Articolo apparso per la prima volta sulla rivista Praxis.
1. Il lettore che ha esaminato con pazienza ed apertura di spirito le tre appendici precedenti, dedicate rispettivamente al trotzkismo, al maoismo ed al bordighismo, si sarà fatto un’idea sulla dinamica delle eresie minoritarie del comunismo storico novecentesco in Europa (1917-1991). Ho parlato di dinamica delle eresie minoritarie perché ogni eresia è una risposta determinata ad una ortodossia, e non può essere separata metodologicamente da essa. Quando l’ortodossia tramonta, l’eresia generalmente non la sostituisce (come in genere sperano soggettivamente gli eretici), ma entra in crisi anche lei. Ad esempio, con la fragorosa e vergognosa caduta dei sistemi politici e teorici di Giuseppe Stalin e di Palmiro Togliatti il trotzkismo ed il bordighismo, che si erano storicamente costruiti in polemica con questi sistemi politici e teorici, non riescono affatto a sostituirli, ma continuano a scorrere parallelamente al flusso degli eventi storici. Fuori della Cina, il maoismo certo sopravvive come rivoluzione contadina anti-feudale ed anti-imperialista, ma in Europa e negli USA è condannato a diventare spesso una corrente del marxismo universitario (Charles Bettelheim, Gianfranco La Grassa, eccetera).
2. In questa quarta appendice parleremo però di qualcosa di qualitativamente diverso, ed a mio avviso di molto peggiore. Parleremo di una corrente che ha invece buone prospettive di essere “maggioritaria” per un bel pezzo, anni e forse decenni, e che già ora sta marginalizzando nel cosiddetto “movimento” ogni variante residua del marxismo. Tutto questo non avviene certamente a caso. Si tratta appunto di una nuova fortissima variante post-moderna dell’anarchismo, molto diversa però da quella classica, ottocentesca e primonovecentesca. Il vecchio anarchismo era un anarchismo della produzione, un nobile anarchismo di artigiani, un anarchismo che comprendeva una teoria ed una pratica dell’autogoverno politico e dell’autogestione economica. Nei suoi esponenti migliori esso non rifiutava assolutamente la politica come metodo e come terreno. Rifiutava certamente lo stato, e su questo non vi sono dubbi, ma non rifiutava però la politica nel senso di Aristotele e di Karl Marx, se ovviamente questo termine è ricostruito correttamente. Questo nuovo anarchismo è invece un anarchismo parassitario del consumo, ed adotta non a caso una filosofia antropologica, quella di Foucault e di Deleuze, che è incompatibile con ogni regolazione della politica e dell’economia, perché si riferisce ad una sorta di “io” desiderante integralmente deresponsabilizzato e privo di capacità normativa.
3. Bisogna che il lettore abbia subito ben chiaro il quadro fin dal principio: questo nuovo anarchismo parassitario del consumo della classe media globale, che vuole delle Posse e non dei Partiti, e che ha perciò in testa come culmine antropologico delle bande di giamaicani drogati, è in prospettiva molto forte. ب già ora molto forte. Ma constato che non ci sono le condizioni minime perché si capisca perché. E non ci sono perché il metodo marxista, ben applicato, che dovrebbe servire a capire qualcosa, si trova oggi calpestato sotto i piedi di ogni cretino che passa.In estrema sintesi, ci sono oggi in Italia tre tipi di marxisti, o cosiddetti tali. Primo, coloro che naturalmente parlano di rinnovamento, ma hanno in testa sempre e solo il comunismo storico novecentesco, Stalin, Togliatti, Secchia, eccetera. Secondo, i seguaci autoreferenziali delle grandi eresie ideologiche organizzate del comunismo storico novecentesco (e cioè i trotzkisti, i maoisti europei ed i bordighisti). Terzo, e chi scrive si mette in questa terza categoria, chi ritiene che senza una vera e propria riforma radicale e dolorosa del modello marxista classico non ci sia alternativa all’esodo integrale dal marxismo. Dunque, o riforma radicale del marxismo o esodo integrale dal marxismo.La terza categoria è disprezzata ed insultata dalle prime due. Su questo non mi faccio la benché minima illusione. Ma in tutta questa farsa l’elemento grottesco sta in ciò, che mentre le prime due correnti (ortodossa ed eretica) concentrano il loro disprezzo su coloro che propongono una riforma radicale del marxismo il terzo gode, ed il terzo è proprio l’anarchismo post-moderno del consumo parassitario della nuova classe media globale prodotta dall’imperialismo. Il successo del libro sull’Impero di Negri-Hardt, da me criticato nel terzo capitolo di questo stesso libro, ne è un segnale inquietante ma anche significativo. Ed allora, che fare? cerchiamo di fare un discorso chiaro e comprensibile.
4. Organizzerò il mio discorso secondo la seguente successione di argomenti, con alcuni richiami bibliografici quando lo riterrò utile e necessario per stimolare l’autonoma ricerca del lettore.In primo luogo, bisogna subito cogliere il punto essenziale, e cioè il passaggio dalla Rivoluzione alla Disobbedienza. La Disobbedienza non è affatto una variante depotenziata di Rivoluzione, ma è il suo contrario. Il terreno della Rivoluzione è quello di una organizzazione alternativa della produzione sociale, e si porta dietro ovviamente anche proposte radicalmente alternative di tipo politico e culturale. Il terreno della Disobbedienza è un povero e subalterno terreno mediatico, già perfettamente descritto in modo profetico negli anni Sessanta dai Situazionisti, ed è un terreno su cui si consuma una sorta di gestualità virtuale ininterrotta, del tutto funzionale (anche se stavolta fastidiosa per i commercianti) all’integrazione nel sistema di “ghetti” autogestiti di stravolti che ascoltano musica a pieno volume. Se non si coglie la natura storica e teorica del passaggio dalla Rivoluzione alla Disobbedienza è assolutamente inutile andare avanti. Ma se la si è colta, si può passare al secondo punto.In secondo luogo, è bene ritornare sulla differenza fra il vecchio ed il nuovo anarchismo. Vietato confonderli. E vietato ripetere pappagallescamente i vecchi insulti infami contro l’anarchismo fatti secondo un’ottica che prima sputa sull’anarchismo e poi giustifica e loda lo stalinismo. Mai dimenticare che il vecchio anarchismo fu un movimento di spiriti liberi, di produttori e di lavoratori. In terzo luogo, e qui viene il difficile, bisogna brevemente ricostruire i due fondamentali elementi, almeno in Europa, di questo nuovo anarchismo post-moderno della disobbedienza e del consumo parassitario. Veramente sarebbero più di due, e scrivendo due si semplifica. Ma senza semplificare un po’ è difficile fare cogliere l’essenziale. In breve, ci sono due elementi, un elemento sociale e politico, ed un elemento psicologico ed antropologico, fusi insieme. L’elemento sociale e politico viene dal cosiddetto operaismo italiano, e sarò allora costretto a ricostruirne almeno la dinamica di fondo. La figura di Toni Negri è in proposito importante, anche se provo un certo fastidio nel doverci tornare sempre sopra. L’elemento psicologico ed antropologico, invece, viene dalla cosiddetta scuola francese del desiderio e della differenza, scuola che in realtà comprende molti esponenti, che qui per brevità verranno ridotti a due, Gilles Deleuze e Michel Foucault. Il punto essenziale sta nel comprendere la fusione fra le due convergenti tradizioni, l’operaismo italiano e la scuola francese del desiderio e della differenza. Storicamente, questa fusione comincia ad effettuarsi a metà degli anni Settanta del Novecento. È già passato più di un quarto di secolo, ma questo non deve stupire. Ci vuole almeno un quarto di secolo nella storia perché una corrente possa costituirsi, consolidarsi, dotarsi di un linguaggio di riconoscimento, e per usare un termine di Antonio Gramsci aspirare alla “egemonia”.
E infatti stiamo arrivando, dopo un quarto di secolo, ad una sua possibile e probabile egemonia. Vi sono certo elementi strutturali, la formazione di una nuova classe media globale legata alla comunicazione che è il destinatario sociale privilegiato di questa nuova variante post-moderna dell’anarchismo del consumo opulento. Ma questa vittoria non sarebbe stata tanto facile senza la tradizionale stupidità settaria dei marxisti di ogni colore, impegnati ad odiarsi fra di loro ed a sostituire il dibattito con velenose battute da ubriaconi.In quarto luogo, infine, terminerò questo breve testo con un “che fare” sommario. Il vantaggio preso dalla scuola Negri-Foucault è già tale che a mio avviso sarà una storia lunga. Facciamo almeno il primo passo.
5. Il filosofo tedesco Koselleck è forse colui che ha saputo meglio disegnare la genesi del concetto moderno di Rivoluzione. Nel pensiero politico degli antichi greci questo concetto semplicemente non esisteva, ed il suo pallido corrispondente, stasis, significa solo rivolta, ribellione, tumulto, non certo rivoluzione. In greco moderno, la lingua che deriva direttamente dal greco antico, il termine “rivoluzione” (epanastasis) ha dovuto essere creato su di un modello posteriore, latino ed europeo. Come è noto, il termine ha dovuto passare dall’ambito astronomico (revolutio, rivoluzione degli astri) ad un ambito politico.Tutto questo non è casuale. Il termine di rivoluzione nasce in un ambito direttamente utopico. Si tratta del ristabilimento, per definizione utopico, di una situazione originaria ottimale nel frattempo perduta. Come in tutte le utopie precapitalistiche, si ha un concetto naturalistico dei bisogni da soddisfare in modo possibilmente giusto ed egualitario, e non si ha assolutamente in mente il quadro economico della produzione capitalistica, in cui i bisogni vengono artificialmente sollecitati con la pubblicità e con la diversificazione dell’offerta. In proposito, per quanto concerne il “comunismo” di Marx è possibile pensare sia che esso sia appunto “scientifico” (il socialismo scientifico di Engels, il comunismo critico di Labriola), sia che invece esso sia di fatto “utopistico”. Questa è per esempio la mia personale opinione. Per essere più esatti, ritengo che la teoria di Marx del modo di produzione capitalistico e delle sue dinamiche strutturali sia scientifica (ed ovviamente modificabile come avviene in tutte le teorie scientifiche), mentre la sua concezione del comunismo sia di fatto intrisa di utopismo. Ma per me “utopismo” non è una parolaccia, o una parola dispregiativa. Essa connota soltanto un ideale naturalistico dei veri bisogni dell’uomo.Ho aperto questa parentesi perché voglio far subito notare che la teoria dei desideri di Deleuze e Negri non è una teoria dei bisogni (cfr. M. Bianchi, I bisogni e la teoria economica, Loescher, Torino 1980). Il motivo per cui generalmente i marxisti dicono che è impossibile realizzare una rivoluzione comunista dentro il modo di produzione capitalistico sta appunto nel fatto che essi ritengono che il capitalismo sviluppa falsi bisogni. Se invece partiamo dal “desiderio”, come lo interpretano Deleuze e Negri, effettivamente non c’è più nessun bisogno di una rivoluzione, perché il soddisfacimento dei flussi desideranti delle moltitudini può tranquillamente essere esaudito dentro il quadro della produzione capitalistica stessa. Si ha così una tipica rivoluzione senza rivoluzione, ed è esattamente per questo che Negri piace ai due poli opposti delle oligarchie capitalistiche al potere e dei centri sociali autoghettizzati di consumo detto “alternativo”.
Ma torniamo all’idea di Rivoluzione. A suo tempo Karl Löwith aveva interpretato il marxismo e la rivoluzione comunista come una semplice secolarizzazione dell’escatologia giudaico-cristiana nel linguaggio moderno dell’economia politica inglese e della filosofia hegeliana della storia. Ma questo significa ridurre la rivoluzione comunista ad una semplice riproposizione atea del messianesimo. Koselleck è in proposito più acuto, perché sa bene che la rivoluzione, nonostante la sua componente utopica, ha bisogno di una nozione di Storia come “concetto trascendentale riflessivo”. E questo concetto trascendentale riflessivo, per cui l’umanità intera è pensata come un unico soggetto che prende coscienza di sé nel tempo, nasce solo a metà Settecento.
6. I marxisti sanno bene che il concetto di Rivoluzione nasce a metà Settecento per ragioni ben precise. E la ragione è appunto che lo sviluppo della produzione borghese-capitalistica di merci non è alla lunga compatibile con le strutture politiche e religiose feudali e signorili. La rivoluzione borghese è infatti una rivoluzione “seria”, una vera rivoluzione. Non si è trattato di soddisfare flussi desideranti di moltitudini di Deleuze e di Negri del tempo con il codino incipriato e con le calze di seta, ma di organizzare in modo alternativo la produzione sociale. Questa produzione sociale deve essere pensata in modo omogeneo, e questo comporta filosoficamente il pensarla sotto tre coordinate assolutamente astratte: l’Umanità, la Storia e la Materia. Non a caso l’umanesimo, lo storicismo ed il materialismo moderno nascono tutti e tre nel Settecento. L’Umanità è una astrazione, pensata attraverso l’unificazione simbolica di tutte le diverse etnie, stirpi, nazioni, religioni, eccetera, in una sola soggettività razionale che si scambia legalmente merci prodotte da un lavoro umano reso astratto dall’egualitarismo giuridico e politico. La Storia è una astrazione, pensata attraverso una concezione unitaria dei flussi temporali che consentono all’umanità di progredire. La Materia e un’astrazione, pensata attraverso l’edificazione di uno spazio omogeneo e pieno in cui le merci possono dirigersi di qua e di là senza ostacoli, e soprattutto senza l’interferenza di un Dio che abita in un altro spazio ed in un altro tempo.
Una parentesi. Se i marxisti fossero all’altezza del loro padre spirituale Marx, avrebbero capito da tempo che l’Umanesimo, lo Storicismo ed il Materialismo non sono elementi di una nuova filosofia comunista anti-borghese e post-borghese, ma sono elementi strutturali della visione del mondo integralmente borghese-capitalistica. È il mondo borghese-capitalistico che deve astrattizzare ed omogeneizzare simbolicamente (e fittiziamente) il Soggetto (l’umanità), il Tempo (la storia) e lo Spazio (la materia). Se un giorno avremo qualcosa di simile ad una specie di comunismo, questi universali astratti saranno indubbiamente modificati, e non si avrà più né umanesimo, né storicismo, né materialismo.Lo capiscono questo i marxisti? Ma non scherziamo. Ma neppure per sogno. Ma neanche per sbaglio.
7. L’idea moderna di rivoluzione comporta due aspetti. Un aspetto è teorico e filosofico, e concerne le varie teorie della rivoluzione (cfr. K. Lenk, Teorie della rivoluzione, Laterza, Bari 1976). Il secondo aspetto è sociologico, e comporta l’analisi delle classi e dei gruppi sociali coinvolti in una rivoluzione (cfr. S. Scamuzzi, L’analisi sociologica delle rivoluzioni, Loescher, Torino 1985). In genere i filosofi si occupano solo dell’idea di rivoluzione, gli economisti delle crisi economiche di sistema, i sociologi dei gruppi sociali, i giuristi delle violazioni di legalità costituzionale, gli psicologi del disorientamento, eccetera. Se Marx avesse dovuto partecipare ad un concorso per una cattedra universitaria, è matematicamente sicuro che il marxismo non sarebbe mai nato, perché lo avrebbero spietatamente bocciato non appena avesse infranto lo steccato disciplinare.
8. La teoria della rivoluzione di Marx, in estrema sintesi, comporta due aspetti interconnessi, l’uno oggettivo e l’uno soggettivo. L’aspetto oggettivo è la crisi complessiva del modo di produzione, attraverso la contraddizione dialettica fra sviluppo delle forze produttive e natura dei rapporti sociali di produzione. l’aspetto soggettivo è la formazione del soggetto rivoluzionario, che dopo il 1858 non è assolutamente la classe operaia e proletaria, ma è il lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all’ultimo manovale, alleato con le potenze mentali della produzione capitalistica, da Marx connotate con la paroletta inglese di general intellect.
9. La teoria della rivoluzione in Lenin, a mio avviso, non è solo un’applicazione specifica in ambiente russo della teoria originaria di Marx, ma è una teoria qualitativamente diversa. Essa infatti non ha come terreno il modo di produzione, ma la formazione economico-sociale. Si tratta di presupposti in via di principio diversi. Il modo di produzione implica una bipolarità strutturale, quella di Borghesia e Proletariato. In questo quadro, il soggetto si costituisce per “ondate di proletarizzazione”, e lo stesso lavoratore collettivo cooperativo associato può essere concepito in termini di progressiva proletarizzazione dall’alto (medi e piccoli borghesi, artigiani, eccetera) sia dal basso (contadini poveri, eccetera). La formazione economico-sociale, invece, non comporta proletarizzazione, ma un processo politico di alleanze di classe. Su questo tema il cosiddetto “marxista medio” è generalmente in preda alle più pittoresche confusioni terminologiche e soprattutto concettuali, con conseguenze tragicomiche sul piano della militanza politica.
10. Una piccola parentesi. Il nuovo anarchismo post-moderno della classe media globale, di cui Toni Negri è l’indiscusso Bakunin, non sa ovviamente neanche per scherzo che cos’è una formazione economico-sociale, con la conseguente necessità di costruire sul piano politico un’alleanza di classe, che non è mai “data” spontaneamente. Questo curioso “spontaneismo” riproduce infatti “spontaneamente” il processo capitalistico di addensamento sociologico di un “livello medio” dei redditi e dei consumi. La differenza fra il liberale normale e l’anarchico disobbediente è che il liberale è disposto a pagare per consumare, mentre l’anarchico disobbediente vorrebbe consumare senza pagare, e chiama questo comunismo.
11. Santa pazienza. Torniamo al nostro concetto serio di Rivoluzione. Come è noto, vi sono teorie diverse sulla nascita del capitalismo, da chi ha dato importanza ai processi nell’agricoltura (Maurice Dobb) a chi ha dato importanza al commercio internazionale (Paul Sweezy), da chi ha enfatizzato il ruolo degli ebrei (Werner Sombart) a chi invece ha insistito sull’ascesi calvinistica della predestinazione (Max Weber). Ma comunque sono sempre stati tutti d’accordo che le rivoluzioni borghesi sono state cose serissime, proprio perché strutturavano una forma alternativa di produzione sociale di beni e di servizi. In definitiva, si trattava di Rivoluzione, non di semplice Disobbedienza.
12. La borghesia ed il capitalismo (concetti da tenere ben distinti, per carità, se no l’economicismo riduzionistico ammazzerà ogni capacità critica di distinzione fra Goethe e Berlusconi) hanno fatto almeno tre rivoluzioni serie. Si tratta della rivoluzione inglese del 1640, della rivoluzione francese del 1789 ed infine della prima rivoluzione industriale (1760-1820). I marxisti sono stati affascinati da queste rivoluzioni, al punto da restarne spesso ipnotizzati. Con questo termine intendo l’abitudine a pensare la rivoluzione socialista attraverso la stretta analogia storica con le precedenti rivoluzioni borghesi. Ora, non intendo affatto negare che l’analogia storica sia uno dei pochi strumenti che abbiamo per pensare il presente, che è sempre troppo “vicino” per poterlo distanziare criticamente, per cui dobbiamo necessariamente ricorrere al passato. Ma spesso l’analogia storica ha una funzione narcotizzante ed ipnotizzante. Ad esempio Trotzky vedeva se stesso come un giacobino rivoluzionario, e Stalin come un termidoriano. In questo modo, non si vedono mai di fatto gli elementi differenziali. E nella storia gli elementi differenziali e specifici sono il 90% del problema.
13. Le rivoluzioni operaie, proletarie, socialiste e comuniste sono indubbiamente cose serie. Ma per poterne adeguatamente “pensare la serietà” bisogna innanzitutto pensare l’elemento differenziale fra il soggetto sociale chiamato “borghesia” ed il soggetto sociale chiamato “classe operaia”. La tradizione marxista in proposito non ha nulla in comune con Marx. Si tratta di uno stupido e rozzo storicismo economicistico, per cui prima la borghesia era capace di sviluppare le forze produttive, poi perde questa capacità e diventa parassitaria ed allora la classe operaia la sostituisce. In principio ci fu l’imprenditore capitalistico calvinista efficiente, poi arrivò Cecchi Gori. E questo sarebbe il “marxismo”. Idiozie. Vergognose idiozie. Per chiarirci leggermente le idee, richiamo un libro fondamentale di Bauman (cfr. Z. Bauman, Memorie di classe, Einaudi, Torino 1987). Attenzione, questo è un libro di serie A, non è un articolo di Micromega sui girotondi. In breve, Bauman sostiene tre tesi, e riesce anche ad argomentarle. Primo, la classe operaia non ha costituito storicamente la propria identità differenziale guardando ad un futuro progressista (l’ideologia del progresso è borghese, e solo borghese), ma guardando indietro alla propria precedente identità comunitaria prevalentemente contadina ed artigiana. Secondo, questa identità comunitaria, che era comunque alternativa alla borghesia, è stata gradatamente abbandonata (in Inghilterra già negli anni Venti e Trenta dell’Ottocento) per quella che Baumann correttamente chiama “l’economicizzazione del conflitto”, cioè per la lotta per una più equa spartizione delle merci prodotte capitalisticamente. Terzo, questa economicizzazione del conflitto può portare facilmente a forme di neocorporativismo salariale, di per sé non negative, ma certamente prive di qualunque possibilità di universalizzazione alternativa, cioè anticapitalistica e postcapitalistica. A mio avviso qui Bauman coglie il centro della questione. Ma i marxisti pensano che Marx ed Engels abbiano già detto tutto, e sia sufficiente chiosarli all’infinito. Ma chi non capisce niente di quanto sta avvenendo è già predisposto a passare dalla Rivoluzione alla Disobbedienza. La disobbedienza infatti è facile. Basta disobbedire. Ma qui il discorso appunto non solo non finisce, ma comincia soltanto. Prestiamo attenzione.
14. Più tardi criticherò l’ideologia francese della differenza, e cioè Deleuze e Foucault. ma colgo l’occasione per dire subito solennemente che mentre il loro uso politico alla Negri è demenziale, questi pensatori sono stati bravissimi. Io li stimo e continuo a stimarli. Fra le molte cose intelligenti che hanno detto, c’è anche il chiarimento del modo particolare con cui il capitalismo riesce a costruire la sua “obbedienza”. Questo modo non assomiglia a quelli in uso nelle società precapitalistiche. Nelle società precapitalistiche l’obbedienza era ottenuta con l’ostentazione crudele e terrificante della forza del potere militare e religioso. Ai contadini ribelli veniva tagliato in pezzi il corpo con tenaglie roventi. Gli schiavi ribelli erano appesi vivi alla croce, in modo che soffrissero le pene dell’inferno prima di morire. In modo molto intelligente Foucault spiega che questo avveniva non perché il potere fosse forte, ma appunto perché era molto debole. Il potere era infatti esterno al processo di produzione agricolo ed artigianale, e doveva limitarsi a prelevare una parte di quanto veniva prodotto, e quindi doveva terrorizzare chiunque disobbedisse, perché si levasse dalla testa la tentazione di riprovarci. Ma nel capitalismo il potere entra dentro il processo di produzione, ed allora non deve più terrorizzare, ma deve invece “addomesticare” i corpi e le menti per adattarli alla divisione capitaliastica del lavoro. Quindi, basta ufficialmente con la tortura e con la pena di morte per squartamento. Sì alle prigioni, alla disciplina di fabbrica, alla manipolazione mediatica. Dal potere rigido si passa ad un potere flessibile. Bravo Foucault. ب proprio come dice lui. Ma allora bisogna capire cha al nuovo potere capitalistico non serve un io forte da sottomettere e da terrorizzare, ma un io debole e flessibile da manipolare. Dalla strategia di repressione delle rivoluzioni si passa ad una strategia di prevenzione di esse. Per prevenirle bisogna che l’io rivoluzionario diventi prima un io solo ribelle, e poi un io solo disobbediente. Le strategie del dominio cambiano, anche se questo resta del tutto incomprensibile ai Negri, agli Agnoletto e soprattutto ai Casarini.
15. Qui Deleuze e Foucault, che pure avevano capito benissimo la dinamica che ho riassunto nel paragrafo precedente, cadono improvvisamente in un errore veramente madornale. La genesi di questo errore, come chiarirò più avanti, è probabilmente la somma di polemica contro il razionalismo cartesiano francese e di abbandono del cattivo marxismo autoritario del comunismo francese dopo il 1945. Ma ciò che conta è ciò che dicono. In altre parole, proprio quando lo stesso capitalismo vuole indebolire l’io individuale per renderlo manipolabile e flessibile, e quindi adatto ad assorbire sempre nuovi consumi e comportamenti, ebbene Deleuze e Foucault propongono una strategia di indebolimento dell’io, convinti di star facendo una cosa molto rivoluzionaria ed anti-autoritaria. Gilles Deleuze (cfr. G. Deleuze – C. Parnet, Conversazioni, Feltrinelli, Milano 1980) si chiede addirittura: “Che cosa vi fa supporre che perdendo le coordinate di soggetto e di oggetto voi venite a mancare di qualcosa?”.
Bene, io suppongo proprio questo. Senza un io psicologicamente strutturato, infatti, nessun progetto rivoluzionario è possibile. Ma non è possibile neppure un dialogo politico e filosofico, perché da Socrate in poi il dialogo consiste nel “far passare la ragione” (dia-logos) fra identità strutturate. Ed infatti (op. cit. p. 18) Deleuze afferma che la storia della filosofia è sempre e solo stata “l’agente del potere”, e così pure la geometria euclidea (p. 102)in rapporto alla polis greca. Avete capito? Sicuramente no. Pensate che io stia solo scherzando. Ebbene, lo ripeto: se sparisce l’io soggettivo non si perde niente; la storia della filosofia è un’arma normalizzatrice del potere; la geometria euclidea è una forma di potere politico degli antichi greci.
Ma Deleuze è scusabile. Egli confonde la genesi sociologica di un processo culturale con la sua posteriore validità universalistica. È infatti vero che la geometria pitagorica (non euclidea, please) era una forma di potere delle oligarchie aristocratiche di Elea e di Crotone. Ma è anche vero che, una volta inventata, diventa potenzialmente un bene universalistico per l’intera umanità. Anche ammesso che la pennicillina sia stata scoperta su committenza di un gruppo di vampiri pedofili, una volta scoperta può comunque curarci dalla polmonite.
Mentre Deleuze è scusabile, il Negri che parla di fine della differenza fra esseri umani, animali ed organismi cibernetici (cfr. Impero, Rizzoli, Milano 2002, p. 98) invece no. Si tratta di coglionaggine purissima, che però è anche particolarmente affine alla visione del mondo di una nuova classe media globale che vive nella virtualità, e che ha sostituito l’esperienza materiale, corporea e mentale con una rete di simulazioni. Effettivamente, fare l’amore con una donna, con una cavalla e con un robot non è eguale, se ci si mette da un punto di vista psicologico e corporeo. Ma in sede di simulazione, perché no? Everything goes, tutto va bene.
16. A questo punto il lettore sveglio mi chiederà se c’è stato qualcuno nell’alta cultura internazionale che ha capito che l’indebolimento dell’io non è una forma di resistenza al conformismo capitalistico che vuole dispotismo ed obbedienza, ma al contrario è una strategia proprio della cultura capitalistica per creare un io che faccia da recipiente flessibile al riempimento degli stimoli al consumo capitalistico.
Beh, per esempio io l’ho capito da tempo. Ma siccome non faccio parte dell’alta cultura internazionale, rimando il lettore sveglio al saggista americano Christopher Lasch (cfr. L’io minimo, Feltrinelli, Milano 1985). Lasch mostra di capire tutti i termini teorici essenziali del problema. Precedentemente aveva scritto un libro sul narcisismo ed il tipo umano narcisista, che descrive perfettamente con due decenni di anticipo Nanni Moretti e soprattutto l’adorazione prestatagli dai girotondari rincoglioniti. Il nesso fra narcisismo e fase attuale del capitalismo è descritto con stupefacente realismo, anche se Lasch non si dichiara affatto marxista, ed anzi il mondo radical americano politicamente corretto lo isolò sempre fino alla morte, per il semplice fatto che lo descriveva in modo michelangiolesco.
Ma torniamo all’io minimo. Lasch chiarisce come l’io minimo sia una strategia di difesa dell’individuo di fronte alla banalizzazione del passato e della memoria storica e soprattutto di fronte all’incertezza del futuro. Ma la banalizzazione del passato e l’incertezza del futuro sono proprio due caratteristiche culturali del capitalismo contemporaneo. La sovranità assoluta del consumo banalizza la morte, che diventa solo l’interruzione di ogni possibile consumo, dopo l’ultimo consumo che sono i funerali. Banalizza il passato, che anzi potrebbe scoraggiare la continua obsolescenza dei prodotti da cambiare continuamente. Banalizza il futuro, perché il futuro è solo un contenitore storico vuoto di possibili consumi futuri. Ha capito Deleuze che l’indebolimento dell’io è una strategia ultracapitalistica, e non un passo verso la libertà? Non credo. Se lo avesse capito, data la statura del personaggio, avrebbe preso delle misure filosofiche. Ci possiamo chiedere se Toni Negri lo capisca. Sicuramente no. Il personaggio è troppo arrogante ed anguillesco per accettare il principio base di ogni etica filosofica. Ammettere di aver sbagliato.
17. Possiamo ora terminare sul punto del passaggio dalla rivoluzione alla disobbedienza. Il rivoluzionario fa qualcosa di reale, che tocca sia la produzione che la distribuzione sociale. Il disobbediente si muove in un mondo virtuale, e soprattutto contempla narcisisticamente se stesso mentre disobbedisce. Per questo il disobbediente ha l’ossessione dei media e della copertura mediatica. Se i media non mostrassero la sua disobbedienza, essa finirebbe con il non esistere più. Fra reale e virtuale non c’è infatti nessuna differenza.
18. Due parole adesso sull’anarchismo, più esattamente sul passaggio dal vecchio anarchismo artigiano al nuovo anarchismo virtuale. Alcune cose le ho già dette, ma conviene sempre ripeterle. Prima di tutto, bisogna abbandonare la vergognosa concezione dell’anarchismo che era corrente fino al 1989-1991. In questa concezione l’intera storia del movimento operaio era vista come una progressiva liberazione da una precedente “immaturità”. La storia dei movimenti di contestazione al capitalismo era vista come una sorta di razzo a tre stadi, di cui solo il terzo avrebbe veramente compiuto l’”assalto al cielo”. Il primo stadio era l’anarchismo, movimento immaturo di braccianti ignoranti e di artigiani destinati ad essere spazzati via dalla grande produzione di serie. Il secondo stadio era il socialismo della Seconda Internazionale, la cui vittoria contro l’anarchismo era considerata progressiva e provvidenziale, perché finalmente metteva al centro la classe operaia di fabbrica, il sindacato ed il partito. Il terzo stadio, quello definitivo e conclusivo, era il comunismo, che si trattava certo di riformare e di migliorare, ma che comunque rappresentava il coronamento della storia delle classi oppresse.
Questa grande narrazione è stata falsificata nel triennio 1989-1991. Il fatto che essa continui ad essere agitata, in una metafisica storicistica le cui tre tappe sono Bakunin, Kautsky (considerato migliore di Bakunin) ed infine Togliatti (considerato il migliore dei tre), mostra solo a che punto di arretratezza siamo, e spiega anche indirettamente il successo di Toni Negri, che almeno rompe con questa assurda litania.
Cerchiamo di essere chiari, a costo di offendere qualcuno. Dopo il 1991 le carte devono essere redistribuite. In linguaggio informatico c’è stato un reset. Noi dobbiamo mettere sullo stesso piano, ed esaminare in modo paritario ed omogeneo, sia il vecchio anarchismo sia il comunismo storico novecentesco (scaduto il 1991). Fino al 1991 potevamo pensare che il buon Gramsci avesse definitivamente spazzato via il cattivo Bordiga, inaugurando la serie virtuosa di Togliatti – Longo – Berlinguer – Natta. Chi pensava questo, e gridava questi demenziali slogan nei cortei, ha l’onere della spiegazione, cui peraltro sistematicamente si sottrae, di spiegare perché dopo questa serie virtuosa sono arrivati Achille Occhetto e Massimo D’Alema, il trafelato ulivista in cerca disperata di visibilità ed il cinico baffetto della guerra del Kosovo del 1999 fotografato ghignante accanto al generale americano e bombardatore Clark.
Sia chiaro. Io rispetto Gramsci, l’ho letto e studiato, e continuerò a leggerlo e studiarlo. Ma dopo il 1991 egli diventa esattamente eguale ad Amadeo Bordiga. Questo vale per gli eretici del comunismo (trotzkisti, maoisti e bordighisti), ma vale ancora di più per gli anarchici.
19. Quando uno si accosta agli scritti degli anarchici della vecchia scuola, non può che provare un senso di rispetto. Faccio qui l’esempio del vecchio anarchico americano Murray Bookchin (di cui consiglio caldamente al lettore almeno due libri, L’ecologia della libertà, pubblicato dalle edizioni Antistato, e Democrazia Diretta, pubblicato dalla Eleuthera di Milano). Bene, leggendo Bookchin ci si rende conto della cultura, dell’apertura mentale, ed addirittura della “concretezza” della vecchia cultura anarchica. Ma questo avviene perché in Bookchin ed in quelli come lui respira ancora il vecchio anarchismo della produzione, più esattamente dell’organizzazione alternativa della produzione. Bookchin capisce perfettamente quello che peraltro anche altri anarchici come Chomsky capiscono, e cioè che ci vuole un’antropologia filosofica che “democratizzi” l’io, non che lo faccia sparire.
20. Il nuovo anarchismo post-moderno non c’entra niente con gente in gamba come Bookchin. Esso si è formato, secondo l’interpretazione che esporrò a partire da questo paragrafo, attraverso la fusione di due tradizioni diverse, quella politica dell’operaismo italiano e quella antropologica dell’ideologia francese della differenza. Esporrò brevemente queste due tradizioni, ma prima mi porrò una domanda preliminare: come è successo che a partire dagli anni Sessanta sia sorto in Italia l’operaismo e nello stesso periodo sia sorta in Francia quella scuola filosofica? Discutiamo entrambe le ipotesi.
21. Come è possibile che l’operaismo, a partire dai primi anni Sessanta, diventi in Italia l’unica “formazione ideologica” (uso il termine nel senso di Charles Bettelheim) che è stata concretamente in grado di contrapporsi al togliattismo del PCI, mentre tutte le altre eresie marxiste (il trotzkismo, il maoismo, il bordighismo, eccetera) sono sempre rimaste minoritarie e marginali?
Tentiamo una risposta. Il 1958 è il primo anno del boom economico italiano e dell’espansione dei consumi. È l’anno in cui secondo Pasolini cominciano a “morire le lucciole”. Secondo Fortini, sono appena finiti i “dieci inverni” del dopoguerra. L’Italia comincia a modernizzarsi. Nel 1958 io avevo 15 anni, e mi ricordo benissimo come stavano le cose prima. Andavo a prendere il latte fresco in un bidone in bilico sulla bicicletta. Ricordo mia madre che si alzava per scaldare l’acqua in un pentolone in modo che potessi lavarmi prima di andare a scuola. Ricordo i miei coetanei che dopo la quinta elementare andavano a lavorare e dovevo aspettarli la sera per giocare. Ricordo i bambini rapati perché c’erano i pidocchi. Ricordo il gelato la domenica mattina come incredibile consumo lussuoso. Potrei farla più lunga, ma il succo è questo: dopo il 1958 l’Italia si modernizza. Dal 1945 al 1958 Togliatti aveva strutturato ideologicamente il partito comunista sulla base della teoria per cui il capitalismo era incapace di sviluppare le forze produttive e di modernizzare il paese. Ed ecco adesso, dopo il 1958, che i capitalisti si dimostrano capaci di modernizzare (a loro modo, ovviamente) il paese e di sviluppare le forze produttive. È questa la base materiale, concreta, per cui il togliattismo può cominciare ad essere contestato. Al primato della storia si sostituisce il primato della sociologia. Al posto del mito del progresso, arriva la “composizione di classe”.
22. Come è possibile che l’ideologia francese del desiderio, della differenza, della frammentazione dell’io, eccetera, cominci a diventare egemone a Parigi a partire dagli anni Sessanta?
Tentiamo una risposta. La Francia è sempre stata il paese del razionalismo e della tradizione razionalista. Il massimo divulgatore francese di filosofia popolare, Alain, era un laico razionalista assoluto. Negli anni Trenta il principale divulgatore francese del marxismo, Georges Politzer, lo espose come una forma di razionalismo popolare. La tradizione di Cartesio in Francia era fortissima. Cartesio contava di più di Kant e di Hegel, me lo ricordo benissimo dai tempi dei miei studi di filosofia in Francia.
Questa egemonia del razionalismo era effettivamente soffocante. Chi oggi studia la storia del marxismo francese dopo il 1945 ricorderà soprattutto Sartre e Althusser, ma le cose allora non stavano in questo modo. Il principale filosofo comunista francese era considerato Lucien Sève, un razionalista assoluto. Sève scrisse un interessante libro di psicologia (cfr. Marxismo e teoria della personalità, Einaudi, Torino 1973), che è il libro di psicologia più razionalistico che io abbia mai letto. Nel 1980 Sève pubblicò un’introduzione alla filosofia marxista, mai tradotta in italiano, e molto ammirata da Ludovico Geymonat, che nel suo genere era comunque migliore dei manuali sovietici e cinesi del periodo.
Apro una parentesi. Vorrei dichiarare, e sottolineare, e se necessario gridarlo, che io non credo assolutamente che la filosofia e la scienza siano qualcosa di appartenente ad una Classe e tantomeno (orrore fra gli orrori!) ad un Partito. La filosofia e la scienza appartengono esclusivamente al genere umano indiviso. È l’ideologia, invece che ha un carattere classista, e l’ideologia incorpora ovviamente elementi manipolati della produzione filosofica e scientifica per inserirli in modo coerente (coerente, ma paranoico) nella propria funzione identitaria. I marxisti più rozzi generalmente identificano scienza, filosofia ed ideologia. I marxisti più sofisticati invece arrivano a capire che la scienza (teoria dell’evoluzione, genetica, meccanica quantistica, teoria della relatività, teorie dell’inconscio, eccetera) non ha un carattere classista, ma credono però che invece la filosofia ce l’abbia: ad esempio l’idealismo è borghese, il materialismo è proletario. Deve essere chiaro, e tatuato a lettere di fuoco sul tenero culo di ogni lettore, che io non condivido queste sciocchezze. Solo l’ideologia è classista, la scienza e la filosofia non lo sono. Fine della digressione. Per tornare a Sève, che pure era ancora uno dei migliori, ed infinitamente più serio e sistematico della maggioranza dei marxisti italiani cresciuti all’ombra di Togliatti, è evidente che questo razionalismo avrebbe prima o poi provocato una reazione. E la reazione venne. La reazione si chiamava Lacan, Deleuze, Guattari, Foucault. Chi vuole leggere una esposizione scolastica, ma sistematica, può utilmente rivolgersi a questo libro italiano (cfr. F. A. Cappelletti, Differenza e Potere, Franco Angeli, Milano 1984). Cento diligenti paginette, in cui ci sono però tutte le informazioni necessarie per capire le fonti di Toni Negri.
23. Fatte queste premesse metodologiche, possiamo ora esaminare prima la dinamica dell’operaismo italiano e poi quella dell’ideologia francese della differenza e del desiderio. Ci vuole memoria storica, e so perfettamente che essa manca. D’altronde, se essa non mancasse, non regnerebbe la grottesca confusione che regna oggi.
24. Iniziamo dall’operaismo italiano. C’è qui subito una questione da chiarire in via preliminare. Molti affermano che il fondatore dell’operaismo è stato il fondatore della rivista Quaderni Rossi, Raniero Panzieri, un militante socialista (e quindi PSI, non PCI) morto prematuramente nel 1964, di cui a suo tempo Cesare Cases scrisse un necrologio bellissimo.
Ebbene, non è così. Su questo punto decisivo consiglio un libretto in cui i termini del problema sono esposti con grande chiarezza (cfr. S. Mancini, Socialismo e democrazia diretta. Introduzione a Raniero Panieri, Dedalo, Bari 1977, con un’importante introduzione di Stefano Merli).
Riassumo in breve i termini delle tesi di Mancini e di Merli. L’operaismo italiano non nasce con Panzieri, ma nasce nel 1963, anno della rottura politica fra Raniero Panzieri e Mario Tronti. Panzieri fa piuttosto parte della tradizione socialista italiana, politicamente unitaria con i comunisti (Rodolfo Morandi), ma soprattutto autogestionaria, libertaria e basata sulla democrazia diretta in fabbrica. I temi di Panzieri sono la critica al carattere presunto “neutrale” del progresso tecnico, la critica allo stalinismo ed a ogni tipo di “partitocentrismo”, la rivendicazione della libertà culturale, la proposta del controllo operaio sulla produzione. Tutta roba che con il cosiddetto “operaismo” non c’entra molto. È bene averlo sempre bene in mente.
25. Mario Tronti, romano, iscritto al vecchio PCI, è stato dunque secondo Merli il vero fondatore dell’operaismo italiano. Sono d’accordo. Il modello operaistico è semplicissimo, perché si basa su di un solo fondamento teorico elementare: il rapporto di produzione capitalistico è fondato dall’attività contestativa della classe operaia, che ne determina i successivi mutamenti tecnologici con la propria attività, cui il capitale risponde con ondate di innovazione. Come si vede, la concorrenza inter-capitalistica è di fatto respinta nello sfondo. Da una parte il Capitale, dall’altra gli Operai. Ma sono gli operai a porre il capitale, non viceversa.
Per chi vuole cercare a ogni costo una fonte filosofica a questa follia, è consigliabile il rimando al libro su Marx di Giovanni Gentile del 1899 (cfr. C. Vigna, <i<=”” i=””>, Città Nuova, Roma 1977). E chi vuole approfondire questo aspetto gentiliano del pensiero di Tronti può rivolgersi ad una rivista oggi ingiustamente dimenticata pubblicata fra gli ultimi anni Settanta ed i primi anni Ottanta, Unità Proletaria, in cui Raffaele Sbardella analizzava dettagliatamente tutte le ascendenze gentiliane di Tronti. In modo sintetico, ma correttissimo, il commentatore delle pagine filosofiche de L’Espresso degli anni Sessanta, Vittorio Saltini, parlò di Tronti come di “Nietzsche travestito da operaio”. Esattamente così. Nietzsche travestito da operaio. Gli operai concreti, ovviamente, non c’entravano niente con l’operaismo. L’operaio-massa fordista della grande immigrazione meridionale degli anni Sessanta voleva soprattutto integrazione sociale, consumi, riformismo. Quando arrivò Berlinguer, l’operaio-massa lo amò, perché Berlinguer gli dava quello che voleva, una sorta di socialdemocrazia all’italiana un po’ pretesca e corporativa, ma adatta al paese cattolico delle processioni dei santi meridionali. A costo di andare contro corrente, devo dire che quando Mario Tronti cominciò a parlare di “autonomia del politico” ed a scrivere su noiosissime riviste fiancheggiatrici del PCI come Laboratorio Politico (la cui lettura oggi, sapendo come è andata a finire, dà un effetto di ilarità addirittura eccessivo), ebbene egli colse a modo suo quello che gli operai volevano. E cioè una sorta di keynesismo infinito a bassa intensità, un voto plebiscitario al PCI, un neocorporativismo totale. Personalmente, non mi sono mai stupito del fatto che gli operai si affacciassero per qualche settimana nei gruppetti di sinistra, e poi ripiegassero sistematicamente nel sindacato e nel PCI. Rimando il lettore al paragrafo 13 ed alle tesi di Bauman. Gli operai tendono irresistibilmente alla economicizzazione del conflitto, ed è per questo che non sono e non possono essere un soggetto rivoluzionario. Solo chi vive nelle montagne del Molise può fantasticarlo. Chi come me ha vissuto a Torino lo capisce con la chiarezza del cristallo.
In quanto ho appena scritto non c’è una sola ombra di critica e tantomeno di condanna. Gli operai sono come sono, e non sono affatto obbligati ad una “missione storica” che non hanno affatto scelto, e che gli hanno attribuito in modo frettoloso. Lo stesso Marx si aspettava un lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all’ultimo manovale, non un’operaio incazzato con la coppola alla Gasparazzo. Gli operai meritano buoni salari, sicurezza del posto di lavoro, ritmi ragionevoli e non ossessivi, ambiente di fabbrica sano e non inquinato, eccetera. Chi scrive ha fatto per un certo periodo di tempo l’operaio in Germania, e non ha mai pensato che in quel modo era più “rivoluzionario” di quando studiava Kant, Hegel o Platone.
Tronti finì come notabile del PCI-PDS-DS, per usare l’espressione di berlusconi (peraltro involontariamente esatta). Parlamentare, professore universitario, barcate di soldi per la pensione. Anche Marinetti fu da giovane futurista, da vecchio accademico con la feluca. Una delle solite storie italiane, in quello che è il nicciano eterno ritorno della sempre eguale furberia cattolica.
26. Guido Viale, di gran lunga il più dotato e onesto dirigente di Lotta Continua, ha scritto nel 1978 dieci stupende paginette sull’operaismo, che consiglio al lettore (cfr. G. Viale, Il Sessantotto, Mazzotta, Milano 1978, pp. 181-193). Viale parla sobriamente di “miseria dell’operaismo”. Scrive in modo lapidario: “Io gli operaisti, di stato e di movimento, li ho letti tutti. E come Voltaire di fronte ai padri della chiesa ho un solo commento da fare: me la pagheranno!”. Viale capisce perfettamente (e non era facile per un allievo di Abbagnano) che la Classe Operaia degli operaisti è solo una astrazione vuota che viene poi riempita con il cinismo nichilistico. Il marxismo diventa linguaggio sociologico-amministrativo della manipolazione, il famoso e famigerato “sinistrese”. La politica diventa integralmente “mediazione”, e la cultura politica culturale. Si tratta di un orrore senza grandezza, ed io non ho mai letto nessuno che l’abbia capito come Guido Viale.
27. Le dieci paginette di Guido Viale, scritte nel 1978, sono oggi pressoché introvabili, e dovrebbero essere ripubblicate. Esse non sono però sufficienti per capire la dinamica dell’operaismo come fenomeno complessivo. Per poterlo fare occorre essere dialettici, cioè praticare la divisione dialettica di una precedente unità. In questo modo l’operaismo si spezza in tre parti, e cioè un operaismo di destra, un operaismo di centro ed un operaismo di sinistra.
28. L’operaismo di destra è appunto quello di Mario Tronti. Esso è sfociato, e con questo si è suicidato, nella ridicola teoria dell’”autonomia del politico”. La chiamo ridicola per il semplice fatto che essa fu coniata proprio quando la crisi fiscale dello stato keynesiano, l’aumento dei prezzi petroliferi ed infine l’avvento strategico delle politiche neoliberali finivano con lo svuotare integralmente proprio quella sovranità monetaria e riformistica che avrebbero dovuto fare da supporto all’autonomia del politico. la teoria di Tronti assomiglia così ai vaneggiamenti di un tizio che parla da un balcone di una casa costruita sulla sabbia ed ipotizza l’elevamento di un piano di questa casa, proprio mentre la sabbia frana e l’intera casa sprofonda. Una persona normale si sarebbe azzittita dalla vergogna e sarebbe passata al giardinaggio o alla vendita porta a porta di enciclopedie. Ma siamo in Italia, e Tronti è stato invece premiato con il laticlavio da senatore. Si tratta della “lunga durata” gesuitica della storia italiana che già Antonio Gramsci seppe diagnosticare correttamente.
L’operaismo di centro è quello di Massimo Cacciari. Lo esamineremo nel prossimo paragrafo. Si tratta tutto sommato di un fenomeno sano di sganciamento progressivo da un paradigma insostenibile, attuato con metodi filosofici. La mia valutazione è dunque cautamente positiva.
L’operaismo di sinistra è ovviamente quello del gruppo Potere Operaio e di Toni Negri. Si tratta originariamente della costruzione del partito dell’insurrezione non per costruire il socialismo, dichiarato obsoleto a causa della estinzione della legge del valore anticipata dal frammento marxiano sulle macchine, ma per realizzare il comunismo dei bisogni. Questo modello, amputato del suo originario elemento “leninista”, è esattamente quello che viene tuttora proposto da Negri, e la cui critica radicale è appunto l’oggetto di questo mio saggio. È il modello dell’anarchismo post-moderno, non certo dell’anarchismo sano di Murray Bookchin.
29. Personalmente non ho un cattivo giudizio di Massimo Cacciari. Cacciari ama e rispetta la filosofia, cerca di tenerla distinta dall’ideologia, e questo a me basta. Chi fa così non può essere del tutto cattivo, ed in ogni caso è un interlocutore, mentre Tronti è solo un curioso fenomeno ideologico da segnalare.
A suo tempo, Franco Fortini scrisse cose molto dure su Cacciari e sul cosiddetto “pensiero negativo”. Dal momento che conoscevo personalmente Fortini, ricordo i suoi durissimi giudizi. A quel tempo li condividevo, ma oggi ritengo che sia necessario collocarli in un’ottica più ampia.
Torniamo agli otto anni che vanno dal 1976 al 1984. Sono gli anni dell’effimero e pletorico gonfiamento elettorale del PCI, del movimento detto del Settantasette, della lotta armata e dell’assassinio di Moro, dell’arresto di Toni Negri accusato di essere il capo dei terroristi, della sconfitta strategica della classe operaia FIAT, del consociativismo politico e dell’avvento dell’avido personale PCI nei posti superpagati del terzo canale televisivo. Sono gli anni che vedono anche l’avvento di Craxi e del craxismo, fenomeno politico sistematicamente interpretato alla luce del moralismo giudiziario di Mani Pulite, e quindi tuttora di fatto sconosciuto.
Da un punto di vista ideologico (attenzione, ideologico e non scientifico e filosofico) gli anni 1976-1984 sono gli anni della crisi e del sostanziale smantellamento non tanto del marxismo, come fu detto dagli apparati mediatici filosoficamente analfabeti, ma di quel modello di storicismo progressistico che in Italia era identificato con il marxismo in quanto tale, e che Palmiro Togliatti aveva imposto come l’unica forma di “politicamente corretto” nei ceti fiancheggiatori universitari, quelli che la destra definiva “utili idioti” e che in realtà non erano idioti per nulla, ma solo totalmente ignoranti in particolare su Marx, che confondevano con Togliatti, Amendola, Spriano ed Alicata.
È assurdo rimpiangere quello storicismo progressistico, ed è allora assurdo criticare chi lo smantellò fra il 1976 ed il 1984. Certo, ci fu da noi anche una componente ideologica grottesca dovuta alla tradizione della Commedia dell’Arte. Per esempio, si andò a scomodare una epocale “crisi dei sistemi centrati”, peraltro risalente ai primi del Novecento (crisi delle scienze, eccetera), per indicare il fatto che duecento professori universitari che votavano PCI (e poi PDS e DS) avevano smesso di “credere” nello storicismo progressistico.
È anche opportuno distinguere fra il cosiddetto “pensiero negativo” (Cacciari) ed il cosiddetto “pensiero debole” (Vattimo). Non son affatto la stessa cosa, anche se erano sostenuti da elettori dello stesso PCI di allora. Cercherò di distinguerli concettualmente, perché senza questa opportuna distinzione la confusione e l’amalgama sono assicurati.
Il “pensiero negativo”, di cui a mio avviso Cacciari fu uno dei migliori esponenti, si limita a segnalare che una lettura critica di Nietzsche e di Heidegger (ma non solo) effettivamente mette in crisi lo storicismo progressistico. È la pura verità. Veramente lo avevano già detto a suo tempo Walter Benjamin ed Ernst Bloch, ma non se ne era accorto nessuno, anche perché Bloch ci aveva aggiunto del suo un ottimismo utopico del tutto fuori luogo. Cacciari compie in Italia grosso modo la stessa operazione che negli stessi anni Lyotard compie in Francia. Si tratta del sacrosanto ed ineludibile smantellamento delle cosiddette “grandi narrazioni”. In proposito, la subalterna indignazione dei veri credenti, dei militanti di base, dei settari fondamentalisti, eccetera, è del tutto comprensibile sul piano psicologico, ma sul piano filosofico e scientifico vale zero. Se la terra non è piatta, ma è rotonda, è bene prenderne atto, anche se è inevitabile che subentri un senso di nausea e di spaesamento. Il pensiero negativo non è un alimento nutriente, ma una purga necessaria per chi si era riempito il ventre con una vergognosa abbuffata di illusioni storicistiche.
Il “pensiero debole” di Vattimo è un’altra cosa. Si tratta della versione tranquillizzante e perbenista del pensiero negativo. Il pensiero debole chiude immediatamente una crisi appena aperta tranquillizzando i lettori. Vedete, Dio è morto, Marx è morto, e non siamo mai stati tanto bene!
Nietzsche è cucinato come un annunciatore di Vattimo, cioè di colui che accetta il capitalismo e nello stesso tempo liberalizza in modo radicale (nel senso di Pannella e della Bonino) la morale repressiva borghese. Heidegger è cucinato come il secondo annunciatore dello stesso Vattimo, cioè come colui che certifica la sopravvenuta consumazione integrale dell’Essere, sostituito da una interminabile ermeneutica o meglio da una civile conversazione fra scettici liberali (per usare il corretto termine di Richard Rorty).
Vattimo, così come Abbagnano e Bobbio, interpreta così lo storico moderatismo perbenista della borghesia colta di Torino, che avendo già i Savoia e la FIAT effettivamente non ha più bisogno di altre divinità mondane.
30. E passiamo ora finalmente all’operaismo di sinistra ed a Toni Negri. In proposito, il presupposto metodologico fondamentale dell’approccio a Negri deve essere il seguente: Negri non è affatto uno scemo. La mia non è una battuta, ma un’indicazione metodologica essenziale. La prosa di Negri è infatti talvolta tanto irritante, la sua arroganza tanto insopportabile, eccetera, da provocare a volte una reazione di rifiuto viscerale. Bisogna resistere a questa tentazione. In proposito, farò subito tre considerazioni preliminari utili per l’ulteriore comprensione.
In primo luogo, non bisogna dimenticare mai che Negri è un pensatore creativo. Io preferisco sempre chi crea idiozie a chi ripete solo banalità ricevute. Bisogna criticare l’anarchismo post-moderno di Negri, ed io lo sto facendo, ma deve essere chiaro che se la critica a Negri viene fatta sulla base della riproposizione di Stalin e di Togliatti allora non ci siamo. Il diritto all’innovazione è indiscutibile. Negri a modo suo è un innovatore. Egli cerca ovviamente di imporci il suo terreno, ma questo lo fanno tutti gli innovatori. Bisogna rifiutare radicalmente questa sua richiesta, ma bisogna però entrare anche nel merito. Il tema del general intellect esiste. Certo, chi lo sostituisce semplicemente alla vecchia classe operaia di fabbrica e lo erige in soggetto politico compie un’operazione mistica, che deve essere rifiutata. Ma per rifiutare qualcosa bisogna prima capirlo, e per capirlo bisogna mettere a fuoco anche le premesse filosofiche ed antropologiche. I critici di Negri non lo fanno, e si limitano a ribadire che c’è ancora l’imperialismo. Giustissimo, ma insufficiente.
In secondo luogo, è giusto dire che Negri fa parte di una tradizione “sovversiva” molto più che di una tradizione rivoluzionaria. Questo fu anche detto a suo tempo da Alberto Asor Rosa (cfr. l’Unità;, 11-9-1983), che voleva così difendere Negri dall’accusa di essere il capo delle Brigate Rosse. Asor Rosa distingue fra “sovversivismo” e “terrorismo”, e sostanzialmente dice che Negri non è un terrorista, ma solo un sovversivo, e dunque bisogna smettere di perseguitarlo.
In terzo luogo, segnalo un interessante giudizio di Lucio Colletti (cfr. La Repubblica, 7-4-1998): “Una volta, a Parigi, mi pare fosse il 1975, Louis Althusser mi portò in un ristorantino vietnamita e mi parlò di Negri come del più grande marxista vivente. Roba da non crederci, se non fosse che già lì il povero Althusser stava dando i primi segni di squilibrio”. Questa frase rivelatrice ci dice molto sia su Colletti sia su Althusser. Alla luce del razionalismo di Colletti solo un pazzo può dire una cosa tanto irragionevole. Colletti capisce correttamente che l’ideologia di Potere Operaio è “un prodotto tardivo del leninismo con una forte matrice operaista”, e che gli operaisti usano i Grundrisse di Marx e soprattutto il noto frammento sulle macchine (quello che giustificherebbe la famosa estinzione del valore-lavoro) come un “testo esoterico”, cioè un testo di tipo identitario e settario, mistico e religioso. Giustissimo. Althusser nel 1975 è in pieno sbandamento ed in crisi di paradigma totale. Comprende perfettamente che la riduzione del marxismo ad epistemologia (primo Althusser) ed a lotta di classe nella teoria (secondo Althusser) non funziona più. Dal momento che come Marx non è mai stato marxista analogamente Althusser non è mai stato althusseriano, perché non gli interessava nulla il canone epistemologico delle scienze sociali ma gli interessava lo statuto del marxismo come scienza rivoluzionaria complessiva (cosa che gli althusseriani universitari neppure sospettano, come se Althusser anziché in francese avesse scritto in armeno ed in turco), non è affatto strano o folle che Althusser riponesse tante speranze in Negri. In estrema sintesi, Althusser vedeva in Negri la possibile sopravvivenza del marxismo dopo il crollo della teoria del valore, da lui definita in un convegno a Venezia del 1977 la “concezione contabile della teoria del valore”. Althusser era anche giunto ad odiare il socialismo, da lui identificato con il PCF e con i regimi dell’Est europeo, ed allora Negri gli piaceva perché voleva subito il comunismo senza passare per il socialismo. Nelle sue ultime ieratiche uscite pubbliche, sempre incomprese dall’althusserismo universitario, Althusser sosteneva che il comunismo stava nella felicità dei bambini che giocavano a pallone. A mio avviso, non era affatto pazzo, come sostiene Colletti, ma stava cominciando a diventare saggio, nel senso del materialismo aleatorio. Detto questo, tengo a dire che personalmente non sono assolutamente nella stessa lunghezza d’onda di Althusser, di Negri, dei mistici del general intellect, degli esegeti interminabili del frammento delle macchine alla “Luogo Comune”, Virno, Castellano, Illuminati, eccetera. Ma essi possono sembrare pazzi solo a due categorie di persone, e cioè ai razionalisti positivisti disincantati alla Colletti, oppure agli ultimi giapponesi dello stalinismo, del trotzkismo e del bordighismo (non ci metto dentro il maoismo, che per me è più razionale).
31. La ricostruzione delle vicende dell’operaismo di sinistra deve passare ovviamente per la storia del gruppo di Potere Operaio (1969-1973). Una recente ricostruzione è stata fatta dal visionario informatico bolognese Bifo (cfr. F. Berardi, La nefasta utopia di Potere Operaio, Castelvecchi, Milano 1998). Ovviamente Bifo dà la sua interpretazione, come è giusto. Potere Operaio avrebbe incarnato la presenzialità assoluta, il rifiuto della prigionia della memoria storica del passato e del rimando utopico ad un futuro indeterminato. Insomma, il comunismo qui ed ora. Ma comunismo qui ed ora non c’entra proprio niente con Marx, perché è semplicemente il modo di chiamare l’estasi del godimento. ب interessante notare che lo stesso Negri ha scritto un interessante commento al libro di Bifo (cfr. Il Manifesto, 20-5-1998). Qui Negri dice letteralmente: “Dentro l’esperienza di Potere Operaio siamo riusciti ad intuire che la proposta di comunismo non veniva ormai più dalla fabbrica ma dall’autonomia di un nuovo proletariato sociale, immateriale e produttivo”. E Negri parla di “commilitoni americani che cominciarono a fare gli imprenditori di software a Silicon Valley, alleando la spontaneità del rifiuto del lavoro con un certo leninismo imprenditoriale”.
Rifiuto del lavoro per gente che lavora nell’informatica per dodici ore al giorno. Leninismo imprenditoriale. Caro lettore, ho citato senza inventarmi niente. A questo punto forse dirai che Colletti aveva ragione, e Negri ed Althusser erano pazzi. Ma vediamo meglio per capire quello che diceva a suo tempo Shakespeare, e cioè che c’è del metodo in questa pazzia.
32. Il testo teorico più significativo del pensiero di Negri è a mio avviso un libro intitolato 33 Lezioni su Lenin, e pubblicato da una casa editrice universitaria. A suo tempo feci l’idiozia di prestarlo, e naturalmente non mi fu più restituito, perché già allora i militanti, senza aver ancora letto Deleuze, praticavano già il rifiuto materialistico della morale borghese. Ma ricordo bene il suo contenuto. Lenin era ridotto a genio aleatorio del partito dell’insurrezione, un Machiavelli che parlava russo. Naturalmente, il partito dell’insurrezione avrebbe preso il potere del non-potere, cioè il potere per realizzare da subito un comunismo anarchico dell’appropriazione lasciando alle macchine la produzione. Come il latte fresco, simili utopie sono a scadenza ravvicinata ed a falsificabilità velocissima. Ciò spiega perché Potere Operaio si sciolse già nel 1973, mentre Lotta Continua, più lenta di comprendonio, si sciolse solo nel 1976. Questo non è un caso. Negri aveva fornito a Potere Operaio una teoria folle, ma pur sempre una teoria comunicabile in modo razionale ed universalistico. Sofri aveva invece sempre volutamente mantenuto Lotta Continua in uno stato di emotività esistenziale del tutto prerazionale, per poterla manipolare meglio ed imporre le svolte più demenziali (cfr. L. Bobbio, Storia di Lotta Continua, Feltrinelli, Milano 1988, ma già edito nel 1979). Solo all’interno di una illusione esistenziale autoreferenziale si poteva pensare che dal 1974 al 1976 il PCI fosse “ostaggio delle masse”, che lo avrebbero costretto a fare il comunismo dei bisogni popolari. Chi allora pensava queste follie (da Gad Lerner a Luigi Manconi, da Enrico Deaglio a Giovanni De Luna, eccetera) si è poi velocemente riciclato negli apparati ideologici mediatici ed universitari senza fare alcuna riflessione critica ed autocritica. Quando poi scoppiò il caso Calabresi – Marino – Sofri – Pietrostefani – Bompressi (su cui non voglio qui esprimere la mia personale opinione, che pure è fermissima e nutrita di testimonianze di diversa provenienza) tutti questi intellettuali riciclati si misero a gridare che da una parte c’era un grande intellettuale difensore dei diritti umani, e dall’altra un lumpenproletario rancoroso e ricattabile, e che perciò era impossibile che il primo avesse torto ed il secondo ragione.
Furono così ristabiliti i noti parametri di classe. Gli Intellettuali Umanisti sono di serie A. Gli Operai Rancorosi sono di serie B. Di fronte a tutto questo magari Negri non sarà il più grande marxista vivente, ma ci fa pur sempre la sua figura. E questo lo dico, lo si noti bene, in un’ottica del tutto favorevole alla Più Piena Amnistia. Il fatto che la classe politica intercambiabile poloulivo ed ulivopolo non sia capace di fare una cosa tanto elementare come chiudere il contenzioso degli Anni di Piombo ce la racconta lunga sul clima di ricatti incrociati dei poloulivisti e degli ulivopolisti. Solo i girotondari ulivisti ed i commercianti polisti possono differenziare in proposito Polobuono e Polocattivo. Così Oreste Scalzone continua ad aggirarsi per le vie di Parigi con l’abitudine meridionale di arrivare agli appuntamenti con due ore di ritardo senza poter tornare al suo paese.
Cosa dire di tutto questo? ب triste dover dare ragione a Francesco Cossiga. Eppure ce l’ha. Ma in questo paese non solo non si è fatto il comunismo del godimento immediato, ma neppure si è fatta una normale amnistia liberale.
33. Nel 1979 Toni Negri fu arrestato sulla base del cosiddetto “teorema Calogero” (a sua volta elaborato in forma sistematica dallo storico Ventura) come Capo Supremo del Terrorismo Italiano. I magistrati dovrebbero occuparsi solo di fattispecie di reato, e quello è appunto il loro mestiere. Quando invece i magistrati vogliono riscrivere la storia, dal caso Negri fino al caso Craxi ed infine al caso Berlusconi, siamo di fronte ad un’orgia di ignoranza ad un tempo pittoresca ed impressionante.
Chi avesse avuto anche solo una minima infarinatura sulle formazioni ideologiche marxiste, si sarebbe accorto subito che la Brigate Rosse di Curcio e Potere Operaio di Negri erano diverse come diversi sono i profili di uno svedese di Stoccolma ed un mongolo di Ulan Bator. Certo, in entrambi i casi c’erano riferimenti ideologici al comunismo ed al partito dell’insurrezione. Ma l’ideologia di Curcio, espressa nel noto L’ape e il comunista pubblicato da “Corrispondenza Internazionale”, rappresentava una specifica fusione di operaismo di fabbrica e di ideologia marxista-leninista, così com’era filtrata dal maoismo teorico europeo di Gianfranco La Grassa e degli allievi italiani di Charles Bettelheim. Il pensiero di Negri era assolutamente estraneo a questa formazione ideologica. C’erano, è vero, elementi vagamente comuni nel pensare che il capitalismo possa essere diretto da un unico capitale mondiale unificato (il SIM, stato imperialista delle multinazionali nelle Brigate Rosse, l’Impero in Negri), e che il capitale sia una sorta di unico comando dispotico capitalistico, anziché essere quello che è, e cioè una rete plurale di capitali in conflitto reciproco. Ma si tratta di somiglianze superficiali, dovute come sempre al fatto che l’operaismo fu il solo paradigma teorico alternativo al togliattismo prodotto in alcuni decenni di storia del marxismo italiano.
34. In carcere Negri fu selvaggiamente massacrato di botte durante una rivolta di detenuti. Credo che questo debba essere ricordato. L’uomo ha pagato per le sue idee. Poi fu scarcerato provvisoriamente, e Pannella lo fece eleggere deputato radicale per garantirgli l’immunità parlamentare. Ma il mefistofelico sionista dallo sguardo perennemente allucinato lo voleva in galera, e quando i deputati gli revocarono l’immunità parlamentare prese come un affronto personale il fatto che Negri, anziché accettare di tornare in galera a farsi massacrare ancora una volta di botte da secondini fuori controllo, scappasse a Parigi.
L’aver fregato il sionista allucinato Pannella resta a mio avviso il maggiore capolavoro umano di Negri. A Parigi Negri fu accolto con grande generosità dalla comunità intellettuale francese. Pur non condividendo assolutamente le sue posizioni il grande intellettuale francese Jean-Marie Vincent accettò di gestire con lui la rivista Futur Antérieur. Ma Negri non poteva seguire la via razionalistica classica di Vincent. Egli trovò invece a Parigi il quadro teorico che più gli era affine per dare una antropologia generale al suo modello sociologico. A questo quadro teorico egli era già arrivato negli anni Settanta. Ma ora si trovava nel cuore geografico di questa ideologia francese. Lo sfondo teorico di Impero era già completamente presente.
35. Possiamo allora passare alla seconda componente del modello di questa ideologia del nuovo anarchismo della classe media globale, il cui modello sono appunto i nuovi ingegneri informatici di Silicon valley che Negri stesso ed il suo sagrestano bolognese Bifo hanno esplicitamente indicato come nuovo soggetto rivoluzionario portatore di bisogni e di desideri comunisti. In proposito, consiglio a chi vuole veramente approfondire filosoficamente la tematica del desiderio una lettura che ne parli espressamente (cfr. C. Dumoulié, Il desiderio, Einaudi, Torino 2002). Ma la novità non sta tanto nel chiarimento della nozione di “desiderio”, che pure è preliminare ad ogni indagine seria su questa scuola di pensiero, quanto nel fatto che forse per la prima volta nella storia del pensiero occidentale moderno il desiderio è messo a fondamento della politica. La politica non è più una politica della democrazia diretta, secondo il modello degli antichi greci e dei vecchi anarchici alla Bookchin, e neppure una politica della rappresentanza, come nella tradizione liberale ed in quella del comunismo togliattiano italiano, ma è una politica del desiderio.
36. Un’osservazione preliminare. È possibile una politica del desiderio? Rispondo decisamente: no, non è possibile. E non è possibile per il fatto che la politica è per definizione l’arte del limite e della finitezza, mentre il desiderio è per sua stessa natura illimitato, indeterminato ed infinito, e quindi per definizione politicamente non regolabile. Spero che il lettore riesca a cogliere concettualmente questo punto fondamentale, perché in caso contrario è inutile proseguire il ragionamento.
37. Foucault, Deleuze, Guattari, eccetera, si sono limitati ad auspicare una politica del desiderio, e solo Negri ha fatto il vero salto dall’auspicio alla proposta vera e propria. Ma una proposta impossibile dà luogo ad una pratica inesistente. Quella di Negri non è allora una politica, ma una vera e propria anti-politica. L’anti-politica, per sua stessa natura, lascia un vuoto, ed in questo vuoto possono entrare tutte le politiche opportunistiche del cosiddetto movimento No Global. Questo è il segreto del favore con cui i vertici No Global considerano questa filosofia. Essa non è una loro rivale, poiché si pone su di un altro terreno, puramente virtuale e fantasmatico. La lunghezza d’onda del desiderio non incontra mai la politica, e per questo può essere lodata e raccomandata. Come nella cosiddetta dottrina sociale della Chiesa, l’annuncio di salvezza di Gesù di Nazareth non è traducibile in termini politici, ed appunto per questo non dà nessun fastidio agli apparati ecclesiastici e sacerdotali, che non se ne sentono in alcun modo minacciati. Se infatti si sfoglia l’ultimo libro di Hardt-Negri, Impero, questa dimensione religiosa è ossessivamente presente, appunto perché nasconde la sua totale inapplicabilità politica: la teleologia della moltitudine è teurgica (p. 366); il comunismo è amore e innocenza (p. 382); il povero è la condizione di qualsiasi possibilità dell’umanità (p. 152); S. Francesco di Assisi è il nuovo modello di annuncio rivoluzionario (pp. 382-383).
38. Se i marxisti non fossero ridotti ad una manica di specialisti rissosi rinchiusi in centinaia di workshops accuratamente separati l’uno dall’altro, in modo che filosofi, storici, economisti, sociologi, politologi, eccetera, non possano mai incontrarsi per verificare se per caso si riferiscono oppure no ad un unico paradigma comune, si sarebbe già dovuto aprire da tempo una discussione seria su questo nuovo paradigma frutto del matrimonio fra Padova e Parigi, operaismo ed antropologia del desiderio.
Ovviamente questo non è avvenuto. A suo tempo uscì un rabbioso libello scritto con stile staliniano (cfr. M. Clouscard, I tartufi della rivoluzione, Editori Riuniti, Roma 1975) in cui Deleuze e Guattari, ed indirettamente Foucault, erano definiti neo-fascisti, in nome ovviamente del marxismo-leninismo. In questo modo cavernicolo gli stessi argomenti di Clouscard (alcuni dei quali non privi di plausibilità) diventano inutili e vuoti. Chi accusa Negri di “fascismo” si autoesclude di fatto da qualsiasi discussione razionale. È bene non dimenticarlo mai.
39. A mia conoscenza, le uniche critiche “civili” al modello Negri-Deleuze sono venute da pensatori moderati di orientamento politicamente liberale e filosoficamente kantiano. Gente, cioè, che difende il soggetto come titolare di scelte morali alternative responsabili. Si tratta del presupposto psicologico ed antropologico di ogni agire politico. Farò qui solo due esempi, e li faccio con tristezza, perché queste cose avrebbero dovuto essere dette da persone che continuano a criticare radicalmente il capitalismo, e non essere lasciate a dei liberali neo-kantiani.
Il primo esempio. Nel suo libro dedicato alle scuole filosofiche contemporanee (cfr. Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Bari 1987) Jürgen Habermas critica esplicitamente la teoria politica che deriverebbe inevitabilmente da Foucault (op. cit. pp. 241-270). Questa critica è a mio avviso molto intelligente. Habermas capisce bene che Foucault fa diventare il Potere un concetto trascendentale a priori, ed in questo modo qualunque agire politico, compreso il più democratico, diventa una specificazione del Potere, che è a sua volta considerato come assiologicamente negativo. Foucault (e di riflesso il suo allievo padovano Negri) non fonda così una nuova politica, ma ribadisce semplicemente l’impossibilità di ogni politica.
Il secondo esempio. Due liberali francesi, di cui uno è oggi diventato un politico chiracchiano di alto livello (cfr. L. Ferry – A. Renaut, Il 68 Pensiero, Rizzoli, Milano 1987) inseriscono correttamente la filosofia del desiderio in un più ampio movimento anti-umanistico di critica della soggettività. Si tratta appunto del Sessantotto-Pensiero. Io non sono d’accordo con tutto quello che dicono, in particolare quando sostengono che tutto il cosiddetto anti-umanesimo francese è solo una ripetizione della filosofia tedesca novecentesca. Sciocchezze. E Adorno, per esempio, dove lo mettiamo? Ma si tratta di dettagli. La tesi di fondo, a mio avviso, è giusta nell’essenziale. La distruzione del soggetto è la distruzione di ogni etica, non solo di ogni morale, e senza la scelta etica a mio avviso non ci può essere comunismo di qualsiasi tipo. Poi sulla fondazione dell’etica è possibile discutere ancora. Ad esempio, io considero impossibile un’etica universalistica dell’amore, e mi basta un’etica universalistica della solidarietà (in buona compagnia peraltro con Leopardi). Ma tutto questo presuppone una teoria dell’io che non sia certamente schizofrenico o paranoico, ma neppure minimo e frammentato.
40. Posso ora avviarmi alla conclusione. Vorrei essere chiaro e soprattutto onesto con il lettore. Non vorrei raccontar(gli) e raccontar(mi) delle storie, secondo l’inveterata abitudine dei cosiddetti intellettuali di sinistra, di cui non faccio parte. Essi non ragionano come studiosi, ma come cappellani militari, che devono galvanizzare la truppa, consolarla per le perdite della prossima battaglia, ed andare poi a rapporto dai generali.
Per quanto riguarda la dinamica ideologica probabile dei prossimi anni (il lungo termine per definizione nessuno lo conosce) sono molto pessimista. Credo che prevarranno proprio quei vicoli ciechi teorici e culturali che ho segnalato. Le ragioni per cui questo avverrà sono molte, ma per comodità del lettore le riassumerò in quattro distinte parolette: Soggetto, Marxismo, Desiderio, Potere.
41. Iniziamo da Soggetto. Do per scontato che il lettore abbia capito il mio punto di vista, per cui la classe operaia e proletaria di fabbrica, sia pure “mondializzata”, non può più essere ancora decentemente considerata la classe rivoluzionaria per eccellenza. Rimando alle tesi di Bauman, che condivido nell’essenziale. In breve, la classe operaia di fabbrica presenta due tendenze strutturali costanti nella storia e nella geografia, l’economicizzazione del conflitto dopo un primo periodo di nostalgia contadina ed artigiana, e la delega a ceti politici professionali di rappresentanza, la cui integrazione fatale nel sistema è stata descritta per la prima volta da Roberto Michels in modo assolutamente newtoniano e darwiniano, cioè pressoché definitivo. Il fatto che in questo momento nel mondo il lavoro salariato sia in espansione, a causa dell’abbandono della terra da parte dei contadini poveri che emigrano, è per ora un fatto solo statistico, non culturale e politico, e chi confonde la statistica con la politica (cfr. Lotta Comunista, eccetera) inganna solo se stesso ed i pochissimi che lo stanno a sentire. La statistica non è mai politica senza passare per la cultura. E chi pensa che l’economicismo veteromarxista sia cultura perderà sempre non solo contro i supermercati, ma persino contro Allah, Brahma, Siva e Visnù. L’uomo non vive di solo pane, specialmente quando non ce l’ha. L’uomo è un animale simbolico, non un animale utilitaristico come credono i veteromarxisti.
La frammentazione dei soggetti è dunque un fatto oggettivo. Io non credo alla cosiddetta “fine del lavoro” di Jeremy Rifkin, ma è certo che ormai non possiamo più contare sulle grandi aggregazioni di fabbrica del tempo della Seconda e della Terza Internazionale (con cui tutte le molteplici varianti della Quarta condividono il paradigma teorico di fondo). Quando Negri parla di “moltitudini” non si può onestamente dire che se le sia inventate, mentre è evidente che si inventa la loro capacità rivoluzionaria definendola addirittura “teurgica”, cioè costruttrice del nuovo Dio. Storicamente, queste sciocchezze si sono già presentate una volta con Lunaciarsky in Russia all’inizio del Novecento. Lenin considerava Lunaciarsky un simpatico matto tranquillo, mentre oggi si può parlare di “teurgia” senza che nessuno se ne accorga neppure.
ب allora chiaro che se i soggetti non si presentano in modo diretto costituiti dall’economia (ma questo non è mai avvenuto), essi devono essere costruiti con la politica e con la cultura. Possono farlo oggi come oggi i cosiddetti “marxisti”? Assolutamente no. Per essi la politica o è militanza (variante di sinistra) o è rappresentanza (variante di destra). Ma la politica o è democrazia diretta o non è. In quanto alla cultura, i marxisti pensano che essa si identifichi con l’ideologia. Errore strategico. Riduzionismo grottesco.
42. Passiamo al Marxismo. La sua situazione oggi è catastrofica e comatosa, ed i medici continuano a litigare presso il malato scambiandosi insulti, botte e calci nelle palle. Io non vedo per ora nessuna via di uscita, per un fatto assolutamente “strutturale”, e cioè che le sorti del marxismo sono in mano a due categorie assolutamente incorreggibili, i professori universitari ed i militanti politici. Cercherò di spiegare perché, anche se so perfettamente di stare scrivendo in turco ed in armeno. Sia chiaro, ed il lettore non si senta per caso insultato se appartiene (come è probabile) ad una delle due categorie. Il mio discorso non è diffamatorio, ma è strutturale, e come strutturale deve essere inteso.
I professori universitari frammentati in migliaia di workshops in cui ognuno parla solo ai propri colleghi di specializzazione non possono strutturalmente favorire una rivoluzione scientifica del marxismo (nel senso di Kuhn) per il fatto che il loro oggetto ed il loro metodo vengono direttamente ricavati dallo statuto della loro disciplina accademica. È qualcosa che va molto al di là dell’opportunismo individuale, del bisogno di produrre materiali che la propria comunità scientifica possa utilizzare per far vincere una cattedra universitaria, eccetera. Si tratta di un fatto inevitabile. Il sapere universitario è una forma sofisticata e formalizzata della divisione capitalistica del lavoro. Chi crede di poter produrre un sapere rivoluzionario anticapitalistico sulla base dell’accettazione della divisione capitalistica del lavoro intellettuale assomiglia a chi, qualche secolo fa, avesse pensato di produrre un sapere antifeudale ed antisignorile sulla base della teologia scolastica e della sintesi di platonismo e di aristotelismo cristiani.
I militanti politici, anche quando fanno distratti omaggi alla ricerca marxista non possono strutturalmente favorire veramente un mutamento di paradigma per una ragione semplicissima. La loro priorità non è mai, e non può essere, l’innovazione teorica, ma è la coesione ed il compattamento del gruppo militante di riferimento. Prendiamo il caso di duecento (200) militanti reclutati in base alla teoria della terra piatta e dell’astronomia geocentrica, e facciamo l’ipotesi di una irruzione traumatica di una nuova teoria eliocentrica che sostiene che la terra è rotonda. Facciamo l’ipotesi che di questi duecento (200) militanti almeno cento (100), traumatizzati da questo terremoto copernicano, cadano nel pessimismo e si ritirino a vita privata, oppure passino ad altre più rassicuranti organizzazioni geocentriche. Ebbene, l’organizzazione passerebbe da duecento (200) a cento (100) militanti. In questo caso possiamo essere sicuri che i dirigenti politici ad un futuro incerto preferirebbero un presente certo. Essi espellerebbero immediatamente l’innovazione. Nel caso peggiore, direbbero che l’innovatore è un frocio piccolo-borghese narcisista pagato dal padrone. Nel caso migliore, cercherebbero di neutralizzare l’innovazione riducendola ad interessante ipotesi intellettuale non dimostrata, oggetto di educate tavole rotonde.
Mi sono espresso in modo forse un po’ provocatorio, ma pro-vocare significa chiamare fuori, e per dialogare bisogna prima chiamare fuori i possibili dialoganti. Vorrei che il lettore mi capisca bene. Io ho amici fraterni e stimatissimi sia fra i professori universitari sia fra i militanti politici. Considero, e sia ben chiaro, la militanza politica una delle più alte forme di vita sociale nel capitalismo. Il consueto disprezzo dei militanti come “poveri illusi” mi è estraneo nel profondo. Chi mi conosce lo sa benissimo, e non mi stimerebbe se non lo sapesse. Ma qui si parla di innovazione, ed il mio discorso è strutturale.
43. Passiamo al Desiderio. Io sono un estimatore personale di Gilles Deleuze, e so perfettamente che egli era animato dalle migliori intenzioni, e cioè riteneva di lottare contro i due massimi autoritarismi repressivi del suo tempo, quello capitalistico e quello staliniano. Ma le buone intenzioni di per sé fanno solo i gattini ciechi. Cerchiamo di capire il perché, stringendo all’osso l’argomentazione.
La nozione di Comunismo in Marx è costruita su quella di Bisogno. Il comunismo è quella società in cui ognuno riceverà secondo i suoi bisogni. Ovviamente, tutti sanno che ci sono bisogni primari (mangiare, bere, vestirsi, abitare), bisogni secondari (mangiare, bere, vestirsi, abitare in modo confortevole) ed infine bisogni terziari (leggere un libro, andare in Madagascar a vedere le proscimmie, eccetera). Il comunismo non parte, come Rousseau, da un concetto naturalistico dei bisogni, ma da quello dei “bisogni ricchi”, che possono essere cioè soddisfatti sulla base dello sviluppo delle forze produttive e del general intellect. Io ho conosciuto molti “miserabilisti” ascetici ed invidiosi che si ritenevano erroneamente “marxisti”, so bene che Marx li avrebbe presi a calci nel sedere per le rampe delle sue scale, ma non sono mai riuscito a fargli capire che la semplice “invidia per i ricchi” non era un fattore della coscienza comunista. Il comunismo è la società dei bisogni ricchi. Ma per parlare di Bisogni è necessario rivolgersi agli antichi greci, terra sconosciuta per i marxisti. I greci, e non solo Epicuro, si erano già occupati moltissimo dei bisogni, in modo generalmente non repressivo (come fecero poi i cristiani, noti autocastratori, mangiatori di cavallette e residenti su colonne). Il bisogno arricchisce l’uomo, purché l’uomo sia sempre il padrone. Tutto qui. Ma è un tutto qui che implica una rivoluzione mentale gigantesca.
Il Desiderio, invece, proprio quello che Deleuze e Negri ritengono essere la fonte del comunismo, è proprio l’elemento riproduttore strutturale del consumo capitalistico. Il capitalismo vive di desideri, non di bisogni. I bisogni possono essere soddisfatti, ma in questo modo si avrebbe subito una crisi di sovrapproduzione e di sottoconsumo. I desideri invece sono infiniti, illimitati ed indeterminati per loro stessa natura. È questo il segreto della produzione capitalistica, la sua nevrotica infinitezza. Psicologi heideggeriani come Umberto Galimberti lo capiscono vagamente, anche se hanno scelto l’interiorità all’ombra dell’Inserto Donna de La Repubblica. I cosiddetti negriani invece non lo capiscono assolutamente, e ci si potrebbe aspettare da loro solo un risolino nevrotico di compatimento. Ma tutta la banda variopinta dei loro seguaci continuerà ad andargli dietro, ed anzi si ingrosserà, perché in questo modo possono avere la quadratura del circolo da loro agognata, l’idea di rivoluzione astratta ed il consumo capitalistico concreto. È per questo che sono pessimista.
44. Concludiamo infine con il Potere. Io sono un estimatore personale di Michel Foucault, e so perfettamente che egli era animato dalle migliori intenzioni, e cioè riteneva di lottare contro i due massimi autoritarismi repressivi del suo tempo, quello capitalistico e quello staliniano. Ma le buone intenzioni di per sé fanno solo i gattini ciechi. Cerchiamo di capire il perché, stringendo all’osso le argomentazioni.
Ai suoi inizi, che definiremo protoborghesi, il potere capitalistico era patriarcale, in particolare verso le donne, i figli, i servitori ed i lavoranti. Essendo patriarcale, era ad un tempo paternalistico e repressivo. La psicoanalisi di Sigmund Freud è stata ad un tempo il punto più alto ed il coronamento finale di questa necessità protoborghese di far introiettare in modo autoritario le regole riproduttive del comportamento sociale patriarcale (teoria del Super-Io, eccetera).
Ma solo gli inizi del capitalismo sono stati protoborghesi. Poi lo stesso capitalismo, a partire dalla produzione di massa fordista e poi con la personalizzazione del prodotto, ha dovuto “liberalizzare” la sua stessa morale. Una società dei consumi non può essere veramente repressiva. Il represso non consuma, o consuma poco. Il potere capitalistico, passata la prima fase protoborghese del paternalismo repressivo, diventa più flessibile. Chi ha soldi deve poter ormai comprare tutto, dai bambini cambogiani e thailandesi fino ai prodotti pornografici di élite e di massa. Dio è morto, e la sua morte non comporta assolutamente l’avvento dell’Oltreuomo, come credono i nicciani ingenui, ma l’avvento del Consumatore Indifferenziato. Se la morale protoborghese si basava sul potere patriarcale, la morale postborghese (e l’attuale capitalismo è postborghese, anche se i marxisti non se ne sono ancora accorti, e continuano a pigliarsela con un ormai inesistente “potere borghese”) non si basa più sul potere patriarcale, ma su di un self-service di consumi individuali facilitati da Internet.
Il Sessantotto è stata una svolta storica cruciale di questo passaggio da una morale protoborghese, paternalistica e repressiva, ad una morale postborghese del consumo indifferenziato e liberalizzato. In Francia se ne sono accorti alcuni intelligenti pensatori, come Debray e Lipovetsky, in Italia ovviamente nessuno.
Ma torniamo al Potere. I foucaultiani di oggi continuano a comportarsi come se la questione del Potere autoritario fosse la questione principale. Essi sono come sempre in ritardo di un giro, cioè di un’epoca storica, e fanno sempre la guerra con le mappe militari della guerra precedente. Sono, e sempre saranno, la linea Maginot della sinistra. E pensare che lo stesso Foucault avrebbe dovuto in teoria avvertirli, spiegando che oggi le strategie del potere sono orizzontali e non verticali, molecolari e non molari (cioè grosse, nel suo curioso linguaggio). Ma il fucoltismo dei centri sociali è più lontano dal vero Foucault di quanto lo è stato Stalin da Marx.
45. E con questo concludiamo. Telegraficamente, una diagnosi, una prognosi ed una terapia.
La diagnosi è pessima. Non è infausta, cioè mortale, solamente perché sono gli uomini e le generazioni che muoiono, mentre gli esseri umani non muoiono mai, sempre che non ci sia un grande meteorite annientatore di dinosauri e di confusionari. Per quanto riguarda questi uomini di questa generazione, se non cambiano gli scenari storici in modo imprevedibile, mi aspetto l’egemonia provvisoria di Agnoletto, Naomi Klein e Toni Negri. Hanno dietro anche il sistema mediatico ed il sistema politico.
Una prognosi. La loro egemonia è forte nell’immediato, ma è debole anche solo nel medio periodo, per una ragione semplicissima. Essi si basano sul fatto che non c’è più l’imperialismo, e che in questo quadro post-imperialista possono promuovere la Tobin Tax, l’accesso all’acqua, il basso prezzo delle medicine. Sia chiaro che io non disprezzo affatto questo programma riformistico, ed anzi lo sostengo. Ma c’è l’imperialismo, e questo dato ineludibile gli porterà via lo sgabello da sotto il loro mediatico sedere.
Una terapia. La terapia è razionalità, razionalità ed ancora razionalità. In proposito, le dosi di marxismo, anche rinnovato radicalmente, non bastano. Ci vuole un nuovo orientamento culturale. Marx non basta assolutamente. Ci vogliono Platone e Kant, Aristotele ed Hegel. Ma per il momento, non ne vedo neppure l’ombra. Chi vivrà vedrà.