza!

Questo neo-kantismo socialista registra nel mondo dei militanti politici il “ritorno a Kant” che dominava in quel momento le università tedesche. Si parlava molto di moralità, ovviamente, perché ce n’era sempre di meno, così come nell’antica Roma si cominciò a parlare di mos maiorum (moralità degli antenati) proprio quando non ce n’era più e non c’era più alcuna possibilità concreta che tornasse. Nello stesso modo, oggi, la teoria della comunicazione illimitata di Habermas accompagna la fine della comunicazione e dell’opinione pubblica sostituite dalla manipolazione mediatica integrale ed unidirezionale. Ma devo pur sempre ammettere che il neo-kantismo socialista registra pur sempre il primo tentativo non nichilista di fondazione filosofica del marxismo, e questo non posso che apprezzarlo. Questa fondazione filosofica non è logico-ontologica, ovviamente, ma è trascendentale (non trascendente, che è il contrario). In definitiva, il capitalismo non permette la morale, perché essendo rivolto al profitto, tratta i salariati come merce, e quindi tratta la gente non come fine ma come mezzo. Si tratta di un insieme di idee vecchie di più di un secolo, che peraltro rappresentano oggi la filosofia implicita della parte migliore del cosiddetto movimento no-global. Purtroppo, la logica di quello che Hegel correttamente definì il “cattivo infinito”, che non si determina mai ma si sposta sempre in avanti (logica poi ereditata dalla filosofia del trotzkismo), non permette il conseguimento di una vera ontologia, ma accompagna soltanto una interminabile coscienza infelice moralistica che scorre parallelamente alle nequizie del capitalismo. Detto questo, onore al socialismo neokantiano, che è comunque meglio dell’evoluzionismo progressistico.

30. L’empiriocriticismo russo (ed alludo qui soprattutto a Bogdanov ed a Vanentinov) è una corrente che cercò anch’essa una fondazione filosofica minimamente decente del marxismo. Per quanto ne posso capire (ma non ne sono uno specialista), gli empiriocriticisti avevano sostanzialmente ragione. È infatti vero che la conoscenza umana, presa nel suo complesso dinamico e processuale, è una sintesi sociale di “incontro” fra un soggetto conoscente ed un oggetto conosciuto. Certo, è sempre possibile postulare un oggetto sostanziale primario chiamato Materia, che rende possibile la costruzione umana successiva (cioè il “rispecchiamento”) di questa sintesi sociale, ma questa postulazione è di tipo religioso, più esattamente di ateismo religioso. Si postula, insomma, ciò che sarebbe la base di un susseguirsi di verità relative tendenti asintoticamente all’inesauribile verità assoluta (è questa la versione kantiana del materialismo dialettico elaborata da Ludovico Geymonat). Ma i postulati sono sempre postulati, dalla filosofia alle geometrie non euclidee. Anche i postulati, infatti, sono elementi di una sintesi sociale. La stessa unità hegeliana di Soggetto ed Oggetto è una sintesi sociale. L’empiriocentrismo, infatti, è altrettanto hegeliano che kantiano, in quanto preferisce la teoria della costruzione sociale della conoscenza processuale alla teoria dell’avvicinamento asintotico ad un rispecchiamento materiale assunto come dato. Con parole diverse, Bachelard e Kuhn hanno poi detto le stesse cose. Cose che personalmente condivido nell’essenziale, rifiutando l’idea staliniana per cui i proletari rispecchiano il mondo così com’è, mentre i piccolo-borghesi lo costruiscono secondo le loro tentazioni traditrici. A mio avviso, questa è soltanto una forma di “gnoseologia paranoica”, se mi si passa l’espressione blasfema.

31. Perché Lenin se la prese tanto con l’empiriocentrismo, al punto di chiudersi in biblioteca per confutarlo con un libro di insulti politico-filosofici, il noto Materialismo e Empiriocentrismo? In questo breve paragrafo, cercherò di rispondere a questa domanda.

Prima di tutto, una premessa. Oggi l’idea che un politico, seguito da portaborse sudati e frettolosi e perennemente impegnato al telefonino con chiacchiere irrilevanti di pettegolezzo parlamentare, possa stare per un anno in biblioteca a scrivere una confutazione filosofica appare degna non di Karl Marx, ma dei fratelli Marx, nel senso di Harpo e di Groucho. Eppure in questo impiego del tempo c’era una dignità che i moderni percettori di pensioni stratosferiche ed i moderni timonieri di panfili “proletari” hanno completamente perduto. Per questo, pur disapprovandone il contenuto filosofico propriamente detto, voglio premettere la mia ammirazione per il comportamento serio di Lenin.

Detto questo, perché tanto astio verso l’empiriocentrismo? A me sembra relativamente semplice. Lenin riteneva che il pensiero umano, così come “rispecchia” le leggi della fisica, della chimica e della biologia, “rispecchiasse” anche il passaggio dal capitalismo al socialismo. Questo passaggio, insomma, è come la deriva dei continenti. C’è, e basta. Se invece dovessimo ammettere che questo passaggio non “rispecchia” nulla di oggettivamente esterno, ma è una sintesi sociale, allora potrebbe anche non avvenire, perché le sintesi sociali si possono sempre fare o non fare. È curioso che nel 1917 Lenin si comportò poi praticamente da empiriocentrista, e non da rispecchiatore, in quanto fu parte attiva nel produrre una sintesi sociale. Ma questo meccanismo di falsa coscienza è tipico anche di molti credenti, come i musulmani ed i calvinisti (cioè Bin Laden e Bush), che prendono continuamente iniziative estremamente soggettive, e poi pensano di essere solo strumenti della volontà di Dio.

Alla svolta del Duemila, non c’è più dubbio oggi che il superamento del capitalismo, se mai avverrà, cosa niente affatto sicura, ontologicamente possibile ma anche ontologicamente non necessaria, sarà una sintesi sociale e non un processo di storia naturale. Ricordiamo che era esattamente ciò che stava dietro l’ipotesi filosofica degli empiriocentristi russi. Onore dunque a Bogdanov ed a Valentinov, non traditori ma invece veri e propri precursori.

32. Il secondo periodo della storia della filosofia del marxismo va dal 1914 al 1931, anno in cui Stalin impone per decreto di partito il materialismo dialettico. È evidente che il bagno di sangue della guerra 1914-1918 ha indirettamente anche conseguenze filosofiche. Tanto per cominciare, manda in pezzi la sintesi evoluzionistica di Kautsky, ed anche il movimentismo riformistico di Bernstein. I quali, morti poi entrambi negli anni Trenta, continuarono imperterriti anche dopo il 1918 a dire sempre le stesse cose di prima. Non si tratta solo di un legittimo e simpatico rincoglionimento senile. Si tratta del fatto che è non solo fisiologicamente, ma anche storicamente quasi impossibile staccarsi dalle sintesi filosofiche maturate nella propria giovinezza. Cosa, ovviamente, che vale anche per chi scrive queste righe, che a differenza di Silvio Berlusconi non ritiene di essere l’Unto del Signore, né dispone dell’investitura elettorale per esserlo.

33. Questo secondo periodo vede finalmente lo scontro fra proposte filosofiche diverse. Chi ragiona in termini merceologico-universitari si può stupire che abbia vinto proprio la proposta teoricamente peggiore, quella del materialismo dialettico di Stalin. Ma la realtà era del tutto invertita. Da un punto di vista universitario, la proposta di Stalin era la peggiore. Ma da un punto di vista ideologico, essa era incondizionatamente la migliore. Ed allora gli sconfitti hanno avuto solo quello che si sono meritati, visto che anche gli sconfitti accettavano nell’essenziale il terreno di Stalin, per cui lo spazio filosofico coincide in ultima istanza con lo spazio ideologico proletario. Se comprendiamo questo punto, la storia del marxismo teorico fra il 1914 ed il 1931 appare chiara e comprensibile. Se invece non lo comprendiamo, essa apparirà come una successione insensata di settarismi tragicomici.

34. Dal 1917 al 1924 Lenin non ebbe certo il tempo per occuparsi di filosofia in modo sistematico. Nei precedenti Quaderni Filosofici aveva comunque mostrato un profondo interesse per la logica e la dialettica di Hegel. Dopo il 1917 propose di fondare una “società di amici materialisti della dialettica hegeliana”. Dal momento che la dialettica hegeliana è di fatto inscindibile dalla sua logica strutturalmente idealistica, ci si può chiedere se e fino a che punto Lenin fosse veramente consapevole della inconciliabilità di quanto andava proponendo. Vi è però una contraddizione feconda, che la scuola di Deborin avrebbe in parte recepito, mentre il materialismo dialettico di Stalin avrebbe chiuso questa contraddizione nel modo peggiore.

35. Nel 1921 Nikolaj Bucharin pubblicò il suo Manuale di materialismo storico, primo prodotto sistematico del “marxismo” di tipo comunista. Questo manuale è concepito secondo il modello del primato dell’economia e della deduzione meccanica della sovrastruttura dalla struttura. Lukàcs e Gramsci lo criticarono praticamente negli stessi termini indipendentemente l’uno dall’altro. La rivoluzione russa mostrava di essere stata una grande rivoluzione politica, ma di non avere ancora prodotto una rottura teorica con il marxismo precedente.

36. In URSS si sviluppò in quegli anni un materialismo duro e puro, detto “meccanicistico” o anche “volgare”. La sua presunta volgarità stava nel rifiuto integrale e provocatorio di ogni filosofia, considerata una variante colta delle chiacchiere esistenziali e religiose. A molti operai piaceva, perché avevano paura che la filosofia li fregasse con i suoi incomprensibili paroloni. A molti scienziati piaceva, perché il punto di vista spontaneo della maggioranza degli scienziati è che non c’è nessun bisogno di uno spazio conoscitivo supplementare, in quanto la scienza basta ed avanza (punto di vista recentemente ripreso da molti seguaci superficiali di Althusser). In realtà il rifiuto della filosofia non è affatto “volgare”, in quanto è semplicemente stupido. Negli anni Venti, in modo più sofisticato, lo stesso rifiuto integrale dello spazio filosofico era praticato dai circoli del neo-empirismo e del neo-positivismo di Vienna e di Berlino. Si trattò di una sorta di messianesimo iperscientifico, legato forse all’idea che in una società guidata dagli scienziati, e non più da politici e diplomatici, non vi avrebbero più avuto porcherie come la Grande Guerra. Ma pigliarsela con la filosofia è come mettersi a picchiare la moglie perché il nostro capufficio ci ha licenziato. Dietro Carnap fa sempre capolino l’immortale impiegato Fantozzi.

37. Dal 1921 al 1931 si sviluppò in URSS la scuola filosofica di Deborin, che resta quanto di meglio fu proposto in quegli anni nel giovane paese dei Soviet. Essa tendeva verso un’ontologia dell’essere sociale, e per questo fu stroncata. Ufficialmente non attaccava frontalmente la teoria della Dialettica della Natura di Engels, e del carattere ontologicamente unitario delle leggi della natura e della storia. Ma di fatto metteva in primo piano la dialettica sociale, e questo poteva essere incontrollabile per l’ideologia.

La scuola di Deborin si basava sulla dialettica di Hegel. In questo contesto si svilupparono gli studi di Rubin sulla teoria del valore di Marx, che a loro volta riprendevano un pionieristico lavoro del tedesco Franz Petri. In questi studi venivano per la prima volta distinti i due aspetti quantitativo e qualitativo della teoria del valore, per usare un’espressione più tardi utilizzata da Paul Sweezy. Da questo filone si originarono molti decenni dopo in Italia le tesi di Lucio Colletti sull’identità fra teoria (qualitativa) del valore e teoria dell’alienazione, che furono per Colletti il pretesto per l’abbandono del marxismo, mentre per Claudio Napoleoni furono l’occasione per proclamare una teoria dell’alienazione universale di tipo ad un tempo cattolico ed heideggeriano.

38. Come è noto, i seguaci di Bucharin, i materialisti detti “volgari” ed i collaboratori di Deborin furono sconfitti in URSS a partire dal 1931. Ne diremo fra poco le ragioni. Fuori dall’URSS si stava intanto sviluppando il cosiddetto “marxismo occidentale”. Ne esamineremo qui solo le tre principali versioni, Storia e Coscienza di Classe di Lukàcs, Marxismo e Filosofia di Korsch ed infine la parte filosofica dei Quaderni da Carcere di Gramsci.

39. Pubblicata nel 1923, Storia e Coscienza di Classe di Lukàcs rappresenta una vera e propria pietra miliare nella storia della filosofia marxista. Lukàcs cerca un “fondamento” filosofico del marxismo, e rifiuta i precedenti fondamenti di Engels e di Kautsky, e cioè le leggi della dialettica e l’evoluzionismo storicistico. Il nuovo fondamento proposto da Lukàcs è in breve l’unità idealistica fra Soggetto ed Oggetto, in cui il soggetto è il proletariato mondiale cosciente del suo ruolo storico rivoluzionario, e l’oggetto è la storia universale concepita come struttura trascendentale riflessiva, dotata cioè di un senso razionale ricostruibile. A me sembra vi sia una certa fedeltà a Karl Marx, che pensava già che la borghesia vorrebbe essere una classe universale, ma non lo è perché sfrutta ed estorce plusvalore, mentre il proletariato lo può diventare, in quanto non progetta di sfruttare nessuno, ma solo di liberare il lavoro.

La proposta di Lukàcs è generalmente definita “hegeliana”, ma a mio avviso non lo è. Hegel pensava che la filosofia, come la nottola di Minerva, venisse solo al crepuscolo, quando le cose erano già avvenute, e si sarebbe rifiutato di “dedurre” la razionalità da una semplice essenza in sviluppo potenziale (nel linguaggio aristotelico, essente-in-possibilità, dynamei on), come era appunto il caso del proletariato. C’è semmai molto più Kant che Hegel, perché il proletariato di Lukàcs è pienamente trascendentale, in quanto contiene in sé formalmente le sue condizioni a priori di autocoscienza. Ma la vera fonte è solo Max Weber, e la sua teoria è idealtipica della cosiddetta “coscienza attribuita” (zugerechnete). Il proletariato, infatti, è rivoluzionario solo idealtipicamente (in linguaggio pseudohegeliano, Per Sé). La storia del Novecento ha mostrato che invece, concretamente e non idealtipicamente, non lo è.

40. Pubblicata nel 1924, l’opera di Korsch Marxismo e Filosofia (che deve essere esaminata con le sue opere precedenti e successive) dà dell’unità fra soggetto (proletariato) ed oggetto (senso della storia) una versione meno idealtipica e più materialistica. Il proletariato, in definitiva, deve comportarsi storicamente in modo rivoluzionario per poter essere tale, e non basta certo che lo sia in modo idealtipico. Se infatti lo è in modo idealtipico, allora occorre necessariamente rivolgersi al partito leninista, che lo concretizza e di fatto lo sostituisce. Lukàcs seguirà ovviamente questa via, e lo trovo del tutto logico. Se infatti il proletariato sociologico concreto dorme, e continua a dormire, devo rivolgermi al guardiano notturno che è sempre sveglio, e questo guardiano notturno è appunto il partito leninista e i suoi infiniti succedanei.

Korsch rifiutò questa facile via sostitutiva. L’unità fra soggetto ed oggetto deve essere reale e concreta, storicamente verificabile. Korsch fu anche il maestro di marxismo di Bertolt Brecht, che ne fu molto influenzato. A metà degli anni Trenta si rifugiò negli USA, dove ovviamente aderì ai piccoli gruppi di “comunisti dei consigli” di Paul Mattick, i primi veri “operaisti” della storia del marxismo. Se infatti mi precludo il facile rifugio nel partito leninista, che può durare secoli di “sonno proletario” continuando ad agitare una rivoluzionarietà idealtipica ed inverificabile, devo in qualche modo dare delle scadenze alla storia per verificare se veramente questa marxiana classe operaia è rivoluzionaria o no.

Korsch verifica che non lo è. In teoria essa dovrebbe essere comunista, ma in pratica in URSS è staliniana, in Germania è nazista e negli USA è rooseveltiana. Comunque comunista mai. Ed allora nel 1950 Korsch ne prende atto, e dichiara onestamente di non essere più marxista. E di non esserlo più per manifesta falsificazione storica dell’ipotesi di Marx. Io trovo questo encomiabile comportamento di una onestà cristallina. Ma voglio ovviamente fare tre ordini di osservazioni.

In primo luogo, Korsch non sembra mai consapevole che il soggetto rivoluzionario originale di Marx non è mai stata la classe operaia e proletaria, ma il lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all’ultimo manovale, alleato con il >general intellect. Certo, non aveva letto i Grundrisse (pubblicati per la prima volta in URSS nel 1939), ma comunque così era. La sua teoria operaistica del soggetto rivoluzionario era dunque discutibile.

In secondo luogo, Korsch applica per la prima volta inconsapevolmente la teoria epistemologica di Popper dell’esperimento di falsificazione al marxismo. La storia avrebbe “falsificato” l’ipotesi scientifica di Marx sulla classe operaia, perché essa continua ripetutamente in centinaia di casi a comportarsi sempre in modo non rivoluzionario. Ma la teoria di Popper, concepita per la fisica, non prevede date di scadenza in storia. È perfettamente possibile che passino ancora secoli, e che nel 2445, in pieno dominio capitalistico da Guerre Stellari, gruppi di marxisti rimasti continuino a dire che si sta formando il general intellect e che la classe degli operai salariati, nel frattempo composta anche da organismi cibernetici (secondo l’ipotesi di Antonio Negri), sta preparandosi per prendere il potere. Le sette bordighiste lo fanno quotidianamente.

In terzo luogo, il “comunista dei consigli” Korsch anticipa di circa trent’anni la struttura metafisica del cosiddetto “operaismo italiano”. Non c’è però confronto fra l’onestà scientifica tedesca di Korsch e le metamorfosi da Pulcinella dell’operaismo italiano. Korsch fa un’ipotesi, quella della rivoluzionarietà della classe operaia empiricamente data, e poi pone delle scadenze temporali e storiche a questa ipotesi. Antonio Negri prima parla di operaio-massa, poi di operaio-sociale, poi di general intellect, poi di nuove professioni tecnologiche, ed infine delle capacità ontologiche, teurgiche e dunque divine delle nuove moltitudini globalizzate disobbedienti. È il regno delle ipotesi senza falsificazioni possibili. Il regno della vergogna. Onore postumo a Korsch, serio professore universitario tedesco marxista.

41. Scritti a cavallo fra gli anni Venti e gli anni Trenta, i Quaderni dal Carcere di Gramsci fanno a mio avviso integralmente parte della stagione del marxismo occidentale e dunque della seconda fase di sviluppo della filosofia marxista (1914-1931). Di questo non esiste una percezione storiografica sufficiente, perché i Quaderni, rimasti inediti, furono solo pubblicati nel 1947, e per di più secondo una interpretazione “autorevole” di Palmiro Togliatti. In realtà la parte filosofica dei Quaderni si iscrive nello stesso clima culturale delle opere di Lukàcs e Korsch, quello di una nuova fondazione filosofica autonoma del marxismo.

Personalmente, sono un ammiratore del lavoro filosofico di Gramsci. Considero settarie le critiche di Amadeo Bordiga al carattere “idealistico” del suo marxismo. La filosofia della prassi che Gramsci propone, basata sulla specificità ontologica dell’essere sociale rispetto a quello naturale, è dunque implicitamente un’ontologia dell’essere sociale, incompatibile con ogni tipo di materialismo dialettico. Bravo Gramsci. Gramsci critica Bucharin in modo assolutamente impeccabile. La sua critica a Croce di essere un “intellettuale organico” della borghesia italiana è ideologicamente corretta, anche se filosoficamente vuota.

Personalmente, non credo agli intellettuali detti “organici”, ma solo agli intellettuali capaci, creativi ed intelligenti ed agli intellettuali incapaci, sterili e stupidi. I filosofi per me sono come i medici e gli ingegneri. Ci sono quelli capaci e quelli incapaci. Devo ammettere, però, di non credere nella classe operaia come classe generale portatrice dell’ordine nuovo, mentre invece Gramsci ci credeva. Ma Gramsci era un’aquila, ed il modo in cui oggi è dimenticato è altrettanto vergognoso del modo in cui era incensato negli anni Settanta come ispiratore del compromesso storico e precursore dell’eurocomunismo. Ma qui c’è sempre il solito viziaccio dell’uso strumentale ed ideologico di un pensatore.

42. Il terzo periodo della storia della filosofia marxista va dal 1931, anno in cui l’interpretazione di Stalin del materialismo dialettico viene imposta con un decreto del comitato centrale del PCUS, al 1956, anno del XX congresso de PCUS e della destalinizzazione. Il solo filosofo che prenderò in considerazione sarà allora Stalin. Lo Stalin filosofo è estremamente interessante, per il fatto che egli solo ha saputo portare alle sue estreme conseguenze coerenti un certo modo (a mio avviso radicalmente errato) di fare filosofia. Chi critica Stalin accogliendone i presupposti finisce con il girare in tondo come una trottola e per fare perdere solo tempo a sé ed agli altri.

43. Stalin, con geniale radicalità, realizza integralmente l’equazione fra spazio della filosofia e spazio dell’ideologia. Così facendo non “revisiona” nulla, ma semplicemente porta a coerente compimento una tendenza precedente. Marx non ne è l’iniziatore, perché per lui lo spazio dell’ideologia è lo spazio della falsa coscienza classista, spontanea o organizzata, cui si contrappone la scienza, e solo la scienza. Ma Engels e Lenin avevano già fatto qualcosa del genere, seppure in modo più soft. Se il marxismo è la “concezione del mondo” del proletariato, ne è anche l’ideologia, ed allora ne è anche l’ideologia, ed allora ne è anche la filosofia. Si tratta di una catena di significati che cade inevitabilmente a cascata.

Il lettore potrebbe chiedersi: va bene, ma che cosa c’è che non va? Lo diciamo subito. Il fondatore della tradizione filosofica, l’ateniese Socrate, ha fondato lo spazio filosofico come spazio dialogico veritativo che ha i comportamenti individuali, sociali e politici come suo oggetto privilegiato. Uno spazio dialogico significa che non ci può mai essere per principio una ideologia sola, ma un minimo di due filosofie, che in realtà sono poi sempre molte di più. Il marxismo non deve dunque ambire alla sua unica filosofia, la sola finalmente bellissima e tutta giusta. Quella non la produrrà mai nessuno, né Engels, né Althusser, né Lukàcs, né tantomeno il povero Preve (lo dico ai miei eventuali anche se inesistenti ammiratori). Il marxismo dovrebbe perseguire non il suo codice filosofico unico stupendo ed identitario (solo l’ideologia è identitaria), ma il suo spazio dialogico veritativo, cui deve riconoscere però valore conoscitivo.

Una filosofia unica rappresenta la sublimazione della pratica della masturbazione trasferita nel mondo rarefatto delle opinioni. Non nego che la masturbazione possa soddisfare o dare piacere, ma è sicuro che da essa viene solo sterilità. Una filosofia identitaria, equiparata ad una ideologia di appartenenza militante (il “fronte filosofico”, eccetera), si specchia narcisisticamente nella propria autosufficienza. La principale conseguenza di questa concezione della filosofia è l’estrema violenza e la settaria bellicosità nei comportamenti quotidiani di coloro che si sentono soldati di un “fronte filosofico” proletario e comunista contro i nemici di ogni tipo. Ogni posizione diversa non viene percepita come un dato dialogico di confronto, ma come il segnale di un tradimento in potenza o in atto. Personalmente, potrei raccontare con particolari esilaranti decine di scenette di questo tipo. Ho visto distinti signori comportarsi come dei pazzi. Che cosa dire quando si ha a che fare con pazzi? Ricordando qui una frase sublime del pittore surrealista Salvador Dalì, dirò: “La sola differenza fra me e un pazzo è che io non sono pazzo”.

44. Il materialismo dialettico di Stalin non ha come riferimento il Capitale di Marx, ma la Dialettica della Natura di Engels, pubblicata in URSS nel 1925. Si tratta di appunti inediti per uso personale, di cui Engels aveva sconsigliato la pubblicazione. In quest’opera si parla di tre leggi generali della dialettica presenti nel mondo naturale e sociale, che vengono così ontologicamente unificati su una comune base materialistica. La rivoluzione sociale, di cui vengono riconosciuti i tratti specifici, è così integralmente assimilata ad un processo di storia naturale. Con grande intuito georgiano Stalin coglie subito la necessità di questa fondazione teorica del comunismo, e questo per un insieme di ragioni, di cui qui ne ricorderò soltanto tre.

In primo luogo, dopo il 1929 e la comunistizzazione integrale sia delle campagne che delle città, Stalin capisce bene che il marxismo deve sostituire integralmente non solo l’ideologia borghese urbana, ma anche la religione popolare ortodossa, e rilancia il cosiddetto “ateismo scientifico”. Dio deve essere integralmente sostituito dalla Materia, di cui i comunisti sono i nuovi sacerdoti scientifici. Non si tratta tanto di spiegare che Dio non esiste, eccetera, alla luce dell’astrofisica e della teoria darwiniana, eccetera. Questi sono dettagli. Si tratta di liberare ogni spazio possibile della coscienza individuale e collettiva da qualsiasi altra istanza di riferimento etico e politico estraneo al Partito. Per questo l’iscrizione al Partito è chiusa ai cosiddetti “credenti”. Un credente nel Partito deve crederci al 100%, e se crede anche in Dio, Allah o Budda potrebbe credervi solo al 90%. Si presti bene al punto simbolico decisivo: l’unicità ontologica della Materia, e la sua unitarietà naturale e sociale, sono soltanto la proiezione simbolica omogenea dell’unicità etico-politica del Partito. Io personalmente non credo egualmente alla teoria detta del totalitarismo, ma questo non certo perché Stalin non lo volesse (lo voleva, eccome), ma perché la coscienza umana non lo consente proprio per il suo carattere plastico e reattivo. Se gli umani fossero eguali agli animali ed agli organismi cibernetici, come sostiene Antonio Negri, questo sarebbe possibile, ma però questo non è, ed ogni progetto di questo tipo fallisce.

In secondo luogo, Stalin voleva l’unità dell’essere naturale e sociale per una ragione semplicissima, che tutti gli autisti, i barbieri, i bidelli e gli elettricisti conoscono. Solo i professori universitari di scienze sociali, e neppure tutti, credono che esistano veramente le scienze sociali. Per le persone normali che parlano solo di calcio le uniche “scienze” sono le scienze “dure”, quelle della matematica e degli esperimenti. Alle altre si finge solo di credere per quieto vivere. Stalin conosce benissimo questo approccio proletario alla realtà, così come sa bene che il popolo ha bisogno di simboli materiali concreti, e fa mummificare Lenin così come i fedeli vogliono vedere le stimmate di Padre Pio. Io ho sempre trovato geniale questa sensibilità popolare di Stalin, che lo portava a capire che il comunismo doveva diventare una scienza come la matematica a doveva vedersi e toccarsi nella mummia del suo fondatore.

In terzo luogo, infine, Stalin sapeva perfettamente che prendeva ed avrebbe dovuto prendere continuamente decisioni soggettive, arbitrarie, tattiche e per nulla scientifiche, e che appunto per questo motivo avrebbe dovuto “rovesciarle” dialetticamente nel loro contrario, cioè in applicazioni diligenti di una teoria scientifica. Più c’è arbitrio, e più bisogna dire che è scientifico. Meno c’è Strategia, e più bisogna dire che la Tattica è l’unica e sola Strategia possibile. Stalin, questo autodidatta geniale, ha creato così il DNA di milioni di comunisti con poche regole teoriche, semplici e chiare. Assolutamente ammirabile. Ma il fatto che la muraglia cinese sia l’unico manufatto umano che si vede dalla luna non significa che non sia stata costruita sugli scheletri di milioni di lavoratori forzati.

45. La radicale semplificazione attuata da Stalin del materialismo storico è anch’essa molto interessante. Il materialismo storico diventa una grande narrazione continua, omogenea e teleologica di cinque stadi successivi (comunismo primitivo, schiavismo, feudalesimo, capitalismo e comunismo staliniano), applicabili al mondo intero, dall’Europa alla Cina, dall’India alla Mesopotamia. Ho scritto cinque, e sono solo cinque. Il modo di produzione antico-orientale non è previsto, e quello asiatico neppure. Questa semplificazione non è peraltro fedele alle intenzioni di Marx, perché come Althusser a suo tempo ha correttamente dimostrato, il modo di produzione marxiano autentico non è inserito in una temporalità storicistica omogenea e teleologica. Ma questi sono dettagli. Stalin doveva far passare un unico modello di sviluppo comunista mondiale, e questo non sarebbe stato possibile se le società precapitalistiche fossero state classificate in molti modi distinti (modello europeo schiavistco-feudale, modello asiatico cinese ed indiano, modello arabo-musulmano tributario, modello africano familiare-comunitario, eccetera). Inoltre, Stalin doveva far dimenticare il fatto increscioso che in passato erano esistite società classiste ma senza proprietà privata individuale, perché questo avrebbe sollevato inquietanti analogie con la società staliniana stessa.

La trasformazione del materialismo storico di Marx in teoria dei cinque stadi restò nei sistemi scolastici dei paesi socialisti fino alla loro dissoluzione nel triennio 1989-1991. Essa era appunto il modello di quelle “grandi narrazioni” che giustamente Lyotard criticò nel suo libro del 1978 con cui fu inaugurato ufficialmente il post-moderno filosofico. Di fronte alle pacate obiezioni degli storici di professione, la burocrazia comunista non volle mai sentire ragioni. Cinque erano, e cinque dovevano restare. Credo che i cardinali del Santo Uffizio che processarono Galileo in nome dell’astronomia geocentrica siano stati degli spregiudicati innovatori in paragone dei burocrati comunisti.

46. Il “comunismo scientifico” di Stalin divenne una materia di insegnamento autonoma nelle scuole di partito e poi in tutto il sistema scolastico sovietico e socialista. Mentre per Marx ed Engels il termine “scienza” alludeva ad una previsione razionale basata su ipotesi, secondo un modello di lontana ma robusta origine aristotelica, per Stalin “scienza” cominciò ad essere una progettazione da ingegnere. Il socialismo era così costruito come si costruisce un ponte o una diga. L’idea che una società dovesse essere costruita era esattamente quello che Marx ed Engels chiamavano “socialismo utopistico”, nel 100% del suo significato letterale. Le utopie vengono infatti ideate, progettate, costruite e realizzate. Anche se questo può sembrare paradossale, Stalin fu il più grande esponente del socialismo utopistico mai esistito. Questo non fu capito da molti, come ad esempio Ernst Bloch, per il fatto che utopista sembra il contrario di concreto, realista, attento ai veri rapporti di forza, eccetera. Ma nel senso di Marx utopista non vuol dire cretino con la testa nelle nuvole, ma persona pratica e capace che però intende “progettare” la costruzione di una società. L’utopia staliniana, peraltro rafforzata dalla grande vittoria degli anni 1941-1945, sia pure pagata a carissimo prezzo (ma il cui carattere “emergenziale” rafforzò il modello anch’esso emergenziale del regime), era un’utopia con data di scadenza. E questa data di scadenza venne relativamente presto.

47. La quarta fase della storia della filosofia marxista va dal 1956, l’anno della destalinizzazione ufficiale, al 1991, l’anno della dissoluzione definitiva ed irreversibile del comunismo storico novecentesco. Questa quarta fase assomiglia per molti versi alla seconda fase, nel senso che è un periodo di proposte confliggenti. Non a caso, i “ripescaggi” dei principali esponenti di questa seconda fase (Gramsci, il giovane Lukàcs, Korsch, eccetera) furono numerosi. Si tratta però di una fase tragica, in cui una generazione di teorici fu bruciata. In piena illusione, e con falsa coscienza necessaria, questa generazione credette che quella che era una fase di decadenza irreversibile e di morte imminente fosse una fase di promettente rinnovamento. L’autunno fu scambiato per primavera. Ma quello che sarebbe venuto sarebbe stato l’inverno, non l’estate. ب questa la chiave interpretativa generale per interpretare correttamente questo periodo visto nel suo complesso.

48. Nel XX congresso del PCUS del 1956 Krusciov, successore di Stalin e suo stretto collaboratore nei processi degli anni Trenta, liquidò lo stalinismo in termini di “culto della personalità”. Espressione tautologica che non significava ovviamente nulla, perché non spiegava perché questo culto della personalità c’era stato. Il culto della personalità, come in altri casi consimili, era stato un necessario momento di unificazione simbolica nella costruzione processuale della classe dei burocrati dello stato-partito. Adorando Stalin, i burocrati adoravano se stessi. Ma i continui processi destabilizzavano questa nuova casta, anche perché Stalin aveva populisticamente la tendenza a rivolgersi direttamente al popolo. Il XX Congresso stabilizzò anche simbolicamente la struttura della nuova burocrazia, dandole un volto collegiale, che fu perfezionato nel 1964 con l’avvento al potere di Breznev.

Questa collegialità era politicamente stagnante, e non a caso non fu in grado di produrre una nuova sintesi ideologica del marxismo. Il nuovo papa ideologico Suslov incarnò in modo perfetto questa stagnazione. La polemica contro la Cina ed il maoismo costrinse di fatto questa direzione collegiale a soluzioni teoriche sempre più coservatrici. Si cominciò a parlare apertamente di socialismo non come formazione economico-sociale di transizione al comunismo, ma come di autonomo “modo di produzione”. Si parlò di socialismo reale, o “socialismo realmente esistente”, in un inizio di autoliquidazione dell’utopismo staliniano. Ma come il termine “culto della personalità” non spiegava nulla, anche il nuovo termine “stagnazione” non spiegava nulla. La classe burocratica faceva “stagnare” la società non per incapacità tecnologica o economica, ma per impedire l’avvento al potere di nuovi gruppi sociali interessati a liquidare il socialismo.

49. Nei paesi socialisti dell’Europa dell’Est si sviluppò fra il 1956 ed il 1991 anche un marxismo di “opposizione” di tipo variamente libertario ed anti-burocratico. Fra il 1956 ed il 1968 (l’anno dell’occupazione militare della Cecoslovacchia) prevalse la tendenza alla cosiddetta autoriforma interna del socialismo, mediante richieste di libertà espressiva e di economia mista. Dopo il 1968 la tendenza fondamentale è quella della liquidazione integrale del socialismo. Non ha senso usare la categoria moralistica di “tradimento degli intellettuali”. Essi non erano che l’avanguardia di un più generale scollamento dei nuovi ceti medi prodotti dal socialismo con l’apparato ideologico del partito e dello stato.

50. In Occidente le due tendenze filosofiche marxiste rinnovatrici più importanti furono la nuova epistemologia di Louis Althusser e l’ontologia dell’essere sociale del vecchio Lukàcs. Entrambe erano incompatibili con la sintesi staliniana del terzo periodo. In subordine possiamo anche ricordare subito anche le proposte filosofiche di Jean-Paul Sartre e di Herbert Marcuse.

51. Nel 1960, con la sua Critica della Ragione Dialettica, Sartre cercò di costruire una sorta di “grammatica” teorica delle contraddizioni del progetto comunista. All’origine di ogni processo rivoluzionario secondo Sartre ci sta l’aggregazione di individui precedentemente isolati che si aggregano in un “gruppo in fusione”. Questi gruppi in fusione si strutturano sulla base del conseguimento di una finalità-progetto. Ma questa finalità-progetto è minacciata dalla serialità anonima della sua riproduzione, che Sartre definisce il “pratico-inerte”. Questa è la radiografia della malattia mortale del progetto socialista.

Sartre, senza probabilmente rendersene conto, forniva la grammatica teorica adatta ai nuovi gruppi di tendenza trotzkista o maoista. Ma a mio avviso sbagliava il suo bersaglio. Egli fondava, o rifondava, il progetto socialista sulla eccezionalità dei gruppi in fusione e delle finalità-progetto, laddove il vero problema del socialismo non è l’eccezionalità, o l’emergenza, ma proprio al contrario è la quotidianità, o la normalità. Seguendo Max Weber, diremo che il socialismo non ha mai saputo secolarizzare e razionalizzare in comportamenti quotidiani diffusi il suo originario contenuto messianico. Le emergenze rafforzano il socialismo, è la quotidianità che lo distrugge. Ma questo deve spingerci ad una rivoluzione teorica molto più profonda di quella che a suo tempo Sartre immaginava.

52. Herbert Marcuse ha fatto a mio avviso parte della storia della filosofia marxista, a differenza di quanto avvenne per altri esponenti della Scuola di Francoforte. Adorno ha praticato un’autocritica immanente del pensiero liberale, e come ha detto un suo allievo, non ha mai saputo “congedarsi dal suo congedo”. Horkheimer ha incarnato la parabola classica del pensatore borghese, rivoluzionario ed ottimista a vent’anni e conservatore e pessimista a sessanta. Marcuse ha invece cercato di integrare al progetto filosofico di Marx anche Hegel e Freud, dando di Hegel una interpretazione intelligentissima e a tutt’oggi insuperata, e dando di Freud una lettura anti-autoritaria e dialettica di grande fascino. A mio avviso, Marcuse continua ad essere un pensatore assolutamente attuale.

53. L’ontologia dell’essere sociale dell’ultimo Lukàcs era in grado di metabolizzare tutte le contraddittorie esperienze della seconda e della terza fase della storia del marxismo, di fare il bilancio degli errori e delle illusioni, ed infine di cogliere il punto essenziale della questione, la rinuncia ad ogni inesistente fondazione “naturalistica” del comunismo. Nel capitolo quinto di questo libro questo progetto filosofico verrà analizzato in dettaglio, e possiamo risparmiare qui lo spazio. È invece utile richiamare qui il probabile motivo per cui non venne assolutamente presa in considerazione dal movimento comunista ufficiale, che la lasciò alla discussione specialistica di alcuni appassionati.

L’ontologia dell’essere sociale dell’ultimo Lukàcs non osava giungere fino al punto di dichiarare l’esistenza di uno spazio conoscitivo specifico per la filosofia (e lo limitava infatti ai tre rispecchiamenti quotidiano, scientifico ed estetico), ma la direzione di sviluppo che stava prendendo portava di fatto ad una separazione di principio fra spazio filosofico e spazio ideologico. Ma questa separazione è intollerabile ed irricevibile per un movimento che basava la sua identità su di un’ideologia e che sarebbe morto con l’esaurimento di questa ideologia. Piuttosto di curarsi, il malato sospettoso ha rifiutato di prendere una medicina che pure gli avrebbe fatto bene. Bisognava saltare dalla roccia dell’ideologia identitaria per tuffarsi nel mare del dialogo filosofico veritativo. Un movimento storico in dissoluzione irreversibile non poteva farlo.

54. L’insieme delle proposte filosofiche di Louis Althusser non aveva forse il respiro e la “lunga durata” di quelle di Lukàcs, ma non c’è dubbio che esse erano la premessa di una rivoluzione di paradigma, nel senso dello storico della scienza Kuhn. Nel capitolo sesto di questo libro esse verranno richiamate in dettaglio, e non ha senso ripetere qui la discussione che il lettore troverà alcune pagine dopo. Ma come nel caso precedente di Lukàcs ha forse senso chiedersi perché furono prese in considerazione solo da alcuni ristretti circoli universitari, e non giunsero mai neppure a sfiorare il “senso comune’ medio dei militanti comunisti.

La proposta di Althusser conduceva a non raccontar(si) delle storie, ne pas se raconter des histories. La doppia critica all’economicismo ed allo storicismo distruggeva alla radice qualunque “grande narrazione” consolatoria che garantisse al militante il lieto fine assicurato del conflitto fra capitalismo e socialismo. In estrema sintesi, Althusser proponeva di rinunciare all’ideologia identitaria che aveva nutrito per un secolo la falsa coscienza del movimento prima socialdemocratico e poi comunista, la promessa messianica della vittoria garantita. Ma si trattava di una “risorsa ideologica” cui capi, capetti, burocrati e politici di professione non volevano assolutamente rinunciare. Si trattava di una risorsa gratuita di militanza. Sarebbe stato come chiedere alla chiesa medioevale di rinunciare ad una sacra teologia che ti garantiva la dimostrazione sicura dell’esistenza di Dio.

55. Questo è dunque il punto essenziale. Lo si è già detto, ma voglio ripeterlo, perché è la chiave teorica di tutta questa introduzione alla storia filosofica del marxismo. Ogni proposta di innovazione è irricevibile se il suo destinatario è intrasformabile. Le ricadute ideologiche probabili di una vera accettazione delle tre proposte di Marcuse, Althusser e Lukàcs avrebbero fatto saltare la struttura psicologica autoritaria del rapporto carismatico fra capi e masse (Marcuse), la grande narrazione identitaria a lieto fine garantito ed assicurato (Althusser), ed infine il saldo dominio dello spazio ideologico su quello filosofico (Lukàcs).

Mai! Piuttosto la morte! Niente paura. La morte è comunque venuta presto.

56. Dopo il 1991 si apre quello che è e sarà probabilmente il quinto periodo della storia della filosofia marxista. Non sarà certamente l’ultimo. Solo gli sciocchi credono alla fine della storia ed ai momenti “ultimi” di un grande processo culturale e teorico. Ed infatti, nonostante i suoi pazzeschi difetti, il pensiero inaugurato da Marx presenta una tale “eccedenza” rispetto a quanto si è già verificato nel Novecento da far prevedere che la sua storia non sia affatto terminata. Questa è in ogni caso la mia convinzione, ed infatti personalmente mi colloco anch’io dentro la sua circonferenza.

Questo quinto periodo presenta alcune caratteristiche che devono essere analizzate con cura. Non è compito di questa introduzione. Ci vorrà un lavoro specifico e sistematico. Esso presuppone la piena metabolizzazione dei periodi precedenti, ma anche il coraggio di una discontinuità radicale. E sulla natura di questa discontinuità radicale la discussione è aperta.