Nel labirinto delle scuole filosofiche contemporanee. A partire dalla bussola di Luca Grecchi

Gennaio-dicembre 2012.1

1. Questo breve saggio ha come contenuto una ricognizione “a ruota libera” delle scuole filosofiche di oggi, italiane ed internazionali. Il punto di partenza, che però verrò rielabo-rato in piena autonomia, trova origine in due saggi del filosofo lombardo Luca Grecchi, Il presente della filosofia italiana (Petite Plaisance, Pistoia 2007, pubblicato con una mia postfa-zione) e Il presente della filosofia mondiale (Petite Plaisance, Pistoia 2012, pubblicato con una postfazione di Giacomo Pezzano). In questo commento utilizzerò il codice interpretativo di Grecchi come bussola, ma vi aggiungo anche considerazioni e commenti non presenti nei suoi scritti. Le “responsabilità ermeneutiche”, ovviamente, sono mie e soltanto mie.

2. Iniziamo con una opportuna citazione di Umberto Curi (cfr. “il manifesto”, 22/04/2012): «In questione è il modo di concepire la filosofia, o meglio di praticarla. Se, ed in che misura ed a quali condizioni, si debba riabilitare il riferimento alla realtà versus l’interpretazione, non è un problema filosofico, ma corrisponde piuttosto a quella variante spuria della filosofia – pressoché esclusivamente egemone nelle istituzioni in cui si ha an-che la pretesa di insegnarla – secondo la quale essa vive non come interrogazione radicale intorno a ciò che riguarda la condizione umana (vale a dire come è stata intesa fin dalle origini), ma come metadiscorso, come agone fra teorie, competizione fra autori (le “critiche” di Aristotele a Platone, o di Hegel a Fichte, o di Heidegger a Kant), conflitto fra “ismi”, appunto. Dove si è persa ormai ogni traccia di quell’originario domandare, senza il quale la filosofia diventa disciplina fra le altre, o peggio ancora materia di studio».

L’occasione estrinseca dell’intervento di Curi è un intervento sul dibattito apertosi sul «new realism» (la realtà c’è, esiste veramente, e bisogna salvarla dalle manipolazioni dei populisti e dei negazionisti) e cosiddetti “ermeneutici” (non esiste una realtà, ma solo una libera miriade di interpretazioni). Ovviamente, si tratta di un dibattito truccato, impostoci dalle cosiddette “pagine culturali” dei quotidiani “laici”. Ma la frase di Curi, al di là della chiacchiera manipolativa da cui prende origine, afferma una profonda verità. La filosofia è nata fra gli antichi Greci come interrogazione radicale sulla condizione umana, e non cer-tamente come metadiscorso di secondo grado e come conflitto agonale fra interpretazioni svoltosi necessariamente con una terminologia specialistica. Gli studenti diciottenni che si iscrivono a filosofia, e vorrebbero essere liberamente introdotti a questa interrogazione radicale, trovano soltanto metadiscorsi in massima parte elaborati da personaggi nichili-sti e relativisti, scettici liberali disincantati, che duellano fra di loro a colpi di fioretto e di allusioni furbesche, e che (unico caso in tutte le facoltà universitarie, sia scientifiche che sociali) disprezzano e irridono lo stesso oggetto del loro insegnamento, comunicando su-bito che la nozione di “verità”, a meno che non si limiti a connotare una corrispondenza

cosale o una certezza verificabile e/o falsificabile, è un residuo metafisico ridicolmente estraneo sia alla modernità (cioè all’illuminismo pietrificato, mummificato ed eterizzato), sia alla post-modernità (cioè al loro personale disincanto generazionale, addomesticato nel Politicamente Corretto).

Si può condividere o non condividere, nell’essenziale o nei dettagli, il profilo di Luca Grecchi. Ma una cosa è certa: la sua filosofia non è un metadiscorso, ma è un discorso sulla condizione umana. Chiediamoci subito: Luca Grecchi ha un codice filosofico riconoscibile, e non riducibile a sofisticato metadiscorso?

3. Penso di sì. E mi si permetta di citare per una volta un filosofo greco (moderno), Panayotis Kondylis, di cui traduco un’affermazione, che secondo me ci avvicina al codice di Grecchi: «Nella misura in cui comprendevo sempre di più i meccanismi di riproduzione del pensiero ideologico e del pensiero utopico, l’antichità classica mi ha fatto avvicinare ad un suo caratteristico segno distintivo: la mancanza di escatologia e di concezioni lineari del divenire storico, le quali come è noto hanno una provenienza ebraico-cristiana, e sono poi state secolarizzate sia dal marxismo socialista sia dal liberalismo capitalistico».

Come è noto, il profilo filosofico di Grecchi è il risultato di un progressivo avvicinamen-to ad un segno distintivo caratteristico del pensiero antico, che egli connota come metafisi-ca umanistica avente come fondamento la natura umana, concepita non solo come mente (nous, mind), ma come anima (psychè), fondamento della verità. Questo codice tiene dialogi-camente conto di ciò che storicamente è venuto dopo questa caratteristica distintiva antica (la mancanza di escatologia e di concezione lineare della storia, non importa se di “destra” o di “sinistra”), e cioè il cristianesimo, l’illuminismo, l’idealismo tedesco ed il marxismo, ma ritiene tutti questi elementi “aggiuntivi”, e non “fondanti”, nel senso di non fondamen-tali. Si tratta di un codice da cui si può partire per giudicare liberamente altri codici, altri linguaggi ed altri metalinguaggi.

4. Ho riferito a Grecchi l’affermazione di Kondylis, ma qui il diavolo si nasconde nel dettaglio, e può dar luogo ad equivoci. C’è in Italia un pensatore dotato, assai più noto di Grecchi, che si chiama Umberto Galimberti, e che sottoscriverebbe certamente l’affer-mazione di Kondylis. Galimberti non perde infatti occasione, sia in libri specialisti che in settimanali di gossip femminili (ad esempio l’inserto Donna di ”La Repubblica”, palestra di manipolazione post-moderna realizzato su carta patinata), per magnificare la sapienza “ciclico-naturalistica” greca, che egli contrappone virtuosamente non solo al cristianesi-mo, ma anche all’escatologia “autoritaria” marxista, in altre parole al comunismo. In altri termini, è certamente corretto mettere in guardia dagli inganni della futurologia cristiana, moderna e post-moderna, sia nella variante escatologica che nella variante scientistico-positivistica (variante solo apparentemente in conflitto, ma in realtà in sinergia segreta antitetico-polare), ma non bisogna poi gettare via il bambino con l’acqua sporca, e cioè il contenuto solidale del comunismo e l’involucro messianico e/o positivistico in cui da duecento anni è “incartato”.

Sta qui la differenza radicale del “ritorno ai greci” di Galimberti e di Grecchi. Il ritorno ai greci di Galimberti è del tutto innocuo, ed infatti può tranquillamente essere ospitato nei settimanali di gossip femminili (dico questo senza la minima traccia di condanna morali-stica o pauperistica, ma in piena “oggettività”), in quanto si tratta della solita e ben nota riproposizione dell’innocuo eterno ritorno del sempre eguale nicciano contrapposto alle pretese totalitarie di “verità” di Hegel e di Marx.

Grecchi invece è ad un tempo “greco antico” e “comunista”. Ma qui non c’è soltanto una differenza con Galimberti, quanto qualcosa di immensamente più profondo ed inte-ressante.

5. È bene infatti indugiare sul particolare rapporto fra Grecchi e Galimberti, anche perché Grecchi vi ha dedicato ben tre saggi, una intervista (cfr. Filosofia e biografia), un a monografia analitica ed articolata (cfr. Il pensiero filosofico di Umberto Galimberti), ed infine un numero monografico di rivista (cfr. Koiné, 1-2, 2005). Dal momento che personalmente condivido il suo approccio, in questa sede mi limiterò ad alcune considerazioni personali.

Galimberti manda costantemente alcuni messaggi ai suoi lettori, facilmente decifrabili, e questo è un merito che gli può far perdonare molte cose. In coppia con alcuni nomi on-nipresenti nella stampa detta “laica” (ricordo qui solo Corrado Augias e Eugenio Scalfari, entrambi giornalisti con pretese filosofiche) non perde occasione per denunciare l’autori-tarismo del cattolicesimo, ma mentre Scalfari gioca a fare l’illuminista scettico e privilegia Montaigne e Voltaire, e Augias non perde occasione per insinuare che Gesù era un uomo come gli altri, e per di più gay, Galimberti vola indubbiamente più in alto, in quanto mo-bilita contro la metafisica cristiana ed i suoi succedanei marxisti imperfettamente laicizzati (e nel frattempo diferiti nella lunga ruminazione dal PCI al PD) il grande pensiero ciclico-naturalistico greco e soprattutto la diagnosi infausta di Heidegger sul Dispositivo Tecnico Intrascendibile (tradurrei così il tedesco Gestell, in quanto i termini Imposizione o Impianto mi sembrano posticci ed incomprensibili).

Appare ora chiaro il perché del fatto che Grcchi insiste tanto nel rilevare che il pensiero greco è umanistico e non naturalistico (almeno come fondamento), in quanto l’insistenza sul pur esistente naturalismo (in quanto non creazionistici e non escatologici i greci erano necessariamente anche “naturalistici”), porta poi ad irrigidire questa cosmicità anonima ed impersonale in una sua secolarizzazione fatalistica. Il cristianesimo viene bensì “saltato”, ma non si ritorna per nulla ad una grecità “umanistica”, quanto ad una grecità ieratica ed innocua, la stessa peraltro di Severino.

È un fatto che il comunismo moderno, così almeno come Marx lo ha concepito e pro-posto, senza sistematizzarlo e coerentizzarlo, e soprattutto senza dargli alcuna fondazione filosofica veritativa (punto su cui Grecchi non smette di insistere, fino al punto di avermi convinto, mentre al principio ero riluttante), è nato all’interno di una unificazione concet-tuale del tempo storico, che ha come premessa di fatto l’unificazione monoteistica della tradizione ebraica e cristiana (senza trattino). Coloro che hanno ridotto il comunismo ad eresia gnostica (Jonas, ma anche Del Noce) a mio avviso sbagliano, perché anche ammesso che elementi gnostico-escatologici si trovino in alcuni interpreti filosofici del comunismo (Benjamin e Bloch in primo luogo), l’impianto fondamentale del comunismo marxiano è bensì futurologico, ma non è escatologico, perché si innesta su di una tradizione prima illuministica e poi hegeliana.

Galimberti comunica quindi due idee fondamentali: primo, che i greci, in quanto cosmi-co-naturalisti, erano meglio dei cristiani umanistico-escatologici, e di conseguenza sono meglio anche dei marxisti, che sono dei cristiani fanatizzati ed imperfettamente secola-rizzati; secondo, che la diagnosi di Heidegger sull’avvento del Dispositivo Tecnico che si impadronito del mondo non permette e non consentirebbe (oltre a non far ritenere au-spicabile) un rovesciamento rivoluzionario comunitario o egualitario. Si tratta di due tesi fortissime, che semplificano e rendono comprensibili lo spirito del tempo promosso dalle oligarchie globalizzate che ci governano. In questo senso l’essere arrivato a fare “consu-lenza filosofica” in settimanali di gossip femminili non deve essere inteso come un insulto, o come una stoccata maligna, ma come un riconoscimento storico. Gli oligarchi sanno che cosa può essere pericoloso e che cosa invece è innocuo.

6. Apro qui una lunga parentesi a proposito del rapporto fra il pensiero di Grecchi, Marx e il marxismo. Grecchi è infatti un esempio di comunista non marxista, in cui il co-munismo viene fondato sulla natura umana come struttura ontologica permanente di una metafisica umanista non cristiana, non illuminista, non idealista, non positivista e non sto-ricista, laddove il comunismo marxiano e poi il successivo comunismo marxista ignorano (o considerano solo implicitamente ed in modo indiretto) la fondazione filosofica sulla natura umana (l’anima nel linguaggio di Grecchi) come struttura ontologica permanente della metafisica umanistica.

Non può essere questa la sede per un’ennesima ricapitolazione delle interpretazioni di Marx e della storia del marxismo (in proposito, chi scrive dispone di un’ampia bibliografia critica). Qui possiamo solo richiamare i “fondamentali” teorici del problema, nell’ottica di un orientamento nel labirinto delle scuole filosofiche contemporanee.

Il rapporto di Marx con la filosofia propriamente detta (cioè come ideazione normativa, conoscitiva e veritativa autonoma, non dipendente né dalla religione né dalla scienza nel senso moderno del termine) è stato un rapporto schizofrenico. Da un lato, egli proclama continuamente di volerne abbandonare il terreno in nome di una adesione alla “scienza”, dall’altro questa scienza è impastata di prassi in senso fichtiano, e quindi oscilla fra i due incompatibili significati di scienza filosofica della totalità in senso hegeliano e di scienza necessitaristica previsionale in senso positivistico. La sua critica dell’economia politica (che non è e non è mai stata una scuola economica di “sinistra” in senso ricardiano e poi key-nesiano) è il prodotto di un innesto della teoria idealistica dell’alienazione sulla teoria di origine utilitaristica del valore-lavoro. In ogni caso, al netto di altri pur interessanti parti-colari, il comunismo di Marx è un prodotto della storia, e viene pensato all’interno di una filosofia unificata ed astrattizzata del tempo storico, a parere di Koselleck inesistente prima della seconda metà del Settecento.

Così come Colombo scoprì l’America senza volerlo, perché in realtà voleva sbarcare nelle Indie, nello stesso modo furono gli stessi errori prognostici e le stesse penose in-sufficienze filosofiche di Marx a favorire il prodigioso accoglimento delle sue teorie. La socialdemocrazia tedesca fra il 1875 e il 1895 non sarebbe mai stata disposta ad accogliere una teoria in forma filosofica, perché il clima positivistico del tempo favoriva l’idea (diffu-sissima anche oggi) che la filosofia è solo una perdita di tempo di borghesi pigri e culturalistici, laddove la “scienza” è una chiave che apre automaticamente tutte le porte. In realtà Marx fece due prognosi che allo stato attuale dei fatti si sono rivelate errate: primo, che la classe borghese-capitalistica (da Marx erroneamente identificata) sarebbe stata incapace di sviluppare le forze produttive; secondo, che la classe operaia, salariata e proletaria sa-rebbe stata l’avanguardia rivoluzionaria del lavoratore collettivo cooperativo associato in direzione politica del socialismo e del comunismo. Questi due errori prognostici di Marx (assolutamente fisiologici – l’errore è parte integrante del normale processo di ideazione scientifica) sono stati il presupposto per più di un secolo della stessa fortuna del marxismo.

Grecchi mi ha sempre fraternamente ed amichevolmente rimproverato di aver sottova-lutato questa carenza filosofica di Marx e di aver sempre in questo modo “spostato” una interpretazione di fatto storicistica del comunismo, con le inevitabili conseguenze relativi-stiche e nichilistiche. Qui ignoro ovviamente i complimenti e le lodi, perché nel dibattito filosofico, se vuole essere serio, ciò che conta sono le critiche radicali, e non certo le lodi. Il lettore giudichi. Per quanto mi riguarda, ritengo di aver fatto molta strada verso una interpretazione “idealistica” di Marx (la materia di Marx è sempre una metafora, mentre il fondamento è un’idea unificata di storia universale proiettata verso un futuro prevedibile), ma non posso negare di aver fatto una forzatura filologicamente discutibile. Marx non può essere veramente “idealista”, perché non crede nell’autonomia conoscitiva e veritativa dell’ideazione specificamente filosofica, e quindi al massimo il suo “idealismo” è sempre e solo implicito, e non può quindi essere mai veramente coerentizzato. Detto questo, il suo rapporto con Aristotele (Vadée) e con Hegel (Lukács, Fineschi) è sempre stato talmente stretto da poter dire che è stato, controvoglia e con buffi contorcimenti, un grande filosofo della tradizione classica.

Confesso in questa sede che alla fine Grecchi mi ha convinto. Ritengo di aver fatto tanta resistenza non solo e non tanto per le mie lontane origini althusseriane (da cui mi ero già staccato alla fine degli anni Ottanta), ma per aver introiettato per decenni il desiderio di riconoscimento di una (inesistente e fantasmatica) comunità disciplinare di studiosi mar-xisti, per cui mi ero chiuso da solo in una “prigione del pensiero” in cui bisognava ad ogni costo dire, pur praticando professionalmente la filosofia, che la filosofia stessa era un residuo idealistico-religioso nata in un contesto schiavistico indegno della modernità. Non esiste prigione peggiore di quella in cui ci si rinchiude da soli.

7. Oggi Marx sembra tornato di moda, ma non bisogna farsi ingannare dalla superficie. La generazione degli anni Sessanta e Settanta, che aveva trasformato Marx in feticcio ed in ideologo di legittimazione del gruppettarismo (armato e non), ha aderito in larghissima parte ad una sintesi spuria di Lyotard e di Habermas, in cui Lyotard porta in dote il disin-canto post-moderno e Habermas la scolastica liberal-democratica come koinè universitaria europea unificata. Dopo il crollo inglorioso del comunismo storico novecentesco su Marx è sceso un imbarazzato silenzio (Negri, Žižek e Badiou non erano ancora di moda – ci volle il cosiddetto movimento No Global a smuovere un poco le acque), in cui Marx è stato inter-pretato alla Hannah Arendt come precursore tedesco di Pol Pot. Se mi è permesso un breve riferimento autobiografico, ricordo il silenzio e l’emarginazione che personalmente subii fra il 1990 e il 1995 quando pubblicai una serie di libri “marxisti” presso l’editore Vangelista di Milano. Sembrava di essere un automobilista che la domenica sera invece di tornare in città percorre in solitudine la corsia che porta al mare. Gli intellettuali sono una categoria estremamente conformista, che si muove in branco come i banchi di pesci, e generalmen-te vanno tutti in una sola direzione. Poi, dopo il 2001, Marx è diventato il “profeta della globalizzazione”, e dopo la crisi del 2008 ha addirittura assunto la funzione di possibile consigliere economico neo-keynesiano. A questo punto, ma solo a questo punto, un grande editore poteva pubblicare un libro intitolato Bentornato Marx!.

In realtà la situazione è molto peggiore di quanto sembra. Marx, ai suoi tempi, non fu né un anticipatore delle politiche economiche di Keynes né un profeta della globalizzazione, ma fu un “prospettatore” del comunismo come modo di produzione potenzialmente con-tenuto nella dinamica riproduttiva del capitalismo stesso. Ora, questo Marx non sarebbe certamente “benvenuto” all’interno del conformismo colto dei politici, dei gruppi univer-sitari e delle strategie editoriali di massa. Il saggio di Grecchi sui più noti filosofi mondiali contemporanei lo dice, e lo dice in “controluce” analizzando alcuni nomi molto noti.

8. Nel saggio dedicato al presente della filosofia mondiale Grecchi giudica con concisa ma estrema severità alcuni “mostri sacri” della filosofia contemporanea. Chi gliene dà il diritto? E soprattutto, quel è il punto di vista in cui si autocolloca, per legittimare giudizi tanto severi?

Il diritto di giudizio filosofico non ce lo dà ovviamente nessuno. Ce lo prendiamo, come se lo prendevano gli antichi greci praticando la parrhesia, cioè la franchezza del linguaggio. Toccherà al lettore sovrano giudicare se vi è stata prevenzione o presunzione, oppure se la severità del giudizio ha effettivamente toccato un punto reale. Qui non elencherò gli autori che Grecchi discute, ma mo porrò invece con radicalità la domanda già accennata in precedenza: qual è il punto di vista in cui Grecchi si autocolloca, da cui può permettersi giudizi tanto severi?

Per cominciare a rispondere a questa domanda, bisogna prima avere chiaro il panora-ma in cui si situa l’agire filosofico contemporaneo. La riproduzione simbolica della totalità capitalistica collo al vertice gli economisti, che hanno il monopolio delle cose giudicate “serie” (il profitto, il denaro, eccetera), ed in Italia la teologia bocconiana neoliberale globa-lizzata, che ha come organo propagandistico soprattutto il “Corriere della Sera” (laddove “La Repubblica” copre il settore della sinistra politicamente corretta frutto della secolariz-zazione nichilistica del vecchio PCI). I filosofi hanno perduto ogni residuo mandato sociale a partire dalla svolta degli anni Settanta-Ottanta, e l’ultima generazione filosofica ad aver un sia pur limitato mandato sociale critico è stata quella dei Sartre, degli Aron, dei Bloch, comprendendovi anche Althusser e Foucault. A partire da allora la riproduzione univer-sitaria della filosofia pubblicamente riconosciuta ha perso ogni residuo mandato sociale, nonostante i filosofi universitari abbiano ricevuto stabile ospitalità nella pagine culturali della stampa politicamente corretta. I dipartimenti universitari si riproducono con prove mandarinali di citatologia (se possibile in greco antico ed in tedesco, ma fra poco soltanto più in inglese basic), producendo a scadenze quinquennali simulazioni di scuole in conflit-to (si ricordi la citazione di Curi che ho riportato all’inizio di questo saggio). La regola in generale è questa: a differenza della produzione di teoria economica, che è una cosa seria come la medicina e l’ingegneria, la produzione filosofica deve contenere sempre un po’ di critica sociale, purché questa critica venga mantenuta all’interno di compatibilità culturali sistemiche. Il piatto deve essere saporito, ma non eccessivamente speziato. Il lettore deve riconoscere una moderata ed intelligente critica sociale, purché ovviamente sia moderata e non destabilizzante.

Si può fare l’esempio della «società liquida» di Bauman, oggetto di una delle critiche di Grecchi. Il carattere “liquido” del capitalismo permette una moderata presa di distanza dalla apologetica più sfrenata, ma nello stesso tempo si ferma volutamente alla superficie della alienazione capitalistica, ed anzi Bauman non perde mai l’occasione di ribadire che non è sua intenzione spingersi verso una vera e propria critica radicale del sistema stesso. Certo, la critica alla liquidità, in un certo senso, riproduce tecento anni dopo la critica di Locke all’idea di sostanza, rimandando il lettore ad un mondo in cui tutto “circola”, e cir-cola vorticosamente come quell’«equivalente generale” che è il denaro secondo Marx e i marxisti. Mentre il dito dell’economista (Draghi, Monti, eccetera) si leva in alto minaccioso per avvertire che i tempi della pacchia del welfare state sono finiti, l’ammiccare del filosofo ci dice invece che viviamo in un mondo privo di “gravità permanente”, gravità permanen-te che non è altro che la vita sensata, la buona vita (eu zen) di Aristotele.

9. Vorrei tornare alla complementarietà fra Lyotard e Habermas, non solo perché nel suo saggio Grecchi si occupa criticamente di entrambi, ma perché siamo di fronte ad un esempio classico di totale inutilità della tassonomia classificatoria delle scuole filosofiche “ufficiali”. Lyotard è infatti un post-moderno dichiarato (anzi, l’annunciatore epocale dell’avvento dell’epoca postmoderna), mentre Habermas è stato fin dal principio un criti-co radicale del post-modernismo (connotato come pensiero conservatore) in nome di una modernità post-metafisica che comprende Kant e Weber, ma esclude come incorreggibili metafisici Fichte, Hegel e Marx (ed anche i suoi maestri rinnegati post mortem Horkheimer e Adorno).

Il minimo comun denominatore di due pensatori tanto diversi è ovviamente la comune dichiarazione di morte della metafisica classica (sia in variante platonico-aristotelica che in variante hegelo-marxiana) e dell’ideazione filosofica come attività conoscitiva e veritativa distinta dalla cosiddetta “scienza moderna” (da non confondere con il termine greco episte-me, che pure si traduce con “scienza”, ma significa conoscenza fondata e sistematica). Il fat-to che questo minimo comun denominatore “in negativo” venga difeso “in positivo” con argomenti moderni o postmoderni può interessare soltanto le aride tassonomie scolastiche, ma non può nascondere la funzione di legittimazione assoluta del sistema capitalistico in cui ci troviamo. Ed in proposito vorrei soffermarmi su due autori commentati da Grecchi relativamente meno noti di altri, Spaemann e la Nussbaum. Intendo farlo perché voglio farne diventare un’occasione per discutere prima del rapporto fra la filosofia ed il comunismo (inteso come fenomeno storico) e poi del rapporto fra la filosofia ed il capitalismo, inteso come totalità economica e sistemica.

10. Il filosofo cattolico tedesco Spaemann piace a Grecchi perché sostiene la correlazione della verità e della giustizia con la natura umana, fino a rivalutare apertamente il diritto naturale. Spaemann critica anche la teoria e la pratica dell’emancipazione come «processo umano di liberazione senza fine”, e nello stesso tempo mette in guardia contro ogni possibile forma di pericolosa utopia comunista. In questo non ci sarebbe nulla di nuovo, se non il fatto che generalmente coloro che mettono in guardia contro il comunismo lo fanno da posizioni scettiche, relativistiche e nichilistiche. Siamo allora di fronte ad una interessante contraddizione, per cui da un lato Spaemann piace a Grecchi per i suoi richiami ad una concezione ontologica di bene comune e di natura umana, e dall’altro gli spiace per la sua vis anti-utopica ed anti-comunista. Credo che questa possa essere l’occasione per discuteredei rapporti fra comunismo e filosofia.

Al netto di ogni discussione filologica su Marx, Engels e Lenin, di cui diamo per scon-tata nel lettore la conoscenza dei termini fondamentali, i rapporti fra comunismo e filosofia negli ultimi due secoli si sono basati su di un equivoco paradossale. Da un lato, il comuni-smo, superficialmente ateo ed intimamente religioso, è stato il prosecutore storico ideale di lunga durata del cristianesimo, dopo che il cristianesimo ufficiale (in tutte e tre le varianti principali, protestante, cattolica ed ortodossa) è sceso a patti con la cosiddetta “secolariz-zazione”, e cioè con il dominio “laico” della borghesia capitalistica. Dall’altro questo stesso comunismo si è voluto prosecutore delle correnti materialistiche dell’Illuminismo e scienti-stiche del positivismo, dotandosi così di una falsa coscienza antireligiosa del tutto assurda, nella misura in cui la sua corrente sotterranea principale (del tutto indipendentemente dalle affermazioni ateistiche e materialistiche di Marx, per le quali al mercato non spende-rei cinque euro) continuava ad essere la prosecuzione dell’economia politica cristiana del dono contro l’economia politica del profitto (nelle sue varie ed articolate forme storiche).

Questo paradosso oggi è visibile, mentre ammetto che non lo era, e non poteva esserlo, “in corso d’opera”. E così il più grande esperimento religiosi della storia è stato gabellato con la consueta falsa coscienza necessaria degli agenti storici per costruzione scientifica ap-poggiata ad una logica necessaria, deterministica e teleologica della storia. Alla fine questa falsa coscienza necessaria ha fatto prevalere antropologicamente nelle direzioni comuniste tipi umani integralmente nichilisti, come ad esempio Gorbaciov, Eltsin o Den Ksiao Ping (non parlo qui di irrilevanti figuranti italiani di seconda fila, semplici personaggi subalterni da commedia dell’arte). Nello stesso tempo, il cristianesimo ha perso la sua anima, diven-tando un’agenzia universalistica dei diritti umani a guida imperiale occidentalistica.

Osservatori come Spaemann (o come Ratzinger) non possono e non potranno mai co-gliere l’intima tragicità di quanto è avvenuto. Essi non vorrebbero, ma il loro desino è raggiungere i vari Popper e gli altri critici liberali del totalitarismo. L’odierno capitalismo globalizzato non fa prigionieri, e non consente logiche sistemiche opposte alla sua ripro-duzione.

11. Il giudizio di Grecchi su Martha Nussbaum è positivo, e questo non è un caso, per-ché la Nussbaum è una filosofa di orientamento aristotelico, e Grecchi è fra l’altro autore di un saggio su L’umanesimo di Aristotele. Insieme ad Amartya Sen la Nussbaum è presidente fondatrice di una Associazione per lo Sviluppo della Capacità Umane, che ha nella sua base teorica un approccio alternativo a quello del semplice calcolo del PIL (prodotto inter-no lordo), come sola unità di misura del benessere di uno stato.

La Nussbaum è un’autrice anglosassone, e questo le permette una immediata dimensio-ne culturale mondiale (lingua inglese, nazionalità americana, accesso al sistema mediatico ed universitario globale, eccetera). Come a suo tempo Aristotele distingueva fra economia e crematistica, preferendo la prima alla seconda, nello stesso modo la Nussbaum parla di “capacità”, ovvero di concretizzazione delle condizioni per poter veramente sviluppare le proprie abilità. La Nussbaum difende anche la cultura umanistica classica in una società che non solo mostra di non sapere più cosa farsene, ma la rende oggetto sistematico di disprezzo e di irrisione, in base al sistema binario per imbecilli Vecchio/Nuovo, in cui per definizione il Nuovo è sempre migliore. Questo Sistema Binario per Imbecilli (SBI) è forse il solo minimo comun denominatore che unisce ecumenicamente la sinistra e la destra.

La Nussbaum sembra credere nella compatibilità e nella compresenza dell’attuale capi-talismo globalizzato neoliberale con il mantenimento di valori umanistici e di punti di vista non economicistici sulle capacità umane complessive. In realtà, nelle attuali condizioni sociali, questi valori umanistici non possono essere mantenuti che in piccole nicchie elitarie ed in serre riscaldate, esattamente come avveniva per quella che nell’impero schiavisti-co romano era chiamata humanitas. Grecchi fa bene a notarlo, ma questo non deve essere addebitato a colpa per la Nussbaum. Se l’insieme sociale non è umanistico e si riproduce anzi in modo del tutto opposto ai valori umanistici, l’umanesimo “di nicchia” finisce per l’essere un lusso per benestanti. Non è quindi per nulla estremistico, ma è anzi del tutto razionale e corretto, che questo venga segnalato, e non ci si accontenti di complimentare la buona volontà aristotelica di persone pur degne come la Nussbaum ed Amartya Sen.

12. Concludiamo, o meglio iniziamo, con il rimando alla citazione di Umberto Curi riportata nel secondo paragrafo di questo scritto. Come ho detto, non è interessante di per sé la diatriba fra “nuovi realisti” ed ermeneuti, se non come segnalatore di tendenze della filosofia universitaria. Può invece avere senso collocare questa diatriba nella presente congiuntura storica, usando il metodo della deduzione sociale delle categorie del pensiero, metodo però che diventa sempre più incerto, problematico ed impreciso quando si avvici-na al presente, laddove è a mio avviso abbastanza fecondo e preciso quando si parla della genesi sia della filosofia greca sia del pensiero moderno europeo (cfr. D. Fusaro, Minima mercatalia, Bompiani, Milano 2012).

Sebbene caratterialmente Comte e Wittgenstein (parlo del Wittgenstein del Tractatus, popolarizzato poi soprattutto da Alferd Ayer) quanto di più psicologicamente lontano si possa immaginare, la loro funzione all’interno del pensiero europeo è stata analoga. Ciò che può essere detto, può essere detto solo con il linguaggio “cosale” delle scienze della natura, laddove il linguaggio filosofico è solo il succedaneo di artisti poco dotati per la letteratura e la musica (Carnap). Partendo dalla teoria per cui la metafisica sarebbe soltan-to la legittimazione ideologica dell’intolleranza, si finisce con il non tollerare più coloro che si richiamano in qualche modo ad essa. È vero che Wittgenstein scrisse che una volta risolti tutti i problemi scientifici “cosali” (la fonte originaria è sempre e soltanto l’empiri-smo trascendentale di Kant e il rifiuto quasi isterico di Fichte e di Hegel – Marx è invece tollerato come economista pre-keynesiano e sociologo conflittuali sta) non sono ancora neppure sfiorati i veri problemi della vita, ma subito dopo intima che di ciò di cui non si

può parlare si deve tacere. È vero che il secondo Wittgenstein decise di non tacere, ma la toppa fu peggiore del buco, perché il parlare diventò soltanto una interminabile (ed a mio avviso nevrotica) destrutturazione della legittimità del linguaggio quotidiano. In modo as-sai più acuto il linguaggio di tutti i giorni della gente comune fu rilegittimato come rispec-chiamento dell’essere sociale (Lukács), oppure come sede dialogica di distruzione della pseudo-concretezza (Kosìk).

Per sua propria natura, la filosofia parla senza porsi il problema epistemologico della “dicibilità” delle sue asserzioni. Dal momento che il suo oggetto è il socratico “conosci te stesso”, inteso come la conoscenza della propria anima in rapporto con le altre anime del-la comunità, ogni tribunale epistemologico che ne verifica le credenziali è sempre e solo temporaneo (pensiamo alla critica di Aristotele a Platone e di Hegel a Kant). Il paradosso di Wittgenstein è che questo ingegnere austriaco amante della solitudine, vero e proprio monaco disincantato senza Dio, è diventato uno dei più famosi ed apprezzati filosofi del Novecento esprimendo la pulsione al suicidio di un settore della filosofia stessa, nevrotiz-zata dalla concorrenza delle scienze naturali e dell’ideologia. Una volta introiettata questa pulsione suicida, è naturale che un buon trenta per cento dei filosofi universitari guadagni lo stipendio affermando che la filosofia in sé (e non solo una sua scuola fra le tante) è un insieme di errori metafisici indegni della modernità.

L’esistenzialismo prima e l’ermeneutica poi, sono stati storicamente un tentativo di risposta a questa delegittimazione radicale della filosofia. Il cinquantennio 1920-1970, preso nel suo insieme ed ignorando la dicotomia inappropriata Destra/Sinistra (per cui Heidegger diventa di destra ed Adorno di sinistra), deve e può cominciare ad essere va-lutato nel suo complesso come l’ultimo tentativo storico di interrogazione radicale della fase dialettico borghese (e pertanto anche proletario-rivoluzionaria) del capitalismo. Cito qui soltanto L’uomo ad una dimensione di Herbert Marcuse, la Dialettica del Concerto di Karel Kosìk ed i Prolegomeni all’Ontologia dell’Essere Sociale di Lukács. Qui l’ermeneutica, smet-tendo di essere interminabile ermeneutica biblica, diventa ermeneutica della condizione umana nel capitalismo.

Dopo il 1970 circa cambia del tutto il clima filosofico, e con qualche anno di ritardo anche il gruppo conformistico dei filosofi universitari se ne accorge. La classe operaia non “tira più”, continua a battere i suoi tamburi ed a fischiare nei suoi fischietti, ma appare ridicolmente impotente di fronte al potere globalizzato della finanza. L’impotenza a cam-biare le cose era già stata teorizzata nei due concetti di Gabbia d’Acciaio di Max Weber e di Dispositivo Tecnico di Martin Heidegger, e personalmente considera la stessa Dialettica Negativa di Adorno una conciliazione (Anpassung) con queste due diagnosi infauste. Il successo della ermeneutica di Rorty e Vattimo, per cui non solo non esistono fatti, ma solo interpretazioni, ma anche le interpretazioni devono essere presentate in modo scettico-liberale all’interno di comunità universitarie protette, laddove il mondo esterno grande e temibile è riservato alla finanza ed ai bombardamenti per assicurare i diritti umani (e soprattutto i livelli di consumo non tanto dell’Occidente, quanto delle avide oligarchie oc-cidentali), è stato una vicenda trentennale di congiuntura storica, la congiuntura del tren-tennio 1970-2000, che ha cominciato a “scricchiolare” nell’ultimo decennio.

Sembra necessario un “ritorno alla realtà”. Ma di quale realtà stiamo parlando? Non certamente della realtà di Marcuse, di Kosìk o di Lukács. Questa è la vecchia totalità dia-lettica espressiva, di cui non si può parlare, e dunque si deve tacere. È interessante che nel manifesto del nuovo realismo di Maurizio Ferraris siano due, e solo due, i fatti storici ritenuti degni di considerazione filosofica. In primo luogo, il “populismo mediatico”, attri-buito a Silvio Berlusconi e visto come l’esempio più scandaloso di negazione della “realtà reale” in nome di una seduzione pubblicitaria virtuale. In secondo luogo, la negazione dell’Olocausto, visto come possibile esito infausto della riduzione della durezza del rea-le ad evanescenza della interpretazione. Il capitalismo sparisce, sostituito da una somma infinita di oggetti sociali realmente esistenti. L’empirismo trascendentale di Kant colpisce ancora, anche se nell’epoca di Umberto Eco Kant può essere sostituito da un ornitorinco.

Maurizio Ferraris si mostra così in perfetta sintonia con quella che oggi in Italia ed in Europa Occidentale è chiamata la “sinistra”. Come ho rilevato in precedenza (e come Grecchi rileva nel suo saggio), oggi la “sinistra filosofica” ha dismesso il marxismo in tut-te le sue varie formulazioni, mentre ha ormai due grandi ossessioni, l’ossessione politica del cosiddetto “populismo” e l’ossessione storiografica dell’Olocausto. Quindi per “realtà” non si può e non si deve più intendere la vecchia totalità dialettica (al cinquanta per cento inconoscibile ed al cinquanta per cento autoritaria e totalitaria), ma l’attuale realtà capita-listica globalizzata, minacciata dalla perdita della memoria dell’Olocausto e dall’avvento pericoloso del “populismo” (contenitore bucato che comprende Chavex, Ahmadinejad, Berlusconi e Marine Le Pen).

13. Ho già fatto riferimento al recente saggio Minima mercatalia di Diego Fusaro. Non questa la sede per una recensione critica ampia ed articolata, e non sarei d’altronde io la persona giusta, perché il saggio, sia pure originale e di grande respiro storico e teorico, è stato scritto sotto l’ispirazione diretta del mio magistero. Qui prendo l’occasione soltan-to da due recensioni, l’una di parte liberale (Corrado Ocone) e l’altra di parte marxista (Stefano Azzarà), che a mio parere mostrano che per ora non vi sono ancora neppure le condizioni minime per aprire un vero dibattito. Non intendo polemizzare con questi due degni studiosi, ma soltanto far notare due elementi che rendono impossibile ogni comu-nicazione proficua e feconda. Ocone colloca l’intero saggio sotto la costellazione di “pre-giudizio contro il profitto”. Azzarà, pur difendendo il diritto di criticare il capitalismo, è allarmato da un possibile ritorno alla “metafisica”, come se quest’ultima fosse una parolac-cia e si dovesse difendere dalla metafisica cento e cinquanta anni di marxismo scientifico e materialistico. Ma discutiamo una cosa per volta.

14. Esistono purtroppo titolo editoriali che hanno forse un impatto pubblicitario mag-giore di altri, apparentemente più banali, pedanti e noiosi, ma che mettono immediatamen-te “fuori strada” il lettore. La copertina del saggio di Fusaro mostra stilizzati un toro ed un orso in combattimento, rimandando alla Borsa di Wall Street ed alle altalene borsistiche. Il lettore può quindi pensare che si tratti dell’ennesimo saggio contro il denaro, oppure sul denaro alla Simmel. Nulla di può fuorviante. Quella di Fusaro è una proposta di periodiz-zazione filosofica del capitalismo che si affianca senza sovrapposizioni ad altre periodizzazioni, storiche, economiche, politiche e sociologiche. Non c’è dunque nessun “pregiudi-zio contro il profitto”, ma semmai una analisi storica. Questa analisi storica presenta due aspetti, distinti ma connessi insieme. In primo luogo, si propone un’analisi contrastiva fra il modello politico-antropologico del mondo greco classico, imperniato sulla misura (metron) ed il modello politico-antropologico della produzione capitalistica, che è fondato su di una “crescita senza misura”. In secondo luogo, la periodizzazione dello sviluppo dialettico del modo di produzione capitalistico ne disegna una fase di costituzione “tetica” (priva cioè di contraddizione dialettica interna), una fase dialettica “scissa” in borghesia e proletariato, ed infine una fase attuale “speculativa”, in cui ormai la merce, divenuta sovra-na, si specchia interamente su se stessa (speculum).

Che cosa c’entra con questo modello il pregiudizio contro il profitto? Ovviamente nul-la. Ocone fa ovviamente molti complimenti accademico-universitari alla “preziosa opera descrittiva” di Fusaro, ma condanna il pregiudizio anticapitalistico, ricordando con Kant che l’uomo è un “legno storto”, e che non bisogna demonizzare la tendenza umana alla ricerca del profitto. È interessante che, giunti al dunque, il fondamentale argomento per la difesa del capitalismo dia biblico-agostiniano. L’uomo è un legno storto, a causa im-magino del peccato originale. Sembra che Ocone intenda difendere il “giusto guadagno” alla Tommaso d’Aquio, o una equilibrata economia mista con elementi pubblici, privati e cooperativi. Non intendo impegnare Fusaro, che avrà le sue opinioni, ma per quanto mi concerne questo “giusto guadagno” tomistico io sarei il primo ad accettarlo contro ogni eccesso di pianificazione volontaristica.

L’argomentazione di Ocone è interessante, perché mostra due elementi del pensiero liberale spesso tenuti distinti e nascosti. In primo luogo, il continuo rimando biblico-agosti-niano-kantiano alla natura di “legno storto” dell’uomo utilizzato per giustificare gli “spiriti animali” del capitalismo, il che rimanda alla fine ad una strana teologia, quella per cui Dio c’è, ma non ha fatto l’uomo a sua immagine e somiglianza, ma ad immagine e somiglianza di un animale. In secondo luogo, il capitalismo finanziario, globalizzato e predatorio, viene difeso con gli argomenti del modo di produzione mercantile semplice (a sua volta puro e semplice modello naturalistico) suggerendo che l’uomo, essendo un “legno storto”, ha bisogno anche di un “giusto guadagno” per i suoi sforzi. E chi lo nega?

15. È interessante che, pur difendendo il diritto di Fusaro a criticare il capitalismo, Azzarà prenda le distanze dalla “metafisica” contenuta nel suo saggio. Questo mi fa pen-sare che ciò che resta della comunità dei marxisti è inguaribile, se continua a considerare la parola “metafisica” una parolaccia. Eppure, a distanza di un secolo e mezzo dall’elabo-razione della teoria di Marx, si potrebbe pensare che è giunta ormai l’ora di imparare dalle lezioni della storia. In modo dilettantistico a suo tempo Engels (comunque dopo la morte di Marx) definì la dialettica il punto di vista del movimento, e la metafisica il punto di vista della staticità. Ora, né la metafisica platonica né la metafisica hegeliana sono caratterizzate dalla staticità. Il marxismo prese allora la strada, cosiddetta materialistica, scientifica ed antimetafisica, del neokantismo in gnoseologia (teoria del rispecchiamento) e del positivi-smo nel riconoscimento alla scienza post-seicentesca di essere l’unica ideazione conoscitiva legittima.

Ora, errare è umano, ma perseverare è diabolico. Questa concezione oggi è un insieme di macerie fumanti, e le ragioni di questo equivoco sono già state tutte perfettamente ana-lizzate e diagnosticate. Continuare a difendere la dicotomia classificatoria Materialismo/ Idealismo, a più di mezzo secolo dalla morte di Stalin ed a quasi un secolo dalla morte di Lenin, equivale a difendere il sistema tolemaico geocentrico ed il fissismo delle specie. Eppure il riflesso conservatore è tale che si crede di poter considerare il termine “metafisi-ca” come una parolaccia, perché così la considerava Engels.

Come ho detto in precedenza, non mi interessa polemizzare contro due degni studiosi. Ma non posso fare a meno di essere preso di tanto in tanto dal pessimismo, quanto vedo l’inerzia della lunga durata di concezioni ereditate e date per scontate.

Note
  1. L’articolo è stato pubblicato in Koiné [Per un Pensiero forte], Periodico culturale, Anno XIX, NN° 1-4, Gennaio-dicembre 2012, pp. 237-249.[]