Articolo apparso su Kelebekler.
Premessa
Negli ultimi duecento anni di storia europea ed occidentale, la cosiddetta alta cultura si è sempre occupata delle questioni delle riforme scolastiche in tutte le loro dimensioni (forme e contenuti dell’apprendimento, sistemi di valutazione, eccetera). Ma negli ultimi vent’anni, nel quadro di una generale frammentazione dei linguaggi, delle competenze e degli interessi, c’è stata una catastrofica inversione di tendenza. Oggi il futuro ed il destino della scuola è in mano ad una eterogenea adunata di politici di professione, sindacalisti, esperti di mercato del lavoro, distaccati ed altri parassiti professionali, pedagogisti futuristi culturalmente schizzati ed altri manager. ب questo un evento catastrofico, sostanzialmente inedito nella storia italiana, che tocca l’identità culturale nel suo delicato meccanismo di trasmissione intergenerazionale.
In quanto evento politico, è immensamente più importante della Telecom, della Fiat, delle lotte fra Polo ed Ulivo, fra Prodi e D’Alema, e via spigolando fra le comparse della politica-spettacolo. Ma di tutto questo non c’è affatto un’adeguata consapevolezza. Queste note, che giungono probabilmente troppo tardi, quando ormai “i buoi sono scappati dalla stalla”, vorrebbero andare controcorrente. Ancora una volta, ripeto che la questione scolastica non è mai soltanto scolastica, ma è sempre lo specchio ed il riflesso della più ampia questione dell’identità culturale nazionale in un mondo che si dichiara globalizzato, laddove si tratta soltanto di un mondo rimondializzato in senso capitalistico ed imperialistico.
1. La distruzione pianificata del Liceo Europeo: una riforma anti-borghese, post-borghese, post-proletaria, ultra-capitalistica.
Per capire quanto sta avvenendo non solo in Italia ma (con diverse modalità) nell’intera Europa è necessario non perdersi nella variopinta selva degli infiniti particolari organizzativi e didattico-pedagogici, ma occorre cogliere l’essenziale, cioè il minimo comun denominatore storico-strategico del problema. In breve, quanto sta accadendo è un evento storico di portata secolare, la distruzione dall’alto del liceo europeo nato circa duecento anni fa a cavallo di Illuminismo e di Romanticismo. Questa distruzione, che è ad un tempo una Rivoluzione dall’Alto ed una Rivoluzione Passiva, è attuata da un soggetto sociale relativamente nuovo (di cui parleremo nel prossimo cruciale secondo paragrafo), che agisce però per conto di giganteschi poteri forti, economico-finanziari, che semplicemente non hanno più bisogno, non vogliono e non desiderano più un sistema scolastico formatosi al tempo della Cultura Borghese e dello Stato Nazionale.
Non si può ovviamente negare che il vecchio liceo europeo, sorto fra il 1790 ed il 1820 a partire dalla Germania hegeliana e dalla Francia napoleonica, fosse un liceo di classe. Esso era ovviamente una scuola di classe, ed in particolare della nuova Classe Borghese Emergente, che come tutte le classi sociali attive ed egemoniche pensava il proprio dominio all’interno di categorie ideologicamente universalistiche. Ma questa genesi storica è assolutamente normale, e non deve diventare il pretesto populistico e luddistico per buttare via il bambino universalistico con l’acqua sporca particolaristica (chi agisce così deve allora essere conseguente con la sua idiozia sociologica, e buttare via anche il rifiuto della tortura e dei roghi delle streghe, oltre ai diritti di libertà di vario tipo, tutti fenomeni culturali sorti in una genesi particolaristica).
La nuova classe borghese emergente europea, che voleva togliere alle chiese cristiane (non importa se cattoliche, protestanti o ortodosse) il monopolio dell’istruzione secondaria, produsse il liceo europeo unificando i lati migliori della cultura illuministica (con la sua esaltazione della storia e delle scienze matematiche e naturali) e della cultura romantica (con la sua esaltazione della classicità, della letteratura e della centralità dell’educazione non solo razionale ma anche sentimentale).
Lo ripetiamo: non c’è alcun dubbio che la genesi storica del liceo europeo sia stata una genesi di classe, esattamente come peraltro per la produzione industriale e per i diritti politici liberaldemocratici. Occorre ricordare bene questa genesi indiscutibile, perché essa permette di comprendere le lontane radici ideologiche dell’affabulazione apparentemente egualitaria, livellatrice e democratica dei post-comunisti nichilisti alla Luigi Berlinguer, che distruggono il vecchio liceo borghese, credendosi molto riformisti e molto rivoluzionari, semplicemente perché siamo in una fase storica post-borghese del capitalismo.
Al posto delle vecchie Alta Borghesia e Piccola Borghesia ci stanno ora due gruppi sociali nuovi, un’Oligarchia finanziaria transnazionale deterritorializzata ed una Classe Media Globale del tutto post-borghese e post-proletaria. Entrambe non sanno più che farsene del vecchio liceo europeo, ed hanno trovato il sicario nel nuovo ceto politico post-comunista, diventato oggi in Italia un ceto politico mercenario professionalizzato dopo la rovinosa ed irreversibile caduta dei sistemi economici, politici e sociali del comunismo storico novecentesco.
La comprensione di questo fenomeno storico è impossibile per tutti coloro che identificano Borghesia e Capitalismo, cioè un soggetto storico-culturale temporaneo con un Modo di Produzione che nella sua riproduzione funziona assai più come un Processo senza Soggetto (secondo la corretta intuizione di Louis Althusser) che come un Progetto Finalistico voluto da un improbabile deus ex machina denominato Borghesia. Questa comprensione è dunque assolutamente impossibile per il 95% di tutti i cosiddetti marxisti, sia ortodossi che eretici, che sono appunto unificati viziosamente da quella grottesca forma di Economicismo che si basa appunto sull’identificazione fra Borghesia e Capitalismo.
Queste note non sono assolutamente rivolte a costoro, per il semplice fatto che l’Economicismo è una forma di pensiero irriformabile, incurabile, autoreferenziale, dotata di una coerenza paranoica che non può essere scalfita, come avviene per i cultori del satanismo o per i credenti in un complotto templare-rosacrociano per conquistare il mondo. L’Economicismo non potrà capire mai come un fenomeno possa essere contemporaneamente a tutti gli effetti antiborghese ed ultracapitalistico. Ed è appunto questo il caso dell’attuale distruzione pianificata del liceo europeo, coincidente per di più con un’asfissiante retorica ultraeconomicistica sull’Europa monetaria dell’Euro. Da un punto di vista strettamente filosofico, si tratta di una figura fenomenologica assolutamente interna alla rovinosa dialettica interna dell’Economicismo, da un economicismo antiborghese e proletario ad un economicismo postborghese ed ultracapitalistico. Ma è bene chiarire meglio il significato dei termini che proponiamo.
Questa riforma Berlinguer è una riforma anti-borghese, perché la natura dell’egemonia borghese sulle altre classi capitalistiche soggette non era solo economica, ma era anche di tipo culturale. Ma il tipo di classe capitalistica dominante negli Stati Uniti d’America, come già Tocqueville rilevò in modo geniale più di centocinquant’anni fa, era caratterizzata, a differenza delle classi capitalistiche europee, da una natura democratica, non certo nel senso greco antico del termine, ma nel senso modernissimo per cui il denaro, e solo il denaro, strumento democratico per eccellenza in quanto accessibile in via di principio a tutti, rappresentava l’unico elemento di distinzione. Alla fine del Novecento, dopo tre guerre mondiali vinte dagli USA (includendo anche la guerra fredda contro il comunismo storico novecentesco), le classi borghesi-capitalistiche europee adottano il modello capitalistico puro americano, ed è dunque del tutto logico che smantellino il loro liceo europeo di classe.
Questa riforma Berlinguer è una riforma post-borghese e post-proletaria per il fatto che Borghesia e Proletariato sono classi polarmente complementari, e l’una non può stare senza l’altra. Solo gli sciocchi marxisti dogmatici economicisti pensano che la Borghesia possa tramontare, o essere ridotta ad una pura funzione imprenditoriale o tecnico-amministrativa, mentre continua ad esistere una sorta di ectoplasma sociale chiamato Proletariato Mondiale, l’insieme statistico di chi in qualche modo vende la sua forza-lavoro. Al tempo del liceo europeo borghese c’era anche la scuola professionale proletaria per eccellenza, l’istituto tecnico di origine tedesca (figlio della Seconda Rivoluzione Industriale e della Seconda Internazionale Socialista). Non è un caso che anch’esso stia tramontando, sostituito dai veloci corsi di alfabetizzazione informatica.
Questa riforma Berlinguer è una riforma ultracapitalistica, perché in essa è palese che la forma dell’impresa, con il suo linguaggio economicistico e bancario (preside manager, crediti e debiti formativi, eccetera), è rimasto il solo modello organizzativo e gestionale consentito. Dall’analisi della riforma Berlinguer risulta con particolare chiarezza il fatto che un modello capitalistico maturo, avanzato e puro si lascia alle spalle i periodi precedenti caratterizzati dalla dicotomia Borghesia/Proletariato. Tuttavia, scoperto il delitto, bisogna ancora scoprire l’assassino. E come nei migliori romanzi polizieschi, l’assassino non è mai il soggetto maggiormente sospettabile, ma deve sempre essere cercato fra gli apparentemente insospettabili, o quanto meno fra coloro che negano di essere tali.
Ma in questo caso il compito del detective è facile. Per comodità del lettore svelerò subito l’enigma: l’assassino è il maggiordomo.
2. I maggiordomi distruttori del Liceo Europeo: ceto politico professionale post-comunista, pedagogisti futuristi, burocrati post-moderni.
Le feroci oligarchie finanziarie transnazionali che dominano il pianeta, che rappresentano antropologicamente, socialmente e culturalmente una mutazione genetica originatasi da una precedente ma ormai estinta Borghesia, agiscono oggi ancora utilizzando un personale politico professionale reclutato sulla base degli stati nazionali, anche se i loro apologeti già sentono il bisogno di anticipare che occorre superare questa muffa nazionale, e ricorrere a mostri sociali già integralmente deterritorializzati, globalizzati e completamente sradicati, come il pagliaccio ex-sessantottino Daniel Cohn-Bendit, presentato come il politico del futuro per eccellenza, in quanto perfettamente senza-classi, senzapatria, senzadio e senza radicamento nazionale, puro ectoplasma politico-culturale della globalizzazione finanziaria. Ma a tanto non siamo ancora arrivati, e per ora i padroni del mondo devono ricorrere ancora ad un personale politico reclutato su base nazionale.
In Italia, dopo il colpo di stato giudiziario detto Mani Pulite, questo personale politico di maggiordomi fedeli, di mercenari estremamente professionalizzati esiste già, è stato accuratamente selezionato in decenni di apprendistato di potere locale e sindacale. Si tratta dei maggiordomi ex-comunisti e post-comunisti. Ma il termine ex-comunista è ingannevole, perché implicherebbe una sorta di mutamento qualitativo e di conversione antropologica ed esistenziale che in realtà non è mai avvenuto, anche e soprattutto perché nessuno aveva interesse a chiederglielo.
In realtà, così come le attuali oligarchie finanziarie non sono per nulla ex-borghesi, ma sono soltanto post-borghesi, in quanto rappresentano un anello evolutivo all’interno dello stesso genere e della stessa specie, nello stesso modo le attuali classi politiche di sinistra non sono affatto ex-comuniste, ma solo post-comuniste, perché rappresentano soltanto un anello evolutivo cresciuto sullo stesso terreno biologico e genetico di tipo staliniano e togliattiano. Da questo punto di vista apparenti misteri antropologici come Occhetto, D’Alema, Veltroni, Mussi, Fassino, Luigi Berlinguer, eccetera, non sono per nulla misteriosi.
Il filosofo cattolico Augusto Del Noce li ha per esempio già descritti profeticamente fin dagli anni Sessanta. Essi sono misteriosi solo alla luce del pensiero meccanicistico, deterministico, economicistico, oppure del pensiero magico-religioso (tradimenti, abiure, eccetera). Alla luce di un pensiero dialettico alla Hegel essi sono quanto di più trasparente, comprensibile e soprattutto banale si possa immaginare.
Il ceto politico professionale post-comunista si è formato dentro una vera e propria Metafisica Politicistica ed Economicistica erroneamente scambiata per marxismo, cioè per pensiero originale di Marx, laddove si trattava dei giacimenti di guano lasciati dall’economicismo mistico e dal politicismo esasperato della Seconda e poi della Terza Internazionale. La riproduzione sociale era ridotta ad economia, e lo spazio pubblico a politica di partito.
La scuola era analizzata in termini istericamente economicistici come luogo di produzione di forza-lavoro in formazione, mentre i modelli culturali erano tutti visti con sospetto come fattori di una selezione meritocratica che poteva sfuggire in qualche modo al vorace cannibalismo della pura cooptazione politica di partito.
Se questa genesi ideologica è tenuta in conto e considerata nei suoi esatti termini storici, non ci si potrà poi stupire se questo Economicismo Primario, intessuto di populismo, rancore, risentimento ed innocua affabulazione comunista ha potuto rapidamente evolvere in Economicismo Secondario, cioè in adattamento pianificato nella forma dell’impresa capitalistica, un adattamento che ovviamente presuppone il seppellimento del vecchio liceo europeo.
Il passaggio dall’Economicismo Primario all’Economicismo Secondario è un passaggio interno all’Economicismo come formazione ideologica, e non richiede pertanto alcuna conversione esistenziale o antropologica. È possibile accertarsi di questo in modo rigorosamente lombrosiano, considerando non solo l’ineffabile Luigi Berlinguer, rampollo ereditario della nobiltà comunista di ramo sardo-sassarese, ma il codazzo dei suoi collaboratori, un codazzo ricco di ex-estremisti, ex-sindacalisti, più vari parassiti e distaccati dall’insegnamento.
Siamo dunque in grado di diagnosticare le due principali caratteristiche del ceto post-comunista dei maggiordomi assassini del liceo europeo di genesi borghese, romantico-illuministica. Si tratta di maggiordomi nichilisti e ricattabili. Si tratta di maggiordomi nichilisti, perché il loro fondamento ideologico precedente era un Economicismo raddoppiato con un innocuo Finalismo Utopistico (il comunismo), ed una volta caduto l’illusorio finalismo utopistico resta solo il brutale Economicismo, ed allora il presunto Oltreuomo comunista diventa un puro Ultimo Uomo ultracapitalistico. Si tratta di maggiordomi ricattabili, perché pende sempre su di loro la spada di Damocle del loro torbido passato comunista, che i loro nuovi padroni possono sempre rivangare e rinfacciare, per cui devono sempre mostrare di essere zelanti e primi della classe.
Questo ceto di maggiordomi non potrebbe però distruggere una istituzione tanto radicata come il liceo europeo senza la collaborazione subalterna di due altri soggetti socio-professionali, i pedagogisti futuristi ed i nuovi burocrati post-moderni. Bisogna dunque fare brevemente riferimento ad entrambi questi pittoreschi soggetti.
I pedagogisti luddisti e futuristi sono i sicari ideali del ceto politico post-comunista. Molti commentatori hanno fatto giustamente notare che uno degli ispiratori della riforma Berlinguer, il pedagogista Roberto Maragliano, è autore di questa stupefacente affermazione: “Il videogioco è la più grande rivoluzione epistemologica di questo secolo. Ti dà una scioltezza, una densità, una percezione delle situazioni e delle operazioni che puoi fare al loro interno che permette di esaltare dimensioni dell’intelligenza e dello stare al mondo finora sacrificate dalla cultura astratta”
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A differenza di come potrebbe pensare il lettore frettoloso, non si tratta di intossicazione di ecstasy da discoteca. È vero che la pedagogia è da sempre il ventre molle delle scienze umane e della filosofia, la zona borderline per improvvisatori e chiacchieroni, l’organismo più aggredibile dalle mode contingenti. È vero che le stolide manie organizzativistiche di molti pedagogisti borderline hanno già prodotto l’inutile diluvio cartaceo che ha già distrutto la scuola media unica italiana, in nome del principio magico-animistico per cui tutto ciò che è registrato su carta deve necessariamente produrre effetti culturali (laddove ovviamente così non è). Ma nella demenziale affermazione di Maragliano ci sta (senza che ovviamente il disgraziato possa minimamente sospettarlo) una profonda aderenza allo spirito del tempo della postmodernità, lo Zeitgeist ultracapitalistico e post-borghese attuale.
Quella che per il luddista Maragliano era la “cultura astratta” era in realtà la cultura critica, quella che impone l’attesa e la riflessione, che è effettivamente incompatibile con la velocità di decisione immediata richiesta da una cultura operazionale pura e non più critica. Così come il telecomando, anche il videogioco è un modello di pura velocità che salta l’ormai obsoleta lentezza critica e riflessiva. Il demenziale Maragliano deve velocizzare la lentezza della cultura astratta in nome della prontezza delle battute da talk show e degli spunti brillanti di esami che in un’ora toccano l’intero scibile umano.
A fianco dei pedagogisti futuristi e drogati di velocità ci sono però anche e soprattutto i nuovi burocrati post-moderni. Questi burocrati non sono più i vecchi democristiani bacchettoni, statalisti e maneggioni di Viale Trastevere del mezzo secolo democristiano, i quali lasciarono sempre in vita il liceo europeo non certo perché ne comprendessero lo spessore culturale, ma perché il loro modello preferenziale, la scuola di preti mafioso-familiare, non poteva essere esteso all’intera collettività, e dovevano dunque continuare a riprodurre il venerabile modello classico-borghese. I nuovi burocrati sono il prodotto di una fusione fra il vecchio ceto ministeriale, verticistico, gerarchico, maneggione e faccendiere ed il nuovo ceto burocratico nato dai sindacati scuola confederali, fatto di distaccati, politicanti a tempo pieno, formatori ed altri vari parassiti.
In questa Armata Brancaleone mancano, ovviamente, e non potevano non mancare, gli insegnanti normali. E sono appunto gli insegnanti normali, e particolarmente i buoni insegnanti, che hanno sostenuto e fatto funzionare il liceo europeo negli ultimi duecento anni, i veri assenti di questa riforma, il vero soggetto assente. I buoni insegnanti sono caratterizzati da due vocazioni distinte, a volte presenti insieme ed a volte separate, la vocazione all’insegnamento e/o la vocazione culturale e di studio e ricerca.
Entrambe queste vocazioni sono incompatibili con il mondo parassitario dei sindacalisti, dei quadri politici, dei distaccati a vita, degli addetti-stampa, e di tutta la pittoresca congrega che accompagna il ceto politico professionale post-comunista, e che vive di riunioni interminabili in cui tutti fumano in una stanza chiusa richiamandosi contemporaneamente ai valori dell’ecologia, ed in cui lo stesso femminismo diventa spartizione di quote dirigenziali per sindacaliste logorroiche.
Ma il ceto politico post-comunista ed i pedagogisti schizzati non sanno letteralmente che farsene degli insegnanti normali, che disprezzano in quanto massa impiegatizia taylorista-fordista, e soprattutto dei buoni insegnanti, di cui sospettano e temono la capacità critica e professionale. Ed è dunque inevitabile che essi diano luogo ad una situazione autoreferenziale, in cui si produce un’affabulazione cartaceo-informatica sulla scuola da cui però sono assenti gli insegnanti, cioè gli insegnanti normali ed i buoni insegnanti. Al posto di questi troneggiano il post-comunista Berlinguer, il videodipendente Maragliano, e bande di sindacalisti e di distaccati partitici.
3. Il Liceo Europeo al di là della falsa e fittizia contrapposizione fra Liceo Classico e Liceo Scientifico.
Sul vecchio liceo europeo esiste un’infondata leggenda negativa, per cui si tratterebbe di una scuola esclusivamente classica, letteraria, umanistica, e quindi per sua stessa natura incapace di tener conto del valore culturale della cultura scientifica. Tuttavia, questo pregiudizio è nell’insieme infondato. Il vecchio liceo europeo, di genesi storica borghese e di validità culturale universalistica, è in realtà nato quasi contemporaneamente in Germania, come liceo prevalentemente classico, e nella Francia napoleonica, come liceo prevalentemente scientifico.
La stessa stucchevole diatriba sulla cosiddetta superiorità della cultura classica e/o della cultura scientifica, con i conseguenti idioti dilemmi se sia più importante conoscere Shakespeare o la seconda legge della termodinamica (tipico dilemma per chi non ha proprio niente di meglio da fare) è del tutto estranea all’impostazione originaria del liceo europeo, ed è piuttosto tipica di una situazione culturale di cento anni dopo, cioè del primo Novecento, nel contesto di una polemica neoidealistica contro il positivismo.
Il liceo europeo che i maggiordomi post-comunisti stanno distruggendo in Italia piace infatti sia a persone di cultura scientifica (cfr. Lucio Russo, Segmenti e Bastoncini, Feltrinelli 1998), sia a persone di cultura umanistica (cfr. Fabrizio Polacco, La cultura a picco, Marsilio 1998). E questo non è ovviamente un caso. L’impostazione culturale originaria del liceo europeo, infatti, rifiuta l’assurdo dilemma gerarchico della cosiddetta superiorità fra asse umanistico ed asse scientifico, in favore di una natura critica dell’apprendimento di tutte le discipline.
La genesi particolaristica di questa comune natura critica stava evidentemente nel fatto che la borghesia aveva bisogno di questo apprendistato critico per la sua lotta su due fronti, contro il tradizionalismo aristocratico e clericale e contro le nascenti rivendicazioni popolari, operaie e contadine. Ma la validità universalistica di questa comune natura critica sopravvive ovviamente alla genesi particolaristica che l’ha prodotta. Tuttavia la dialettica fra genesi (sempre particolaristica) e validità (talvolta universalistica) sfugge per principio a tutte le culture relativistiche, storicistiche e sociologistiche, come la cultura del ceto politico post-comunista ed il suo codazzo di pedagogisti futuristi e di burocrati, sia di dialetto ministerialese che di dialetto sindacalese.
Il liceo europeo, proprio per la stretta fusione fra componente illuministica e componente romantica che lo ha costituito, non consente nessuna controversia sulla presunta superiorità di una preferenza culturale. Ad esempio il vecchio liceo austro-ungarico, che fu storicamente una delle forme più alte del liceo europeo, era caratterizzato da un ottimo insegnamento e da un ottimo apprendimento delle scienze naturali.
Nei suoi scritti di pedagogia Hegel fa notare che lo sviluppo delle capacità intellettuali avviene sia sul terreno della matematica sia sul terreno della traduzione dalle lingue classiche (cfr. Hegel, La scuola e l’educazione, Franco Angeli 1985). ب interessante che uno studioso di scienze naturali come Luca Cavalli Sforza abbia fatto notare che “… fra tutte le mie esperienze scolastiche, la traduzione dal latino è stata l’attività più vicina alla ricerca scientifica, cioè alla comprensione di ciò che è sconosciuto”
(cfr. La Repubblica, 27 novembre 1993).
Le citazioni potrebbero essere moltiplicate, ma non è il caso di farlo, perché girano tutte intorno ad uno stesso punto. Ed il punto è questo: non c’è alcuna gerarchia di valore fra latino e matematica, fra greco e fisica, fra filosofia e biologia, fra storia e chimica; non ha alcun senso confondere il carattere critico dell’apprendimento liceale e quello specialistico dell’apprendimento universitario; ha invece senso ribadire la peculiare natura della licealità, che è figlia della paideia greca, della raison illuministica e della Bildung romantica, e che è in effetti incompatibile con la velocità e la flessibilità operazionale esaltate dal distruttore Maragliano, e che sono rivolte a distruggere la natura educativa sia del greco che della fisica, come ad esempio sia Lucio Russo sia Fabrizio Polacco capiscono perfettamente.
4. La riforma Gentile del 1923. Una interpretazione limitativa del Liceo Europeo.
La riforma che prende il nome da Giovanni Gentile del 1923 fu una buona riforma, onore della scuola italiana e più in generale punto alto della nostra cultura nazionale. Questo è un giudizio di fondo che è bene esprimere in modo chiaro senza opportunismi linguistici. Non intendo affatto negare che essa fu storicamente resa possibile dal decisionismo mussoliniano, che offrì a Gentile la possibilità di tagliare con la spada i nodi aggrovigliati di decenni di dibattito pedagogico fra il partito dei positivisti ed il partito dei neoidealisti. Ma appunto per questa ragione sarebbe sciocco identificare questa riforma con il regime fascista in quanto tale, oppure vederla come momento di un solo nodo reazionario e controrivoluzionario.
La riforma Gentile non fu in nessun modo una risposta borghese o piccolo-borghese alla rivoluzione russa del 1917, e lo dimostra tra l’altro uno studio spassionato delle politiche scolastiche sovietiche negli anni Venti e Trenta, che oscillarono fra modelli diversi e spesso antagonistici. E questo non è un caso, perché lo sciocco economicismo della Seconda Internazionale aveva celebrato i suoi peggiori trionfi nell’indifferenza e nella trascuratezza con cui (non) aveva affrontato la questione scolastica e culturale nel suo complesso.
Il fatto che le strutture essenziali della riforma Gentile del 1923 siano sopravvissute al fascismo e siano durate fino a questa fine del Novecento è indubbiamente un buon argomento contro chi vuole diffamare la riforma Gentile identificandola con il fascismo. Nelle sue linee essenziali, il liceo gentiliano è stata la dignitosa variante italiana del liceo europeo, ed uno dei pochi prodotti positivi della nostra cultura nazionale novecentesca. Certo, chi nega persino la pertinenza della paroletta nazionale non potrà neppure capire le ragioni di questo giudizio.
Detto questo, è bene aggiungere subito che la riforma Gentile nasceva con alcuni equivoci e con alcune debolezze filosofiche (si noti bene: filosofiche, non pedagogiche) legate al tipo di idealismo storicistico dello stesso Gentile, e della sua interpretazione limitativa della nozione di concetto (Begriff) in Hegel, con la correlata negazione dello statuto conoscitivo del concetto scientifico. In questo modo, anziché stabilire fin dall’inizio, come sarebbe stato auspicabile ed opportuno, un’immediata pari dignità fra liceo classico e liceo scientifico, si prendeva la via sbagliata della diversa dignità, e della conseguente sciagurata derubricazione del liceo scientifico (e qui, a mio avviso, si pagava l’errore della connotazione del concetto scientifico come pseudoconcetto).
Il gigantesco ruolo educativo delle lingue classiche (latino e greco) non aveva, e non ha tuttora, nessun bisogno, per essere legittimato e difeso, di un’inutile e dannosa derubricazione della matematica e delle scienze naturali. Nello stesso modo fu un grave errore la trascuratezza verso l’insegnamento delle lingue moderne, e particolarmente verso le modalità libresche con cui venivano insegnate. In più, ebbe certamente uno sciagurato carattere di classe (più piccolo-borghese che borghese) la chiusura di ogni possibilità di accesso universitario per i migliori studenti delle scuole tecniche, una possibilità felicemente prevista prima del 1923. Nello stesso modo, si possono fare molte altre critiche di dettaglio alla riforma Gentile, una riforma che soffriva pur sempre di un angusto provincialismo tipico di quel periodo storico.
È assolutamente evidente che non ha alcun senso la difesa attuale della riforma Gentile del 1923. Ma è bene riconoscerne storiograficamente la statura culturalmente dignitosa, appunto perché questo riconoscimento preliminare è la precondizione per poterla poi criticare non solo nei dettagli applicativi, ma anche in alcuni vizi di fondo prima ricordati.
Se invece si sceglie un atteggiamento riduttivamente politicistico, si mettono le basi di un luddismo distruttore che all’inizio si presenta come egualitario, popolare, classista e proletario, e poi si rivela semplicemente il cavallo di Troia di una modernizzazione ultracapitalistica. Ed è appunto la triste storia del presente.
5. Un fenomeno storico sconcertante: il suicidio sindacalistico e mimetico della piccola borghesia intellettuale italiana dopo il Sessantotto.
Questo quinto paragrafo è il più filosofico di questo breve saggio, e richiede al lettore un’attenzione particolare. Si tratta della strana storia di un declassamento consenziente, di un orgasmo luddistico protratto oltre ogni vergogna. Eppure, se si riesce a comprenderne la logica di sviluppo, ciò che avviene oggi non apparirà più strano ed incomprensibile, ma comincerà a diventare un oggetto conoscitivo dai profili visibili. In caso contrario, la riforma Berlinguer continuerà a sembrare uno strano enigma storico.
Per cominciare con il piede giusto, bisogna rilevare una peculiare eccezionalità storica italiana dopo il 1945. In estremissima sintesi, per quasi mezzo secolo si stabilizzò una situazione particolare, che vedeva il potere economico e politico in mano alla destra (o più esattamente al centro-destra), ed il potere culturale saldamente ispirato dalla sinistra, compresa soprattutto la sinistra comunista italiana, cioè il togliattismo, versione italiana monopolistica dello stalinismo, la principale variante del comunismo storico novecentesco (abbiamo detto storico, non onirico).
Questa situazione anomala venne interpretata ideologicamente con la categoria di egemonia, tratta dai quaderni di ricerca di Antonio Gramsci in carcere, perché questa categoria ideologica sembrava fatta apposta per consentire speranze di vittoria in chi era impotente economicamente e politicamente, ma sembrava appunto egemone culturalmente.
A questa autoillusione egemonica si univa una visione storicistica del tempo storico, per cui il presente storico era interpretato come un processo a tre stadi: capitalismo arretrato o reazionario / capitalismo modernizzato o progressista / socialismo e poi comunismo (onirico). In questo modo la lotta egemonica per la modernizzazione capitalistica era letta in chiave di avvicinamento temporale al socialismo e al comunismo.
La doppia teoria ideologica dell’egemonia e della modernizzazione (capitalistica) configurava l’identità del togliattismo-berlinguerismo, la variante italiana del baraccone comunista storico novecentesco. È bene capire subito che il modello di società di questo baraccone era contemporaneamente ispirato alla gerarchia ed al livellamento.
Era ispirato alla gerarchia, perché la società era concepita come una piramide dominata da un Moderno Principe costituito da politici di professione, tecnocrati, professori universitari, intellettuali organici, artisti progressisti ed altri rappresentanti del popolo.
Era ispirato al livellamento, perché sotto questa crosta di élite politico-culturali dominanti si concepiva solo una immensa massa livellata, egualizzata, sindacalizzata, organizzata e proletarizzata. Questo livellamento gerarchico era particolarmente ostile ai ceti medi, per definizione difficilmente organizzabili, laddove ai veri ricchi ed agli industriali era riconosciuta una ricardiana funzione produttiva.
Ricapitoliamo dunque i due elementi fondamentali della situazione storica, che sono la separazione di potere economico e di potere culturale e soprattutto il modello di livellamento gerarchico del togliattismo-berlinguerismo, versione italiana egemone dello stalinismo.
Ricapitolati questi due elementi, applichiamoli ora al mondo della scuola. E ne avremo allora un modello economicistico di vero e proprio odio verso il liceo gentiliano, correttamente individuato come un mostruoso riproduttore di piccola borghesia e di ceto medio non organizzabile e soprattutto non moderno, nel senso della modernizzazione capitalistica, ed un modello sindacalistico di voluta proletarizzazione degli insegnanti (dai professori di liceo alle maestre d’asilo), con consapevole eccezione per il corpo insegnante universitario, che nella merdosa concezione del livellamento gerarchico fa parte della élite dominante culturalmente egemone.
Ci siamo un po’ soffermati su questo quadro fangoso, perché in caso contrario molte cose apparirebbero incomprensibili. Ad esempio è interessante studiare l’accoglimento della famosa Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani.
Si tratta (per chi lo ha letto, e chi scrive lo ha letto molte volte con grande attenzione) di un vero e proprio testo mistico, di un esercizio spirituale pienamente religioso, che propone un modello di comunità scolastica estremamente autoritario, a coinvolgimento 24 ore su 24, in cui la ribellione pauperistica contro il modello della cultura come privilegio di classe è spinta fino alla maledizione profetica.
Ebbene, questo testo mistico-autoritario, opposto di 180° allo spirito del Sessantotto, venne letto in modo sessantottino come un lungo grido di odio luddistico contro gli insegnanti piccolo-borghesi (di merda) e soprattutto contro i Pierini primi della classe (di merda). Questi fraintendimenti pittoreschi non sono mai casuali, perché rivelano sempre lo spirito del tempo.
I portatori del modello sociale della modernizzazione e del livellamento gerarchico ebbero buon gioco a egemonizzare l’enorme ectoplasma sociale degli insegnanti italiani, intellettuali-massa per eccellenza, offrendo loro i due modelli economicistici della proletarizzazione e della sindacalizzazione come risposte aggiornate, progressiste e moderne al problema della loro oggettiva crisi di identità e di ruolo sociale. Tutto questo innescò un tragicomico suicidio mimetico della categoria degli insegnanti, proprio mentre i fautori del livellamento gerarchico innalzavano la upper class formata da manager politici, borghesia di stato, docenza universitaria, magistratura ed altri apparati ideologici primari.
Ecco, è questa in breve la radiografia della situazione. A partire dagli anni Settanta il liceo europeo cominciò a perdere di legittimazione culturale ed a morire, proprio quando cominciavano ad arrivarci i figli delle classi popolari. Ma non diamo la colpa al popolo. Non sono certamente i figli degli operai che hanno involgarito il liceo europeo. Non diciamolo neppure per scherzo. No, il pesce cominciò a puzzare dalla testa, non dalla coda.
Senza diagnosticare la causa principale della malattia nel modello economicistico di livellamento gerarchico, premessa storica e culturale dell’attuale riforma Berlinguer, non si capisce nulla, ma proprio nulla, ma assolutamente nulla di quanto sta accadendo.
6. La scuola del pensiero unico, del monoteismo di mercato e del modello dell’impresa.
Dopo aver fatto questo richiamo storico-filosofico, possiamo finalmente arrivare al 1999 ed alla riforma Berlinguer muniti di alcune ipotesi interpretative di lungo periodo, e non solo schiacciate sui pettegolezzi politici dell’attualità. È necessario tuttavia disfarsi ancora di due pregiudizi tipici della cosiddetta cultura di sinistra politicamente corretta (l’unica che ha accesso ai media rivolti a persone di una certa kual kultura), che definiremo la sindrome Dario Fo e la sindrome Nanni Moretti.
La sindrome Dario Fo consiste in ciò, che i vertici direzionali e decisori del capitalismo vengono individuati in pescecani e paperoni alla Silvio Berlusconi, dotati di dieci ville ai Caraibi, forchette d’oro, bevande di sangue umano proletario e lavandini d’argento, per cui si pensa poi di essere contro il capitalismo se si rifiuta il modello estetico di Berlusca.
La sindrome Nanni Moretti consiste in ciò, che si continua a gridare “sinistra, sinistra!”, a chiedere alla sinistra di essere veramente di sinistra, a stupirsi se la sinistra non fa cose di sinistra ma per caso fa cose di destra, a invocare la Vera Sinistra che non si vede mai, ed infine a pensare che la comprensione del mondo sia direttamente proporzionale al numero di volte in cui la parola sinistra è ossessivamente evocata.
Ma le sindromi Dario Fo e Nanni Moretti sono solo il vischioso residuo inerziale della situazione della Prima Repubblica Italiana (1946-1991), in cui i poteri economico-politico e culturali erano ancora divisi, ed il potere culturale stava all’opposizione.
Ma oggi, negli anni Novanta, non è più così. Oggi i tre poteri economico, politico e culturale sono finalmente uniti, e per questo sono molto più forti che in precedenza (ad esempio, possono affossare il liceo europeo). Il cinico avvocato Agnelli di Torino lo ha del resto detto con grande chiarezza, dichiarando che solo la sinistra può oggi fare cose che la destra non riuscirebbe mai a fare, e solo confusionari cronici e recidivi come Dario Fo e Nanni Moretti possono non avere ancora capito una cosa che è alla portata persino del popolo del Gratta e Vinci e del Superenalotto.
La forma sociale ed economica dell’azienda e dell’impresa, cellula del moderno capitalismo globalizzato, può essere infine portata in ambiti sociali in cui fino ad oggi non aveva ancora potuto essere portata, ad esempio nel glorioso liceo europeo protoborghese. Abbiamo detto che la cellula della produzione capitalistica è l’azienda-impresa, non certo la fabbrica, come per decenni hanno sostenuto in Italia gli operaisti confusionari, con il bel risultato di non capirci nulla di quanto stava accadendo. Ed infatti non si tratta certo di portare la forma-fabbrica nella scuola, quanto di portarci la forma dell’azienda-impresa. Il personale politico post-comunista, nichilista e ricattabile, è particolarmente adatto per questo passaggio storico.
Tutto ciò è visibile ad occhio nudo in mille particolari, ma è forse l’esempio del nuovo preside-manager il più rivelatore e significativo. Per quasi due secoli la figura del preside del liceo europeo è sempre oscillata fra tipi umani assolutamente non-imprenditoriali, dal notabile di provincia di rango simile a quello del farmacista o del medico condotto al vecchio umanista paterno, dalla figura grottesca del caporale alla Totò che voleva esercitare la sua autorità non solo su indifesi adolescenti ma anche su riluttanti colleghi coetanei fino al profilo microprefettizio di burocrati vocazionali.
Ma oggi questa figura non-imprenditoriale e microprefettizia deve essere assolutamente sostituita, perché la scuola-impresa-azienda non saprebbe più che farsene. Oggi è necessario produrre in modo professionale una figura di manager del territorio, che si disputi con altri manager di questo tipo gli studenti-clienti, attirandoli con offerte speciali, e nello stesso tempo ricerchi con successo i finanziamenti e le sponsorizzazioni private presenti nel territorio circostante.
Al modello moderno del tempo dell’educazione succede il modello post-moderno dello spazio del territorio-risorsa da valorizzare (cfr. gli studi di David Harvey, ma anche più provincialmente C. Preve, Il tempo della ricerca, Milano 1993, p.171).
Il bando di gara per la formazione manageriale dei presidi italiani del 6/10/1998 è stato concluso in tempi manageriali, non nei tempi borbonici cui la burocrazia scolastica era precedentemente abituata.
I privati, Confindustria in testa, hanno fatto la parte del leone. Il preside Giorgio Rembado, presidente dell’associazione nazionale presidi, è entusiasta di questa nuova via manageriale, anche perché vi vede correttamente la possibilità per la sua categoria di accedere all’area della dirigenza. E questo non deve stupire, se ci si ricorda dell’immagine sociale di tipo gerarchico-livellatore precedentemente coltivata per mezzo secolo dal ceto politico restato sostanzialmente stabile nelle sue tre fasi metamorfiche successive veterocomunista, neocomunista e postcomunista.
La scuola del pensiero unico ultracapitalistico può finalmente assumere la forma dell’azienda-impresa. Certo, mille attività ausiliarie erano già da tempo svolte nella forma dell’azienda-impresa, dall’adozione dei libri di testo propagandati dalle case editrici all’acquisto di attrezzature e computer, dai viaggi scolastici d’istituto agli appalti per le imprese di pulizia, eccetera.
Ma il nucleo portante del liceo europeo sfuggiva ancora, nel suo modello riproduttivo, al modello dell’azienda-impresa (così come, per altri aspetti, il modello della riproduzione biologica umana, oggi sempre più affidato allo scambio libero fra clienti aspiranti ed industria biotecnologica). È giunto il momento per i sicari-maggiordomi, e per i loro padroni oligarchi finanziari, di ovviare a questa spiacevole arretratezza.
7. Il cavallo di Troia: il nuovo esame di maturità.
Il nuovo burocrate postmoderno e postcomunista, per essere precisi, ha abolito per decreto il glorioso termine di Maturità, facendolo scomparire e sostituendolo con un anonimo nuovo esame di stato. Ma qui vi sono almeno due diversi furfanteschi inganni. In primo luogo, il vecchio termine di Maturità (Mundigkeit) risaliva addirittura al vecchio Kant del 1784, e non aveva nessun carattere classistico, ma pienamente universalistico, cioè illuministico.
Esso intendeva significare che la maturità non consiste nella vecchiaia anagrafica o nell’anzianità, ma consiste nell’indipendenza e nell’autonomia di pensiero, per cui il diciottenne che acquisisce questa indipendenza e questa autonomia critica di pensiero è appunto maturo. Si noterà che qui si uniscono felicemente le due componenti illuministica della autonomia critica di pensiero e romantica della valorizzazione della gioventù e del ringiovanimento del pensiero (Verjungen).
ب normale che nichilisti ricattabili come Luigi Berlinguer aboliscano questo richiamo critico del pensiero, legato al termine di Maturità, perché i loro nuovi padroni, gli oligarchi finanziari, non hanno bisogno di una lenta cultura critica, ma di una veloce cultura flessibile di consumatore (e si vedano le considerazioni di Lucio Russo nel già citato ottimo Segmenti e Bastoncini).
Ma vi è un secondo punto da rilevare in questa mistificazione. Proprio mentre si abolisce in modo suicida e luddistico il vecchio sensatissimo termine di Maturità e si parla solo sobriamente di esame di Stato, proprio ora lo stesso esame di stato viene abolito, nel senso che vengono distrutti quegli elementi di omogeneità formale e di universalità che fanno appunto di un esame di stato un esame di stato (e si veda nei dettagli la cosiddetta Terza Prova, eccetera).
Tutto questo non è peraltro per nulla casuale. Il fine dei riformatori, in pieno accordo con una concezione integralmente mercatistica di domanda-offerta fra individui flessibili ed aziende-imprese, è l’abolizione di ogni valore legale dei titoli di studio. Per il momento non vi sono ancora le condizioni politiche per ottenere questo risultato, ma non si può negare che un buon passo avanti in questa direzione lo si può compiere con l’aumento della casualità e la diminuzione della omogeneità nelle prove d’esame. Nel contesto di una cosciente distruzione degli stati nazionali in favore di un cosmopolitismo aziendalistico integrale non è infatti opportuno lasciare ad una istanza politico-culturale separata (la struttura scolastica) ciò che deve essere sovranamente giudicato dalla sola istanza economica consentita (l’azienda-impresa).
Berlusconi non ci sarebbe riuscito, e non certamente perché questo pescecane ci tenesse alla cultura classica o all’illuminismo (che sostituirebbe immediatamente con spot pubblicitari se questo gli rendesse qualcosa), ma perché il suo esclusivo interesse a tenersi Canale 5 ed a non farselo prendere dal pescecane Cecchi Gori appoggiato dall’Ulivo avrebbe fatto sì che non avrebbe osato toccare un meccanismo economicamente indifferente, per non attirarsi addosso inutili guai.
Ma invece Berlinguer, erede del processo segnalato nel quinto paragrafo di decennale suicidio mimetico-proletario e sindacalistico della categoria degli insegnanti, è in grado di attuare questa operazione. Per la loro conoscenza del territorio, e per il trovarsi già sul luogo, i maggiordomi sono i killer ideali.
8. Il giovanilismo burocratico, i pulcini partitici e la competenza specifica in materia di superficialità.
Finora non abbiamo ancora parlato dei giovani e degli studenti, che sono pur sempre i destinatari della distruzione postmoderna del liceo europeo moderno. E non l’abbiamo fatto appunto perché la categoria dei giovani, se non vuole essere una categoria puramente anagrafica, biologica o sociologica, ma vuole essere anche una categoria storica e politica, deve essere usata con molta cautela e con molta sobrietà, cosa che i giovanologi demagogici non fanno ovviamente mai.
In estrema sintesi, la società italiana dopo il 1945 ha conosciuto soltanto due movimenti storico-politici di giovani, il 1968 ed il 1977, e dopo più nulla.
Il movimento del 1977 è stato dunque l’ultimo movimento storico-politico di giovani della storia italiana contemporanea. Dopo questa data le periodiche fiammate rituali (movimento del 1985, la Pantera, eccetera) sono state nell’insieme solo episodi gonfiati dal ceto giornalistico di sinistra.
La categoria dei giovani è una categoria che segnala oggi un’assenza storico-politica, non una presenza. Naturalmente, la forza biologica dei giovani è tale che in qualunque momento, senza previsioni possibili, i giovani possono sempre irrompere in modo inaspettato sulla scena storico-politica. Tutte le stucchevoli inchieste sociologiche sui giovani apolitici, ripiegati sulla famiglia e sui gruppi amicali, sportivi, musicali e di volontariato, angosciati dalla disoccupazione e dall’AIDS, eccetera, possono saltare in una settimana di fronte al formarsi aleatorio di un insieme di congiunture storiche inaspettate.
In ogni caso, ripetiamo che tutti i discorsi tromboneschi e reazionari sulla cosiddetta scuola facile dei tutti promossi e del voto politico che avrebbe sostituito la vecchia scuola seria di prima del 1968, e più ancora sull’involgarimento dovuto all’accesso dei giovani di origine popolare, operaia e proletaria restano sciocchezze. E diciamo questo non per pagare l’obolo dovuto alla cultura politicamente corretta della sinistra, da cui siamo completamente estranei, ma per il semplice fatto che questa valutazione aristocratica è completamente falsa, scambia l’effetto con la causa, inverte la logica dei fatti e funziona come semplice feticcio ideologico, e non come canone di spiegazione storica.
È naturale che a 16 anni si preferisca una scuola facile, che lascia più tempo per la musica, il calcio, i rapporti amicali e sociali, gli hobby, eccetera. Ma questa banale ovvietà non significa che ci sia stato veramente un movimento politico giovanile per una scuola azzerata, sia nel 1968 che nel 1977. Anzi, chi frequenta veramente i giovani sa perfettamente che nella loro stragrande maggioranza essi preferiscono una selezione di tipo meritocratico (i cosiddetti voti dati con giustizia e non in modo arbitrario da professori distratti e prevenuti), piuttosto che una selezione legata alla cooptazione politico-mafiosa, estranea al rendimento scolastico.
Il cosiddetto voto politico ed il cosiddetto voto unico non sono stati il frutto di un movimento politico giovanile e studentesco, ma sono prevalentemente stati un momento di sbandamento ideologico che è venuto dall’alto e non dal basso, cioè dal corpo insegnante di sinistra influenzato dal livellamento gerarchico dello stalinismo italiano.
Ma chi sono oggi i giovani politicamente espressivi? Sono un gruppo esilissimo ed assolutamente non rappresentativo di pulcini partitici allevati in batteria per essere la prossima classe politica, che incarnano una (orrida) figura dello spirito che potremo definire giovanilismo burocratico.
Il loro modello politico è Walter Veltroni, l’uomo che cerca l’identità etica italiana in Kosovo ed in Birmania, il raccoglitore delle figurine Panini, l’uomo che ha nel suo studio i due ritratti di Berlinguer e di Kennedy, l’uomo per cui Dante Alighieri e Benigni sono entrambe risorse per il turismo toscano e per il look dell’Italia all’estero.
Il loro modello culturale è Umberto Eco, il vorace chiacchierone tuttologo in cui la vertigine semiologica superficiale ha nichilisticamente dissolto ogni profondità.
Più in generale l’unione delle figure di Veltroni e di Eco porta a quella figura spirituale ed a quella nuova professionalità che lo studioso americano Fredric Jameson ha definito competenza specifica in materia di superficialità, la capacità veloce, flessibile ed in tempo reale di parlare di Gorbaciov, Dulbecco, Raffaella Carrà, la deriva dei continenti, i giochi a premio e la fine del comunismo. Certo, questo è dovuto anche, direbbe Benjamin, alla perdita dell’aura dell’unicità letteraria ed artistica. Si tratta di un tipo di cultura dell’epoca della riproduzione, della clonazione, ma anche della riduzione totalitaria a forma di merce vendibile di tutti gli enti, come si dice in pomposo linguaggio filosofico.
Il giovanilismo burocratico dei pulcini politici delle commissioni giovanili dei partiti si nutre di questa cultura, ed ha appunto come modello la competenza specifica in materia di superficialità, da spendere (una vera risorsa spendibile) nelle tavole rotonde e nei talk show mediatici.
È per questo che la nuova maturità berlingueriana piace a questi pulcini politici. Essa permette di partire dai propri interessi, di proporre articoli di giornale e testi teatrali (e scommettiamo che tutti si improvviseranno Brecht, Shakespeare ed Alfieri, tanto ogni dialogo è eguale ad un altro, e siccome Dio è morto, non esiste più Dio a valutarne la qualità), di avanzare crediti formativi (interessante questo linguaggio da bancari) di ogni tipo. È il trionfo del casino creativo, dell’improvvisazione, della velocità di riflessi (in un dialogo di un’ora si parlerà di tutte le materie in programma a partire da un argomento, magari esistenziale, scelto dal candidato). È appunto il modello culturale dei pulcini politici delle commissioni giovanili di partito, cioè di partiti macchina-pigliatutto senza più obsoleti riferimenti ideologici.
Si tratta di pura superficie senza alcuna profondità, un modello culturale che danneggia tutti i giovani seri, timidi, un po’ imbranati ma profondi ed esalta i farfalloni e le farfalline. Intanto, ciò che conta veramente non sarà esaminato qui, ma verrà valutato sulla base di master post-universitari pagati dalle famiglie in costosissimi stage di lingua inglese. L’innocuo casino creativo è riservato ai centri sociali che verranno sempre più ricavati nelle vecchie strutture dei venerandi ed aboliti licei europei.
9. Le conclusioni fra pessimismo della volontà ed ottimismo dell’intelligenza.
È giunto il momento di stringere, cioè di chiudere. Prima, però, regalerò al fedele lettore un breve intermezzo autobiografico.
Il lettore munito di elementari rudimenti di analisi stilistica potrebbe essere portato a pensare che lo scrivente odi tipi umani alla Luigi Berlinguer, prodotti clonati della decadenza tosco-emiliana del comunismo storico novecentesco, e che questo odio non viene neppure nascosto. Ebbene, il lettore avrebbe ragione. È vero che la mamma e la nonna mi hanno insegnato a non odiare nessuno, e che lo stesso odio è pur sempre un sentimento forte e dignitoso, che questi banali burocrati postcomunisti non meritano, perché la loro banalità non suscita che disagio e curiosità. Ma a fianco del disagio e della curiosità vorrei indicare anche un innocuo ricordo personale.
Tornato dagli studi all’estero circa trent’anni fa avevo deciso di non scegliere in alcun modo una professione che implicasse comunque un’attività di tipo capitalistico-aziendale-imprenditoriale, anche se questo avesse implicato bassi stipendi, eccetera. Certo, nessuno può scegliere il modo di produzione in cui vivere, visto che uno vi è gettato (ausgeworfen). Ma anche nello schiavismo si può sempre fare il filosofo, e nel feudalesimo il monaco.
Nel capitalismo vi sono pochissime attività non aziendali, come il medico di base, il viaggiatore esotico ed il professore di liceo. Non potendo fare il medico di base per mancanza di un titolo di studio specifico, ed il viaggiatore per mancanza di soldi e paura dello sradicamento, mi restava solo il professore di liceo, stupenda attività senza aziendalità, senza imprenditorialità, eccetera.
Ebbene, proprio ora, alle soglie della pensione, questi politici postcomunisti, diventati maggiordomi degli anonimi mercati finanziari, mi costringono a fare ciò che trent’anni fa pretoni democristiani e massoni laici non avrebbero mai osato concepire, il Gioco del Piccolo Imprenditore Scolastico, dei debiti e dei crediti formativi, della scuola azienda di offerta culturale nel territorio, della corsa fantozzesca agli stipendi differenziati per recuperi, corsi di aggiornamento, cordate di istituto, eccetera. È vero che non lo farò comunque, anche se (a differenza di Cacciari) non sono ricco di famiglia, e dovrò fare almeno un poco il pagliaccio per quieto vivere e per lo stipendio mensile.
E qui chiudo l’intermezzo autobiografico: non odio Berlinguer ed i suoi scagnozzi, perché essi non meritano purtroppo un sentimento tanto nobile, fecondo e vivace. Ma è indubbio che un’incontenibile ripugnanza fa da molla personale alle mie osservazioni. Del resto, chi pensa che la radice psicologica personale ed il suo svelamento annullino la pertinenza di un’analisi storica e culturale dovrebbe essere costretto a seguire un corso di aggiornamento obbligatorio (con crediti esigibili) sul nesso fra genesi biografica e psicologica e validità scientifica, letteraria e filosofica. E passiamo ora ad alcune oneste conclusioni teoriche di questo discorso scolastico.
In primo luogo, mi sembra poco realistico, ed anzi francamente irrealistico, pensare ad un arresto al processo di distruzione del liceo europeo in Italia. Si sono mosse forze sistemiche gigantesche, che pochi kamikaze non potrebbero certo arrestare.
Chi scrive è stato animatore di uno dei pochi casi (forse l’unico) di disobbedienza civile in Italia (Liceo scientifico Volta di Torino), in cui la maggioranza del corpo insegnante aveva inizialmente rifiutato di fare gli adempimenti preparatori di questa maturità berlingueriana. Trenta o quaranta iniziative di questo genere in Italia non avrebbero certo potuto fermare il rullo compressore della fase postmoderna della modernità, ma avrebbero almeno potuto costringere il ceto politico postcomunista e il suo codazzo di pedagogisti pazzi, sindacalisti, manager, eccetera, a ricontrattare le modalità pratiche della riforma con gli insegnanti normali. Ma gli insegnanti normali hanno scelto la facile via del mugugno, del pensionamento anticipato per disgusto, delle proteste platoniche senza impegno di disobbedienza civile, eccetera, mostrando così di non essere, di non poter essere e di non voler essere un fattore culturale di rilievo storico-politico.
Personalmente, provo un forte pessimismo della volontà, nel senso che non ho nessuna voglia di imbarcarmi in inutili donchisciottismi per una causa perduta. Nello stesso tempo, coltivo un certo ottimismo dell’intelligenza, non certo in un fantomatico soggetto sociale demiurgico (che non si vede all’orizzonte), ma nella buona e vecchia natura umana alla Noam Chomsky.
Mi spiego meglio. Non credo che la resistenza attuale, impotente e confusa, alla distruzione del liceo europeo possa impedire questo processo, ormai avviatosi come una carica di elefanti rincoglioniti ed impazziti. Ma credo che la resistenza residuale che ora ed in futuro non mancherà di verificarsi, lungi dall’essere una inutile testimonianza alla memoria, sarà uno dei primi elementi storico-culturali effettivi per una futura (e forse non poi tanto lontana) lotta al profilo complessivo della cultura della globalizzazione capitalistica.
Per questo parlo di pessimismo della volontà e di ottimismo dell’intelligenza, invertendo il noto detto di origine gramsciana, che invece invita ad un masochistico attivismo politico a tutti i costi pur in presenza di uno scetticismo totale sulle prospettive storiche. La burocrazia postcomunista è nell’essenziale formata da noti falliti e da incredibili incapaci. È possibile, anche se non sicuro, che tutto il casino che sta piantando sulla base della sua tellurica incapacità e del suo dilettantismo maneggione gli si rivolti contro.
In secondo luogo, sarà necessario superare i riti di sinistra della contrapposizione fra laici e cattolici, fautori della scuola di stato e fautori delle scuole di preti, che in mancanza di meglio riproducono i loro riti identitari. È vero che, come correttamente segnalano i film di zombie e di vampiri, a volte ritornano. E ritornano gli appelli di tromboni e confusionari, giornalisti del Palazzo e pasionarie dei salotti, politici trombati e vestali della laicità, ad incitare giovani dipinti e saltellanti a contestare le scuole dei preti e delle suore.
I giornalisti amano molto questi spettacoli, come i gatti amano il pesce ed i pedofili gli asili infantili. È un bellissimo spettacolo generazionale, denso di musica a tutto volume e di girotondi tardoinfantili, dell’eterno scontro fra Oscurantismo e Ragione, Fede e Scienza, Destra e Sinistra, incensi e spinelli, profumi e balocchi. Ma questo spettacolo passa del tutto a lato del problema che abbiamo segnalato (la distruzione contenutistica del liceo europeo), ed anzi contribuisce potentemente ad oscurarlo. Ed appunto per questo viene inscenato.
In terzo luogo, e per finire, segnaliamo il punto forse più importante. La questione scolastica italiana non è che un aspetto della più generale questione nazionale italiana, e della possibilità di mantenere un profilo culturale e sociale autonomo e distinto dall’americanizzazione totalitaria, forma culturale essenziale dell’attuale totalitarismo flessibile transnazionale ed ultracapitalistico.
Devo dire con molto rincrescimento che l’unico leader politico italiano noto che mostra di possedere i termini minimi della consapevolezza della questione è il leghista Umberto Bossi. Ho detto “con rincrescimento” perché Bossi imposta in modo limitativo la questione riferita alla sola autodifesa delle microcomunità padane, laddove si tratta anche e soprattutto di una questione nazionale italiana, che a Bossi non interessa ed a cui è anzi ostile.
Chi scrive è invece per la pertinenza e la legittimità di una questione nazionale italiana (che non esclude, e non ha mai escluso, e non escluderà mai la pertinenza di questioni sarda, friulana, veneta, piemontese, eccetera), e dunque non può seguire Bossi su questo punto, anche perché chi scrive non può culturalmente sopportare ogni tipo di retorica celto-longobarda contro i cosiddetti “meridionali”, e su questo punto è impossibile fare concessioni, così come non si possono fare concessioni di nessun tipo alla valorizzazione storiografica del fascismo fatta da Pino Rauti.
Tuttavia, è indubbio che Bossi almeno coglie i punti essenziali della questione della resistenza all’americanizzazione. Il ventre molle culturale in cui l’americanizzazione può invece passare è ovviamente la cosiddetta sinistra, senza distinzioni di gradazione e di maggiore o minore estremismo. Per essere più precisi non si tratta neppure del ventre molle, ma del vettore privilegiato.
Come è noto, la cultura alla il Manifesto sposa apertamente le demenziali posizioni che risolvono la questione nazionale in invenzione razzista ed antioperaia della malvagia borghesia ottocentesca. Tutta la cultura alla Bertinotti è esattamente su queste demenziali posizioni, con in più la contraddizione pittoresca per cui la questione nazionale è ammessa per kurdi, maya e messicani, ma per gli italiani no.
Più in generale il modello culturale della sinistra è il deficiente transnazionale Daniel Cohn-Bendit, che vuole fondare l’identità europea nel meticciato multicolore e nell’interventismo armato dovunque gli intellettuali del suo tipo ritengano che sono stati violati i diritti umani. Ci sarebbe da ridere, se queste posizioni non fossero alla lunga storicamente pericolose, perché sembrano fatte apposta per suscitare nel medio periodo reazioni sciovinistiche, razzistiche e più in generale fascistoidi. È evidente che brevi saggi come questo non sono rivolti a giustificare simili possibili e probabili reazioni, ma al contrario sono rivolti a prevenirle.
La questione scolastica è dunque un pezzo della questione dell’indipendenza nazionale. Il modello di scuola-azienda-impresa che la riforma Berlinguer propugna e sta realizzando è rivolto proprio contro un modello di scuola che si faccia carico di questo problema. Si tratta di un modello deterritorializzato e privo di anticorpi contro l’americanizzazione, che è anzi auspicata come frontiera inevitabile della irresistibile modernità. Ma questo modello è fatto apposta per perdere tutte le grandi conquiste della modernità illuministica e romantica. Il ceto nichilista e ricattabile che lo sta imponendo per via amministrativa, fra lo sconcerto e la sostanziale impotente passività della maggioranza degli insegnanti italiani, è attualmente l’avversario principale di tutti coloro che hanno una concezione adeguata dei problemi nazionali e mondiali.