Articolo apparso per la prima volta sulla rivista Praxis.
1. Ludovico Geymonat (1908-1991) è stato uno dei più importanti filosofi italiani dell’intero Novecento. Si tratta di un giudizio molto impegnativo, che viene dato soltanto a ragion veduta e dopo una meditata riflessione. Impegnandomi in questo giudizio, non sono assolutamente mosso dal criterio della condivisione personale delle soluzioni filosofiche che il Nostro ritenne opportuno dare ad alcuni problemi cruciali. In tre paragrafi successivi dirò brevemente al lettore perché non posso assolutamente considerarmi “geymonattiano”, neppure in senso lato o generico, e questo mio dissenso sgorga proprio da una interpretazione alternativa di quello stesso “razionalismo critico” che il Nostro sosteneva. Ma il dissenso e/o il consenso personale e di scuola non è mai in alcun modo un criterio storiografico cui bisogna ispirarsi. Non può neppure essere un criterio storiografico l’amicizia personale, anche se mi è caro ricordare di avere avuto a lungo con Ludovico Geymonat un’affettuosa consuetudine personale, di cui ho come preziosa testimonianza quasi tutti i suoi libri con dediche piene di stima e di sollecitudine. Il solo criterio storiografico valido sta nella collocazione del Nostro nel più ampio contesto della filosofia italiana ed internazionale del Novecento, ed in particolare nel contesto duplice del dibattito marxista e del dibattito epistemologico, che spesso il nostro volutamente identificava.
2. Usando l’espressione il Nostro ritengo di fare cosa grata ai lettori ed agli estimatori di Ludovico, che sanno bene come l’espressione “il Nostro” fosse da lui utilizzata nelle opere di storia della filosofia e del pensiero scientifico per indicare i filosofi e gli scienziati di cui volta a volta si occupava. Geymonat è stato anche, insieme con Nicola Abbagnano, uno dei massimi storici della filosofia italiani nel Novecento. In entrambi i casi, si è trattato di una sorta di “ricaduta” di una propria originale posizione filosofica personale, ovviamente diversa nei due pensatori, anche se in entrambi i casi ispirata ad una sorta di comune laicismo razionalistico.
3. Il Nostro è stato per gran parte della sua vita, e fino all’anno della sua scomparsa, un filosofo comunista. Un filosofo comunista non nel senso che l’oggetto della sua riflessione sia stato il processo politico e sociale di transizione dal capitalismo al comunismo, ma nel senso per cui l’oggetto privilegiato della sua riflessione, che era la natura ed i modi della conoscenza scientifica, era inserito in una filosofia della storia che vedeva nel comunismo un obbiettivo politico possibile, perseguibile, razionale dell’avventura umana.
4. Il Nostro è anche e soprattutto stato un comunista italiano del tutto anomalo e dotato di caratteristiche assolutamente specifiche. Si tende in generale a dire che questa anomalia consisteva nella sua preparazione di tipo matematico e scientifico, in un paese di storicisti e di letterati che non prestava un’attenzione sufficiente ai problemi della conoscenza scientifica. Personalmente, non sono d’accordo con questa frettolosa valutazione storiografica, che porta ad una classificazione dicotomica semplificata fra le due culture, letteraria e scientifica. Da Della Volpe a Colletti, da Preti ad Abbagnano, non sono certo mancati nella seconda metà del Novecento i filosofi che hanno preso sul serio l’impresa scientifica. Io tendo a cercare l’anomalia del Nostro su di un altro versante ed in un’altra dimensione.
5. L’anomalia del Nostro stava nell’essere un comunista assolutamente critico, indipendente e non-conformista, che fra l’obbedienza alla Chiesa-Partito e l’obbedienza alla sua Coscienza Scientifica sceglieva assolutamente e senza ambiguità la seconda. L’espressione “comunista critico” sembra quasi pleonastica ed inutile, perché dovrebbe essere evidente che la nozione di comunista comprende in se stessa, come in un giudizio analitico kantiano, l’attributo di critico. Nei fatti però non è stato sempre così, anzi non è stato quasi mai così. Il comunismo novecentesco è stato quasi sempre una figura antropologica della fedeltà, dell’identità rigida, dell’appartenenza gregaria, e questo forse ancora più fra gli intellettuali che fra i cosiddetti militanti di base. Il Nostro ha militato per un certo tempo nel PCI, e poi ne è uscito motivando le ragioni di questa sua uscita, e sostenendo apertamente che il non-conformista ha il diritto di separare il suo destino dai partiti burocratizzati la cui linea politica e la cui cultura politica non fossero più decentemente condivisibili. Il caso Galileo, da lui tanto studiato, è anche stato il suo modello personale di comportamento.
6. Esiste una sorta di leggenda metropolitana, per cui il Nostro, in quanto simpatizzante per l’URSS e per la Cina, sarebbe stato di fatto uno stalinista. Io sono profondamente convinto del contrario. In ogni caso, il termine di stalinismo è oggi usato con una tale mancanza di esattezza semantica e storiografica da fare paura a chiunque volesse comprenderne le reali dimensioni storiche e teoriche. Io credo che per il nostro si possa dire esattamente ciò che la sua allieva Agnes Heller ha detto a proposito del suo maestro Lukács. Lukács, secondo la Heller, poteva tranquillamente condividere molte o anzi quasi tutte le concrete scelte politiche di Stalin (dalla costruzione economica del socialismo in un solo paese alla politica dei fronti popolari), senza per questo potere mai diventare “stalinista”, perché lo stalinismo non consiste semplicemente in un insieme di politiche, ma consiste in una modalità generale religiosa ed irrazionalistica di comportamento, per cui la propria coscienza individuale è annullata e messa a priori al servizio di qualunque scelta strategica o tattica fatta dai dirigenti politici del partito comunista. Lo stesso discorso, a mio avviso, può essere fatto per il Nostro.
7. Nello stesso tempo il Nostro, che pure ebbe una grande simpatia per la Cina di Mao Tsetung, non può neppure essere definito semplicemente maoista, anche se il movimento politico maoista italiano degli anni Sessanta e Settanta guardò sempre a lui come all’intellettuale privilegiato. Di molti maoisti dell’epoca gli mancava il fideismo ideologico parareligioso, e bisogna anche dire che egli seppe cogliere precocemente nella cosiddetta Grande Rivoluzione Culturale Proletaria (1966-1969) non solo l’aspetto positivo della lotta anti-burocratica di massa, ma anche l’aspetto negativo della ideologizzazione parossistica della scienza e della filosofia, che fu certamente una delle ragioni (anche se non l’unica e forse neppure la principale) della sua sconfitta storica strategica.
8. Respinte le etichettature improprie di stalinista e di maoista, bisogna però pur sempre vedere nel Nostro un’apertura internazionalistica ed antiprovinciale, che lo portava a capire con estrema chiarezza che le sorti storiche del comunismo non si sarebbero mai giocate nella crescita delle cooperative tosco-emiliane, ma nei più vasti continenti del mondo. E’ questa la base e la sorgente della coscienza antimperialista, che il Nostro ebbe sempre vivissima e vigile, e che a mio avviso resta il suo principale attestato di onore politico e culturale.
9. Vi è una grave improprietà storiografica e biografica che si tramanda a proposito del Nostro, per cui egli avrebbe proposto e praticato una versione neo-positivistica (o neo-empiristica) del marxismo, ed avrebbe anzi avuto come filosofia personale una fusione fra neo-positivismo e marxismo. Questo non è affatto esatto. Negli anni Trenta il giovanissimo Geymonat andò a Vienna, e si entusiasmò per l’approccio filosofico dei grandi neo-positivisti di quella generazione. Negli anni Quaranta e Cinquanta, in un’Italia ancora filosoficamente molto provinciale, e divisa fra crociani e gentiliani di destra e crociani e gentiliani di sinistra, il Nostro propagò la conoscenza non tanto delle tesi specifiche dei neoempiristi e dei neopositivisti austriaci e tedeschi, quanto della generale problematica che ne faceva da base. Tuttavia, a partire dagli anni Sessanta, in coincidenza con la sua piena maturità filosofica, il Nostro aderì pienamente ad una filosofia diversissima dal neopositivismo, e cioè alla sua versione del materialismo dialettico marxista. Esattamente come Popper e Kuhn, anche se in modo ben diverso da loro, egli fu anzi un critico accanito del neopositivismo, che considerò una forma di riduzionismo metodologico troppo spesso privo di senso storico nel valutare i fenomeni scientifici.
10. Parlando di materialismo dialettico a proposito della filosofia del Nostro, bisogna ovviamente subito specificare che si trattava di cosa ben diversa da quel materialismo dialettico, detto Diamat, che per più di mezzo secolo fu la filosofia ufficiale ed obbligatoria, unica e monopolistica nel sistema scolastico ed universitario, dei partiti comunisti al potere nei cosiddetti paesi del socialismo reale. Questo materialismo dialettico sovietico, imposto con un decreto statale obbligatorio nel 1931, si rifaceva formalmente a tesi già presenti in Engels e Lenin (anche se del tutto assenti in Marx), ma costituiva esplicitamente un’ideologia di partito, ed era una sorta di metafisica generale unificata della natura e della storia, che considerava la storia stessa un “processo naturale” (Naturprozess). La ragione di questo incredibile riduzionismo meccanicistico è peraltro del tutto logica e facilmente individuabile. In breve, proprio perché l’azione strategica e tattica dei partiti comunisti stalinizzati costituiva il massimo di soggettivismo, proprio per questo questo soggettivismo pratico estremo era travestito da oggettivismo teorico estremo. Le scelte dei partiti comunisti in termini di costruzione del socialismo, empiricamente ricavate dall’esperienza staliniana fra il 1924 ed il 1938, erano presentate come casi particolari di ferree leggi generali della natura e della storia, e lo stesso materialismo storico era così dedotto in via subordinata da un più ampio e metafisico materialismo dialettico. Questa metafisica capovolta era ad un tempo irriformabile ed insostituibile, perché l’adozione di qualsiasi altra forma più civilizzata di marxismo avrebbe tolto ai dirigenti politici il monopolio della presunta conoscenza del processo storico, consentendo una sorta di “libero esame” a proposito del marxismo che essi volevano ovviamente impedire ad ogni costo. E’ bene ribadire che il Nostro usò la stessa etichetta della bottiglia, ma vi versò un vino completamente diverso.
11. Il materialismo dialettico del Nostro era una teoria ed una storia della conoscenza scientifica, vista come l’unica e vera forma di conoscenza. La filosofia non era pertanto negata, ed era anzi esaltata, ma le si negava ovviamente la pretesa di essere una forma di conoscenza distinta da quella scientifica nell’oggetto e nel metodo. Questo non è per nulla neo-positivismo ma è certamente una variante novecentesca del positivismo, che si basava infatti sullo stesso principio. In questo, Ludovico Geymonat raggiungeva in modo originale una famiglia di altre posizioni assolutamente consimili, come ad esempio la teoria di Galvano Della Volpe dell’astrazione determinata e del marxismo come galileismo morale e la teoria di Louis Althusser delle pratiche teoriche.
12. Quando queste tre diverse posizioni vennero sostenute (Geymonat, Della Volpe e Althusser), ormai molti decenni fa in un contesto storico che per molti giovani d’oggi è ormai lontano secoli e non solo decenni, esse poterono sembrare molto diverse l’una dall’altra e del tutto incompatibili, ma a mio avviso lo scorrere del tempo le ha ormai avvicinate in quello che era il minimo comune denominatore della loro ispirazione, il conseguimento di un pensiero marxista veramente scientifico, e dunque obbligante e cogente, e non solo filosofico, e dunque vago ed opinabile. Oggi io non ho più personalmente dubbi sul fatto che si trattò di un’illusione scientista, ma allora ci credetti anch’io con molta forza. Con la prospettiva temporale acquisita in questi decenni, abbiamo oggi alcuni criteri per poter valutare con maggiore pacatezza e profondità le caratteristiche teoriche di queste tre proposte assolutamente affini e convergenti.
13. La proposta complessiva di Galvano Della Volpe non deve essere assolutamente giudicata sulla base dell’autodissoluzione dell’intero marxismo compiuta dal suo allievo Lucio Colletti, recentemente scomparso. Sono personalmente convinto, e l’ho scritto già molte volte, che l’abbandono del marxismo da parte di Colletti è stato un abbandono vitale, nel senso di una vera e propria conversione esistenziale totale, per cui si perdono tutte le ragioni motivazionali che avevano precedentemente portato all’adesione alla teoria marxista stessa. Colletti, a mio avviso, travestì davanti a tutti, e travestì anche davanti a se stesso, questa conversione esistenziale totale con il marchingegno della scoperta della differenza fra contraddizione dialettica ed opposizione reale, come se l’intera critica al capitalismo come modo di produzione si basasse su di un semplice equivoco logico, peraltro già perfettamente analizzato nella critica di Trendelenburg a Hegel. Ma tornando a Della Volpe, a mio avviso, la sua stroncatura della dialettica assimilata di fatto alla sua versione neoplatonica più indifendibile è stata anche il massimo fattore di debolezza complessiva della sua proposta filosofica, che ne spiega a mio avviso il rapido declino e la sostanziale sterilità. E questo senza nulla togliere al riconoscimento del suo ingegno e della sua intelligenza.
14. La proposta complessiva di Louis Althusser è stata a mio avviso più feconda di quella di Della Volpe, e la storia delle idee ne ha dato atto. Non mi riferisco certo alla critica althusseriana della dialettica, che è mille volte più rozza e meno sofisticata di quella di Della Volpe, e che ricorre continuamente ad impropri argomenti ideologici non sapendo scendere in profondità negli argomenti filosofici, su cui troppo spesso Althusser si muoveva come un dilettante, sia pure geniale. Mi riferisco al fatto che Althusser, criticando la coppia formata dallo storicismo e dall’economicismo, riesce veramente a compiere un’operazione baconiana di distruzione di idoli teorici pregressi. Lo storicismo è infatti una grande narrazione illusoria, mentre l’economicismo è una grande rappresentazione riduzionistica della società. Fusi insieme, lo storicismo e l’economicismo non costituiscono affatto una semplice deviazione o un mero fraintendimento del marxismo, ma il suo esatto opposto, la trasformazione compiuta del marxismo in ideologia e falsa coscienza di masse subalterne in preda al vortice nicciano del nichilismo e della morte di Dio. Qui la superiorità di Althusser su Della Volpe è palese, e nessun patriottismo italiano alla Ciampi potrà purtroppo smentirlo.
15. La proposta complessiva del Nostro presentava alcune caratteristiche di solidità e di equilibrio che lo caratterizzavano sia in rapporto al dellavolpismo italiano sia in rapporto all’althusserismo francese. L’elemento più interessante, su cui voglio richiamare subito l’attenzione del lettore, stava nel contrasto fra un forte tradizionalismo formale, che si richiamava ad Engels ed a Lenin senza nessuna obiezione di fondo, e la capacità concreta di innovazione e di vivacità nel suo confronto con l’epistemologia contemporanea in tutte le sue versioni ed in tutte le sue correnti. E’ evidente che, in rapporto alla teoria di Engels sulla sostanziale unità ontologica delle leggi di sviluppo della natura e della storia, il Nostro fosse assolutamente consapevole del pericolo di omogeneizzazione che questa tesi comportava. Tuttavia, egli non la smentì mai esplicitamente, limitandosi ai soliti discorsi sulla “specificità”, sulla “determinatezza”, eccetera. A mio avviso, si trattava di mezze misure che non toccavano il centro del problema, che a mio avviso sta nella erroneità strutturale della posizione di Engels. Ma il Nostro non voleva in alcun modo giungere a queste conclusioni, perché ci vedeva una caduta in quel “marxismo occidentale” che egli rifiutava come una forma di idealismo mascherato, e per questo più avanti mi permetterò di segnalare l’erroneità del dualismo idealismo/materialismo per orientarsi nelle posizioni filosofiche. Nello stesso modo, il Nostro era lontanissimo nella sua concreta prassi di filosofo e di storico della filosofia, dalla riduzione della filosofia ad ideologia, o più esattamente della pratica filosofica a pratica ideologica, ma poi non prese mai le distanze da quel Lenin filosofo che poi concretamente attuava questa riduzione.
16. In definitiva il Nostro viveva dentro una contraddizione in cui sono vissute le grandi menti del marxismo della seconda metà del Novecento. Da un lato, l’irresistibile impulso alla creatività del pensiero. Dall’altro, una sorta di autocensura liberamente accettata, in nome dei limiti teorici invisibili in cui era vissuta l’identità socialista e l’appartenenza comunista. E’ questa la contraddizione, seria e terribile come sono sempre tutte le contraddizioni, in cui sono vissuti questi grandi spiriti del recente passato e che bisogna riuscire a comunicare ai giovani, che vivono e vivranno altre contraddizioni, e non più queste.
17. In conclusione di questo scritto, vorrei fare al Nostro maestro scomparso il più grande onore che si può fare ad un filosofo, che consiste socraticamente nel discutere liberamente con lui e nello sviluppare alcune obiezioni alle sue tesi. E’ in fondo ciò che hanno fatto Aristotele con Platone, ed è l’inevitabile modello di ogni dialogo filosofico serio. In proposito, mi limiterò a sollevare tre ordini di obiezioni al pensiero del Nostro, la prima sul tema del materialismo, la seconda sul tema della scienza, la terza sul tema della verità.
18. In primo luogo, a proposito del tema del materialismo, io ritengo che il materialismo sia una filosofia complessiva che può essere legittimamente sostenuta e professata, ma che non debba assolutamente essere una filosofia che connota l’identità specifica del marxismo teorico e del comunismo politico. Penso che sia necessario un superamento integrale e senza equivoci della dicotomia materialismo/idealismo, e che una filosofia adatta al progetto comunista sia per sua natura una filosofia “mista” che comprenda entrambi questi elementi. In proposito è necessario che questo dualismo inutile e dannoso venga superato senza equivoci e senza timidezze.
So perfettamente che questa tesi suona fastidiosa e sgradevole alla stragrande maggioranza di quanto resta dell’ormai piccola comunità dei filosofi di orientamento marxista. Lascio da parte quella sorta di idiozia sociologica, che si è riprodotta con pigrizia e settarismo per un secolo, per cui il proletariato sarebbe connotato da una ideologia spontanea materialista, essendo legato alla fatica ed alla materialità della produzione, mentre la piccola borghesia, luogo elettivo della metafisica e dello sbandamento religioso ed irrazionalistico, sarebbe invece portata spontaneamente a varie forme di idealismo. Questa idiozia a base sociologica, già sostanzialmente falsa un secolo fa, è oggi del tutto assurda date le nuove strutture sociologiche di classe del recentissimo capitalismo. Ritengo invece, per essere più seri, che la resistenza a lasciar andare l’etichetta di materialismo stia nel fatto intuitivo ed immediato che i marxisti considerano correttamente primaria la produzione materiale e strutturale, e persino la cosiddetta produzione immateriale viene assimilata ad una sorta di materia leggera. Ma qui si ha con tutta evidenza uno slittamento teorico indebito, perché il concetto di struttura sociale primaria di un modo di produzione, messo a fondamento topologico di ciò che è spesso definito “sovrastrutturale”, viene indebitamente duplicato con la nozione filosofica di materia intesa come unico sostrato monistico del mondo, in base all’esigenza ideologica di chiarire che non si accetta nessuna trascendenza e nessun raddoppiamento religioso. La materia è così identificata con la struttura sociale (cioè con la dialettica fra sviluppo delle forze produttive e dinamica classista dei rapporti di produzione), e l’idea è invece identificata con la sovrastruttura, cioè con le istituzioni ed il sistema delle ideologie. Si tratta di un raddoppiamento indebito, che si presterebbe a decine di obiezioni, di cui in questa sede mi limiterò ad accennarne tre.
Primo, come ha recentemente dimostrato in un recente studio marxista la studiosa greca Maria Antonopoulou, la nozione filosofica di materia emerge nella sua compiuta astrattezza soltanto nel Settecento, in coincidenza con l’affermazione e la diffusione della forma di merce, anzi della forma capitalistica di merce. Ora, questo può essere casuale, oppure no. Io ritengo che non sia affatto casuale, in quanto la nozione astratta e generale di materia ha bisogno di uno spazio teorico pienamente omogeneo che corrisponde proprio al fatto che lo spazio capitalistico dello scambio delle merci deve essere anch’esso astratto ed omogeneo. A lavoro astratto, materia astratta. Se questa ipotesi della Antonopoulou, argomentata con una serie molto convincente di citazioni dello stesso Marx, fosse plausibile, come io credo fermamente, si giungerebbe al paradosso per cui i marxisti hanno difeso per più di un secolo una nozione che è invece del tutto omologa e corrispondente alla cosa più capitalistica che esiste, la forma di merce.
Secondo, io personalmente non conosco alcuna nozione filosofica di materia realmente credibile. Se esiste, ciò è a mia insaputa. Certo, ho letto molte definizioni storiche di questa nozione in opere ed in dizionari filosofici, ma se si presta bene attenzione si scoprirà che si tratta sempre e soltanto o di polemiche ideologiche contro la religione, oppure di trascrizioni di definizioni scientifiche di materia fisiologicamente sorte sul terreno dell’astronomia, dell fisica, dell’astrofisica, della chimica, della biologia e della genetica. Queste definizioni scientifiche di materia, spesso diverse l’una dall’altra come è normale che sia, sono tratte esclusivamente dalla pratica scientifica specifica, ed ogni raddoppiamento filosofico in termini di sostrato unico materiale non aggiunge e non toglie nulla, se non una dichiarazione ideologica di principio. Leggere per credere.
Terzo, infine, il materialismo non è mai stato storicamente una filosofia della rivoluzione almeno fino al Settecento, ed è ovviamente possibile dimostrare agevolmente che lo stesso marxismo non sarebbe neppure nato senza l’idealismo di Fichte e di Hegel. Lo stesso Marx non ha affatto “rovesciato” la dialettica hegeliana, ma l’ha semplicemente applicata ad un oggetto scientifico (non filosofico) del tutto nuovo, cioè i modi di produzione sociali. Ma questa non è una dialettica di materie, quanto di strutture e di rapporti di produzione. Nell’antichità, il materialismo di Epicuro e di Lucrezio non fu ovviamente una filosofia della rivoluzione dei rapporti sociali schiavistici, e questa funzione fu invece esercitata da una variante di tipo cosmopolitico e messianico dello stoicismo. Nei tempi moderni, forme di materialismo come quella di Giacomo Leopardi sono state una filosofia della corporeità, della fragilità e della solidarietà, ed in questa forma hanno affascinato marxisti di valore come Cesare Luporini e Sebastiano Timpanaro. E’ bene meditare su tutto questo, per non portarci dietro una zavorra positivistica assolutamente inutile.
19. Un ultimo inciso necessario. Si potrebbe pensare che se si toglie alla filosofia del comunismo la materia ed il materialismo, resterebbe solo la dialettica idealistica alla Scuola di Francoforte, cioè una semplice critica immanente interna alla riproduzione capitalistica. Preoccupazione molto lodevole, ma non è così. A mio avviso ad una filosofia comunista bastano due soli principi, ed anzi bastano ed avanzano: il principio dell’Immanenza, ricavato da Spinoza, ed il principio dell’Autocoscienza, ricavato da Hegel. Vediamo.
20. Il principio dell’Immanenza, ricavato da Spinoza, ci dice che occorre ricavare razionalmente la dinamica naturale e sociale sul fondamento autonomo ed autosufficiente della natura umana, e non è necessario nessun raddoppiamento di tipo trascendente, che porterebbe inevitabilmente ad una sorta di personalizzazione della divinità demiurgica. E’ bene in proposito rilevare che ogni trasformazione soggettivistica e grande-narrativa del marxismo in progetto metastorico proletario rientra a pieno titolo nella critica di Spinoza alla conoscenza immaginativa ed alla illusione legata ad una concezione personalistica della divinità. Molto saggiamente Spinoza legò questo pensiero alla nozione di sostanza, e non a quella di materia, e non lo fece certamente perché era un ateo timido e mascherato, ma perché sapeva esattamente che cosa voleva.
21. Il principio dell’Autocoscienza, ricavato da Hegel, ci dice che senza una piena consapevolezza individuale e sociale della natura storica delle contraddizioni non esiste alcuna possibilità di superare il brutale stadio ideologico in cui siamo immersi in quanto membri di società divise in classi antagonistiche. Questo non ha nulla a che fare con tutta la serie dei dualismi teorici che sono la sede naturale delle contrapposizioni ideologiche di appartenenza identitaria, ma che non c’entrano niente né con la filosofia né con la scienza. E questo non c’entra nulla neppure con quella forma di operaismo mistico ed essenzialistico per cui la classe operaia semplicemente salariata sarebbe In Sé, mentre la classe operaia militante e comunista sarebbe Per Sé. Di fronte a questi schemini, perfino Lucio Colletti diventa un filosofo grande come Platone. Il principio dell’Autocoscienza è un principio semplice, non teleologico, non necessitaristico, non deterministico, e così deve essere praticato.
22. In secondo luogo, a proposito del tema della scienza, ribadisco il fatto che a mio avviso la conoscenza scientifica moderna, che si è sviluppata da Seicento in poi, è certamente una forma di conoscenza valida ed integrale, ma non è l’unica forma di conoscenza. In modo molto saggio, il vecchio Lukács mise a fianco del rispecchiamento scientifico anche il rispecchiamento quotidiano ed il rispecchiamento estetico. Personalmente, ritengo che esista pienamente una conoscenza filosofica, distinta nel metodo e nell’oggetto da quella scientifica, e ad essa di fatto complementare sia a livello individuale che a livello sociale. Non era questa la posizione del Nostro, per cui il problema della conoscenza si risolveva in quello della conoscenza scientifica, e la filosofia, pur onorata a parole, diventava una sorta di ancella della scienza, in modo tristemente analogo a come per gli scolastici medioevali essa era un’ancella della fede religiosa.
Personalmente, ritengo che la motivazione psicologica che stava dietro a questa posizione sia stata tipica della generazione del Nostro, e fosse cioè la paura dell’irrazionalismo, di cui il fascismo ed ancora di più il nazismo davano tristissimi esempi. Molte sparate contro l’intuizionismo di Bergson sembrano oggi assurde, se pensiamo che Bergson è stato uno dei più moderati, razionali e ragionevoli filosofi della scienza. E non si tratta certo solo dell’irrazionalismo banale degli oroscopi, dei tarocchi, e dei miracoli. Si tratta di quella forma di intuizionismo irrazionalistico che dilagò nel Novecento, e che rafforzava tutto quel mondo di superstizioni precapitalistiche che i comunisti ritenevano un ostacolo per l’organizzazione delle masse. Ma oggi, a mio avviso, tutto questo è in buona parte storicamente sorpassato. Nel secolo di ferro in cui visse il Nostro erano la religione e la politica a produrre direttamente forme di irrazionalismo, laddove oggi l’irrazionalismo mi sembra prodotto direttamente dall’economia, cioè dall’automatizzazione del monoteismo del mercato capitalistico, in particolare quello finanziario, e del feroce unilateralismo militare e giuridico dell’impero americano. Questo nuovo tipo di irrazionalismo non si presenta più con i richiami magici al sangue, alla terra ed al suolo (anche se nel sionismo c’è purtroppo anche questo), ma si manifesta come iperrazionalismo tecnologico. E qui interviene specificatamente la conoscenza filosofica, perché solo la conoscenza filosofica può adeguatamente smascherare questa doppia realtà virtuale che vuole cacciar via quella reale, la liberazione dei popoli, delle nazioni, delle classi e degli individui.
23. In terzo luogo, per finire, a proposito del tema della verità, bisogna subito far notare che il Nostro era un difensore della nozione di verità scientifica contro ogni convenzionalismo e relativismo. Tutto questo deve essere particolarmente apprezzato, se pensiamo che negli ultimi trent’anni del Novecento, in coincidenza con le affermazioni del post-moderno e del nichilismo, si è fatta strada una concezione prospettica della verità di origine nicciana, per cui la verità non esisteva, e si risolveva in due dimensioni entrambe non ontologiche. In primo luogo, la funzione energetica di volontà di potenza mobilitata da ogni singolo soggetto assolutizzato, ed in secondo luogo la prospettiva ed il punto di vista secondo cui ognuno vedeva il suo spicchio di realtà. Questa concezione, che in Italia prese la forma del cosiddetto “pensiero debole”, poteva sembrare molto democratica e libertaria, perché erodeva le pretese prescrittive di ogni autorità, ed inoltre metteva sullo stesso piano ontologico qualunque punto di vista. In realtà si trattava proprio del contrario, perché la distruzione di ogni fondamento ontologico della verità lasciava di fatto libero spazio alla coppia formata dalla prospettiva e dalla funzione energetica della volontà di potenza, cioè esattamente alle grandi potenze militari, mediatiche, televisive e giornalistiche, le sole in grado ovviamente di imporre la loro prospettiva e la loro funzione energetica di volontà di potenza. Chi non comprende che alla base dell’odierna corruzione del ceto degli intellettuali in Occidente ci sta questo, e proprio questo, è come un gattino cieco che non capisce assolutamente dove si trova.
Per il Nostro la verità invece esisteva, e coincideva ovviamente con la verità scientifica. Non esisteva una vera e propria verità assoluta, dogmatica e definitiva, ma il processo di avvicinamento ad essa era visto come un interminabile processo asintotico di successive verità relative, sempre migliori e più adeguate. A mio avviso questa concezione, che si basava esplicitamente sulla teoria leniniana del rispecchiamento, può essere valida e feconda nelle scienze della natura, perché in un certo senso la natura sta ad aspettare paziente che generazioni successive di ricercatori la studino e migliorino le loro conoscenze. Esiste dunque un progresso scientifico, sia pure tenendo conto in parte delle obiezioni delle teorie epistemologiche discontinuiste, come quella di Kuhn sulle crisi e sulle rivoluzioni scientifiche. Ma questa teoria dell’avvicinamento asintotico di verità relative sempre migliori non mi sembra applicabile alla conoscenza della realtà sociale ed umana, perché la società non è una struttura complessa che sta lì ad aspettare che noi la studiamo con strumenti sempre migliori, ma è un mutevole rapporto dialettico che appunto si muove con noi, e non consente a mio avviso nessuna addizione conoscitiva asintotica. Nella concezione del Nostro Engels si sposava con Kant, e la teoria engelsiana del rispecchiamento si univa, in modo peraltro geniale e creativo, con la teoria kantiana dell’avvicinamento interminabile ed asintotico alla realtà, che il Nostro ovviamente non considerava noumenica, ma conoscibile in via di principio. Personalmente, sono lontano da questa concezione.
24. Siamo così arrivati alla conclusione. Occorre ricordare ed onorare uomini come il Nostro, perché essi non erano solo portatori di un insieme di concezioni, tutte opinabili e pertanto tutte criticabili, ma erano soprattutto portatori di un’etica dell’impegno e della conoscenza che si va oggi perdendo. Siamo oggi giunti ad un punto molto basso, e non ho ancora capito se abbiamo già toccato il fondo oppure no. In ogni caso, l’esempio dei nostri grandi predecessori ci spinge avanti, e credo che la gratitudine sia un sentimento da rivalutare contro l’oblio.