La compagnia delle Indie, una realtà da riscoprire

Da InsideOver.

Se il mondo di oggi è come appare, ed è diviso come è diviso, il merito va dato in parte considerevole a quella corporazione multinazionale ante litteram che fu la Compagnia delle Indie Orientali (EAC, East India Company). Perché gli acuti affaristi-diplomatici dell’Eac, guidati tanto dalla volontà di accumulare sterline quanto dagli obblighi di lealtà al Palazzo di Buckingham, negli anni di attività avrebbero inconsapevolmente contribuito a scrivere e determinare il destino di interi popoli, trasmettendo a noi posteri un mondo disegnato da loro.

L’Eac non fu soltanto una precorritrice di quello che oggi viene definito imperialismo economico, così come non fu una mera espressione della globalizzazione ai tempi degli Imperi. Essa fu la nave-scuola presso la quale si formarono intere generazioni di diplomatici, strateghi e agenti segreti, che lungo le rotte impervie dei traffici coloniali sarebbero divenuti dei maestri nell’arte degli scacchi applicata alle relazioni internazionali. Essa fu la nave-scuola dal cui ventre fertile sarebbero venuti alla luce dei geni inarrivabili del calibro di Edward Law, il pioniere del Grande Gioco, e James Abbot, il Lawrence d’Arabia dell’Ottocento. Ed essa è, ancora oggi – nonostante l’avvenuta sepoltura da parte della storia, o meglio della regina Vittoria –, una fonte inesauribile di lezioni in materia di pensiero strategico, geopolitica e strumentalizzazione delle minoranze etno-religiose nel nome del divide et impera.

Vita, sviluppo e morte dell’Eac

La Compagnia britannica delle Indie orientali, altresì nota come la Compagnia delle Indie orientali, è stata indubbiamente l’espressione più potente della primazia globale e trasversale di Londra. Istituita alla vigilia di capodanno del 1601, cioè il 31 dicembre 1600, l’Eac nasce con uno scopo univoco, preciso e definito: stabilizzare i traffici commerciali britannici nell’oceano Indiano.

Di lì a poco, colte le potenzialità di un unico ente deputato al controllo dei traffici intercoloniali, la Repubblica delle Sette Province Unite (gli odierni Paesi Bassi) e il regno di Francia avrebbero proceduto a costituire le loro versioni, che, però, avrebbero avuto molto meno successo: la Compagnia olandese delle Indie orientali (VOC, Vereenigde Oostindische Compagnie) e la Compagnia francese delle Indie orientali (CIO, Compagnie des Indes orientales).

Sbaragliata la concorrenza – sia la Voc sia la Cio avrebbero dichiarato fallimento nei decenni successivi –, la Eac sarebbe divenuta la colonna portante dell’imperialismo britannico nel mondo e l’impresa commerciale più florida del suo tempo. Perché a differenza delle controparti olandese e francese, che erano e sarebbero rimaste commercio fino alla fine, la Eac era anche (e soprattutto) diplomazia, geopolitica, politica, spionaggio e strategia.

All’acme del suo potere, la Eac avrebbe rappresentato un vero e proprio governo ombra, uno stato nello stato, il potere dietro al trono in grado di condizionare la politica estera di Londra nelle periferie dell’Asia: dalle terre selvagge e indomabili del Turkestan all’India e dalla Cina all’Indonesia. Perché furono gli agenti dell’Eac ad innescare le guerre dell’oppio. Furono gli agenti dell’Eac a catalizzare il declino della dinastia Moghul. E furono sempre gli agenti dell’Eac a capire l’importanza della “geopolitica degli stretti” nell’ambito della corsa per il dominio globale.

L’accumulazione eccessiva di influenza politica e di potere economico, però, si sarebbero rivelate controproducenti nel lungo periodo. Il Parlamento e la Corona, invero, a partire dalla fine del Seicento, cominciarono a sabotare l’espansione ulteriore della Eac a mezzo di alimentazione della concorrenza e imposizione di ostacoli politici.

La maturità e il tramonto

Il vero spartiacque nel conflitto tra Frankenstein e il suo mostro sarebbe stato rappresentato dalla questione indiana. Gli agenti dell’Eac, infatti, dopo aver colonizzato economicamente il badiale e ricchissimo subcontinente – condendo il tutto con una strumentalizzazione incredibilmente efficace delle divisioni esistenti tra clan, tribù, famiglie, caste e confessioni –, avrebbero voluto trasformarlo in un loro dominio esclusivo.

Non contenti di controllare il Bengala, il cuore pulsante dell’India, i commercianti-diplomatici dell’Eac avrebbero perduto la battaglia più importante: quella per la sopravvivenza della compagnia. Privata di una parte consistente del proprio potere economico con il Regulating Act (1773) e del diritto di governo sulle Indie orientali con l’Indian Act (1784), l’Eac sarebbe entrata definitivamente nel viale del tramonto nell’Ottocento, venendo sciolta all’indomani della rivolta dei Sepoy (1857).

La rivolta dei Sepoy, altresì nota come la prima guerra di liberazione indiana, mise in serio pericolo il dominio di Londra sul subcontinente e funse da caso per lo scioglimento. Perché gli indiani non si erano ribellati contro gli inglesi, ma contro il regime oppressivo dell’Eac. E se la Corona avesse perso l’India, avrebbe perso il titolo di unica iperpotenza economica del pianeta.

Il divide et impera che aveva assicurato all’Eac il controllo dell’India non era più perpetuabile: andava raggiunto un compromesso, andava trovato un nuovo modus convivendi. E nell’ordine pensato dalla Corona per mantenere l’India sotto il proprio giogo non vi poteva essere spazio per la ricca, dispotica, autoritaria e crescentemente independente Eac.

Quel secolo e mezzo di partite a scacchi giocate dall’Eac in lungo e in largo per l’Asia, comunque, non sarebbe stato dimenticato né dall’impero britannico né da coloro che, nel secondo dopoguerra, gli sarebbero succeduti: gli Stati Uniti. Perché se si volge l’orecchio in questa parte di mondo, nonostante si stia parlando di un defunto, può ancora essere ascoltata la voce dell’Eac. Una voce profonda, severa e ben scandita, che dice una cosa sola: Grande Gioco.

Le lezioni della sottomissione dell’India

Un celebre saggio di Jared Diamond è intitolato Armi, acciaio e malattie. È con le armi, l’acciaio e le malattie che, sostiene Diamond, l’Europa ha colonizzato tre quarti del pianeta nell’arco di qualche secolo, sottomettendone la stragrande maggioranza dei popoli al suo volere e autoconvincendosi, in ragione di ciò, di essere la portatrice di una civiltà superiore.

L’Eac, pur essendo stato uno dei figli prediletti dell’Europa colonialista ed imperialista, ha costruito il proprio impero impiegando più il cervello che i muscoli, facendo dell’astuzia la propria baionetta. Non le armi, l’acciaio e le malattie, ma le congiure di palazzo, le guerre coperte e, soprattutto, la militarizzazione del commercio.

L’India, come è arcinoto, costituisce il caso studio più interessante quando si scrive e si parla di strategia dell’Eac. I levantini dell’Eac arrivarono nel subcontinente nel 1757, all’apogeo della decadenza dei Moghul, accecando la miope e tramontante classe dirigente con il miraggio del profitto.

Il primo passo fu la rottura del ghiaccio con i diffidenti mercanti del subcontinente. L’Eac convinse i commercianti del Surat e del Bengala, cioè le aree più vivaci e floride, che avrebbero sperimentato dei guadagni inimmaginabili dal traffico di beni con Londra. Una volta convinti, indi ingannati a loro insaputa, la compagnia avrebbe proceduto allo stabilimento di avamposti commerciali propedeutici all’arrivo di coloni, soldati, spie e diplomatici.

Pochi anni dopo, nel 1772, l’Eac, oramai vinta ogni diffidenza, avrebbe reclutato lo stratega James Steuart allo scopo di elaborare un piano per la vassallizzazione informale e tacita del subcontinente. Steuart, al termine di una disamina delle condizioni socioeconomiche dell’impero Moghul, avrebbe illustrato loro la via da percorrere: indebolire i commercianti, i prestatori di denaro e i principi attraverso la chimera del potere.

Dopo aver convinto mercanti e usurai locali ad accettare una valuta gestita dall’Eac e privato i piccoli proprietari terrieri del diritto di guadagnare indirettamente dai traffici commerciali – indebolendo, così, i principi che vivevano dei profitti provenienti da loro –, l’Eac avrebbe fatto il salto di qualità: dall’economia alla politica.

Crescentemente dipendenti dal denaro realizzato con il commercio con i britannici, gli indiani, nel frattempo fatti oggetto di un’astuta campagna di instillamento della colpa per la loro situazione precaria, fra il 1848 e il 1856 avrebbero persino accettato l’imposizione dall’alto della cosiddetta “dottrina della decadenza”.

La dottrina di cui sopra, formulata da James Broun-Ramsay, introduceva il diritto dell’Eac all’annessione di tutti quei principati retti da “governatori incompetenti o morti senza un erede diretto”, dotando di legittimità giuridica azioni come le detronizzazioni dei capi scomodi e l’allargamento della giurisdizione della compagnia su territori indipendenti. All’esistenza di questa dottrina avrebbero fatto ricorso gli scaltri dirigenti dell’Eac per procedere all’inglobamento di varie province, tra le quali il pivotale Punjab.

La dottrina della decadenza fu, sicuramente, una delle manifestazioni più palesi ed antipatiche del dominio dispotico esercitato dall’Eac sul subcontinente – modus operandi che nel 1857 avrebbe condotto alla prima guerra di indipendenza indiana –, ma fu anche un corso d’azione più unico che raro. Perché l’Eac, invero, al controllo diretto e formale avrebbe preferito, sempre, il dominio indiretto e informale.

Dominio indiretto e informale, nel caso dell’Eac in India, ha significato, spesso e volentieri, l’appalto del “lavoro sporco” a capi-tribù e principi fedeli alla Sterlina e abbastanza solidi da non temere rovesciamenti dal basso, la strumentalizzazione di dissapori e differenze di stampo etno-religioso – utile per gettare i principati multi-identitari nell’instabilità –, il freno alle attività di evangelizzazione dei missionari anglicani in loco – il loro fine era troppo visibile, dunque costituivano un’insidia per gli affari – e il reclutamento di insospettabili locali (pundit) per portare avanti operazioni di intelligence e di guerra coperta.

La storia avrebbe giudicato severamente l’Eac, dapprima condannandolo ad assistere allo scoppio di moti antibritannici su scala molecolare e dipoi seppellendolo de jure et de facto, perché oramai divenuto troppo potente, quindi pericoloso, per gli alti vertici della piramide del potere londinese. Ciononostante, a distanza di oltre un secolo dalla sua dissoluzione, l’Eac resta una fonte inesauribile e sempreverde di insegnamenti in materia di pensiero strategico, geopolitica e strumentalizzazione delle minoranze etno-religiose nel nome del divide et impera.

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