Da L’Interferenza.
La contemporaneità si connota come un’epoca in perenne crisi, il tumulto costante non consente di discernere nella contingenza le contraddizioni per rielaborarle in esperienza soggettiva e comunitaria. La trasformazione travolge i soggetti che la dovrebbero governare rendendoli servi del dinamismo conformistico. La crisi diviene lo slogan con cui “rottamare”, in modo preconcetto, ogni resistenza e ciò che non è organico e conforme al nuovo che minaccia e incombe. “Il nuovo che avanza” è lo strumento della nuova religione del caos senza soggetto, il “nuovo” è sempre da preferire al passato, pertanto la crisi quale legge della contemporaneità costringe a vivere in un eterno presente.
La “crisi” presuppone di un paradigma stabile per poter comprendere, scegliere e decidere. Siamo situati, invece, in un orizzonte fluido, in cui il transeunte divora “il significato” della crisi come momento di passaggio verso un nuovo ordine. Il dinamismo accelerato è diventato il tempo della modernità con il suo susseguirsi di pensieri complementari alle merci. La crisi presuppone il pensiero che nella sua saldezza misura il presente, si radica nella realtà storica, se ne distanzia per pensarla e discernere le potenzialità che appaiono nelle maglie della storia. Il capitalismo nella sua forma globale e liberista ha assimilato il pensiero rendendolo parte del valore di scambio, riducendolo ad elemento macchinale anonimo dell’immenso sistema di produzione, pertanto la “crisi” ha perso il suo potere di farci cogliere il nuovo, mentre il vecchio muore. Il tradimento delle parole è uno degli aspetti del capitalismo che svuota le parole del loro significato per renderle anonime presenza. La parola crisi è quotidianamente utilizzata, ma mai indagata nel suo significato e nel suo traviamento:
“Derivato da krino (separare, scegliere, decidere, valutare; mediale: misurarsi, lottare, combattere), la krisis portava a una decisione definitiva, irrevocabile. Il concetto implicava alternative esasperate, che non consentivano alcuna revisione: successo o fallimento, ragione o torto, vita o morte, infine salvezza o dannazione. In Tucidide gli eventi critici della lotta tra le grandi potenze sono le quattro battaglie decisive della grande guerra con i Persiani. Qui Tucidide (come più tardi Montesquieu) inserisce già le battaglie nel quadro generale della narrazione storica, quel quadro all’interno del quale quattro battaglie risultarono decisive per la guerra. Nella scuola di Ippocrate il termine krisis indica la fase appunto «critica» di una malattia, dove giunge a un esito finale la lotta tra la vita e la morte, la cui decisione stava per arrivare ma non era ancora arrivata. Nell’ambito della politica, ad esempio in Aristotele, questo termine indicava la creazione o la conservazione del diritto, a cui tutti i cittadini erano chiamati a collaborare, ma anche le decisioni politiche che dovevano tutte presupporre il necessario e giusto giudizio politico”.1
La crisi nel suo significato etimologico è salvifica, si lega ad una temporalità virtuosa e tragica capace di indicare il tempo che si addensa, stringe ed invita ad un cambiamento consapevole. La crisi è il tempo, in cui le contraddizioni rimosse divengono lapalissiane ed inaggirabili, per cui esige che ci si schieri, che si esca dall’indifferenza o dalla “zona grigia” delle complicità silenziose. Crisi e temporalità stringente sono un binomio capace di ridisegnare il senso, mentre il passato mediato dalla coscienza si apre al futuro:
“Era un concetto che comportava sempre una dimensione temporale che a sua volta, per esprimerci in termini moderni, implicava una teoria del tempo: sia che dovesse essere individuato il momento giusto per agire con successo, sia che l’ordine del potere fosse stabilizzato dalla creazione o dalla conservazione del diritto, sia che la valutazione del medico (come afferma Galeno) dovesse diagnosticare l’esatta durata del decorso di una malattia per poter azzardare una prognosi, sia (e qui siamo nell’ambito della teologia) che venisse accolto il messaggio di Dio, per evitare hic et nunc la dannazione (come si legge in Giovanni), nonostante non fosse ancora giunto il giudizio finale verso il quale si muove tutto il creato, ma che non si sa quando avverrà. Il termine krisis si riferiva, per così dire, al tempo che stringe. Il senso del concetto consisteva appunto nel comprendere che il tempo stringe. In quasi tutti i discorsi sulla crisi erano presenti riferimenti all’incertezza e alla necessità di prevenire per evitare una sventura o per salvarsi, delimitando i termini temporali a seconda dei diversi ambiti vitali tematizzati”.2
La crisi è dunque temporalità di senso, transizione verso il nuovo, ma affinché questo possa avvenire è necessario che vi siano ideologie e intellettuali pronti a farsi interpreti del momento di passaggio. Se si osserva l’attualità, la parola crisi è spesso riportata, ma non è mai portatrice di passaggi storici, piuttosto indica delle faglie nella continuità, nel gioco dei ruoli, in cui tutto è interscambiabile, nulla cambia, ma tutto si riconferma nella sua malinconica stabilità senza speranza.
Indice
Accelerazione temporale
Reinhart Koselleck3 nella sua analisi della parola “crisi” coglie l’accelerazione temporale, ma non la sua negazione. La temporalità nella vorticosa velocità non è che l’espressione compiuta del nichilismo. La crisi e la possibilità di un cambio di paradigma sono possibili solo in una temporalità capace di distensione e rallentamenti. Il nichilismo realizzato nella forma dell’economicismo invoca la crisi per impedire che la si pensi. Le “crisi nel capitalismo assoluto” sono reazionarie, poiché comportano un salto quantitativo verso l’affermazione totalitaria del capitale e delle sue dinamiche imperiali. Uomini e donne sono interni a tale prassi senza orizzonte, di conseguenza il cambiamento è solo il ritmo quotidiano della disintegrazione delle comunità ed il montare minaccioso di una iperproduzione che organizza la crisi per lanciare i nuovi prodotti sul mercato globale. La curva dell’accelerazione giunge, così al suo picco dissolutivo senza tramutarsi in un nuovo inizio:
“Perciò vorrei proporre in conclusione un’ipotesi temporale del tutto nuova. Considerando la storia dell’umanità dalla prospettiva del presente si possono delineare tre curve temporali esponenziali. In confronto ai cinque miliardi di anni da quando il nostro pianeta è ricoperto da una crosta terrestre consolidata, il miliardo di anni di vita organica è un arco di tempo ben più breve, ma assai più breve è l’arco di tempo di 10 milioni di anni che ci separa dall’ipotetico essere antropoide al quale viene attribuita la fabbricazione di utensili risalenti a due milioni di anni fa. La seconda curva temporale esponenziale può essere tracciata all’interno dei due milioni di anni da quando l’uomo si è distinto per la creazione di utensili fatti da sé. I primi documenti di arte per così dire genuina risalgono a trentamila anni fa e la nascita dell’agricoltura e dell’allevamento a circa diecimila anni fa. E a confronto con i due milioni di anni di propria produttività i circa seimila anni di una civiltà urbana evoluta, da quando cioè esistono documenti scritti tramandati, sono un periodo breve. Di gran lunga successiva è poi la nascita della riflessione in filosofia, nella poesia e nella scrittura storica. La terza curva temporale esponenziale si delinea partendo dall’autorganizzazione delle civiltà evolute di tipo urbano, risalente a seimila anni fa. Commisurata con la sua storia comparativamente più continua la società industriale moderna, fondata sulla scienza e la tecnica, si è sviluppata solo trecento anni fa circa. La comunicazione delle notizie si è accelerata in una misura tale che ormai è possibile l’identità temporale tra l’evento e la notizia. Ma anche l’accelerazione dei traffici si è più o meno decuplicata da quando i mezzi naturali (il vento, l’acqua e gli animali) sono stati sostituiti dagli strumenti tecnici della macchina a vapore, delle macchine elettriche e dei motori a scoppio. L’accelerazione dei mezzi di comunicazione ha ridotto il pianeta a un’astronave. Nello stesso tempo l’incremento demografico avviene in un’analoga curva temporale esponenziale: dal circa mezzo miliardo del Seicento la popolazione mondiale è cresciuta, nonostante tutti gli stermini di massa, a due miliardi e mezzo a metà del Novecento, per sfiorare la soglia degli otto miliardi alla fine di questo stesso secolo”.4
Progresso o sviluppo
Il concetto di crisi si accompagna in modo indissolubile al concetto di progresso, ma anch’esso nella modernità neutralizza gradualmente il suo valore emancipativo e dunque, il suo significato rivoluzionario. Il progresso sostenuto dalle tecnologie e dal dominio strutturale di una classe dirigente di apolidi dediti alla finanza si ribalta in sviluppo e dunque perde il suo carattere emancipativo. Lo sviluppo senza progresso conferma le logiche di sussunzione e gerarchizzazione, mentre il progresso sociale è partecipazione al progetto politico e la liberazione dall’asservimento delle gerarchie come dal mito della merce e dell’accumulo fine a se stesso :
“L’invenzione della stampa a caratteri mobili, la diffusione della lettura, l’invenzione della bussola, del cannocchiale e del microscopio, lo sviluppo delle scienze sperimentali, la scoperta del globo e la conquista delle terre oltremare, il confronto con i selvaggi, la polemica dell’arte moderna con l’arte antica, l’ascesa della borghesia, lo sviluppo del capitalismo e dell’industria, la possibilità di sfruttare le potenze naturali grazie alla tecnica: tutto ciò fa parte delle esperienze e delle situazioni continuamente evocate come collegate al concetto di progresso e, per l’esattezza, di progresso verso il meglio. Qui intendo soltanto ripercorrere l’elaborazione linguistica del concetto, di quel concetto che alla fine riunisce tutti i fenomeni menzionati in una sola espressione o che, in altri termini, riassume in una parola l’esperienza della nuova epoca”.5
Reinhart Koselleck nella genealogia del concetto di “progresso” ne delinea il progressivo accentramento dei suoi significati nella parola, ma non evidenzia il processo di depotenziamento semantico della parola all’interno dell’attuale modo di produzione. Nell’incantesimo della temporalità acefala che si dipana al ritmo dei consumi, il progresso si ribalta in sviluppo, in quantità senza qualità rendendo il progresso una forma di distruzione antropologica che mentre divora ambienti e comunità li occupa con le merci e le mercificazioni. La decadenza delle parole è, dunque, la verità dell’Occidente globale che non sa più creare, ma solo produrre. Crisi e progresso potranno riaffiorare nell’orizzonte dell’Occidente, solo se lo sguardo potrà distogliersi dallo scintillio delle produzioni senza limiti per posarsi sulla verità che la quantità senza freno del turbocapitalismo cela. Forse gli effetti distruttivi della vorticosa temporalità ci risveglierà dal sonno della ragione, in cui siamo immersi e dal calcolo che ha sostituito la verità decretando l’immobilità ideologica presente. Bisogna preparare la “crisi” dei concetti da cui siamo abitati e parlati per poter inaugurare un cambio autentico di paradigma, per cui l’impegno quotidiano minimo o massimo che sia è fondamentale al fine di evitare la catastrofe antropologica che è già dinanzi a noi.