Articolo apparso per la prima volta sulla rivista Praxis. Reso disponibile online dal blog Kelebekler.
1. Queste note critiche sul maoismo seguono un precedente contributo sul trotzkismo concepito secondo criteri del tutto analoghi a quelli che hanno ispirato il presente testo. Non vi è alcuna pretesa di completezza, organicità e documentazione bibliografica. L’interesse è esclusivamente teorico e tematico. I due contributi sul trotzkismo e sul maoismo sono in buona misura complementari, e dovrebbero essere discussi e giudicati insieme.
2. L’argomento del maoismo è talmente vasto da “scappare da tutte le parti”, per usare una espressione colloquiale. In un testo relativamente breve è impossibile affrontarlo nel modo corretto, che è in primo luogo storico. Mao Tse Tung (userò questa formulazione italiana anziché quella del cinese latinizzato di Mao Ze Dong) è prima di tutto il maggiore artefice della rivoluzione socialista in Cina. Egli è stato, per così dire, un po’ il Marx, il Lenin, lo Stalin ed il Trotzky della Cina, e tutto in una sola persona (sento già lo stridore di denti di protesta dei maoisti ortodossi!). In questo mio testo trascurerò questo aspetto storico decisivo, non certo perché non gli dia importanza, ma proprio perché gliene do molta, e non voglio ridurre questo tema storico complesso ad alcune formulette. Per chiarezza, toccherò invece quattro distinti punti. In primo luogo, la questione del modo di produzione asiatico in Marx e nei marxisti, perché a mio avviso la rivoluzione cinese è nell’essenziale una rivoluzione che si è strutturata non sulla base del modo di produzione capitalistico, ma del modo di produzione asiatico. In secondo luogo, darò una definizione di quello che è a mio avviso il “maoismo” in senso proprio, e la darò sulla base di come il maoismo fu definito dai cinesi stessi (o meglio, dalle loro correnti comuniste di sinistra) fra il 1966 ed il 1976. Questa definizione è discutibile, non mi aspetto che tutti i lettori competenti la accettino, ma almeno proporrò una base per la discussione ulteriore. In terzo luogo, accennerò non tanto al maoismo in generale, ma a quello che definirò “maoismo europeo”, da non confondere con il cosiddetto movimento marxista-leninista internazionale, per le ragioni che ricorderò. In quarto luogo, infine, anche se questo punto non c’entra molto con il maoismo ed è pertanto un po’ “fuori tema”, accennerò alla discussione fra marxisti sulla Cina di oggi, sul suo carattere “socialista” o meno, sulla sua funzione economica e politica internazionale, eccetera. Questi quattro punti sono distinti, ed è del tutto possibile a mio avviso condividerne tutti e quattro, non condividerne nessuno, o condividerne solo alcuni e non altri.
3. Per chi prende il marxismo sul serio parlare di Mao significa parlare della Cina, e parlare del modo di produzione asiatico. Se non si fa questa mossa teorica iniziale a mio avviso non si va poi da nessuna parte.
4. Nel marxismo-leninismo codificato da Stalin nel 1938 l’intera umanità è unificata in un unico flusso storico sintetizzato in cinque stadi successivi, il primo iniziale e l’ultimo finale. Si tratta della successione di comunismo primitivo – schiavismo – feudalesimo – capitalismo ed infine comunismo. Anche se Marx ne sembra apparentemente l’ispiratore, in realtà si tratta di una cosa ben diversa, perché Marx aveva bensì proposto il modello scientifico della genesi, dello sviluppo e del tramonto dei modi di produzione sociali, ma non li aveva volutamente inseriti in una seria storicistica di successione predeterminata ed a finalità precostituita (anche se alcune sue formulazioni inesatte possono legittimare filologicamente una simile interpretazione deterministica). Ma ciò che conta è che Marx aveva esplicitamente parlato di modo di produzione asiatico, rifiutandosi di ridurlo ad una sorta di schiavismo e di feudalesimo dai tratti esotici. Stalin abolisce questa categoria, per ragioni che Rudolph Bahro chiarirà bene (e che riprenderò nel prossimo paragrafo), e gli stessi marxisti cinesi staliniani vengono obbligati a trovare nel passato della storia cinese degli schiavismi e dei feudalesimi che sono certo esistiti, ma non sono mai divenuti dominanti, e soprattutto non hanno mai avuto il ruolo centrale dello schiavismo antico greco-romano e del feudalesimo occidentale europeo.
Il modo di produzione asiatico, di cui Marx parla a lungo (cfr. K. Marx – F. Engels, India Cina Russia, Il Saggiatore, Milano 1960), comporta da un lato la proprietà dello stato dispotico sulla terra, e dall’altro l’autonomia produttiva reale delle collettività contadine subalterne. Nulla a che vedere, come si vede, con lo schiavismo antico greco-romano e con il feudalesimo occidentale europeo, due modelli storici che sono serviti a Marx per elaborare le due tipologie rispettive di modo di produzione schiavistico e feudale.
La proprietà esclusiva dello stato dispotico sulla terra, unita con l’autonomia produttiva reale delle collettività prevalentemente contadine, configura un modello sociale, economico, politico e culturale assolutamente non-occidentale (nel bene e nel male, questa è un’altra questione da discutere a parte), che in forme diverse e specifiche può essere riscontrato in Cina, in India, presso gli Incas del Perù, eccetera. Questo modello, detto asiatico, non deve però essere confuso con due altri modelli anch’essi non occidentali, ma qualitativamente diversi, come quello antico-orientale (antico Egitto, antica Mesopotamia, antica Cine ed India delle prime civiltà fluviali ed idrauliche, eccetera) e come quello africano, basato sul ruolo produttivo e strutturale dei linguaggi delle famiglie allargate e della divisione del lavoro sociale fra sessi e generazioni che si organizzano entrambi autonomamente in senso culturale e politico.
La Cina è stato il massimo modello storico di modo di produzione asiatico. E allora chi vuole parlare di Mao come semplice ammiratore di Stalin e nemico di Krusciov deve essere invitato, educatamente ma anche risolutamente, a prendersi un supplemento di studio.
5. In Italia, a parte alcune rare eccezioni (cfr. U. Melotti, Marx e il terzo mondo. Per uno schema multilineare dello sviluppo storico, Il Saggiatore, Milano 1972), si è sempre parlato pochissimo di questo cruciale problema. Una ennesima vergogna provincialistica, coperta da discussioni teologiche sulla differenza fra contraddizioni dialettiche ed opposizioni reali e sulla trasformazione dei valori in prezzi di produzione. Non nego che queste due problematiche abbiano senso, so bene che Lucio Colletti e Piero Sraffa sono esistiti, ma sinceramente la questione del carattere multilineare e non unilineare della storia universale mi sembra mille volte più importante per capire qualcosa del mondo in cui viviamo (e dico solo mille e non diecimila perché invecchiando sono diventato molto più moderato).
In un ambiente meno provinciale la discussione sul modo di produzione asiatico è stata vivace, anche se influenzata da letture ideologiche. Cito qui soltanto per brevità le posizioni rispettive di Karl Wittfogel, Samir Amin e Rudolph Bahro. Dopo averne preso conoscenza, anche la discussione su Mao potrà continuare su basi molto più informate e molto più sane.
Karl Wittfogel (cfr. Il dispotismo orientale, 2 voll., Vallecchi, Firenze 1968, edizione originale americana 1957), comunista tedesco poi divenuto un anticomunista politico, ha elaborato un importante modello, a mio avviso fondato, in cui lega il dispotismo pooutico alla necessità di organizzare lavori collettivi di carattere idraulico per la regolazione di grandi fiumi (Nilo, Tigri ed Eufrate, Indo, Fiume Azzurro in Cina, eccetera). Da questo primitivo insediamento “idraulico” dello stato nasce poi un processo di successiva autonomizzazione produttiva ed organizzativa delle comunità contadine, mano a mano che si allontanano dai bacini fluviali colonizzando sempre nuove terre. È possibile che Wittfogel sopravvaluti l’importanza del fattore idraulico, ma a mio parere coglie comunque un punto centrale nel segnalare la relativa eccezionalità, e quindi particolarità e non universalità a priori, del modello occidentale.
Samir Amin (cfr. Lo sviluppo ineguale, Einaudi, Torino 1977, edizione originale francese 1973) propone invece un modello di “modo di produzione tributario”, in cui insiste anche lui sul fatto che il carattere “esterno”, e quindi solo tributario, fiscale e militare, del potere politico nelle formazioni economico-sociali non occidentali, impedisce nel modo più assoluto ogni operazione di “omogeneizzazione occidentalistica” della storia universale, che fa diventare la Cina e l’India un “caso speciale” dell’Occidente. Una simile corretta impostazione si può trovare in altri due autori anglosassoni, come Perry Anderson (cfr. Dall’antichità al feudalesimo, Mondadori, Milano 1978 e Lo stato assoluto, Mondadori, Milano 1980, entrambi di edizione originale inglese 1974) ed infine Hosea Jaffe (cfr. Stagnazione e sviluppo economico. Modi di produzione, nazioni, classi, Jaca Book, Milano 1985).
In generale mi astengo dall’appesantire i miei testi di discussione con bibliografie. Ma in questo caso il lettore avrà notato che ho dovuto citare quattro autori, e tutti e quattro non italiani. Eppure si tratta, per i marxisti, della questione incondizionatamente più importante di tutte, e cioè del problema dello sviluppo multilineare della storia universale, unico antidoto all’occidentalismo ed alla presunzione metropolitana. Lo ripeto in modo tristemente provocatorio: solo un ambiente culturale provinciale, che ha sostituito il motto di Marx con quello di Fred Buscaglione “Tu vuoi far l’americano” può prendere sul serio l’Impero di Toni Negri. Pensare che il mondo sia oggi unificato in “moltitudini desideranti” rappresenta la versione comica di una tragedia, e cioè il fallimento irreversibile del progetto universalistico del comunismo storico novecentesco.
6. A questo punto, sulla base del contenuto e dei riferimenti bibliografici del paragrafo precedente (che consiglio al lettore paziente e non frettoloso) si può cominciare a capire perché il marxismo classico, prima secondinternazionalista e poi staliniano e post-staliniano, ha sempre rifiutato, censurato e silenziato non solo il modo di produzione asiatico, ma anche e soprattutto l’evoluzione multilineare e non unilineare dello sviluppo storico mondiale. Questo rifiuto può essere visto molto bene soprattutto nel pensiero comunista, per un insieme di ragioni che qui riassumerò brevemente in due punti.
In primo luogo, il riconoscimento del carattere parziale del modello di sviluppo occidentale (schiavismo – feudalesimo – capitalismo) avrebbe portato a delegittimare la sua pretesa di unicità esemplare, e di conseguenza a deleggittimare la pretesa di unicità esemplare anche del suo modello opposto di contestazione, il modello prima socialdemocratico alla Kautsky e poi comunista alla Stalin. Si presti molta attenzione a questo punto teorico assolutamente decisivo. Il modello di contestazione è sempre strutturato a partire dal modello che si contesta, e non funziona più, o funziona male, se il modello di riferimento polemico viene mutato. Ogni “universalismo” anticapitalistico di tipo prima socialista e poi comunista viene così contestato alla radice. Su questo punto assolutamente decisivo la continuità teorica sotterranea fra Prima, Seconda, Terza e Quarta Internazionale è purtroppo ferrea, ed il recente modello di “omogeneizzazione” di Toni Negri (Impero contro Moltitudini Desideranti) ne rappresenta solo una congiunturale grottesca versione alla moda.
In secondo luogo, il modo di produzione asiatico è un inquietante modello di società in cui in assenza di una proprietà privata giuridicamente garantita e trasmissibile per eredità (diritto romano, eccetera), e pertanto in presenza di un apparente “collettivismo”, si ha in realtà non solo un palese dispotismo statuale ma anche la permanenza di classi sociali contrapposte di sfruttatori e di sfruttati. Gli sfruttatori, però, non sfruttano sulla base di una proprietà privata giuridicamente garantita e trasmissibile ereditariamente di mezzi di produzione, ma sulla base di un potere di tipo religioso e militare che si manifesta in modo variamente “tributario”, sia come tributi in beni materiali sia come tributi in lavoro collettivo prestato dalle comunità.
7. Il grande marxista tedesco Rudolph Bahro, a suo tempo incarcerato nella Repubblica Democratica Tedesca di cui era cittadino per ragioni esclusivamente di opinioni, ha scritto un libro interessantissimo che utilizza la categoria di modo di produzione asiatico per interpretare la dinamica delle società del comunismo storico novecentesco. Purtroppo il libro è stato pubblicato in italiano scorciato del suo capitolo più importante in una collana ispirata al semplice “antitotalitarismo” (cfr. Per un comunismo democratico, SugarCo, Milano 1978). La collana, battezzata “1984”, era diretta da Paolo Flores d’Arcais. Lo ripeto, la parte più significativa del libro, quella sulla possibile alternativa comunista, non è tradotta, ed ho dovuto a suo tempo andarmela a leggere in tedesco, perché i futuri “girotondini”, nemici della manipolazione berlusconiana, decisero di pubblicare un vero classico del XX secolo tagliandone la parte che non gli interessava. Loro volevano solo l’ennesima critica al totalitarismo, non certo una riproposizione libertaria del comunismo (giusta o sbagliata che fosse).
Herbert Marcuse, pur respingendo alcune tesi “pedagogiche” di Bahro, ne definisce l’opera “il più importante contributo alla teoria ed alla pratica marxiste degli ultimi decenni” (cfr. Protosocialismo e capitalismo avanzato, in “Les temps modernes”, n. 394, maggio 1979, p. 1706). ب questa l’opera che Flores d’Arcais fa tradurre tagliandone a suo piacimento la parte essenziale, quella appunto che Marcuse discute. Ma qui non voglio riprendere le tesi di Bahro, che mi riprometto di discutere analiticamente in altra sede. Voglio solo fare notare ancora una volta che la discussione sul modo di produzione asiatico può essere lo spunto per una ridiscussione sull’insieme dei problemi del marxismo e del comunismo.
8. E possiamo tornare ora a Mao. Ma possiamo tornarci con una consapevolezza molto maggiore, perché ormai sappiamo che senza parlare anche della Cina e del modo di produzione asiatico tutto resta per aria in un mondo in cui gruppetti identitari di tipo staliniano, togliattiano, trotzkista e maoista litigano fra di loro sulla base di citazioni, e così si fanno il fegato grosso ed il sangue cattivo anziché abbandonarsi ad una liberatoria discussione sul gioco del calcio e sull’insopportabile difensivismo di Giovanni Trapattoni. Se invece prendiamo in considerazione la storia della Cina ed il modo di produzione asiatico molte incomprensibili “cineserie” diventeranno se non proprio chiare almeno leggermente più plausibili.
9. E vediamo brevemente ed in modo un po’ disordinato alcune “cineserie” di Mao e dei suoi seguaci che diventano più comprensibili, al di là ed oltre lo scambio di lettere sulle note “divergenze fra il compagno Togliatti e noi”, che ho recentemente riletto prima di scrivere questo contributo in una edizione cinese in lingua italiana.
In primo luogo, tutti sanno che Mao ha fatto la Lunga Marcia del Sud al Nord della Cina, e che ha portato a termine con successo una rivoluzione socialista sulla base della mobilitazione strategica e di massa dei contadini poveri e medi, mentre la classe operaia è stata solo “liberata” in città ed è stata poi moltoplicata dall’industrializzazione pianificata dello stato socialista dopo il 1949. Questa grande scoperta, analoga a quella dell’acqua calda e della rotondità della terra, è sempre ripetuta dai sinologi di sinistra italiani con ieratica sapienzialità. Certo, essa è importante anche per capire che cosa fanno oggi i “maoisti” dal Perù al Nepal (guarda caso i due paesi con precedenti e residui di modo di produzione asiatico). Ma sarebbe molto meglio per il marxista italiano sapere che cosa sono stati i Turbanti Gialli ed i Sopraccigli Rossi, i Taiping e la grande insurrezione che portò alla cacciata dei mongoli Yuan ed alla vittoria della dinastia contadina Ming. In questa lunga durata della storia contadina cinese ci stanno molte più cose che nella pur importante Questione Agraria di Kautsky.
In secondo luogo, mentre non serve assolutamente a nulla la divisione filosofica dei marxisti occidentali fra materialisti ed idealisti, sarebbe molto più utile conoscere la dinamica radicalmente diversa del pensiero filosofico cinese, soprattutto del triangolo costituito da confuciani, taoisti e legisti. Si possono prendere i documenti della nota campagna di massa condotta nei primi anni Settanta contro Confucio (abbinato ideologicamente a Lin Piao, cfr. “Vento dell’Est”, nn. 35-36, dicembre 1974). Confucio in Cina ha significato legittimazione familiare e delegittimazione statale. Personalmente, non amo la soffocante riduzione della filosofia ad ideologia che regna in questa riproposizione due millenni dopo del conflitto fra confuciani e legisti, in cui i maoisti appoggiano retroattivamente i secondi. Ma qui voglio solo far notare che con gli schemini staliniani di storia della filosofia non si può capire un bel nulla.
In terzo luogo, la lunga storia della Cina ci mostra che la Cina ha sempre “respirato” con due polmoni, i contadini ed i mercanti, con la classe contadina in posizione decisiva. Nei parametri del linguaggio politico occidentale, la “sinistra” ha prevalso in Cina fra il 1956 ed il 1976 (l’ultimo ventennio della vita di Mao, quello della formazione del vero e proprio “maoismo” con pretese universalistiche), e la “destra” ha prevalso dopo il 1976, da Hua Kuo Feng fino a Deng Hsiao Ping e gli attuali dirigenti. Personalmente, ho forti dubbi sul fatto che questa dicotomia occidentale, già poco utile da noi, ci dica qualcosa sulla Cina. La Cina fino ad oggi ha avuto un ritmo di respiro storico di tipo ciclico, non lineare-progressivo. Potrebbe darsi che le cose oggi siano cambiate, ma potrebbe anche darsi di no.
In quarto luogo, oggi la parola Cina, che per molti significa solo restaurazione selvaggia di un capitalismo di cattivo gusto, significa per chi vuole osservare meglio soprattutto difesa dell’indipendenza nazionale. Nell’epoca di Bush, a mio avviso, è la prima cosa da chiedere a tutti, ed è esattamente quello che i ceti politici italiani ed europei, Poloulivo ed Ulivopolo, non fanno assolutamente. Gli attuali dirigenti cinesi, che a mio avviso non possono in nessun modo essere definiti “maoisti”, almeno sulla questione della indipendenza nazionale stanno ancora nella linea di Mao. Ma che questo non basti per essere definiti “maoisti” lo vedremo a partire dal prossimo paragrafo.
10. Mao Tse Tung è certamente esistito, ma è esistito il “maoismo”? Esiste oggi il “maoismo”? E cosa significa “maoismo”, al di là di un insieme pratico congiunturale di un personaggio empirico in carne ed ossa nato nello Hunan nel 1893 e morto a Pechino nel 1976, e chiamato Mao Tse Tung?
Proviamo a rispondere, con tutte le cautele necessarie.
11. In estrema sintesi, la mia risposta è sì. Il “maoismo” esiste, e costituisce una dottrina teorica relativamente organica e coerente. Il nucleo di questa dottrina, elaborata fra il 1966 ed il 1976, ed oggi dichiaratamente respinta dalle autorità comuniste cinesi, può essere correttamente inteso come il terzo momento di una teoria unitaria, il marxismo-leninismo, di cui il primo momento fu quello di Marx, il secondo momento fu quello di Lenin, ed il terzo momento quello di Mao stesso.
Il primo momento, quello di Marx, è quello della “scoperta” del materialismo storico (teoria della lotta di classe nei modi di produzione) e della teoria del plusvalore, cioè dei fondamenti della critica generale al capitalismo. Il secondo momento, quello di Lenin, è quello della teoria dell’imperialismo, della rivoluzione socialista a partire dagli anelli economicamente e politicamente deboli della catena mondiale imperialistica, della legittimazione alle rivoluzioni anticoloniali di liberazione nazionale ed infine della costruzione del socialismo sulla base della direzione politica del partito comunista. Si noterà che in questa concezione Stalin, pur non ripudiato, non è indicato come un vero “classico” del marxismo-leninismo. Mao Tse Tung viene indicato come terzo momento (cfr. articoli cinesi tradotti in “Vento dell’Est”, n. 44, gennaio 1977, ma pubblicati pochi mesi prima della morte di Mao) della storia del marxismo, in quanto scopritore dell’esistenza della borghesia dentro il partito comunista, e pertanto della possibilità, ed anzi della quasi sicura probabilità, di un “mutamento di colore” della società in caso di vittoria del revisionismo sul comunismo.
Questa è l’essenza del maoismo, se esiste qualcosa chiamato “maoismo”, come appunto io credo. Le fonti sono innumerevoli, tradotte dal cinese all’italiano da “Vento dell’Est”, ed in inglese e francese dai settimanali Peking Review e Pékin Information, senza contare i continui contributi della Monthly Review di Sweezy. Nel deserto del provincialismo italiano, per coloro che leggono bene l’inglese, consiglio le mie due fonti principali, quelle almeno da cui ho imparato di più. Si tratta del volume 15 della Cambridge History of China, parte seconda sulla repubblica popolare intitolata “Rivoluzioni dentro la rivoluzione cinese 1966-1982”, e soprattutto dell’opera esemplare di Maurice Meisner, Mao’s China and after. A History of the People’s Republic, Free Press, London – New York 1986. Uno dei pochi libri italiani che tenta un bilancio storico complessivo del maoismo (in cui c’è anche un piccolo contributo di chi scrive qui) è AAVV, Mao Zedong dalla politica alla storia, Editori Riuniti, Roma 1988, che riporta gli atti di un convegno svoltosi ad Urbino nel novembre 1986 su iniziativa della non dimenticata Emilia Giancotti. Consiglio vivamente il “ripescaggio” di questo libro dimenticato, perché ci si possono trovare utili elementi per fare un repertorio dei temi teorici e politici sul maoismo.
Ho dato una mia definizione di “maoismo”, e non me la sono inventata a caso, ma l’ho diligentemente ricavata dalle fonti cinesi originali del decennio 1966-1976, poi riprese in mille forme diverse dalle formazioni politiche del cosiddetto movimento marxista-leninista europeo e mondiale. Bisogna ora discuterne apertamente la plausibilità, e prendere in considerazione le possibili obiezioni.
12. In primo luogo, vorrei separare la questione del “maoismo” dai cosiddetti “eccessi” della rivoluzione culturale cinese del decennio 1966-1976. Io so bene, come peraltro scrisse anche Mao, che “la rivoluzione non è un pranzo di gala”, ma questo non giustifica i cialtroni che allora misero in ginocchio vecchi professori liberali irrisi con delle orecchie di asino o distrussero monumenti archeologici millenari con la scusa che essi ricordavano la vecchia Cina schiavistica e feudale. Se i comunisti greci distruggessero l’Acropoli e quelli italiani la Roma barocca dei papi meriterebbero un ergastolo con obbligo di vedere per tutto il giorno le trasmissioni televisive spazzatura, ultimo stadio della distruzione luddistica del passato. Analogamente, i cialtroni cinesi che hanno distrutto i monumenti archeologici della vecchia Cina dovrebbero essere presi a calci in culo per tutto il percorso della Grande Muraglia. Sul mio “estremismo classicistico” non faccio sconti, e non intendo fare sconti per compiacere il populismo analfabeta.
Condivido quindi con autori come Domenico Losurdo l’abominio verso questi stupidi “eccessi”. Non condivido l’impostazione di autori pure informati come Simon Leys (cfr. Gli abiti nuovi del presidente Mao, Edizioni Antistato, Milano 1977), che riduce tutto il maoismo a lotta per il potere fra cricche burocratiche rivali dentro la nuova classe dominante cinese. Su questa linea dello scontro inter-burocratico, in cui tutti i burocrati sono immersi in una notte in cui tutte le vacche sono nere, si era già distinto precocemente negli anni Sessanta “in tempo reale” il trotzkista italiano Livio Maitan. Leys aveva già scritto un libro di altissimo surrealismo fin dal titolo (cfr. Révo. Cul. dans la Chine Pop., UGE, 1974 Paris). Ma il fatto storico innegabile del cambiamento radicale della Cina dopo il 1976, la morte di Mao e la caduta della cosiddetta “banda dei quattro” smentisce Maitan, Leys, e tutti i teorici del puro scontro interburocratico.
Al di là dei suoi eccessi, dei suoi studenti che pretendevano di passare gli esami universitari con un “foglio bianco” perché di sentimenti veramente proletari, del vecchio che abbatte le montagne a colpi di piccone, dei medici che curano malattie incurabili ispirandosi al pensiero di Mao, dei libretti rossi sollevati al cielo, degli “eccessi”, eccetera, la rivoluzione culturale cinese fu una cosa seria. Come tutti i fenomeni storici, di destra o di sinistra, antichi e moderni, il “maoismo” deve essere separato dai suoi propri “eccessi”, se vogliamo recuperarne l’intellegibilità storica di fondo.
13. In secondo luogo, si potrebbe obiettare che la definizione di “maoismo” come teoria della centralità della lotta contro la borghesia restauratrice del capitalismo che si installa proprio nel partito comunista non è stata opera di Mao in persona, ma della sinistra maoista cinese della rivoluzione culturale che alla fine, sotto il nome di “banda dei quattro”, fu liquidata con un colpo di stato dell’ottobre 1976. Il teorico della cosiddetta banda dei quattro, è bene saperlo, non era per nulla la moglie di Mao Chiang Ching, ma il teorico della dittatura del proletariato nelle nuove condizioni del potere comunista Chang Chun Chiao. Dunque, è il “maoismo” opera di Mao, o è opera della “banda dei quattro”?
Non mi sembra difficile rispondere. La teorizzazione degli anni 1972-1976 può certo essere prevalente opera della banda dei quattro, ma è indiscutibile che Mao stesso in passi innumerevoli della sua opera ha sempre insistito sul “partito che cambia di colore” e sulla sua centralità non solo politica. In questo si veda, per chi vuole approfondire lo studio, il buon libro curato da S. R. Schram, , Mondadori, Milano 1974.
14. In terzo luogo, è bene almeno porre il problema del rapporto fra il pensiero di Mao e la figura storica, politica e teorica di Stalin. In proposito, la questione è certamente aperta, ma qualcosa è possibile dire.
Il lettore italiano dispone di una traduzione delle note di Mao su Stalin e sullo “stalinismo” come modello politico di costruzione del socialismo (cfr. Note su Stalin e il socialismo sovietico, Laterza, Bari 1975, con una importante prefazione di Aldo Natoli). Natoli ritiene che fra il modello di Stalin e quello di Mao ci sia molto più rottura che continuità, in quanto Mao avrebbe diagnosticato con esattezza l'”economicismo” del modello staliniano, nel doppio aspetto dell’enfasi sulla crescita delle forze produttive ad ogni costo e del ricorso massiccio e sistematico agli incentivi materiali individuali (salario a cottimo, eccetera). Come vedremo, questo “economicismo” come elemento strutturalmente negativo del socialismo sarà poi anche alla base del “marxismo occidentale” (Charles Bettelheim, Giancarlo La Grassa), di cui parlerò in seguito.
Se Natoli ha ragione, alora non è possibile accettare la serie delle immagini totemiche schierate (Marx, Engels, Lenin, Stalin, Mao), che fanno parte della simbologia dei movimenti marxisti- leninisti da almeno quarant’anni (un periodo storico ormai relativamente lungo). Queste cinque immagini totemiche schierate suggeriscono una continuità teorica e politica che però a mio avviso è assolutamente illusoria, e può produrre solo falsa coscienza. Se è infatti vero che Mao è indissociabile dal modo di produzione asiatico (più esattamente, da una rivoluzione socialista vittoriosa che si origina dalle contraddizioni sorte dall’incontro fra modo di produzione asiatico ed imperialismo colonialistico occidentale), e che il suo contributo “universale” si limita alla diagnosi della borghesia restauratrice del capitalismo sviluppatasi dentro il partito comunista, e se è vero che Mao ha criticato Stalin in modo molto più radicale di quanto lo faccia la teoria ufficiale cinese su Stalin (70% buono e 30% cattivo), allora ogni continuità presunta è soltanto un’ideologia grande-narrativa.
Ed è questo grosso modo che io penso.
15. Siamo allora giunti ad un risultato modesto ma significativo, a cogliere cioè due aspetti del maoismo apparentemente contraddittori ma in realtà convergenti. L’aspetto particolaristico del maoismo sta nel fatto che non può essere dissociato dal modo di produzione asiatico, che non è mai esistito in Europa e più in generale nella tradizione storica occidentale. Ma questo aspetto particolaristico paradossalmente ne evidenzia uno universalistico, e cioè il fatto che ogni universalismo comunista presuppone il preventivo riconoscimento del carattere multilineare e non unilineare della storia universale. Si tratta a mio avviso del paradosso più fecondo del marxismo, che sta alla base della stessa centralità della lotta contro l’imperialismo, che è da questo punto di vista l’avanguardia armata e corazzata della concezione unilineare della storia.
Se l’aspetto universalistico del maoismo sta nel riconoscimento del carattere mutilineare dell’evoluzione storica mondiale, allora la rottura non è solo con Stalin (come si è sostenuto nel precedente paragrafo), ma anche con alcuni aspetti eurocentrici di Marx e di Engels. Paradossalmente la rottura con Lenin è minore, se non inesistente, perché Lenin a modo suo seppe cogliere il carattere multilineare dell’evoluzione storica, e su questo ruppe anche teoricamente con il marxismo della Seconda Internazionale, costruito invece ferreamente sulla grande-narrazione unilineare operaia e proletaria (in buona parte ereditata dal trotzkismo).
La definizione del carattere universale del maoismo data dalla sinistra maoista della rivoluzione culturale (maoismo = riconoscimento della centralità della questione della borghesia in seno al partito) ne evidenzia peraltro solo un aspetto. L’innegabile e fragoroso insuccesso politico del maoismo organizzativo in Europa e negli USA, unita ad un parziale successo politico in realtà asiatiche o “semi-asiatiche” (Turchia, India, Nepal, fino allo stesso Perù in cui già a suo tempo Mariátegui aveva evidenziato l’eredità sociale e culturale degli Incas) deve farci riflettere sul fatto che il maoismo politico (e militare) resta uno strumento organizzativo per i programmi di riforma agraria anti-feudale. Non c’è nulla di più lontano però dall’Europa. Vale dunque la pena esaminare, se esiste (ed io penso fortemente che esista), l’esperienza quarantennale del “maoismo occidentale teorico” e della sua evoluzione.
16. Chiariamo bene i termini per non equivocare. Con il termine di “maoismo occidentale” o di “maoismo europeo” voglio subito dire che cosa sostanzialmente non intendo. Non intendo le testimonianze simpatizzanti o deluse sulla Cina e sui cinesi da parte di intellettuali e sinologi europei (Edoarda Masi, Claude Broyelle, eccetera). Leggendo le loro testimonianze autobiografiche si impara moltissimo, ma questo non è il maoismo europeo. Non intendo neppure la formazione e la storia dei piccoli partiti marxisti leninisti e delle loro pittoresche scissioni a catena (cfr. R. Niccolai, Quando la Cina era vicina, BFS-CDP, Pisa – Pistoia 1998 e F. Ottaviano, , Rubettino, Messina 1993). Non intendo questo perché la radice storica fondamentale della genesi dei piccoli partiti marxisti-leninisti (come il PCdI di Dinucci del 1965) sta in una scissione nostalgica staliniana del partito di Palmiro Togliatti, in cui i cinesi sono di fatto solo un pretesto esotico. Questa è almeno la mia opinione. Non intendo neppure fenomeni di tipo populistico come il gruppo Servire il Popolo di Aldo Brandirali, in cui Mao è solo un soprammobile come lo erano per i ricchi i vasi Ming, dal momento che questo maoismo populistico che organizza matrimoni proletari ed interviene sul numero di coiti consigliati ai proletari perché concilino l’amore verso il coniuge con la partecipazione ai picchetti mattutini non fa parte della storia del maoismo propriamente detto, ma del cattocomunismo italiano (e francese). Lo sbocco di Aldo Brandirali prima in Comunione e Liberazione e poi nella politica professionale berlusconiana non deve stupire, così come non deve stupire lo sbocco di Adriano Sofri nel sionismo e nell’interventismo militare imperialistico più feroce. Chi se ne stupisce, e limita tutto ai dati psicologici secondari della corruzione e della vanità personali, mostra di non capire assolutamente il significato di “cultura politica”, qualcosa che ha lunga durata e radici profondissime, ed è perciò infinitamente più importante delle contorsioni tattiche irrilevanti della cosiddetta “linea politica”, la sola che interessa ossessivamente chi fa politica di professione.
17. Avendo detto che cosa non intendo, dico ora che cosa intendo per maoismo occidentale ed europeo. Intendo un movimento di riforma teorica complessiva del marxismo e del leninismo, che si sviluppa a partire dagli anni Sessanta in Europa, e che tende ad esaurirsi a partire dai primi anni Ottanta. Questo movimento non può essere compreso se non nel suo contesto polemico, cioè nel panorama conflittuale di posizioni contemporanee. In estrema sintesi, queste posizioni conflittuali sono sostanzialmente tre, il comunismo tradizionale, il trotzkismo e l’operaismo. La storia teorica del maoismo è dunque anche e soprattutto una “storia conflittuale”, assolutamente incomprensibile senza la conoscenza delle altre tre polarità teoriche indicate. Se la filosofia, come scrisse a suo tempo Kant, è un Kampfplatz (campo di battaglia), ancor più ovviamente lo è l’ideologia ed il confronto ideologico. Esaminerò allora in modo contrastivo le tre posizioni indicate, e ricorderò poi quelli che sono stati a mio avviso (ma solo in Italia ed in Francia) i due principali teorici “maoisti occidentali”, Charles Bettelheim e Gianfranco La Grassa.
18. Sorto all’inizio degli anni Sessanta sull’onda della rottura politica fra Cina ed URSS, il movimento marxista-leninista diventò subito una corrente internazionale. Ma le “fusioni fredde” non riescono in politica, e questo movimento non riuscì a decollare mai come movimento di massa (con la sola parziale eccezione dell’India e di alcune altre realtà asiatiche). In Europa esso rimase sempre marginale, e comunque sempre molto più minoritario dei partiti comunisti, sia quelli a “filosovietismo duro” (Francia, Grecia), sia quelli a “filosovietismo molle” (Italia, Spagna). Questo non deve affatto stupire. Il movimento marxista-leninista era un movimento dotato di una ideologia fortemente rivoluzionaria, ma partiva da un presupposto sbagliato, e cioè che il suo soggetto sociale di riferimento privilegiato, la classe operaia e proletaria europea, fosse appunto rivoluzionaria in senso marxista e leninista. In modo molto più saggio invece questa classe sapeva benissimo di non essere capace di egemonia complessiva sull’intera società, e altrettanto saggiamente delegava la gestione dei propri miglioramenti sociali a degli apparati politici e sindacali laburisti (in Inghilterra), socialdemocratici (in Germania Occidentale e nei paesi scandinavi), socialisti (in Francia) e comunisti (in Italia). Visto con il “senno del poi” del 2002 tutto ciò è addirittura evidente. Era molto meno evidente, invece, la corretta comprensione della natura non solo politica ma anche storica di questi apparati politici professionali, indipendentemente dall’elemento irrilevante della loro ideologia di copertura, legittimazione e mascheramento di tipo laburista, socialdemocratico, socialista e comunista.
Il caso dell’Italia è molto interessante. Nella retorica dei gruppi marxisti-leninisti degli anni Sessanta il PCI (poi PDS e DS dopo la riconversione produttiva della ditta) era visto come partito opportunista, revisionista, interclassista, partito dei bottegai, delle cooperative tosco-emiliane, della piccola borghesia umanistica, eccetera. A mia conoscenza, soltanto il maoista italiano Gianfranco La Grassa, in alcuni contributi usciti sulla rivista “Che Fare” dei primi anni Settanta, si avvicinò di più alla realtà. Secondo La Grassa il PCI di Palmiro Togliatti ed Enrico Berlinguer, apparentemente il partito del “blocco storico” gramsciano fra classe operaia e ceti medi progressivi, era in realtà un potenziale partito di rappresentanza e di gestione degli interessi complessivi del grande capitale. A quei tempi questa tesi poteva sembrare esagerata ed estremistica. Se invece ritorniamo su queste tesi con il “senno del poi”, sapendo che cosa sono stati negli anni Novanta i DS, l’Ulivo, D’Alema, Fassino, eccetera, allora la tesi di La Grassa ci sembrerà meno follemente estremistica e molto più sobria e realistica di quanto allora poteva sembrare.
Ho voluto qui ricordare questo piccolissimo episodio ideologico dei primi anni Settanta per evidenziare come era già possibile allora giungere alla conclusione che gli apparati formalmente “comunisti”, una volta cambiati “di colore”, non si sarebbero mai per così dire “fermati a metà strada”, ma avrebbero subito una metamorfosi di 180° in direzione di una classe politica professionale complessiva “di servizio” degli interessi capitalistici ed imperialistici complessivi. In proposito la vera “sindone”, cioè la vera icona visiva di questa metamorfosi resta a mio avviso il cinico ghigno di sufficienza di Massimo D’Alema nel 1999 quando rese possibile i bombardamenti americani sulla Jugoslavia concedendo l’uso delle basi aeree. La stessa persona, lo si noti bene, che spinse la propria faccia tosta nell’andare alla marcia per la pace Perugia – Assisi circondato da compagni di base belanti e pecoreschi che lo supplicavano di “dire qualcosa di sinistra”.
Poco da dire. Siamo il paese della Commedia dell’Arte, e della faccia tosta dei grandi improvvisatori.
19. Gli anni Sessanta in Europa furono anni di grande conflitto per l’egemonia fra il trotzkismo ed il maoismo, e Parigi ne fu la vera capitale culturale. Se il lettore me lo permette, so perfettamente che cosa sto dicendo, perché ho vissuto in prima persona questo conflitto. Certo, esso non coinvolse le grandi masse, e per molti aspetti si trattò di una tempesta in un bicchier d’acqua. Ma io ero in quel bicchier d’acqua, e ricordo ancora perfettamente gli attacchi al trotzkismo del maoista Kostas Mavrakis e le difese appassionate del trotzkismo di Daniel Bensaid e di Alain Brossat. Il livello della polemica non era assolutamente basso, ed era comunque più alto delle polemiche ideologiche di oggi. Certo, oggi quel linguaggio settario appare insopportabile, ma nel contesto culturale del tempo rifletteva la rispettiva convinzione sincera di “incarnare il senso della storia”, e di non poter fare sconti agli avversari.
Si trattava ovviamente di falsa coscienza necessaria. Nessuno di noi incarnava il senso della storia. Stavamo mettendo in scena una rappresentazione di un ciclo politico e storico che si stava chiudendo, non certo di un ciclo politico e storico che si stava aprendo. Presto sarebbero venuti il post-moderno, i nouveaux philosophes sponsorizzati come i deodoranti dalle grandi catene dei giornali imperialisti e sionisti, il “pensiero debole” che sosteneva la tesi “fortissima” dell’insuperabilità storica del capitalismo, la retorica sulla “perdita dei fondamenti” che lasciava come unico fondamento il valore di scambio delle merci, eccetera, eccetera.
Il conflitto teorico fra trotzkismo e maoismo non poteva che avere come proprio asse costitutivo fondamentale la questione della natura sociale dell’URSS e del socialismo reale. Il maggiore teorico trotzkista della seconda metà del Novecento, il belga Ernest Mandel, spese tesori di sapienza per confutare le tesi di Paul Sweezy e di Charles Bettelheim sulla natura degli stati socialisti. Ma qui secondo me il maoismo mostrò la sua sostanziale superiorità. Se esaminiamo ad esempio la prima produzione “filologica” di La Grassa nei primi anni Settanta vediamo che solo il maoismo occidentale permise un vero “ritorno critico” ai concetti basilari di Marx e della sua visione del modo di produzione capitalistico.
In questo contesto ovviamente l’importanza di Louis Althusser e della sua scuola non può essere sottovalutata. Althusser non era certo formalmente “maoista”, ed era anzi un iscritto al PCF filosovietico, di cui sperò invano di diventare il teorico di riferimento. Se questo ruolo di principale teorico di riferimento toccò a Lucien Sève, e non ad Althusser, ciò fu dovuto al fatto che Sève era disposto a fornire una sintesi eclettica e non dirompente, mentre Althusser, grande pensatore radicale, era potenzialmente ingestibile ed incontrollabile. In ogni caso, il maoismo occidentale comprese ben presto che Althusser era il suo principale teorico di riferimento, mentre il trotzkismo nel suo complesso ignorò sempre Althusser, non riuscendo neppure a capire che cosa diceva e perché era importante. Dal momento che la grammatica teorica del trotzkismo era intessuta di economicismo e di storicismo, non poteva certo accorgersi che la critica all’economicismo ed allo storicismo era il presupposto per affrontare la devastante crisi teorica complessiva del marxismo stesso.
In Italia l’egemonia culturale del maoismo sul trotzkismo, evidente negli anni fra il 1968 ed il 1976, portò ad un passaggio diretto al maoismo da parte di noti intellettuali trotzkisti (e ricordo qui solo Luigi Vinci ed Augusto Illuminati). Se questo avvenne, non era certo per ragioni personali o opportunistiche, o perché c’era la seduzione esotica della rivoluzione culturale cinese. Non a caso (e scrivo questo senza nessuna malizia e senza nessuna illusione, ma per solo completezza storica) gli stessi teorici della lotta armata delle Brigate Rosse, quando dovettero sistematizzare teoricamente la loro concezione del marxismo, furono costretti a ricorrere alle categorie elaborate dal maoismo occidentale (e si veda il significativo documento L’Ape e il Comunista pubblicato dalla rivista “Corrispondenza Internazionale”).
Con questo, lo dico e lo ripeterei mille volte, non affermo assolutamente che l’ideologia dominante nel movimento della lotta armata in Italia degli anni Settanta è stata il maoismo occidentale. Sarebbe un falso storico. Non è così. A mio avviso l’ideologia dominante della lotta armata è stata una forma di operaismo, nella doppia variante partitica (Brigate Rosse) e spontaneistica (Prima Linea). Con la mia nozione di maoismo occidentale tutto questo non c’entra niente. Ho solo voluto segnalare un particolare interessante.
20. Nel paragrafo precedente ho sostenuto che in Italia, a cavallo fra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, il maoismo teorico è riuscito ad avere l’egemonia sul trotzkismo. A parte l’evidenza documentabile dei “flussi di uscita” di dirigenti e di militanti dal precedente trotzkismo verso forme di maoismo, più eclettiche come nel caso di Luigi Vinci e più rigorose come nel caso di Augusto Illuminati (e penso rispettivamente alle organizzazioni Avanguardia Operaia ed Avanguardia Comunista), c’è l’evidenza inconfutabile del matrimonio fra l’althusserismo italiano (di cui ovviamente La Grassa resta la figura centrale) ed il maoismo.
E tuttavia in Italia, per ragioni storiche che richiedono ovviamente un’analisi particolare (che personalmente ho ripetutamente svolto in altre sedi fino dal 1982), è stato l’operaismo l’ideologia dominante nella sinistra fuori dal PCI, e lo è stato in misura incomparabilmente più grande di quanto non lo siano stati il trotzkismo ed il maoismo. Non c’è qui lo spazio per fare delle ipotesi fondate. Certo, il ruolo di Raniero Panzieri nei suoi ultimi otto anni di vita (1956-1964) è stato molto importante (e si veda l’importante numero monografico a lui dedicato in “Aut Aut”, n. 149-50, 1975). Ma Panzieri è ancora un teorico e militante classico, non il “fondatore” dell’operaismo. Personalmente, tendo ad attribuire questo discutibile merito a Mario Tronti, la cui bibbia teorica è quell’Operai e Capitale pubblicato da Einaudi negli anni Sessanta. Le ragioni dell’egemonia operaistica in Italia sono certamente molte, dalla presenza dell’operaio-massa di origine contadina nelle grandi fabbriche fordiste del Nord ed a Torino in particolare fino alla sotterranea continuità del soggettivismo del pensiero di Giovanni Gentile. Ed infatti così come in Gentile la soggettività filosofica costituisce il mondo con un suo atto originario fondativo, così nell’operaismo la soggettività operaia costituisce il rapporto di capitale con il comportamento della sua composizione di classe. Vorrei che il lettore avesse ben chiaro questo retroterra filosofico, perché anche nell’ultimo libro di Toni Negri Impero lo schema teorico è rimasto lo stesso, e la soggettività delle moltitudini biopolitiche disobbedienti e desideranti continua a costituire il mondo in modo “teurgico” ed “ontologico”.
Detto in modo telegrafico, l’egemonia dell’operaismo nelle sue varie versioni si spiega con il fatto che Togliatti aveva creato una vera e propria Metafisica del Partito, ed il solo modo di contrapporsi simbolicamente in modo integrale a questa Metafisica del partito era quello di costruire una speculare Metafisica della Classe. Al marxismo come storicismo (Togliatti) era così contrapposto il marxismo come sociologia (Rieser, Panzieri, Tronti, Asor Rosa, eccetera). In questo contesto “totalitario” le due ideologie del trotzkismo e del maoismo potevano trovare solo uno spazio molto ridotto, ed infatti così avvenne. Si aggiunga a questo un fatto di lunga durata, e cioè la tradizionale indifferenza italiana per il dibattito ideologico serio, che non a caso si sviluppò molto di più in Francia ed in Germania.
L’operaismo fece poca teoria politica, ma fece molta cultura politica. È interessante notare che formalmente il gruppo di Potere Operaio si sciolse già nel 1973, ma quando a partire dal 1977 risorse la cosiddetta Autonomia il modello teorico operaistico rinacque tale e quale senza sostanziali cambiamenti. Il passaggio dall’operaio-massa al cosiddetto operaio-sociale è infatti un puro travestimento, così come lo sono del resto le odierne “moltitudini”. Un proverbio russo dice: non ha imparato niente, non ha dimenticato niente. L’operaismo non impara mai niente e soprattutto non dimentica mai niente.
Agli occhi dell’operaismo, che pretendeva sempre di aderire (in buona compagnia di Kautsky) ai “punti alti dello sviluppo capitalistico”, il maoismo era una forma di terzomondismo buono per i contadini straccioni senza terra. Anche in questo caso il passaggio dall’eurocentrismo all’americanocentrismo è molto breve, visto che per chi ignora il resto del mondo l’America è solo l’ultimo stadio di realizzazione dell’Europa. Ed infatti se vogliamo proprio essere “occidentalisti” tanto vale esserlo fino in fondo, ed abbandonare Parigi e la lingua francese per New York e la lingua inglese. I grattacieli sono più alti, il melting pot etnico è ancora più pittoresco, il cinema è ormai completamente virtuale.
21. Nei tre precedenti paragrafi ho cercato di “situare” il maoismo europeo nel contesto concorrenziale di altre formazioni ideologiche rivali (il comunismo togliattiano, il trotzkismo ed infine l’operaismo italiano). Dico subito che questo è solo l’aspetto superficiale e poco rilevante della questione del maoismo occidentale. Oggi la sola questione veramente rilevante sta nel chiedersi il perché della sua sostanziale incapacità nel realizzare una vera rivoluzione teorica di paradigma all’interno del marxismo, di cui forse c’erano già alcuni presupposti.
22. Come ho già sostenuto in uno scritto precedente (ed a questo complementare) il trotzkismo teorico non poteva diventare la matrice di un rinnovamento radicale e qualitativo del paradigma marxista, per il semplice fatto che il trotzkismo è solo l’aggiornamento coraggioso di un modello teorico classico della Seconda Internazionale (più esattamente, della sua terza variante di sinistra, dopo quelle di Georges Sorel e di Rosa Luxemburg). Questo modello teorico è una teoria di “media portata” (middle-range theory), che non può portare fino in fondo la sua rivoluzione scientifica, unica soluzione ad una crisi scientifica (per usare la corretta terminologia di Kuhn). Come il bordighismo e l’anarchismo, ed ancora più di loro, il trotzkismo può solo riprodurre all’infinito il proprio modello, pagando peraltro il prezzo di una continua catena di scissioni, dovute al fatto che è impossibile dedurre una tattica politica mondiale unitaria da un corpo dogmatico di assunzioni teoriche risalenti nel migliore dei casi agli anni Trenta del Novecento.
Dal comunismo maggioritario di origine staliniana non ci si può aspettare proprio nulla, ed infatti non è venuto fuori proprio niente, se non un patetico e riluttante continuo scivolamento prima nella socialdemocrazia e poi direttamente nella gestione politica della riproduzione capitalistica ed imperialistica. Visti a distanza di due decenni, i tentativi di Giuseppe Vacca di “dimostrare” il carattere “rivoluzionario” della linea di Palmiro Togliatti e di Enrico Berlinguer appaiono come un gioco di società della media borghesia meridionale in vacanza. Il grande Antonio Gramsci può essere stiracchiato da tutte le parti, ma se si continua a sostenere che ci vuole il Moderno Principe che dirige i suoi Intellettuali Organici per vincere una Guerra di Posizione allora tanto vale abbandonare questa cupa caserma per unirsi agli spinelli dei disobbedienti desideranti. Pietro Ingrao, persona squisita che ho avuto l’onore di conoscere personalmente ad Urbino, è certamente stato un buon poeta ciociaro minore, ma l’idea che sia stato anche un “teorico” può venire solo in testa a chi non sa neppure che cosa sia veramente una “teoria”.
Le cose stanno diversamente per il maoismo. Per comodità del lettore, ripeto qui i due punti veramente rivoluzionari del suo paradigma. In primo luogo, il fatto di aver capito che la storia universale ha un andamento dialettico multilineare e non unilineare. Questo significa rompere con tutto il marxismo della Prima, Seconda, Terza e Quarta Internazionale, e con il modello di esportazione e di generalizzazione occidentalistica per cui il proletariato di fabbrica diventerà per successivi allargamenti l’intera umanità. In secondo luogo, il fatto di aver capito che di per sé il partito comunista, se muta la sua linea politica e cessa di avere un orizzonte strategico, è una forza “borghese” (cioè capitalistica ed imperialistica) esattamente come le altre, e quasi sempre peggiore delle altre perché formata da recenti arricchiti che erano poco prima dei poveracci con le pezze al culo, e che si portano dietro tutta la loro fame pregressa di barche da diporto e di scarpe di lusso.
Il lettore non dica che è poco. È moltissimo. Chi capisce che la storia del mondo non è unilineare ma multilineare e che i comunisti degenerati sono il personale politico ideale per la gestione capitalistica, in quanto si tratta di burocrati nichilisti privi di coscienza infelice, e del tutto vaccinati da ogni tentazione ideologica di contestazione avendola già metabolizzata in precedenza, ebbene costui ha già capito il 50% di ciò che è necessario per effettuare una rivoluzione scientifica sulla base del marxismo, o almeno dei suoi spunti migliori.
23. Il maoismo si è però fermato a questo 50%, e non ha saputo andare avanti, per ragioni evidentemente profonde ed ineludibili. Ho richiamato prima quelli che per me restano i due nomi più significativi del maoismo occidentale europeo, Charles Bettelheim e Gianfranco La Grassa, ma non c’è qui lo spazio per una analisi seria dei loro contributi. Dirò invece come la penso sulla questione teorica fondamentale, anche se lo dirò in modo assolutamente telegrafico ed un po’ apodittico.
Bisogna evidentemente partire dalle due acquisizioni ricordate (carattere multilineare dello sviluppo storico e natura integralmente capitalistica dei partiti comunisti degenerati). Ma si tratta solo di un punto di partenza, necessario ma non sufficiente. Bisogna andare più avanti. Se infatti si continuerà a mantenere la centralità metodologica della teoria del valore, da cui “dedurre” economicamente l’intero modo di produzione, allora non si faranno veri progressi. Se si continua a pensare che la filosofia e la conoscenza filosofica sono cose da preti e da borghesi idealisti, e si pensa che basti un ticket scienza-ideologia per capire il mondo, allora non si faranno veri progressi. Se si continuerà a coltivare la leggenda della capacità rivoluzionaria “modale” della classe operaia di fabbrica, una capacità storicamente smentita in modo clamoroso nell’ultimo secolo in tutto il mondo, allora non si faranno veri progressi.
Ho qui ricordato solo tre punti, che da soli riempirebbero un libro di mille pagine se solo li si volesse analizzare seriamente. Ma ciò che conta è capire che il maoismo non li poteva e voleva affrontare. La teoria del valore doveva restare intoccabile, perché Marx e Lenin lo avevano detto. La centralità del soggetto operaio e proletario doveva restare intoccabile, perché Marx e Lenin lo avevano detto. Il carattere solo ideologico della conoscenza filosofica, irrilevante e vuota rispetto alla sola scienza positivisticamente deificata, doveva restare intoccabile, perché Marx e Lenin lo avevano detto.
In questo modo, ed è stata una cosa tragica, il maoismo si è fermato sulla porta. Fermandosi sulla porta, ha finito con il subire la stessa sorte del trotzkismo, diventando una teoria di “media portata”, una teoria che non vuole per paura andare fino in fondo. Io capisco benissimo questa paura. Chi abbandona la costa per il mare aperto rischia veramente di naufragare. Ma chi non la abbandona non naufragherà certamente mai, ma non scoprirà neppure mai niente.
24. Con queste ultime osservazioni sapienziali le mie note critiche sul maoismo sono terminate. Tuttavia, prima di chiudere, voglio almeno accennare ad un problema che a rigore con il maoismo non c’entra niente. Si tratta della Cina contemporanea, del suo ruolo nel mondo, della sua natura sociale. Il tema esiste, ed eluderlo non servirebbe a niente.
25. Per chiarezza, esporrò quattro diverse posizioni sulla Cina. La prima è l’immagine che ossessivamente da circa un ventennio i mass media occidentali danno della Cina, immagine che è solo una metafora ideologica della presunta stupidità di chi crede ancora ad un mondo diverso, non-capitalistico. La seconda è l’opinione (da me condivisa) di chi sostiene che in Cina è ormai assolutamente dominante il modo di produzione capitalistico. La terza è di chi invece ritiene che non si debbano trarre impressioni troppo superficiali ed affrettate, e che invece si possa ancora parlare di socialismo in Cina, ovviamente all’interno di un quadro di pensiero che deve essere chiarito ed esplicitato. La quarta posizione, infine, è la mia personale, con cui chiuderò questo mio contributo di discussione sul maoismo.
26. L’immagine ossessiva che i media capitalistici danno della Cina da circa un ventennio (dalle cronache economiche ai giornali femminili, dalle pagine culturali ai commenti politici) non ha a mio avviso pressoché nulla a che fare con la Cina, ma è solo un rovesciamento ideologico integrale dell’immagine mitica che della Cina (e dell’Albania) davano i suoi entusiasti ammiratori rivoluzionari degli anni Sessanta e Settanta. Si tratta unicamente di una metafora (la Cina come metafora) non tanto dell’impossibilità del socialismo, quanto della stupidità del socialismo stesso. Riassumerò qui a modo mio questo discorso ossessivo, privo di qualunque valore teorico, ma molto efficace sul piano retorico.
I cinesi sono come noi! Vogliono solo farsi i soldi! Vogliono solo abbuffarsi di anatra laccata e di involtini primavera! Vogliono solo i telefonini! Vogliono solo i Mac Donald! Vogliono solo giocare con i videogiochi! Vogliono solo poter scopare senza moralismi come tutti gli umani, gli animali e gli organismi cibernetici del mondo! Vogliono solo gargarizzarsi di Coca Cola alla faccia del Vecchio Babbione Rompiballe e del suo comunismo ascetico-contadino! Vogliono solo costruire fabbriche capitalistiche alla faccia dell’inquinamento e dell’ambiente! Vogliono solo fare affari, e per questo non gli piace il Dalai Lama che è invece spiritualità incarnata new age californiana! Chi crede ancora al socialismo è un cretino! Chi crede ancora al comunismo è un coglione!
Da circa vent’anni è questo il contributo dell’immagine capitalistica del mondo alla questione della Cina. Chi si accontenta, goda.
27. La discussione marxista, sia pure in sordina e quasi clandestina, non ha però smesso di occuparsi della Cina del dopo-1976. In proposito, per farla breve, cito soltanto la sobria posizione di Maurizio Brignoli (cfr. Il modo di produzione dominante in Cina, in “La Contraddizione”, n. 54, giugno 1996). In poche chiarissime pagine, a mio avviso, Brignoli imposta correttamente la questione.
La Cina è oggi una formazione economico-sociale specifica, in cui il modo di produzione capitalistico non è l’unico, ma è quello che progressivamente sta diventando dominante. La pura proprietà pubblica dei mezzi di produzione non è ovviamente un indice di socialismo, altrimenti l’IRI di Prodi e l’ENI di Mattei sarebbero stati fattori storici di transizione al socialismo. Nello stesso tempo, la regolazione macroeconomica dell’economia da parte dello stato non è un fattore di socialismo, perché ciò che conta è la natura dei rapporti sociali (e non statali) di produzione. Secondo Brugnoli, il passaggio dalla cosiddetta “economia mercantile pianificata” alla vera e propria “economia socialista di mercato”, sanzionato anche ufficialmente a metà degli anni Novanta, deve essere inteso come l’approvazione politica alla diffusione capillare dei rapporti di produzione capitalistici (dal lavoro salariato a cottimo e flessibile alla formazione di uno strato di contadini ricchi nelle campagne, fino all’integrale apologia del profitto d’impresa). certo, si tratta di una formazione economico-sociale a dominanza capitalistica diversa dagli USA e dall’Inghilterra, dal Giappone e dalla Germania, eccetera, ma comunque sempre di capitalismo si tratta.
28. Un punto di vista diverso, ed anzi opposto, è quello di chi ritiene che si debba continuare a parlare di socialismo in Cina. Un testo esemplare per chiarezza di questo approccio è quello di Domenico Losurdo (cfr. Dialettica e Rivoluzione, in “Marxismo Oggi”, n. 1, 2002). Losurdo sviluppa un sobrio esame comparativo e “contrastivo” delle due esperienze storiche della Russia e della Cina, con una critica politica sia dello stalinismo sovietico sia della rivoluzione culturale cinese maoista. In entrambi i casi, la critica viene fatta in base alla categoria di “utopismo”, cioè di progetto utopico di fatto irrealizzabile, e che per essere realizzato richiede necessariamente l’uso di strumenti dispotici ed illiberali, destinati prima o poi a collassare. Da studioso di filosofia, faccio notare che si tratta di una ripresa della classica accusa di Hegel a Rousseau ed a Robespierre. La correzione sociale ed economica intrapresa dalla Cina dopo il 1976 viene così valutata positivamente, e questo non solo per una analogia con l’economia mista della NEP sovietica 1921-1929, ma per una ragione di fondo, legata alla lentezza del tempo storico della possibile transizione fra capitalismo e socialismo su scala mondiale. Se infatti questa transizione non può essere pensata frettolosamente a livello di decenni, ma deve essere pensata a livello di secoli (e Losurdo è qui giustamente severo verso il dilettantesco programma di Krusciov di “transizione al comunismo” in URSS), allora la scelta cinese di sviluppare prima di tutto le forze produttive è sensata, anche perché si colloca in un mondo politicamente turbolento in cui gli USA vogliono imporre con metodi sanguinari (e falsamente umanitari) il loro impero militare.
29. Non vorrei sembrare un opportunista ed un conciliatore (cosa che non è nel mio carattere, come chi mi conosce sa bene), ma personalmente penso che sia Brugnoli sia Losurdo abbiano ragione, anche se ognuno di loro ha ragione solo su di una metà del problema. Brugnoli ha ragione nel parlare di dominanza del modo di produzione capitalistico all’interno della formazione economico-sociale cinese, e nel rilevare che il capitalismo in Cina si allarga sempre più anziché restringersi. Per giungere a questo giudizio non c’è nessun bisogno di adottare il punto di vista della sinistra maoista della rivoluzione culturale cinese 1966-1976 (la cosiddetta “banda dei quattro”), punto di vista che certamente Losurdo considererebbe estremista ed utopista, ma bastano Marx, Engels e Lenin. D’altra parte, Losurdo ha ragione nel rilevare che oggi la contraddizione principale non è quella di tipo “capitalistico” (l’esistenza di strutture di classe in paesi che ufficialmente dichiarano di essere socialisti), ma è quella di tipo “imperialistico”. Oggi bisogna fermare il monopolio militare degli USA. Questo è il 95% del problema del mondo, il resto è importantissimo, ma viene dopo. Nel linguaggio di Mao, questo si chiama distinguere la contraddizione principale da quelle secondarie. Su questo punto (la gerarchizzazione corretta delle contraddizioni) mi considero tuttora un allievo di Mao Tse Tung.
Io do quindi per scontato che in Cina si stanno sviluppando contrasti di classe, e che al potere ci sia, in linguaggio maoista, la “borghesia” infiltratasi nel partito comunista. Del resto, in questo momento nel mondo società non classistiche semplicemente non esistono. A Cuba, una delle società meno classiste del mondo, chi vive di dollari fa parte di un gruppo sociale oscenamente privilegiato. ب una pura questione terminologica parlare di “classe” oppure no. Ciononostante, il mio appoggio e la mia solidarietà a Cuba sono egualmente incondizionati, ma non mi si racconti che chi aspetta l’autobus per un’ora fa parte della stessa “classe” di chi traffica in dollari con i turisti occidentali. Brugnoli ha ragione dal punto di vista marxiano dei rapporti di produzione. Ma Losurdo ha ragione nel rilevare che oggi una Cina economicamente e militarmente forte è un fattore decisivo per la pace mondiale, e lo sarebbe anche se ci fossero al potere i Ming ed i Chin.
30. Bene, questo è tutto. Se si potesse anche cominciare a discutere, sarebbe ancora meglio. Ma per farlo bisogna abbandonare appartenenze ed identità clericali di tipo trotzkista e maoista. Ma conosco i miei polli, e so bene che le probabilità sono le stesse di quelle che aveva Trapattoni di vincere i mondiali di calcio.